Porti e approdi antichi del Sulcis
di Piero Bartoloni
Il Sulcis-Iglesiente è la regione
della Sardegna in cui troviamo la maggior concentrazione degli insediamenti
fenici. La ragione è la ricchezza mineraria della zona, soprattutto per quanto
riguarda l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2
grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. I sardi,
proprietari delle miniere d’argento scambiavano questo metallo con il rame
perché le miniere di questo elemento sono solo 8 e non erano sufficienti al
fabbisogno dell’isola. Solo Funtana Raminosa forniva una buona quantità di
rame, le altre miniere erano povere. Oggi è l’oro il metallo di riferimento, ma
anticamente avevamo l’argento nel Vicino Oriente e il rame in Sardegna. I
fenici avevano bisogno di porti, luoghi dove sostare con le navi che offrivano
anche la possibilità di penetrare verso l’interno. Qualunque porto, per quanto
grande e attrezzato possa essere, se ha le montagne alle spalle perde quasi
completamente il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino all’attuale
Carbonia, si trovano miniere di piombo argentifero e di galena argentifera. I
greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene d’argento, e sono
state censite 399 miniere di questo metallo. I principali insediamenti nella
Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani
Loriga-Santadi e Bithia. I porti importanti per imbarcare l’argento erano
Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva
semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino Oriente.
Già nella carta ottocentesca di Alberto Ferrero La Marmora si nota come la
città di Sulki, il più antico agglomerato urbano sardo (780 a.C.), sia
affacciata sullo stagno di Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e
ricercato dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu una importante
battaglia navale nel Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del
porto. Nella battaglia di Sulki l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a
terra e, come avveniva in quelle circostanze, fu crocifisso. Nelle monete
romane dell’epoca si notano una serie di rostri, importanti perché
rappresentavano il trofeo delle battaglie navali. Inoltre erano denaro contante
in quanto realizzati in bronzo. Il porto fenicio di Sulki si trovava dove
ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal castello di Castro
e da quello di Su Pisu. Contro la tramontana, l’unico vento dannoso per questo
porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi sprofondato, sopra il
quale abbiamo individuato un edificio costruito, anch’esso oggi sommerso.
Questo edificio era realizzato
con i blocchi delle fortificazioni cartaginesi. Si tratta di due quadrilateri
affiancati, che sono stati recentemente demoliti perché i pescatori si sono
serviti di questi blocchi per fare dei pedagni per le reti. Probabilmente si
trattava di un piccolo santuario collocato lungo una strada rotaia, parallela
alla linea di costa, che consentiva alle navi di essere trascinate in porto con
delle corde legate a buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri
luoghi.
La laguna non era certamente navigabile a vela, e anche oggi pur
essendoci un canale profondo circa 5 metri, nessuno affronta il rischio di
approdare procedendo solo con le vele. Il livello dell’acqua dal 700 a.C. si è
alzato di quasi un metro e mezzo e quindi oggi lo scoglio si vede solo in caso
di bassa marea. In un portolano del 1261 che illustra le isole dell’arcipelago
del Sulcis, si nota che il passaggio fra lo stagno di Sant’Antioco e il Golfo
di Palmas era assente. In antichità il passaggio del mare era garantito dal
fatto che l’istmo non era completamente consolidato, ma sappiamo che sull’istmo
sono stati rinvenuti due menhir del 3000 a.C. e dobbiamo pensare che già da
quel periodo l’istmo era percorribile via terra, pur non essendo continuo. I
depositi del Rio Palmas hanno contribuito, nel tempo, al consolidamento
completo della striscia di terra creando un tombolo che unisce l’isola di
Sant’Antioco alla Sardegna. In un altro portolano, del 1844, si vede un forte
posto nel passaggio del ponte e si nota anche il castello bizantino di Castro,
raso al suolo intorno al 1870 per far passare la ferrovia. Oggi al suo posto
c’è il campo di calcio. Negli anni scorsi, grazie alla guardia di finanza, ho
messo a punto un progetto che prevede il rilevamento di tutti gli insediamenti
fenici grazie a circa 8000 foto aeree che hanno documentato tutte le coste del
territorio. In questo modo oggi abbiamo un quadro chiaro, oltre che
dell’ubicazione, anche delle distanze fra gli insediamenti fenici. La
morfologia della costa è cambiata perché nel corso degli anni hanno demolito,
dragato, aggiunto e modificato le strutture, in funzione delle necessità del
porto.
La zona di Sulki è
caratteristica anche dal punto di vista climatico. Quando ci sono le brezze,
nella parte nord di Sant’Antioco tira un vento di maestrale, mentre a sud c’è
il vento il levante. È il tratto di cerniera tra il Mare di Sardegna e il
canale di Sardegna. Il dragaggio del canale navigabile ha creato un isolotto
chiamato Sa Barra. L’antica linea di costa, oggi interrata, è individuabile
osservando la lunga fila di alberi piantata in città negli anni Cinquanta, che
oggi corre parallela al mare, e corrisponde all’antico tracciato della
ferrovia.
