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domenica 21 maggio 2017

Archeologia, miti e misteri. Atlantide di Platone e Honebu dell'Egitto sono lo stesso luogo? di Pierluigi Montalbano

Archeologia, miti e misteri. Atlantide di Platone e Honebu dell'Egitto sono lo stesso luogo?
di Pierluigi Montalbano


E se il misterioso Hanou-Nebout fosse la mitica Atlantide di Platone?
"In tempi lontani era possibile valicare l'immenso Atlantico perché vi era un'isola che stava innanzi a quella stretta foce che ha nome Colonne d'Ercole (oggi è lo Stretto di Gibilterra ma in tempi antichi potrebbe essere altrove). A chi procedeva da quella, si apriva il passaggio ad altre isole; e da queste isole a tutto il continente opposto. Quest'isola si chiamava Atlantide, e in essa vi era una grande dinastia regale che governava l'intera isola e molte altre a parte del continente. Passarono i secoli, terremoti spaventosi e cataclismi si succedettero. Quella stirpe guerriera, tutta senza eccezione, sprofondava sotto la terra. Il mare sommerse Atlantide e tutto scomparve. Per questo motivo, nel mare, da quella parte, vi sono fondi bassi e fangosi, che producono grave impedimento alla navigazione. L'isola, sprofondando, a questi bassi fondali diede origine".
Questa è una pagina del Timeo, il primo dei tre libri che Platone dedicò ad Atlantide, basandosi sulle notizie raccolte in Egitto dal legislatore ateniese Solone, vissuto dal 630 al 558 a.C.
Nel corso di un suo viaggio in Egitto, vide delle iscrizioni del faraone Ramesse III sulle mura del
tempio di Medinet Habu, che si riferivano a fatti accaduti molti secoli prima. Solone si fece tradurre in greco il testo di tali iscrizioni, certo di trovarsi di fronte a documenti di grande importanza, ma la morte gli impedì di farne uso. Gli appunti pervennero a Platone che, per approfondire la questione, si recò egli stesso in Egitto per cercare altre testimonianze.
Platone descriveva Atlantide in 10 zone che il fondatore della stirpe, Poseidone, divise fra le cinque coppie di gemelli, suoi figli maschi. Al maggiore, Atlante, dette la priorità sugli altri fratelli, che portavano i nomi delle zone a loro assegnate: Gadiro, Anfere, Euemone, Mneseo, Autoctono, Elasippo, Mestore, Azae e Diaprepe. La morfologia della città regale era basata sul cerchio. Ogni "capitale" era racchiusa in un anello di mura, alle quali succedeva un secondo cerchio d’acqua, concentrico al primo, e poi ancora una larga fascia circolare di terra, ed ancora un altro cerchio d'acqua, ed ancora terra, ed ancora acqua, ed ancora terra. Sulle zone occupate dalle acque c’erano ponti che collegavano le terre tra loro, e per ultimo un largo canale congiungeva il mare aperto con il primo cerchio d'acqua, in modo che le navi potessero accedervi come in un porto. Già dalle prime parole di Crizia, Platone pare rivelare al lettore il suo atteggiamento nei confronti di tutto il racconto su Atlantide. Si legge nel Timeo: “Ascolta, Socrate, un discorso certamente singolare, ma tutto vero, come lo raccontò un giorno Solone, il più saggio dei sette».
Socrate, nel dialogo in risposta a Crizia, conferma la veridicità del racconto che questi si accinge a narrare, considerando quindi essere verità e non semplice leggenda. Platone così, per bocca di Socrate, offre indirettamente il suo chiaro giudizio su tutta la vicenda atlantidea.
Nella trilogia Timeo – Crizia – Ermocrate si nota una complessa genealogia dataci da Platone. Il vecchio sacerdote (autorizzato ad accedere alla casa dei libri, presente in tutti i templi egiziani) aveva raccontato la storia a Solone che l’aveva ripetuta a Dropide, che l’aveva detta a Crizia il vecchio, che, arrivato all’età di quasi 90 anni, l’aveva detta a Crizia cugino di Platone. Solone era morto verso il 560 a.C., mentre Crizia il giovane era nato nel 460 ed era morto nel 403 a.C., quando Platone aveva 24 anni. A colmare la lacuna tra Solone e Crizia il giovane abbiamo Dropide e il longevo Crizia il vecchio.
