sabato 24 gennaio 2015
Fenici e Punici in Sardegna, di Paolo Bernardini
Fenici e Punici in Sardegna
di Paolo Bernardini
Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).
Fenici e Punici in Sardegna
La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume
forme importanti nella cultura locale soprattutto con l’avvio del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo nelle botteghe indigene della bronzistica figurata e della circolazione di un articolato bagaglio di imagerie vicino-orientale che trovano peculiari forme di adozione nell’artigianato autoctono, influenzando e condizionando, a livello più profondo, comportamenti sociali, modi di aggregazione, ideologie di potere. Nella rete dei commerci mediterranei e atlantici rivitalizzata dai Fenici sulla scia di tradizionali e accreditate rotte interne e internazionali gestite dalle popolazioni rivierasche dell’Occidente, la Sardegna appare profondamente coinvolta sin dalle fasi alte della seconda metà del IX sec. a.C. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia nel golfo di Alghero e organizzano con la comunità locale lo sfruttamento e la commercializzazione del vino del fertile territorio della Nurra. Il vino di Sant’Imbenia, trasportato in anfore di tipo levantino prima eseguite in impasto e poi tornite, talora decorate con motivi a cerchielli tipici del gusto indigeno, circola, a partire da tale data, nelle nuove frontiere degli insediamenti fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva, in parallelo con l’ampia attestazione in questi luoghi di brocche askoidi, anch’esse legate al consumo e all’uso del vino, e di altre forme significative di “contenitori” di merci come i vasi a collo. Anfore vinarie, prodotte nell’Algherese e in altre località dell’isola, brocche askoidi e vasi a collo sono presenti, oltre lo stretto di Gibilterra, in contesti databili appunto tra l’840 e il 775 a.C.; ma il fenomeno prosegue nel tempo, come attestano le brocche indigene provenienti da Cartagine, da Mozia e dall’isola di Creta. Esiste peraltro una prospettiva di studi che tenta di riportare la circolazione di questi materiali a orizzonti della fine dell’età del Bronzo o di primissima età del Ferro (Lo Schiavo 2005) anche coinvolgendo in questa prospettiva cronologica “alta” l’abbondante materiale sardo attestato in Etruria: Etruria e Sardegna. Non meno significativa è la presenza negli avamposti fenici dell’estremo Occidente di teglie, semplici o a base forata, la cui attribuzione a fabbriche della Sardegna, è sempre più verosimile e che introducono, accanto al tema della partecipazione sarda ai traffici fenici, prospettive di possibile stanzialità di gruppi di etnia sarda nelle nuove frontiere atlantiche. La prima metà dell’VII a.C. registra, nelle regioni costiere della Sardegna centro-meridionale, la presenza di nuclei insediativi fenici saldamente organizzati; i “fuochi” principali di irradiazione si individuano, sulla base dei dati conoscitivi attualmente disponibili, nel golfo di Palmas e in quello di Oristano; ma vi sono altre aree strategicamente sensibili, come la costa olbiese, dove sorge un importante santuario di Melqart che le ricerche iniziano a farci intravedere, e naturalmente l’ampia e appetibile insenatura del golfo di Cagliari, porta delle piane iolee dei Campidani e sede delle opulente comunità indigene del retroterra, che assumono
precocemente modelli culturali orientali. La formazione nell’isola di gruppi emergenti, che è forse ancora improprio, per lo stato delle conoscenze, definire come “aristocrazie”, ma che certamente partecipano a pieno titolo del mutamento epocale che nel Mediterraneo antico determina l’affermazione del potere gentilizio e di classe, trova nuovi motori di sviluppo e di accelerazione nel graduale inserimento nella nuova rete dei traffici occidentali e, soprattutto, attraverso la costante e profonda interazione con i centri fenici costieri. Sulky, nell’isola di Sant’Antioco, è quello meglio noto per l’imponenza e la omogeneità della documentazione restituita dagli scavi dell’abitato e del santuario tofet; ma non meno importante è la testimonianza della precocità del fenomeno di irradiazione nella regione interna sulcitana: da Monte Sirai al Nuraghe Sirai, dal nuraghe di Tratalias a quello di Tzirimagus per volgersi di nuovo alla costa con San Giorgio di Portoscuso e all’installazione insulare con San Vittorio di Carloforte. Nel golfo oristanese, i siti di Othoca, Tharros e Neapolis governano gli approdi costieri e organizzano una penetrazione capillare verso quei Campidani centrali, che studi recenti individuano come uno specifico e vitale di28 stretto della Sardegna dell’età del Ferro; i territori oggi di Cabras, di San Vero Milis, di Narbolia, di Nuraxi Nieddu restituiscono infatti per questa età insediamenti abitativi, installazioni di santuario, arredi liturgici scolpiti quali i modelli di nuraghe e seriazioni ceramiche di rilievo, come nel caso delle brocche askoidi, delle pintadere, dei calici su lungo stelo fittamente decorati, nonché di una produzione bronzistica figurata di altissimo rilievo. Nei grandi santuari dell’etnia indigena, soprattutto quelli in collegamento con la grande via d’acqua del Tirso che facilita i percorsi verso l’interno, circolano prestigiosi manufatti prodotti o veicolati dai Fenici: che siano i vasi laminati in argento del Nuraghe Nurdole di Orani, le imagines orientali di Santa Cristina di Paulilatino o di Olmedo o i supporti di torciere di S’Uraki. In questi luoghi vi sono opere di bottega locale in cui fortemente radicati appaiono modelli e iconografie orientali: dalla trasposizione indigena dello schema del faraone trionfante al nuraghe Nurdole ai fieri arcieri corazzati di Sant’Anastasia di Sardara che pure ha restituito una importante serie di bacili.
