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sabato 26 dicembre 2015

Apartheid, per non dimenticare. Storia dell’invasione dei bianchi in Sudafrica

Apartheid, per non dimenticare. Storia dell’invasione dei bianchi in Sudafrica

Dopo il 1487-88, il portoghese B. Dias doppiò il Capo delle Tempeste, ribattezzandolo Capo di Buona Speranza, completando la circumnavigazione dell’Africa. Mentre i portoghesi facevano scalo al Capo sulla rotta per le Indie, gli olandesi, subentrati a essi intorno al 1650 nel controllo della rotta verso l’Oriente, svilupparono dal 1652 un deposito di provviste, grazie a J. van Riebeek, agente della Compagnia delle Indie orientali. Nel 1688 giunsero trecento ugonotti fuggiti dalla Francia in seguito alla revoca dell’Editto di Nantes. Dal secolo successivo, olandesi, francesi e altri europei, accomunati dalla fede calvinista che li portava a considerarsi eletti nei confronti dei locali, si fusero in una comunità dai caratteri originali, che perdeva ogni legame con l’Europa. Si spinsero verso est conquistando nuovi territori, decimando i khoisan e rendendoli schiavi. Intorno al 1800 i coloni del Capo si scontrarono, lungo il confine del Fish River, con i potenti bantu, organizzati e, anch’essi, in espansione demografica e alla ricerca di terre. Iniziò la serie delle guerre cafre (cafri erano chiamati i bantu dai portoghesi), condotte dai boeri (contadini), come furono chiamati i
coloni europei, con una loro propria organizzazione, mentre la Compagnia olandese ne restava estranea. Al termine delle guerre napoleoniche, nel 1814, la colonia del Capo fu ceduta agli inglesi che l’avevano già occupata dal 1795 al 1803 e poi dal 1806; le autorità britanniche ristabilirono un più stretto controllo centrale e introdussero norme più liberali nei confronti delle popolazioni di colore. Nel 1835 i boeri, per sottrarsi all’autorità britannica e organizzarsi liberamente secondo la propria tradizione politico-religiosa, emigrarono oltre l’Orange e verso le praterie del Natal; nel 1840, vinta la resistenza degli zulu guidati da Dingaan, il capo A. Pretorius proclamava la Repubblica boera del Natal. Il tentativo di indipendenza fu stroncato dal governo britannico e nel 1845 il Natal fu annesso alla colonia del Capo (dal 1856 fu eretto in colonia separata); la Gran Bretagna riconobbe, invece, con la convenzione del fiume Sand (1852), le repubbliche create dai boeri nel Transvaal e lo Stato libero dell’Orange (convenzione di Bloemfontein, 1854). La Gran Bretagna si annesse nel 1877 la Repubblica sudafricana del Transvaal, nata nel 1856 dall’unificazione dei piccoli Stati boeri sorti a Nord del Vaal. Nel 1880 i boeri insorsero contro gli inglesi che dovettero restituire l’autonomia al Transvaal, pur mantenendo la sovranità sul territorio e il controllo delle sue relazioni estere (Convenzione di Pretoria, 3 ag. 1881). Il periodo di governo di C.J. Rhodes, primo ministro della colonia del Capo dal 1890 al 1896, desideroso di unificare tutti i territori abitati da coloni europei, segnò un nuovo fallito tentativo (il Jameson raid, 1895-96) di assorbimento del Transvaal, dove nel 1886 erano stati scoperti giacimenti auriferi. Gli inglesi si levarono a paladini degli uitlanders, vittime della politica nazionalista e xenofoba del presidente del Transvaal S.J.P. Kruger; il nuovo contrasto tra boeri e britannici portò alla sanguinosa guerra anglo-boera (dichiarata dal Transvaal il 9 ott. 1899). I boeri resistettero tre anni ma il Transvaal e l’Orange divennero colonie britanniche, pur ottenendo una certa autonomia nel 1906 e 1907. La riconciliazione fra inglesi e boeri, promossa dal governo britannico, consentì la creazione dell’Unione Sudafricana (31 maggio 1910), dominio dotato di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani del milione di bianchi, in maggioranza afrikaner (o boeri), rappresentati dal South African Party (SAP) di L. Botha, primo ministro nel 1910-19. La popolazione africana, quasi 5 milioni di individui, fu gradualmente privata dei diritti precedenti, e per difenderne le prerogative fu costituito nel 1912 l’African national congress (ANC), che non poté però impedire l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano le condizioni riservate ai 500000 coloureds (meticci) e ai quasi 200000 asiatici, in maggioranza indiani, immigrati fino ad allora. Nella Prima guerra mondiale il Sudafrica si schierò con la Gran Bretagna, nonostante le simpatie per la Germania nutrite dai boeri più estremisti. Le elezioni del 1924 sancirono la vittoria dei nazionalisti, con J.B.M. Hertzog nominato primo ministro. Furono inasprite le leggi razziali e adottata una politica più indipendente da Londra. Per la crisi internazionale degli anni seguenti, nel 1933 Hertzog accolse nel suo governo Smuts e acconsentì alla fusione di NP e SAP nello United party (UP, 1934), abbandonando l’orientamento antinglese in cambio di un irrigidimento della legislazione razziale. Il governo nazionalista, presieduto