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martedì 6 settembre 2011

L'Età del Ferro, nuragici e levantini si incontrano


Un’Età del Ferro in Sardegna
di Paolo Bernardini


Le parole di Alessandro Usai, scritte a margine di un incontro sul tema delle relazioni tra Nuragici e Fenici, rappresentano un significativo esordio per questo paragrafo: è questo, tra il Bronzo Finale terminale e almeno gran parte della Prima Età del Ferro (pressappoco tra il X e la metà dell’VIII a.C.), il periodo di massima occupazione degli insediamenti, di massima accumulazione di ricchezze nei santuari, di massimo sviluppo del ceto aristocratico che si pone alla guida del processo di ristrutturazione economica e sociale; questo è anche il periodo di massima fioritura delle produzioni artistiche e artigianali impiegate come offerte nei santuari per l’autocelebrazione e legittimazione dell’aristocrazia al potere. L’esame dettagliato di giacimenti stratificati e di contesti di materiale che, pur senza essere purtroppo ancora legati a stratigrafie, sembrano presentare caratteri di consistente omogeneità, consente ormai di definire, attraverso seriazioni formali e sviluppi di apparati decorativi, una base di cultura materiale nuragica che, ben lontana dall’essere in fase di estinzione, si distribuisce con chiarezza tra il IX e l’VIII a.C.; le indicazioni fornite dalle ceramiche si incrociano con le evidenze fornite dai bronzi figurati e d’uso, come è il caso delle fibule, e documentano vividamente la Sardegna del Ferro negli insediamenti di villaggio e nei grandi santuari indigeni. In una prospettiva più generale, questi quadri cronologici e culturali restituiscono pieno senso logico ai rapporti “internazionali” che uniscono l’isola con l’area levantina, villanoviana e atlantica e che si saldano, tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII a.C., con la creazione della rete mercantile fenicia in cui le comunità dell’isola – che a quanto pare non percepivano se stesse come post-nuragiche – assumono ruoli di spicco. L’operazione, ancora prevalente nel campo degli studi, di “concentrazione culturale” dell’intero sviluppo della civiltà nuragica all’interno dell’Età del Bronzo Medio, Recente e Finale mostra tutta la sua precarietà e debolezza. Sul piano dell’analisi formale e tipologica delle forme vascolari che segnano gli orizzonti del Ferro, il dato di maggiore interesse è la costante, talvolta prevalente presenza del repertorio inornato accanto ai manufatti decorati e, per questi ultimi, il graduale passaggio verso le forme decorativamente ricche e complesse della fase geometrica e orientalizzante. Un ulteriore dato, complementare e integrativo al precedente, è la constatazione di come il patrimonio formale della fine dell’Età del Bronzo si affacci nella nuova età senza che sia possibile segnare cesure nette di ambito né cronologico né tanto meno culturale. Per quanto non manchino proposte di quadri di sviluppo della cultura indigena fino all’età dell’arcaismo, peraltro molto discutibili in alcuni passaggi e connessioni, la bella “avventura” della civiltà nuragica nel Ferro si infrange, dopo aver finalmente superato il robusto ostacolo del Bronzo Finale, su un altro fiero baluardo: la fine dell’VIII a.C., data che segnerebbe la fine irrevocabile di questa esperienza culturale. Non vi sarebbero infatti nella cultura materiale finora conosciuta elementi evidenti di una continuità nel VII a.C.; anche sul versante “internazionale”, entro questa data si chiuderebbero i contatti e i contesti seriori (come nel caso delle navicelle nuragiche nelle tombe orientalizzanti etrusche) andrebbero considerati, per riprendere un’antica denominazione, “falsi contesti” in cui i materiali sardi si trovano in una costante situazione di tesaurizzazione. Il recente ritrovamento di una