I santuari indigeni, e insieme la ricca e variopinta ceramica dei centri interni del Cagliaritano o la straordinaria produzione in bronzo antropomorfa, testimoniano la lunga durata e la vitalità della società indigena dell’età del Ferro che approda a versanti cronologici di piena fase orientalizzante e dell’arcaismo; oltre le produzioni degli artigiani locali e la seriazione di prodotti di importazione o imitazione fenicia, aramaica e siriana, fanno fede del processo i quadri distributivi dei prodotti etruschi, in parte mediati dal commercio fenicio, in parte frutto di contatti diretti con le comunità sarde: bacili bronzei, spesso decorati con figurine di leone, fanno la loro comparsa di nuovo presso i grandi centri cultuali mentre i bronzi figurati e le ceramiche sardi trovano ampia attestazione nei contesti etruschi e campani tra il IX e il VI a.C. Alle porte del golfo di Oristano, tra l’VII e il VII a.C., nel celebre santuario di Monti Prama che ha mosso in questi ultimi tempi le febbrili corde di una metastorica ideologia identitaria e indipendentista, artigiani di tradizione e cultura orientale hanno saputo interpretare le esigenze di una committenza emergente, interessata a dare forme scultorea alle storie e alle saghe delle proprie famiglie; ma altrettanto straordinario è il processo continuo di interazione che percorre le diverse etnie nei centri di fondazione fenicia. A Sulky vasi di fattura e tradizione indigena si spartiscono, mischiati al vasellame fenicio, gli anfratti rocciosi del tofet mentre comunità etnicamente miste, meticcie, vivono quotidianamente nei grandi insediamenti di Monte Sirai, del Nuraghe Sirai o sull’altura fortificata di Tzirimagus; la necropoli di Bitia restituisce stiletti in bronzo di produzione locale così come avviene per le necropoli di Tharros e di Othoca, dove un’altra enclave meticcia sorge sull’altura della Cattedrale. Prende avvio in questi secoli, tra il IX e il VII, quel processo di formazione di comunità sardofenicie che Cartagine, proiettata nel suo itinerario di espansione mediterranea, dovrà spezzare e rifondare, su basi e strategie del tutto differenti, nel VI a.C., all’indomani della battaglia del Mare Sardonio, l’episodio di un conflitto più vasto e generalizzato, in cui Greci, Etruschi e Cartaginesi mutano i profili del Mediterraneo arcaico. I quadri fisici e morfologici, palcoscenico dell’incontro e dell’interrelazione, sono esemplari, per sempre fissati nel mito delle fondazioni fenicia a iniziare dalla leggenda di Tiro, nata sulle rocce erranti per volere di Melqart: che si tratti del paesaggio di terre mobili, fatto di piane fertili, benedette ma precarie, di esili istmi e potenti speroni di roccia impiantati nelle viscere del Mediterraneo che contrassegnano l’habitat del golfo oristanese o della regione fenicia del Sulcis, che si articola in morfologie insulari raccordate alla terraferma da lingue di terra frammentate da vie d’acqua fluviali o lagunari (Sant’Antioco e Bitia) o del tutto autonome (San Vittorio nell’isola di San Pietro), in morfologie di coste basse e aperte, contornate e intersecate da stagni e lagune (S. Giorgio di Portoscuso). È il paesaggio che favorisce gli approdi e le soste; la sua mobilità, che è anche assenza di confini e di limiti, prelude agli incontri, agli scambi; è l’orizzonte fisico e culturale che definisce, nel tempo e nello spazio, il divenire dell’emporia. Ma vi sono anche le fasce fertili del Campidano, le ubertose piane iolee, quelle del mito e quelle della realtà storica, segnate dall’oro del grano, le terre abitate e governate nei primi secoli dell’età del Ferro da quelle ricche e floride comunità indigene eredi della antica tradizione nuragica e pronte ad accogliere gli stimoli e le novità portate dai mercanti stranieri e ad interagire con essi. Questa rapida sintesi, condotta sul versante “fenicio” della ricerca e della riflessione e che prevede la vitalità ininterrotta di una cultura indigena, che si voglia o meno chiamare nuragica, nel passaggio dal Bronzo al Ferro e fino ai periodi orientalizzante e arcaico, si scontra, in modo al momento inconciliabile, con l’orientamento di numerosi studiosi di preistoria e protostoria sarda i quali tendono non soltanto a ritenere concluso lo sviluppo della civiltà nuragica al chiudersi dell’età del Bronzo ma riportano gran parte dei materiali di cui si è finora trattato sotto il profilo dell’interazione, a fasi precedenti della stessa età del Bronzo, svuotando in gran parte i quadri culturali del Ferro, in cui le attestazioni di manufatti indigeni, sia in metallo che in ceramica, sarebbero da interpretarsi come riutilizzi e tesaurizzazioni, quindi come “falsi contesti”. Non è possibile qui entrare nei dettagli di una questione così intricata e complessa, sulla quale peraltro l’imminente congresso presenta numerose discussioni specifiche (ma ricordo i quadri ricostruttivi generali in Ugas 1998 e Torres et alii 2005 e il recente congresso di Villanovaforru, attualmente in corso di pubblicazione: Nuragici e gli Altri); ci si limiterà a ribadire, dal versante fenicio, che le indicazioni stratigrafiche e di contesto che presentano associazioni stringenti con oggetti sardi, fenici e greci sembrano scogli assai ardui da superare.