Sant’Antioco attuale risiede
totalmente sulla città antica, e le indagini sul vecchio insediamento sono
complicate. Tutte le fontane che derivano dalla falda freatica che scende dalle
colline verso il porto sono state la condizione fondamentale per la fondazione
di Sant’Antioco. Senza acqua non c’è sopravvivenza e sotto il paese questo
prezioso liquido si raccoglie e sgorga ad una profondità di 6/7 metri, infatti
tutte le case hanno un pozzo. I marinai potevano provvedere all’acquata e
proseguire la navigazione, e tutta la costa presenta punti nei quali si poteva
fare l’operazione di carico dell’acqua potabile. Il Golfo di Palmas è uno degli
ancoraggi migliori della Sardegna, paragonabile a quello di Porto Conte, dove
si trova il sito di Sant’Imbenia. Anche l’ammiraglio Nelson, che si intendeva
di approdi con facile accesso al riparo dai venti dominanti, scelse questo
golfo per approdare in epoca napoleonica. Giacomo II di Aragona, quando
conquistò la Sardegna sbarcò nel Golfo di Palmas, ma non fu il solo in quanto
anche Carlo V, scendendo verso Tunisi, si fermò a dormire a Palma de Sol. Se
calano le ancore in questi luoghi evidentemente il golfo era propizio. Il sito
offre una profondità che mai è inferiore ai 20 metri e consentiva l’ancoraggio
sicuro sul fondo sabbioso di posidonia.
Un altro approdo di
Sant’Antioco è il Golfo di Maladroxia, una piccola insenatura dotata di una
sorgente di acqua termale, e di una valle coltivabile a grano. In un portolano
francese del 1344 questo approdo è citato, e varie interpretazioni sono state
fornite per spiegare la denominazione. A mio parere l’ascendente è un vocabolo
fenicio, quello che da origine al nome dell’isola di Malta, ossia Malad, che
significa rifugio. Essendo Malad-roxia un nome composito, visto che le parole
fenicie sono scritte prive di consonanti e considerato che rox(sc) in fenicio
significa capo, la parola sarebbe “il rifugio del capo”, ossia il promontorio
di Capo Sperone, la prima struttura a sinistra che si trova entrando nel Golfo
di Palmas. Dalla parte opposta abbiamo Cala Sapone, importante sede per le
tonnare. In sintesi abbiamo una strada che unisce un fiume perenne alle sorgenti
di acqua termale e un golfo che offre riparo dai venti dominanti e vede tante
cale per fare carena. L’isola è protetta da un nuraghe polilobato, denominato
Sega-Marteddu, a dimostrazione che i nuragici avevano i loro porti e
predisponevano torri per il controllo degli approdi. Tutta la valle è
accuratamente circondata da nuraghe.
A Nord c’è il porto di Inosim,
l’isola dei falchi, ossia Carloforte. I fenici la chiamavano "Enosim"
o "Inosim", mentre per i greci era "Hieracon Nesos" e per i
romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). Il
nome deriva dalla presenza di un piccolo falco migratore, il falco della
regina, che è presente e nidificante in una numerosa colonia, accuratamente
protetta dalle inaccessibili e scoscese falesie costiere. A Cagliari, nella
costa di Stampace, vicino Bonaria, è stata trovata un’iscrizione monumentale
conservata al museo di Cagliari che ci parla di un Dio Baal dei cieli, signore
di Inosim, ossia di Carloforte. Si tratta forse di una pietra utilizzata come zavorra
che è stata scaricata nella spiaggia quando la nave è salpata. Le indagini
archeologiche hanno permesso di individuare l’antico insediamento intorno alla
torre di San Vittorio, dove c’è l’osservatorio astronomico. Il sito è segnalato
dalla presenza di anfore fenicie della prima parte dell’VIII a.C., e il porto
si trovava nella zona delle attuali saline. La grande insenatura che si vede a
occidente dell’isolotto di San Vittorio era l’invaso portuario.
A Portoscuso è stata
individuata, da Paolo Bernardini, la più antica necropoli fenicia della
Sardegna, databile al 750 a.C. Carloforte si trova a nord dell’antico
insediamento, ma è l’erede naturale di quell’insediamento.
Portopino si trova in
prossimità dello stagno di Is Brebeis, ed è protetto da un antemurale fino a
Punta Menga, sede di un’antica tonnara. Il Sulcis è pieno di antiche tonnare,
ma l’unica rimasta attiva è quella di Portoscuso. La cala di Portopino era
sicuramente un ricovero per barche, e le opere più importanti sono quelle
cartaginesi, come ad esempio il canale che precede temporalmente quello
attualmente in opera. I canali avevano la funzione di scolmatori per la
conservazione del pescato. I cartaginesi erano produttori di cibi in conserva,
soprattutto prodotti derivanti dal pescato. Il garum, ad esempio, era un
condimento fatto con le interiora di sgombro. Anticamente andava di moda il
contrasto fra agro e dolce, e la ricetta principale per quanto riguarda il cibo
di Cartagine era la minestra. I romani, consumatori della proteina nobile della
carne, indicavano con ironia i cartaginesi come mangiatori di minestre. Una
delle ricette più prelibate si è conservata fino ai nostri giorni: in una
pentola si aggiungevano 5 parti di semola, 1 di formaggio fresco e all’interno
il miele. Il tutto veniva mescolato per ottenere la seadas, un cibo agrodolce
che rispecchia i gusti di quei tempi.