da Malan (1948-54), applicò una politica di rigida segregazione dei diversi gruppi etnici, obbligati per legge a risiedere in zone separate, a usufruire di mezzi di trasporto e luoghi pubblici distinti e a svolgere attività lavorative differenti (apartheid). Ogni opposizione fu stroncata e il South African communist party (SACP) fu messo al bando. Il NP si impose nelle successive elezioni sino al 1981 e i governi da esso espressi, guidati da J.G. Strijdom (1954-58), H.F. Verwoerd (1958-66) e B.J. Vorster (1966-78), accentuarono la politica di segregazione. In particolare, nel 1959 fu avviata la costituzione di regioni separate, popolate da singole etnie africane, dotate di autogoverno e destinate a divenire indipendenti (homeland); nel 1960 furono banditi i partiti antirazzisti (l’ANC e il Pan africanist congress, PAC, nato nel 1959 da una scissione del primo), che intrapresero allora la strada dell’opposizione armata al regime segregazionista. Quest’ultimo fu ripetutamente condannato a livello internazionale dall’OUA, dall’ONU e dai membri afroasiatici del Commonwealth. Per non piegarsi alle pressioni di quest’ultima organizzazione il Sudafrica ne uscì, proclamando la Repubblica (31 maggio 1961). Le sanzioni economiche votate dalla comunità internazionale dal 1962 non impedirono alla Repubblica sudafricana di beneficiare di ingenti investimenti dai Paesi occidentali, ai cui occhi Pretoria appariva come un bastione dell’anticomunismo in Africa, e di diventare la nazione più industrializzata del continente. Gli anni Settanta segnarono un aumento della conflittualità sociale e razziale, e nel 1976 fu repressa con oltre mille morti una rivolta scoppiata a Soweto contro un progetto di riforma dell’istruzione, che prevedeva fra l’altro l’introduzione dell’afrikaans nelle scuole riservate ai neri, cui il governo reagì rafforzando l’apparato militare e poliziesco. P.W. Botha, succeduto al dimissionario Vorster nel 1978, per rispondere alle esigenze di sviluppo economico del Paese e di allargamento del mercato interno attenuò i divieti che impedivano ai neri l’accesso a impieghi qualificati nell’edilizia e nell’industria e abolì la legge che vietava i rapporti sessuali e i matrimoni tra persone di razze diverse. Nel 1984 fu varata una nuova Costituzione, che istituiva un Parlamento tricamerale in rappresentanza di bianchi, asiatici e coloureds e aboliva la carica di primo ministro, attribuendo tutti i poteri al presidente della Repubblica, carica assunta dallo stesso Botha. Le elezioni per le camere degli asiatici e dei meticci, svoltesi nell’agosto 1984, videro però scarsa partecipazione degli aventi diritto, grazie al boicottaggio organizzato dallo United democratic front (UDF), organizzazione antirazzista multietnica nata nel 1983, e da alcuni dei partiti delle rispettive comunità. Contro la nuova Costituzione si moltiplicarono le proteste dei neri, spesso sfociate in aperte rivolte, che portarono nel 1986 alla proclamazione dello stato d’assedio. In un clima di acuta tensione sociale emersero divisioni all’interno della stessa comunità nera, in particolare tra gli attivisti (prevalentemente xosa) dell’ANC e quelli del movimento Inkatha, organizzazione nazionalista di massa degli zulu, guidata dal capo G.M. Buthelezi. L’irriducibile opposizione dell’ANC all’interno e la crisi economica del Paese, gravato da enormi spese per sicurezza e difesa e dagli effetti delle sanzioni economiche varate nel 1984-85 da ONU, CEE, USA e Commonwealth, convinsero consistenti settori dell’NP dell’impossibilità di mantenere il regime di segregazione. Nel febbraio 1990 F.W. de Klerk, subentrato al dimissionario Botha nell’ag. 1989, annunciò in Parlamento la prossima scarcerazione del leader dell’ANC, N.R. Mandela, la fine del bando nei confronti dei partiti antirazzisti e l’avvio di negoziati con questi ultimi per dare al Paese una nuova Costituzione. Nel giugno 1991 il governo abolì le principali leggi segregazioniste e la comunità internazionale ridusse le sanzioni economiche contro Pretoria (definitivamente cancellate nel 1993); nel dic. 1991 si riunì una conferenza multipartitica, incaricata di redigere una nuova Costituzione, i cui lavori furono più volte interrotti per le resistenze opposte dall’estrema destra razzista (organizzata nel Freedom front, FF), ma soprattutto per la posizione assunta dall’Inkatha freedom party (IFP, come era stato ribattezzato nel 1990 il movimento degli zulu), favorevole alla creazione di una federazione sudafricana di Stati indipendenti. Nell’apr. 1994 si tennero le prime elezioni a suffragio universale, vinte dall’ANC con il 62,6% dei voti, contro il 20,4% del NP e nel maggio 1994 Mandela fu eletto dal Parlamento capo dello Stato; il leader dell’ANC diede vita a un governo di unità nazionale che mirò a una crescita più equa dell’economia e della società, con il potenziamento dell’edilizia popolare e l’accesso all’istruzione elementare e ai servizi sanitari di base.
Uscita dal regime dell’apartheid.