Nell’ambito di quella che, con accezione approssimativa e generale, viene definita “corrente rialzista”, alcuni studiosi lavorano attualmente su una prospettiva conciliativa che, partendo dalla valutazione di una sostanziale continuità della cultura nuragica fino a tutto l’VII a.C. e dalla difficoltà oggettiva di separare esperienze e tradizioni culturali e tecnologiche nel passaggio dal Bronzo al Ferro, confermano sostanzialmente al IX e all’VII a.C. il processo di incontro e interrelazione tra Fenici e indigeni in Sardegna; la cultura nuragica, intesa come cultura vitale, specifica e autonoma sarebbe però in via di esaurimento già entro il secolo successivo. La crescita degli insediamenti fenici costieri e interni tra la fine del VII e il VI a.C. è soprattutto affidata alla registrazione delle necropoli: principalmente Monte Sirai e Bitia da una parte, Tharros e Othoca dall’altra. Nei corredi alla ceramica fenicia si accompagnano ora, in modo abbondante, le importazioni di ambito etrusco e greco: si tratta, rispettivamente, di buccheri e ceramica etrusco-corinzia, di prodotti corinzi e greco- orientali, che trovano anche una buona circolazione in ambito indigeno, attraverso forme di commercio per le quali il tramite fenicio non può considerarsi esclusivo: i casi più noti sono le coppe “ioniche” di Monastir o i buccheri di Furti, senza dimenticare la grande frequenza di prodotti di questo genere attestata nella Sardegna meridionale e che, come nel caso di San Sperate, attende una pubblicazione esaustiva. L’insediamento di Focei a Olbìa, la crisi strutturale dei modelli insediativi fenici in area atlantica e mediterranea, l’emergere prepotente di Cartagine sullo scenario occidentale, il venir meno dell’energia imprenditoriale tiria nella madrepatria preludono intorno alla metà del secolo, allo scontro epocale nelle acque del mare sardo e al mutamento di orizzonte e di ideologia che segna il passaggio a una nuova epoca della storia mediterranea. L’intervento cartaginese in Sicilia e in Sardegna, l’intera politica mediterranea del centro africano tra il 540 e il 509 a.C. –anno del primo trattato con Roma, l’altra nuova realtà mediterranea in fase di espansione– appartengono a un disegno che mira alla formazione di un ben preciso predominio politico. Cartagine ha avviato questa strategia nella prima metà del secolo innanzitutto in terra africana attraverso la progressiva formazione di uno stato forte e solidamente impiantato, fornito di un’ampia estensione territoriale. La creazione di questo potente stato nord-africano è la premessa all’ulteriore espansione mediterranea; i suoi promotori sono la ricca aristocrazia cartaginese sempre più orientata verso l’acquisizione di un potere familiare e personale. Ad una intraprendente personalità dell’aristocrazia cartaginese della prima metà del V a.C., Annone, una fonte antica attribuisce il merito di aver trasformato i Cartaginesi da Tirii (cioè Fenici ) in Africani (cioè, in potenza egemone mediterranea, ben radicata in terra d’Africa). Ad altri due personaggi della stessa classe aristocratica è attribuita l’iniziativa della conquista della Sardegna: le spedizioni di Malco e di Magone, tra il 545 e il 535 la prima, tra il 525 e il 510 la seconda, realizzano quel parziale e ancora precario controllo politico e militare dell’isola sarda sancito alla fine del secolo dal già ricordato trattato con Roma. Il contesto generale dei rapporti mediterranei di Cartagine rivela il reale significato storico della conquista dell’isola; non si tratta certamente di accorrere in aiuto dei vecchi empori fenici minacciati dai greci o dagli indigeni ma di un disegno legato a una strategia più ampia, scandita da importanti avvenimenti “internazionali. Negli anni intorno al 540 a.C. Cartagine si impegna a fianco degli Etruschi nella battaglia del mare sardo contro i Focei mentre avvia il consolidamento delle proprie posizioni nel settore occidentale della Sicilia; nel giro di alcuni decenni, importanti centri dell’area tirrenica sono legati a doppio filo con la città punica –si pensi alla politica filo cartaginese del tiranno di Caere, Thefarie Velianas, testimoniata dalle lamine di Pyrgi ma anche al partito filo punico attestato dalle fonti nella stessa Roma, nelle fasi di passaggio dalla fase monarchica a quella repubblicana. Il passaggio della Sardegna alla fase punica non è semplicemente un graduale sviluppo della cultura fenicia verso esiti dipendenti in sempre maggior misura dalla matrice nord-africana di Cartagine; è, al contrario, applicazione dura e traumatica di una realpolitik di cui molti centri fenici dell’isola dovranno subire dolorose conseguenze. Il riconoscimento critico della profonda diversità tra la fase fenicia e quella punica è emerso attraverso l’analisi e la ricerca archeologica nell’evidenza delle diverse ritualità funerarie legate alle rispettive fasi culturali e alla netta distinzione delle relative produzioni artigianali. Ancora l’archeologia ha chiarito in senso storico, oltre la testimonianza dei manufatti, quanto devastante sia stato per vari centri fenici dell’isola l’imposizione dell’egemonia cartaginese nel corso del VI secolo: la distruzione del santuario di Cuccureddus di Villasimius (530 a.C.), il brutale annichilimento dell’insediamento di Monte Sirai alcuni anni dopo (520 a.C. circa) indicano con evidenza, insieme al ripiegamento di altri importanti centri fenici come Sulci o Bitia, quanto duro sia stato lo scontro con Cartagine. Studi recenti tendono a ridimensionare l’entità dell’impegno militare cartaginese nell’isola, valorizzando in alternativa l’importanza dello scambio commerciale come veicolo dell’egemonia culturale della città africana; ma l’intervento militare e la fisionomia archeologica complessiva disponibile per gli orizzonti di fine VI-inizi V a.C. non consentono rimozioni totali, ivi comprese quelle tentate a livello di analisi testuale nei confronti di Malco. Il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione in fossa o in cista litica all’inumazione in tombe costruite e della produzione ceramica e artigianale in genere, con l’apparizione delle protomi, delle maschere, dei gioielli in oro, delle stele nei tofet documentano la portata del mutamento. Il cambio radicale della cultura materiale può infatti spiegarsi almeno in parte come esito di un fenomeno di trasferimento forzoso di popolazione, con l’immissione di massicci nuclei di genti nord-africane nell’isola. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria e la definizione di nuovi rapporti economici e commerciali con gli interlocutori mediterranei che privilegiano in questo caso i mercati ateniesi. Nel corso dei due secoli successivi, i nuovi modelli diventano sempre più evidenti: si assiste alla penetrazione capillare degli spazi fertili dell’isola, che appare sempre più intensa e parcellizzata man mano che la ricerca archeologica procede nelle sue
indagini nell’area centro-meridionale e centro-settentrionale dell’isola. I modelli insediativi prevedono una costellazione di piccole comunità ma anche di grossi borghi siti in luoghi particolarmente favorevoli alla viabilità interna e allo sfruttamento sia delle risorse agricole (ad esempio, Monte Luna di Senorbì) sia delle risorse minerarie (ad esempio, l’insediamento–santuario di Antas di Fluminimaggiore). Ma vi sono anche la creazione di nuovi importanti centri costieri o sottocosta come le città di Neapolis, nata dal potenziamento di un antico emporio fenicio, o di Olbia, lo sviluppo di antichi empori di fondazione fenicia strategicamente utili come collettori di risorse provenienti da aree interne di particolare fertilità, come Tharros e Karalis. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata e di grande spessore che emerge negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.). E’ significativo che la nuova dimensione mediterranea di Cartagine, preludio allo scontro con Roma, proceda di pari passo con il progressivo adeguamento della città africana, tra il IV e il II a.C., ai modelli culturali e ideologici delle fasi iniziali e mature dell’ellenismo, il cui riflesso nella produzione artigianale appare evidente. Dietro la grande fioritura della Sardegna punica in questi secoli esistono certamente, insieme al perseguimento di obiettivi economici, fenomeni legati al prestigio, al potere clientelare delle potenti famiglie dell’aristocrazia punica. Sotto questa luce si comprendono compiutamente la ripresa economica e culturale di antichi centri fenici come Sulky, la raffinatezza evidente nella cultura materiale di nuove fondazioni puniche come Neapolis, o la ristrutturazione, nel corso del IV a.C., di settori importanti dei centri urbani come i santuari tofet e i principali templi cittadini o, infine, l’edificazione delle cinte murarie o di delimitazione urbane che nella Sardegna punica si incontrano tutte in questa fase cronologica e culturale. Alla fine del II a.C. (238 a.C.) la Sardegna diventa possedimento romano; le continue e ripetute ribellioni che accompagnano la fine del secolo non riusciranno più a mutare la situazione. Certamente l’isola non perderà, con i nuovi padroni, una tradizione culturale ormai saldamente acquisita; indagini sempre più numerose e puntuali affrontano il problema complesso della produzione artigianale di queste fasi storiche nelle quali i modelli vincenti dell’ellenismo non riescono ad annullare le antiche matrici orientali della cultura fenicia e punica; su un piano diverso, l’uso della lingua punica in iscrizioni ufficiali ancora nel II d.C. dimostra chiaramente quale fosse ancora la tradizione culturale più vitale nell’isola pur dopo secoli di dominazione romana. Una valutazione complessiva sullo stato della ricerca sulla problematica dell’incontro tra Fenici, Cartaginesi e mondo indigeno di Sardegna deve in primo luogo sottolineare due punti che hanno fortemente condizionato gli sviluppi delle indagini: in primo luogo, la concentrazione degli studi sui luoghi “classici” dell’insediamento fenicio e punico, cioè i grandi centri costieri e quelli dell’immediato retroterra coloniale con una generale sottovalutazione per la ricomposizione di quadri territoriali più ampi e organici; in secondo luogo, la sostanziale “solitudine” e impermeabilità con la quale studiosi di cose fenicie ed esperti di archeologia nuragica hanno proceduto e procedono nella loro ricerca, lontani da orizzonti comuni e condivisi di indagine che permetterebbero approcci più puntuali e organizzati alla definizione dei “paesaggi” storici dell’età del Ferro della Sardegna. Ancora applicata marginalmente risulta poi, in campo metodologico, la disciplina dell’archeologia dei paesaggi in ambito di analisi e di ricognizione (Garau 2006), così come pesano come macigni le grandi e disperanti lacune che oscurano interi settori territoriali: basti ricordare il silenzio della costa orientale, pure sede di un insediamento come Sarcapos, neppure sfiorato dalle indagini, o quello che, sulla costa opposta, avvolge Bosa, da cui proviene un frustulo epigrafico fenicio di altissima antichità ma anche l’esiguità dei dati che distingue Cagliari e il suo golfo, senza dimenticare la fase davvero iniziale della ricerca legata ai siti fenici del golfo oristanese, non solo in rapporto a Othoca e a Neapolis ma anche in relazione al sito di Tharros, pure apparentemente corredato da una documentazione imponente; fa fede a questo riguardo la recente attività di prospezione avviata nella regione di Mistras alla ricerca del primitivo porto tharrense con la rivoluzionaria prospettiva di localizzazione della fenicia Tharros in area esterna a quella della Tharros polis di età punica e romana.
di Paolo Bernardini
Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).