È esistita una linea di trasmissione lungo la quale una tradizione egiziana è pervenuta sino a Platone?».
Benché oggi sembrerebbe insolito dare peso all’attendibilità di un insieme di notizie tramandato oralmente, c è da precisare che in antichità l’uso e le tecniche di conservazione mnemonica erano diffuse, anche e soprattutto in contesto di non alfabetizzazione. Scrive la Reggiani: “In un mondo come quello antico, in cui gli strumenti di divulgazione della cultura erano limitati, la trasmissione orale era coltivata sotto varie forme; e soprattutto veniva tenuta in esercizio la memoria”.
Se poi ci riferiamo al mito, quest’ultimo, ci ricorda J.P. Vernant, è peculiarmente orale, per propria natura, e non è vivo se non è raccontato di generazione in generazione. Nonostante Crizia affermi di far riferimento al ricordo infantile di una narrazione fatta da un vecchio, compare un accenno riguardante un manoscritto in cui Solone trascrisse di proprio pugno, ed in greco, i più importanti nomi propri utilizzati nella narrazione, giacché gli Egiziani li avevano trascritti traducendoli nella loro lingua. Così leggiamo nel Crizia a riguardo: «(Crizia) è d’uopo tuttavia, prima di iniziare il discorso, fornire ancora una breve chiarificazione, perché non vi sorprendiate di sentire pronunciare nomi greci per uomini barbari: ne apprenderete la causa. Solone, poiché aveva in mente di usare questo racconto per la sua poesia, cercando informazioni sul senso di questi nomi, trovò che quegli Egiziani che per primi avevano scritto questi nomi, li avevano tradotti nella propria lingua, e di nuovo egli, a sua volta, recuperando il significato di ciascun nome, li trascrisse trasferendoli nella nostra lingua. E questi scritti appunto si trovavano in possesso di mio nonno, attualmente sono ancora in mio possesso, e me ne sono molto occupato quando ero un ragazzo». (Platone, Crizia, 113a-b)
Tutto pare dunque basarsi sul buon senso di Solone: quest’ultimo fu o non fu vittima di un racconto favolistico di matrice egiziana? In una trattazione di Strabone (I a.C.) circa la questione di Atlantide, è citata un esclamazione in cui, secondo il filosofo ellenistico Posidonio (Siria, 135 a.C. - Rodi, 50 a.C.), amico e maestro di Cicerone, Pompeo e Varrone, Platone stesso ribadisce che probabilmente questa storia non è un invenzione. (Posidonio in Strabone II, 102).
Essendo questa l’unica fonte a riportare una frase così illuminante circa l’opinione di Platone in merito al resoconto di Atlantide, non se ne può assolutamente comprovare la veridicità; la sola osservazione indirettamente a favore sarebbe considerare sia Strabone sia Posidonio testimoni abbastanza degni di fiducia, i quali hanno avuto la possibilità di consultare materiali bibliografici su Platone, di cui non siamo a conoscenza.
Platone comunque sospende volontariamente il suo giudizio sulla verità del racconto pervenuto sino a lui perché, evidentemente, non era in grado di dimostrarne l’autenticità. Di una cosa però pare essere certo: la leggenda di Atlantide fu perfettamente confacente ai suoi fini narrativi.