A Portoscuso c’è lo scoglio
della Ghinghetta, oggi sede di un famoso ristorante. Era un’importante sede di
tonnara, a dimostrazione che i fenici erano grandi consumatori di tonno.
Conoscevano i meccanismi degli spostamenti di questo pesce azzurro che, come
gli sgombri e le sardine, gradisce un tasso di salinità costante, a differenza
di spigole e orate che possono risalire i fiumi. I fenici gettavano le reti in
punti strategici e catturavano una grande quantità di tonni. Impararono
velocemente le abitudini dei pesci perché essendo grandi navigatori avevano
necessità di sostentarsi in mare. La commercializzazione del pesce divenne di
fondamentale importanza per la loro economia. L’antico porto di Portoscuso si
trovava in prossimità della torre, vicino al porto attuale. La necropoli di San
Giorgio è stata trovata nella zona dei bagni rossi vicino alle industrie. Si
tratta di 11 tombe del 750 a.C. appartenenti ad una famiglia nobile. Fin da
allora traspare il rapporto strettissimo tra il vino e il mondo funerario. Il
vino era un elemento indispensabile nel rito funerario fenicio. I corpi dei
defunti venivano bruciati e sepolti all’interno di anfore. Il tappo dell’anfora
è una coppa, e il corredo funerario comprende sempre una brocca per la
libagione sacra.
In Sardegna ci sono tracce di
24 tonnare, e la maggior concentrazione di queste erano proprio nel Sulcis
Iglesiente, a dimostrazione del rapporto fra fenici e mare. Era una caccia
molto vivace che serviva per alimentare l’industria della conservazione del
pescato. I fenici commerciavano in tutto il mediterraneo, e avevano bisogno di
prodotti conosciuti e certificati per aumentare le esportazioni. Quando Roma
era ancora un villaggio, Sant’Antioco commerciava con tutto il Mediterraneo,
dall’Atlantico fino al Vicino Oriente.
La situazione portuale
dell’epoca ci mostra una morfologia abbastanza precisa dei luoghi nei quali le
navi approdavano, ma bisogna sempre tenere presente che la situazione cambiò
col passare del tempo, e la linea di costa continua ancora oggi a cambiare.
Alcuni porti non consentirono più alle navi di approdare in sicurezza e
dovettero essere spostati, come avvenne anche a Cagliari. Le navi fenicie erano
grandi, lunghe fino a 40 metri, e caricavano 10.000 anfore. I viaggi erano
difficili e molto lunghi e si prevedeva quasi sempre una permanenza di oltre un
anno lontano dal luogo di origine. Come tutti i marinai sanno, la terra è
nemica, e la navigazione a vela sotto costa non era l’ideale per quelle grandi
barche. Cercavano di navigare lontani dalle coste, così da avere più
possibilità di manovra. La costa sottovento era morte sicura, infatti la
maggior parte dei relitti si trovano proprio con la costa sottovento. Per
quanto riguarda i rapporti commerciali, c’è un bel racconto di Erodoto che dice
come i fenici si procuravano l’oro dalle popolazioni che non conoscevano.
Arrivavano in spiaggia, scaricavano le mercanzie, accendevano un fuoco e
risalivano sulle barche allontanandosi qualche miglio dalla costa. Gli indigeni
vedevano il fumo, scendevano in spiaggia, controllavano le mercanzia, mettevano
un corrispettivo in oro e rientravano verso l’interno del villaggio. I fenici
rientravano, controllavano se la quantità di oro era sufficiente per le merci e
concludevano l’affare. Se l’oro non era sufficiente, si allontanavano senza
prenderlo, così che gli indigeni potessero aumentare l’offerta. La trattazione
generalmente si concludeva bene perché se uno scambio non funzionava i fenici
non sarebbero più ritornati in quel luogo, e il mercato finiva. I nuraghe sulla
costa non erano contro i fenici, ma contro le bardane di saccheggio avviate
dagli altri cantoni nuragici. La Sardegna non ha mai conosciuto una “unità nazionale”,
così come nessuno nel mondo antico. I fenici si riconoscevano nel “diritto
cittadino”, e non si consideravano fenici, ma appartenenti ad un popolo ben
preciso: di Tharros, di Sulki, di Cartagine, di Karalis…e sicuramente anche i
nuragici seguivano lo stesso sistema ed erano divisi fra cantoni.
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