Fenici e Punici in Sardegna
La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume
forme importanti nella cultura locale soprattutto con l’avvio del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo nelle botteghe indigene della bronzistica figurata e della circolazione di un articolato bagaglio di imagerie vicino-orientale che trovano peculiari forme di adozione nell’artigianato autoctono, influenzando e condizionando, a livello più profondo, comportamenti sociali, modi di aggregazione, ideologie di potere. Nella rete dei commerci mediterranei e atlantici rivitalizzata dai Fenici sulla scia di tradizionali e accreditate rotte interne e internazionali gestite dalle popolazioni rivierasche dell’Occidente, la Sardegna appare profondamente coinvolta sin dalle fasi alte della seconda metà del IX sec. a.C. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia nel golfo di Alghero e organizzano con la comunità locale lo sfruttamento e la commercializzazione del vino del fertile territorio della Nurra. Il vino di Sant’Imbenia, trasportato in anfore di tipo levantino prima eseguite in impasto e poi tornite, talora decorate con motivi a cerchielli tipici del gusto indigeno, circola, a partire da tale data, nelle nuove frontiere degli insediamenti fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva, in parallelo con l’ampia attestazione in questi luoghi di brocche askoidi, anch’esse legate al consumo e all’uso del vino, e di altre forme significative di “contenitori” di merci come i vasi a collo. Anfore vinarie, prodotte nell’Algherese e in altre località dell’isola, brocche askoidi e vasi a collo sono presenti, oltre lo stretto di Gibilterra, in contesti databili appunto tra l’840 e il 775 a.C.; ma il fenomeno prosegue nel tempo, come attestano le brocche indigene provenienti da Cartagine, da Mozia e dall’isola di Creta. Esiste peraltro una prospettiva di studi che tenta di riportare la circolazione di questi materiali a orizzonti della fine dell’età del Bronzo o di primissima età del Ferro (Lo Schiavo 2005) anche coinvolgendo in questa prospettiva cronologica “alta” l’abbondante materiale sardo attestato in Etruria: Etruria e Sardegna. Non meno significativa è la presenza negli avamposti fenici dell’estremo Occidente di teglie, semplici o a base forata, la cui attribuzione a fabbriche della Sardegna, è sempre più verosimile e che introducono, accanto al tema della partecipazione sarda ai traffici fenici, prospettive di possibile stanzialità di gruppi di etnia sarda nelle nuove frontiere atlantiche. La prima metà dell’VII a.C. registra, nelle regioni costiere della Sardegna centro-meridionale, la presenza di nuclei insediativi fenici saldamente organizzati; i “fuochi” principali di irradiazione si individuano, sulla base dei dati conoscitivi attualmente disponibili, nel golfo di Palmas e in quello di Oristano; ma vi sono altre aree strategicamente sensibili, come la costa olbiese, dove sorge un importante santuario di Melqart che le ricerche iniziano a farci intravedere, e naturalmente l’ampia e appetibile insenatura del golfo di Cagliari, porta delle piane iolee dei Campidani e sede delle opulente comunità indigene del retroterra, che assumono
precocemente modelli culturali orientali. La formazione nell’isola di gruppi emergenti, che è forse ancora improprio, per lo stato delle conoscenze, definire come “aristocrazie”, ma che certamente partecipano a pieno titolo del mutamento epocale che nel Mediterraneo antico determina l’affermazione del potere gentilizio e di classe, trova nuovi motori di sviluppo e di accelerazione nel graduale inserimento nella nuova rete dei traffici occidentali e, soprattutto, attraverso la costante e profonda interazione con i centri fenici costieri. Sulky, nell’isola di Sant’Antioco, è quello meglio noto per l’imponenza e la omogeneità della documentazione restituita dagli scavi dell’abitato e del santuario tofet; ma non meno importante è la testimonianza della precocità del fenomeno di irradiazione nella regione interna sulcitana: da Monte Sirai al Nuraghe Sirai, dal nuraghe di Tratalias a quello di Tzirimagus per volgersi di nuovo alla costa con San Giorgio di Portoscuso e all’installazione insulare con San Vittorio di Carloforte. Nel golfo oristanese, i siti di Othoca, Tharros e Neapolis governano gli approdi costieri e organizzano una penetrazione capillare verso quei Campidani centrali, che studi recenti individuano come uno specifico e vitale di28 stretto della Sardegna dell’età del Ferro; i territori oggi di Cabras, di San Vero Milis, di Narbolia, di Nuraxi Nieddu restituiscono infatti per questa età insediamenti abitativi, installazioni di santuario, arredi liturgici scolpiti quali i modelli di nuraghe e seriazioni ceramiche di rilievo, come nel caso delle brocche askoidi, delle pintadere, dei calici su lungo stelo fittamente decorati, nonché di una produzione bronzistica figurata di altissimo rilievo. Nei grandi santuari dell’etnia indigena, soprattutto quelli in collegamento con la grande via d’acqua del Tirso che facilita i percorsi verso l’interno, circolano prestigiosi manufatti prodotti o veicolati dai Fenici: che siano i vasi laminati in argento del Nuraghe Nurdole di Orani, le imagines orientali di Santa Cristina di Paulilatino o di Olmedo o i supporti di torciere di S’Uraki. In questi luoghi vi sono opere di bottega locale in cui fortemente radicati appaiono modelli e iconografie orientali: dalla trasposizione indigena dello schema del faraone trionfante al nuraghe Nurdole ai fieri arcieri corazzati di Sant’Anastasia di Sardara che pure ha restituito una importante serie di bacili.