La Repubblica sudafricana affrontò la transizione da un regime autoritario e razzista a una democrazia, creò un nuovo ordine costituzionale, garantì uno sviluppo economico caratterizzato da una maggiore equità sociale e si impegnò per attenuare i forti squilibri di ordine pubblico. La creazione di procedure parlamentari garantiste per le minoranze, la promulgazione di un testo costituzionale provvisorio e l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta dal vescovo anglicano D.M. Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984, orientarono la situazione nell’alveo del confronto democratico, tuttavia la giovane generazione di neri era priva di strumenti culturali che non fossero quelli di una militanza politica condotta spesso in chiave fortemente antagonista e militarizzata. A un esito pacifico contribuirono il clima internazionale, un vasto consenso popolare, il comportamento delle forze politiche, ma soprattutto Mandela, presidente della Repubblica dal maggio 1994. Fu un padre della patria, equilibrato e al di sopra delle parti, che coniugava aspetti di continuità della tradizione africana con quelli di modernità di un capo di Stato democratico. Un ruolo importante assunse anche la Commissione per la verità e la riconciliazione (1995-98) voluta da Mandela. Stilò un elenco di coloro che, su ambedue i fronti, avevano subito violenze durante il regime di apartheid, individuando i colpevoli dei crimini, amnistiandoli nel caso in cui avessero ammesso di aver agito per motivi politici e non personali. La nuova Costituzione, approvata dal Parlamento nell’ottobre 1996 e promulgata il 4 febbraio 1997, prevedeva il riconoscimento di una limitata forma di autonomia alle province. Gli articolati piani economici varati dal governo dopo le elezioni del 1994 si scontravano con la strutturale arretratezza del sistema. C’erano due questioni: uno sviluppo economico insufficiente e la presenza di forti disuguaglianze sociali. La mancata crescita economica era il risultato di fattori diversi: fuga dei capitali nazionali, difficoltà ad aumentare gli scambi internazionali, ristrettezza del mercato interno, dal quale era sostanzialmente esclusa la gran parte della popolazione nera, molto povera. L’80% delle abitazioni era sprovvisto di elettricità, 12 milioni di persone erano prive di acqua potabile, le terre assegnate erano le meno produttive. Gli investitori stranieri erano frenati dalla carenza di manodopera qualificata, e preoccupati dalla situazione dell’ordine pubblico, con un tasso di omicidi tra i più alti al mondo e i furti frequentissimi. Il traffico della droga tendeva inoltre a espandersi, mentre, nel clima di insicurezza di alcune aree dei maggiori centri urbani, le case venivano spesso trasformate in fortini. In politica estera la Repubblica sudafricana democratica si impegnò in un’intensa attività diplomatica, proponendosi come mediatrice nelle guerre e nelle crisi regionali africane. La decisione di Mandela di non ricandidarsi alla presidenza della Repubblica, confermò lo sforzo del Paese di superare una visione personalistica del potere e di continuare nel processo di democratizzazione. Il successore designato fu il vicepresidente T. Mbeki, militante fin dall’adolescenza nell’ANC, leader apprezzato dal mondo degli affari. Le elezioni del giugno 1999 registrarono una schiacciante vittoria dell’ANC che metteva in luce un possibile problema per una democrazia così giovane, quello della mancanza di forza dell’opposizione. Nello stesso mese, secondo le previsioni, l’Assemblea nazionale elesse Mbeki presidente della Repubblica. Il nuovo governo cercò di garantire continuità sia sul piano interno sia su quello internazionale, incontrando però notevoli difficoltà e non potendo contare sul carisma e sull’indiscussa popolarità di Mandela. Mbeki fu sfiduciato dall’ANC, Mbeki si dimise dalla carica nel settembre 2008; dopo la breve presidenza di K. Motlanthe, nel 2009 fu eletto presidente J. Zuma, con Motlanthe vicepresidente. 

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