Non soltanto Platone ci ha fornito notizie riguardanti una mitica e ricca civiltà scomparsa; anche la Bibbia contiene riferimenti ad un continente inghiottito dalle acque. Ezechiele narra della distruzione di un arcipelago chiamato Isole di Tarsis, cosa che ha indotto a supporre che si tratti di Tartesso, un impero contenente grandi ricchezze, nel quale imperavano il lusso sfrenato e la degradazione morale. Un’ipotesi è che si tratti di una grande città fondata dagli abitanti di Tiro sulla costa spagnola, simbolo dei luoghi più lontani del mondo allora conosciuto. La degradazione provocò l’ira di Dio. “Quando avrò fatto di te una città deserta, come sono le città disabitate, e avrò fatto salire su di te l’abisso e le grandi acque ti avranno ricoperto, allora ti farò scendere nella fossa, verso le generazioni del passato, e ti farò abitare nelle regioni sotterranee, in luoghi desolati da secoli, con quelli che sono scesi nella fossa, perché tu non sia più abitata: allora io darò splendore alla terra dei viventi. Ti renderò oggetto di spavento e più non sarai, ti si cercherà ma né ora né mai sarai ritrovata”. (Ezechiele. 26, 19-21).
Sono parole dure intenzionalmente rivolte alla ricchezza e alla sfrontatezza rappresentate da città mercantili come Tiro. Tra quest’ultima e Tarsis vi erano attivi scambi commerciali e Tarsis pare possedesse ingenti materie prime: “Tarsis commerciava con te, per le tue ricchezze d’ogni specie,
scambiando le tue merci con argento, ferro, stagno e piombo”. (Ezechiele. 26, 19-21).
Nel Timeo si riporta: “dopo che avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una sola notte tremendi, tutto il vostro esercito (gli antichi Achei) sprofondò insieme nella terra e allo stesso modo l’isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare.” ( Platone, Timeo, 25c-d)
Successivamente all’epoca di Platone, molti scrittori conobbero e commentarono la storia di Atlantide. Ad esclusione di Aristotele di Stagira, il discepolo privilegiato di Platone, che esprime convinto scetticismo riguardo alla ubicazione del continente atlantideo (Strabone, Geografia, II, 611), nei tre secoli che seguirono nessun scritto originale superstite cita mai Atlantide.
In un saggio del 1978 sui riscontri storici concernenti l’Atlantide, J. R. Fears riferì che in assenza di qualsiasi citazione in fonti egizie, il silenzio di Erodoto, Tucidide, Isocrate ed Elio Aristide sembra una prova conclusiva. Ad ogni modo, due secoli più tardi il filosofo Posidonio, deluso della posizione di Aristotele, volle contestare tale scetticismo prendendo in considerazione i possibili eventi catastrofici naturali, come i terremoti. Il passo in specifico, condiviso da Strabone nella sua Geografia, è il seguente: “d’altra parte (Posidonio) correttamente riferisce nella sua opera che a volte la Terra si solleva e subisce processi di assestamento, e che i terremoti e altri eventi del genere provocano dei cambiamenti. E da questo punto di vista egli fa bene a citare l’affermazione di Platone secondo la quale forse la storia di Atlantide non è un invenzione. In proposito sappiamo da Platone che Solone, dopo avere rivolto delle domande ai sacerdoti egiziani, raccontò che un tempo Atlantide era esistita, ma poi era scomparsa un isola non più piccola, come dimensioni, di un continente; e Posidonio ritiene che sia meglio mettere le cose in questo modo piuttosto che affermare: il suo inventore l’ha fatta scomparire, proprio come il Poeta con il muro degli Achei” (Strabone, Geografia, II, 614).
Lo storico greco Erodoto di Alicarnasso ha lasciato nei suoi scritti diversi accenni a un nome simile all’Atlantide, così come ad un ignota città nell’Oceano Atlantico, considerata da molti una colonia atlantidea o la stessa Atlantide: la già citata Tartesso. Egli così riporta nelle sue Storie: “questi Focesi furono i primi dei Greci a darsi ai grandi viaggi e furono essi a scoprire il golfo Adriatico, la Tirrenia, l’Iberia e Tartesso. Questo scalo commerciale era a quel tempo ancora inesplorato; sicché i Sami, ritornati in patria, realizzarono con le merci i guadagni più elevati di tutti i Greci di cui abbiamo precise informazioni”. (Erodoto, Storie, I, 163)
In un altro punto della stessa opera, Erodoto tratta di un popolo detto degli Ataranti: ”sono gli unici fra gli uomini, che noi conosciamo, che non abbiano nomi propri: tutti insieme, infatti, si chiamano Ataranti, ma non c’è un nome particolare per ciascun individuo”. Continua poi parlando di un monte, l’Atlante, che da il nome al popolo degli Atlanti: “è di base ristretta e rotondo da ogni parte, ma così alto che non è possibile vederne le cime, poiché le nubi non le abbandonano mai, né d’estate, né d’inverno: sostengono gli abitanti del luogo che esso sia la colonna che sostiene il cielo. Da questo monte gli indigeni hanno avuto la denominazione, poiché si chiamano Atlanti. Si dice che non si cibino d’alcun essere vivente e che non vedano mai sogni”.