I santuari indigeni, e insieme la ricca e variopinta ceramica dei centri interni del Cagliaritano o la straordinaria produzione in bronzo antropomorfa, testimoniano la lunga durata e la vitalità della società indigena dell’età del Ferro che approda a versanti cronologici di piena fase orientalizzante e dell’arcaismo; oltre le produzioni degli artigiani locali e la seriazione di prodotti di importazione o imitazione fenicia, aramaica e siriana, fanno fede del processo i quadri distributivi dei prodotti etruschi, in parte mediati dal commercio fenicio, in parte frutto di contatti diretti con le comunità sarde: bacili bronzei, spesso decorati con figurine di leone, fanno la loro comparsa di nuovo presso i grandi centri cultuali mentre i bronzi figurati e le ceramiche sardi trovano ampia attestazione nei contesti etruschi e campani tra il IX e il VI a.C. Alle porte del golfo di Oristano, tra l’VII e il VII a.C., nel celebre santuario di Monti Prama che ha mosso in questi ultimi tempi le febbrili corde di una metastorica ideologia identitaria e indipendentista, artigiani di tradizione e cultura orientale hanno saputo interpretare le esigenze di una committenza emergente, interessata a dare forme scultorea alle storie e alle saghe delle proprie famiglie; ma altrettanto straordinario è il processo continuo di interazione che percorre le diverse etnie nei centri di fondazione fenicia. A Sulky vasi di fattura e tradizione indigena si spartiscono, mischiati al vasellame fenicio, gli anfratti rocciosi del tofet mentre comunità etnicamente miste, meticcie, vivono quotidianamente nei grandi insediamenti di Monte Sirai, del Nuraghe Sirai o sull’altura fortificata di Tzirimagus; la necropoli di Bitia restituisce stiletti in bronzo di produzione locale così come avviene per le necropoli di Tharros e di Othoca, dove un’altra enclave meticcia sorge sull’altura della Cattedrale. Prende avvio in questi secoli, tra il IX e il VII, quel processo di formazione di comunità sardofenicie che Cartagine, proiettata nel suo itinerario di espansione mediterranea, dovrà spezzare e rifondare, su basi e strategie del tutto differenti, nel VI a.C., all’indomani della battaglia del Mare Sardonio, l’episodio di un conflitto più vasto e generalizzato, in cui Greci, Etruschi e Cartaginesi mutano i profili del Mediterraneo arcaico. I quadri fisici e morfologici, palcoscenico dell’incontro e dell’interrelazione, sono esemplari, per sempre fissati nel mito delle fondazioni fenicia a iniziare dalla leggenda di Tiro, nata sulle rocce erranti per volere di Melqart: che si tratti del paesaggio di terre mobili, fatto di piane fertili, benedette ma precarie, di esili istmi e potenti speroni di roccia impiantati nelle viscere del Mediterraneo che contrassegnano l’habitat del golfo oristanese o della regione fenicia del Sulcis, che si articola in morfologie insulari raccordate alla terraferma da lingue di terra frammentate da vie d’acqua fluviali o lagunari (Sant’Antioco e Bitia) o del tutto autonome (San Vittorio nell’isola di San Pietro), in morfologie di coste basse e aperte, contornate e intersecate da stagni e lagune (S. Giorgio di Portoscuso). È il paesaggio che favorisce gli approdi e le soste; la sua mobilità, che è anche assenza di confini e di limiti, prelude agli incontri, agli scambi; è l’orizzonte fisico e culturale che definisce, nel tempo e nello spazio, il divenire dell’emporia. Ma vi sono anche le fasce fertili del Campidano, le ubertose piane iolee, quelle del mito e quelle della realtà storica, segnate dall’oro del grano, le terre abitate e governate nei primi secoli dell’età del Ferro da quelle ricche e floride comunità indigene eredi della antica tradizione nuragica e pronte ad accogliere gli stimoli e le novità portate dai mercanti stranieri e ad interagire con essi. Questa rapida sintesi, condotta sul versante “fenicio” della ricerca e della riflessione e che prevede la vitalità ininterrotta di una cultura indigena, che si voglia o meno chiamare nuragica, nel passaggio dal Bronzo al Ferro e fino ai periodi orientalizzante e arcaico, si scontra, in modo al momento inconciliabile, con l’orientamento di numerosi studiosi di preistoria e protostoria sarda i quali tendono non soltanto a ritenere concluso lo sviluppo della civiltà nuragica al chiudersi dell’età del Bronzo ma riportano gran parte dei materiali di cui si è finora trattato sotto il profilo dell’interazione, a fasi precedenti della stessa età del Bronzo, svuotando in gran parte i quadri culturali del Ferro, in cui le attestazioni di manufatti indigeni, sia in metallo che in ceramica, sarebbero da interpretarsi come riutilizzi e tesaurizzazioni, quindi come “falsi contesti”. Non è possibile qui entrare nei dettagli di una questione così intricata e complessa, sulla quale peraltro l’imminente congresso presenta numerose discussioni specifiche (ma ricordo i quadri ricostruttivi generali in Ugas 1998 e Torres et alii 2005 e il recente congresso di Villanovaforru, attualmente in corso di pubblicazione: Nuragici e gli Altri); ci si limiterà a ribadire, dal versante fenicio, che le indicazioni stratigrafiche e di contesto che presentano associazioni stringenti con oggetti sardi, fenici e greci sembrano scogli assai ardui da superare.
Nell’ambito di quella che, con accezione approssimativa e generale, viene definita “corrente rialzista”, alcuni studiosi lavorano attualmente su una prospettiva conciliativa che, partendo dalla valutazione di una sostanziale continuità della cultura nuragica fino a tutto l’VII a.C. e dalla difficoltà oggettiva di separare esperienze e tradizioni culturali e tecnologiche nel passaggio dal Bronzo al Ferro, confermano sostanzialmente al IX e all’VII a.C. il processo di incontro e interrelazione tra Fenici e indigeni in Sardegna; la cultura nuragica, intesa come cultura vitale, specifica e autonoma sarebbe però in via di esaurimento già entro il secolo successivo. La crescita degli insediamenti fenici costieri e interni tra la fine del VII e il VI a.C. è soprattutto affidata alla registrazione delle necropoli: principalmente Monte Sirai e Bitia da una parte, Tharros e Othoca dall’altra. Nei corredi alla ceramica fenicia si accompagnano ora, in modo abbondante, le importazioni di ambito etrusco e greco: si tratta, rispettivamente, di buccheri e ceramica etrusco-corinzia, di prodotti corinzi e