navicella nuragica nel corredo tombale di un personaggio socialmente eminente in territorio di Salerno, ben databile entro gli ultimi decenni dell’VIII a.C., costituisce viceversa una nuova evidenza dell’ovvio trapasso della produzione delle navicelle dall’uno all’altro secolo, peraltro documentabile dal semplice esame dei caratteri iconografici e stilistici dell’intera produzione bronzistica figurata sarda nel suo complesso. Vi è un caso, ancora più significativo, di sbarramento rigido alla fine dell’VIII a.C.: si tratta dei giacimenti di Su Cungiau ’e Funtà di Nuraxinieddu e di Su Padrigheddu in territorio di San Vero, a un centinaio di metri dalle poderose torri del nuraghe S’Urachi; i due siti, che presentano un’esemplare attestazione di ceramiche nuragiche “del Ferro”, sono anche interessati dalla circolazione di anfore di tipo fenicio (il cosiddetto tipo Sant’Imbenia) nel primo caso e delle stesse anfore accompagnate da red slip fenicia nel secondo. L’emporio indigeno di Sant’Imbenia produce anfore di questo tipo almeno dalla fine del IX a.C. nell’ambito della commercializzazione del vino della Nurra – originale joint-venture con i Fenici attirati dalla vivacità del mercato aperto nel golfo algherese –, ma questo tipo di contenitore è subito adottato e fabbricato in varie località dell’isola, nella regione sulcitana, in quella oristanese e lungo la costa orientale e gode di un’ampia fortuna sui mercati extrainsulari almeno fino alla metà del VII a.C.; la presenza del tipo nelle sequenze stratigrafiche cartaginesi, con concentrazione a Cartagine, picco di attestazioni tra il 760 e il 675 e proseguimento “a calare” tra il 675 e il 600 a.C., ne offre chiara e inoppugnabile testimonianza. Eppure, e in modo incomprensibile se non proprio a causa di un limite definito aprioristicamente, le anfore tipo Sant’Imbenia nei due siti citati dell’Oristanese si fermano all’VIII secolo a.C., mentre un ragionamento “logico” dovrebbe contemplare lo sviluppo della cultura materiale indigena in stretto collegamento con questi materiali entro il secolo successivo. I santuari dell’isola, peraltro, forniscono chiare evidenze della circolazione di materiali di pregio, assolutamente incompatibili con fasi di frequentazione sporadica in siti ormai abbandonati, nei secoli VII e VI a.C.: che siano le importazioni orientalizzanti e arcaiche attestate nel nuraghe-santuario di Nurdole di Orani, i leoncini che decoravano i vasi bronzei etruschi donati nel tempio di Su Monte di Sorradile e, di nuovo, l’attestazione delle fibule che, in questi contesti, non possono che riferirsi all’offerta di vesti alla divinità; difficilmente si potranno considerare sporadici e non invece da collegare a quadri omogenei di cultura materiale vivace e vivacissima, inopinatamente “congelata” all’VIII a.C., la coppa del nuraghe Su Igante di Uri, la brocca del nuraghe Ruju di Buddusò, i vasi in bronzo laminato del nuraghe Albucciu di Arzachena e di Sa Sedda ’e Sos Carros e, ancora, le brocche fenicie in argento ricordate dal nuraghe Nurdole e mai edite; e questa lista potrebbe continuare a lungo. Sulle componenti orientalizzanti della bronzistica figurata sarda, che rientrano pienamente in questi scenari, ho detto più volte altrove, e non è qui il luogo di riprenderne la problematica se non per osservare come alcune recenti attribuzioni al Bronzo Finale di questa produzione, derivanti da contesti di scavo come il pozzo di Funtana Coberta di Ballao o quello di Matzanni di Vallermosa o il tempio-santuario di Sorradile, e che vorrebbero in qualche modo avvalorare uno sviluppo della bronzistica figurata tutto contenuto tra il 1100 e l’850 a.C. circa, vengono ora seriamente discussi e ridimensionati.

Fonte: Tharros/Felix 4

Nell'immagine: L'arciere di Sardara

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