Come sostiene Berlitz, Erodoto si interessava alla storia antica come a quella dei suoi tempi e credeva che l’Atlantide fosse finita nel bacino del Mediterraneo a seguito di un terremoto che spezzò un ponte di terra a Gibilterra. E ancora, riflettendo sulle conchiglie di mare ritrovate sulle colline egiziane, pensò alla possibilità che grandi terre del passato fossero finite in mare, mentre altre ne emergevano.
In due suoi "Dialoghi" (Timeo e Crizia), Platone narra una favola morale di due grandi città che entrarono in conflitto tra loro: Atene, l'attuale capitale della Grecia, e Atlantide, città che si inabissò e sparì dalla faccia della Terra.
Dai racconti di Platone non è però possibile identificare con certezza il possibile luogo (se mai sia esistito) di ubicazione di Atlantide, e d'altronde l'Utopia di Platone sembrerebbe non essere altro che una creazione letteraria a sostegno degli argomenti che il grande filosofo voleva proporre alla società del suo tempo. Molti studiosi, tra cui esperti vulcanologi e archeologi, hanno evidenziato come l'eruzione del vulcano di Santorini possa essere in qualche modo ricollegata alle descrizioni di Platone su Atlantide e come all'eruzione vulcanica possa ricondursi la distruzione della fiorente colonia cretese di Akrotiri e la scomparsa della civiltà minoica cretese. Sembra difatti che l'eruzione del vulcano abbia provocato il sollevamento delle acque intorno, con alte onde che avrebbero raggiunto la costa settentrionale di Creta, lungo la quale si trovavano i principali insediamenti. In realtà il declino di Creta si verificò circa 200 anni dopo la data in cui geologi segnalano l'eruzione di Santorini e quasi certamente Creta non ha niente a che vedere con Atlantide. I riferimenti di Platone al Palazzo dove le acque affluivano rigogliose dalle vicine colline pare si possano rintracciare nei siti archeologici di Cnosso, a Creta, e Akrotiri, nell’isola di Santorini. Il Palazzo di Atlantide che viene descritto da Platone come un edificio a più livelli situato su un grande piano in cima a una collina terrazzata, è simile sia al Palazzo di Cnosso che a quelli di Akrotiri, così come lo sono la descrizione architettonica e i materiali usati nella sua costruzione.
Nel 1967 nella località di Akrotiri in Santorini, gli archeologi riportarono alla luce un antica città, quasi completamente intatta e ricoperta da ceneri, come Pompei. Diverse case furono portate alla luce e presentavano un sofisticato sistema idraulico, con bagni e acque correnti che defluivano in un perfetto sistema fognario. Platone descrive le rocce bianche, scure e rosse estratte dalle cave dell’isola di Atlantide per costruire i palazzi della grande città dell’isola. La descrizione è simile alle rocce della terra di Santorini. In ultimo, Platone si riferisce alla fonte del mito di Atlantide, gli egiziani. Gli egiziani, secondo Platone, chiamavano Atlantide "Keftiu", nome che viene storicamente usato per il popolo dell’isola di Creta, culla della civiltà minoica.
È da notare infine che nelle rovine della città di Akrotiri, non è stato ritrovato alcun resto umano (al contrario di Pompei). Si pensa quindi che i suoi abitanti avessero trovato in qualche modo una via di scampo prima della famosa eruzione vulcanica, in luoghi ancora oggi sconosciuti. Ma c’è un’altra possibilità: i corpi sono sepolti in qualche parte dell’isola non ancora scavata.



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