greco- orientali, che trovano anche una buona circolazione in ambito indigeno, attraverso forme di commercio per le quali il tramite fenicio non può considerarsi esclusivo: i casi più noti sono le coppe “ioniche” di Monastir o i buccheri di Furti, senza dimenticare la grande frequenza di prodotti di questo genere attestata nella Sardegna meridionale e che, come nel caso di San Sperate, attende una pubblicazione esaustiva. L’insediamento di Focei a Olbìa, la crisi strutturale dei modelli insediativi fenici in area atlantica e mediterranea, l’emergere prepotente di Cartagine sullo scenario occidentale, il venir meno dell’energia imprenditoriale tiria nella madrepatria preludono intorno alla metà del secolo, allo scontro epocale nelle acque del mare sardo e al mutamento di orizzonte e di ideologia che segna il passaggio a una nuova epoca della storia mediterranea. L’intervento cartaginese in Sicilia e in Sardegna, l’intera politica mediterranea del centro africano tra il 540 e il 509 a.C. –anno del primo trattato con Roma, l’altra nuova realtà mediterranea in fase di espansione– appartengono a un disegno che mira alla formazione di un ben preciso predominio politico. Cartagine ha avviato questa strategia nella prima metà del secolo innanzitutto in terra africana attraverso la progressiva formazione di uno stato forte e solidamente impiantato, fornito di un’ampia estensione territoriale. La creazione di questo potente stato nord-africano è la premessa all’ulteriore espansione mediterranea; i suoi promotori sono la ricca aristocrazia cartaginese sempre più orientata verso l’acquisizione di un potere familiare e personale. Ad una intraprendente personalità dell’aristocrazia cartaginese della prima metà del V a.C., Annone, una fonte antica attribuisce il merito di aver trasformato i Cartaginesi da Tirii (cioè Fenici ) in Africani (cioè, in potenza egemone mediterranea, ben radicata in terra d’Africa). Ad altri due personaggi della stessa classe aristocratica è attribuita l’iniziativa della conquista della Sardegna: le spedizioni di Malco e di Magone, tra il 545 e il 535 la prima, tra il 525 e il 510 la seconda, realizzano quel parziale e ancora precario controllo politico e militare dell’isola sarda sancito alla fine del secolo dal già ricordato trattato con Roma. Il contesto generale dei rapporti mediterranei di Cartagine rivela il reale significato storico della conquista dell’isola; non si tratta certamente di accorrere in aiuto dei vecchi empori fenici minacciati dai greci o dagli indigeni ma di un disegno legato a una strategia più ampia, scandita da importanti avvenimenti “internazionali. Negli anni intorno al 540 a.C. Cartagine si impegna a fianco degli Etruschi nella battaglia del mare sardo contro i Focei mentre avvia il consolidamento delle proprie posizioni nel settore occidentale della Sicilia; nel giro di alcuni decenni, importanti centri dell’area tirrenica sono legati a doppio filo con la città punica –si pensi alla politica filo cartaginese del tiranno di Caere, Thefarie Velianas, testimoniata dalle lamine di Pyrgi ma anche al partito filo punico attestato dalle fonti nella stessa Roma, nelle fasi di passaggio dalla fase monarchica a quella repubblicana. Il passaggio della Sardegna alla fase punica non è semplicemente un graduale sviluppo della cultura fenicia verso esiti dipendenti in sempre maggior misura dalla matrice nord-africana di Cartagine; è, al contrario, applicazione dura e traumatica di una realpolitik di cui molti centri fenici dell’isola dovranno subire dolorose conseguenze. Il riconoscimento critico della profonda diversità tra la fase fenicia e quella punica è emerso attraverso l’analisi e la ricerca archeologica nell’evidenza delle diverse ritualità funerarie legate alle rispettive fasi culturali e alla netta distinzione delle relative produzioni artigianali. Ancora l’archeologia ha chiarito in senso storico, oltre la testimonianza dei manufatti, quanto devastante sia stato per vari centri fenici dell’isola l’imposizione dell’egemonia cartaginese nel corso del VI secolo: la distruzione del santuario di Cuccureddus di Villasimius (530 a.C.), il brutale annichilimento dell’insediamento di Monte Sirai alcuni anni dopo (520 a.C. circa) indicano con evidenza, insieme al ripiegamento di altri importanti centri fenici come Sulci o Bitia, quanto duro sia stato lo scontro con Cartagine. Studi recenti tendono a ridimensionare l’entità dell’impegno militare cartaginese nell’isola, valorizzando in alternativa l’importanza dello scambio commerciale come veicolo dell’egemonia culturale della città africana; ma l’intervento militare e la fisionomia archeologica complessiva disponibile per gli orizzonti di fine VI-inizi V a.C. non consentono rimozioni totali, ivi comprese quelle tentate a livello di analisi testuale nei confronti di Malco. Il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione in fossa o in cista litica all’inumazione in tombe costruite e della produzione ceramica e artigianale in genere, con l’apparizione delle protomi, delle maschere, dei gioielli in oro, delle stele nei tofet documentano la portata del mutamento. Il cambio radicale della cultura materiale può infatti spiegarsi almeno in parte come esito di un fenomeno di trasferimento forzoso di popolazione, con l’immissione di massicci nuclei di genti nord-africane nell’isola. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria e la definizione di nuovi rapporti economici e commerciali con gli interlocutori mediterranei che privilegiano in questo caso i mercati ateniesi. Nel corso dei due secoli successivi, i nuovi modelli diventano sempre più evidenti: si assiste alla penetrazione capillare degli spazi fertili dell’isola, che appare sempre più intensa e parcellizzata man mano che la ricerca archeologica procede nelle sue
indagini nell’area centro-meridionale e centro-settentrionale dell’isola. I modelli insediativi prevedono una costellazione di piccole comunità ma anche di grossi borghi siti in luoghi particolarmente favorevoli alla viabilità interna e allo sfruttamento sia delle risorse agricole (ad esempio, Monte Luna di Senorbì) sia delle risorse minerarie (ad esempio, l’insediamento–santuario di Antas di Fluminimaggiore). Ma vi sono anche la creazione di nuovi importanti centri costieri o sottocosta come le città di Neapolis, nata dal potenziamento di un antico emporio fenicio, o di Olbia, lo sviluppo di antichi empori di fondazione fenicia strategicamente utili come collettori di risorse provenienti da aree interne di particolare fertilità, come Tharros e Karalis. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata e di grande spessore che emerge negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.). E’ significativo che la nuova dimensione mediterranea di Cartagine, preludio allo scontro con Roma, proceda di pari passo con il progressivo adeguamento della città africana, tra il IV e il II a.C., ai modelli culturali e ideologici delle fasi iniziali e mature dell’ellenismo, il cui riflesso nella produzione artigianale appare evidente. Dietro la grande fioritura della Sardegna punica in questi secoli esistono certamente, insieme al perseguimento di obiettivi economici, fenomeni legati al prestigio, al potere clientelare delle potenti famiglie dell’aristocrazia punica. Sotto questa luce si comprendono compiutamente la ripresa economica e culturale di antichi centri fenici come Sulky, la raffinatezza evidente nella cultura materiale di nuove fondazioni puniche come Neapolis, o la ristrutturazione, nel corso del IV a.C., di settori importanti dei centri urbani come i santuari tofet e i principali templi cittadini o, infine, l’edificazione delle cinte murarie o di delimitazione urbane che nella Sardegna punica si incontrano tutte in questa fase cronologica e culturale. Alla fine del II a.C. (238 a.C.) la Sardegna diventa possedimento romano; le continue e ripetute ribellioni che accompagnano la fine del secolo non riusciranno più a mutare la situazione. Certamente l’isola non perderà, con i nuovi padroni, una tradizione culturale ormai saldamente acquisita; indagini sempre più numerose e puntuali affrontano il problema complesso della produzione artigianale di queste fasi storiche nelle quali i modelli vincenti dell’ellenismo non riescono ad annullare le antiche matrici orientali della cultura fenicia e punica; su un piano diverso, l’uso della lingua punica in iscrizioni ufficiali ancora nel II d.C. dimostra chiaramente quale fosse ancora la tradizione culturale più vitale nell’isola pur dopo secoli di dominazione romana. Una valutazione complessiva sullo stato della ricerca sulla problematica dell’incontro tra Fenici, Cartaginesi e mondo indigeno di Sardegna deve in primo luogo sottolineare due punti che hanno fortemente condizionato gli sviluppi delle indagini: in primo luogo, la concentrazione degli studi sui luoghi “classici” dell’insediamento fenicio e punico, cioè i grandi centri costieri e quelli dell’immediato retroterra coloniale con una generale sottovalutazione per la ricomposizione di quadri territoriali più ampi e organici; in secondo luogo, la sostanziale “solitudine” e impermeabilità con la quale studiosi di cose fenicie ed esperti di archeologia nuragica hanno proceduto e procedono nella loro ricerca, lontani da orizzonti comuni e condivisi di indagine che permetterebbero approcci più puntuali e organizzati alla definizione dei “paesaggi” storici dell’età del Ferro della Sardegna. Ancora applicata marginalmente risulta poi, in campo metodologico, la disciplina dell’archeologia dei paesaggi in ambito di analisi e di ricognizione (Garau 2006), così come pesano come macigni le grandi e disperanti lacune che oscurano interi settori territoriali: basti ricordare il silenzio della costa orientale, pure sede di un insediamento come Sarcapos, neppure sfiorato dalle indagini, o quello che, sulla costa opposta, avvolge Bosa, da cui proviene un frustulo epigrafico fenicio di altissima antichità ma anche l’esiguità dei dati che distingue Cagliari e il suo golfo, senza dimenticare la fase davvero iniziale della ricerca legata ai siti fenici del golfo oristanese, non solo in rapporto a Othoca e a Neapolis ma anche in relazione al sito di Tharros, pure apparentemente corredato da una documentazione imponente; fa fede a questo riguardo la recente attività di prospezione avviata nella regione di Mistras alla ricerca del primitivo porto tharrense con la rivoluzionaria prospettiva di localizzazione della fenicia Tharros in area esterna a quella della Tharros polis di età punica e romana.
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Monti Prama che ha mosso in questi ultimi tempi le febbrili corde di una metastorica ideologia identitaria e indipendentista, artigiani di tradizione e cultura orientale hanno saputo interpretare le esigenze di una committenza emergente, interessata a dare forme scultorea alle storie e alle saghe delle proprie famiglie; CHI SCRIVE QUESTE COSE, DIMOSTRA DI ESSERE, SCHIAVO E VITTIMA DI UN SISTEMA CHE, FIGLIO DEI VINTI, HA SEMPRE SUBITO LA STORIA SBAGLIATA, DISTORTA,IGNORANTE, IMPOSTA DA SEMPRE DAI VINCITORI, CHE ALTRO MODO NON HANNO PER TENTARE DI CANCELLARE IL MITO.
RispondiEliminaQuale mito?
RispondiEliminaCome che mito.......la nostra vera storia non quella voluta dai gruppi folk
RispondiEliminaPurtroppo non ti seguo Thor. Quale sarebbe la nostra vera storia? E quale sarebbe quella voluta dai gruppi folk?
RispondiEliminaI gruppi che hanno gestito in maniera patronale i sitii archeologici sardi,dimenticando quelle che dovevano essere le priorità di certi beni.Io ho visto scomparire la necropoli del mio paese a causa del l'abusivismo edilizio e dall'ignoranza dei nostri amministratori,che oggi a distanza di 30anni cercano di rifarsi la verginità per riportare alla luce quello che permisero venisse coperto di spazzatura nel caso migliore.l'assurdo che nonostante denunce e segnalazioni il delitto si è consumato tranquillamente sotto gli occhi degli organi preposti ai controlli, forze dell'ordine comprese.Anche io odio l'arroganza e la prepotenza,specialmente quella della legge al servizio dei poteri forti.Il mito per mè e riuscire finalmente a riscrivere la storia sarda,quella vera.Cordiali saluti a tutti
RispondiEliminaCiò che scrivi, Thor, è condivisibile e tutti giorni assistiamo impotenti al depauperamento di beni archeologici e naturali. Purtroppo non si possono presidiare contemporaneamente migliaia di siti, e le amministrazioni locali, a volte, non hanno la sensibilità o la cultura per percepire che i beni sono un biglietto da visita non copiabile...unico...un tesoro da tutelare e valorizzare.
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