lunedì 24 gennaio 2011
Mercato del patrimonio archeologico
Vendere reperti archeologici ai privati: perchè no?
di Giovanni Lattanzi
La domanda mi passa per la testa da tanti anni, ma noto che nessuno in questo paese ha mai seriamente preso in considerazione, non dico l’ipotesi di attuare questa pratica, ma la semplice discussione sul tema, quasi che fosse una “bestemmia” il solo parlarne. Si parla di tutto, di discute dell’impossibile, si argomenta sulle cose più frivole e su questo argomento no? Perchè?
Partiamo da alcuni assunti.
Musei e magazzini
I musei nazionali, soprattutto quelli più storici e anziani, soffrono di una palese inadeguatezza sotto molti punti di vista. Se paragonati agli omologhi stranieri mostrano una distanza siderale in termini di fruibilità e gestione, ma anche di vitalità. Per contro, i loro magazzini sono stracolmi di reperti, per la maggior parte condannati a un sorta di beffardo destino a seguire la scoperta: tornati alla luce dopo secoli sotto terra, illusi di una riconquistata utilità, e riseppelliti nei sotterranei polverosi di qualche deposito. Materiali che, nella maggioranza dei casi, non hanno futuro. La capacità di turnazione nelle vetrine dei musei è minima, per cui è difficile che qualcuno di essi possa un giorno rivedere la luce. Molti di questi materiali, soprattutto i più poveri dal punto di vista scientifico, sono ancora da catalogare e spariscono a centinaia.
Fondi
L’archeologia nazionale, e in generale tutto il mondo dei beni culturali, soffrono di una perenne carenza di fondi, che si aggrava ogni anno per via dei tagli che si accaniscono sempre su questo settore, quasi fosse l’ultima ruota del carro. Comprensibile in un paese ottuso e ignorante, dove dal dopoguerra hanno trionfato i palazzinari e i pirati del soldo facile, gli spendaccioni di stato e i furbi della mazzetta. L’edilizia, l’industria, il commercio muovono fiumi di soldi, l’archeologia no. Dove si muovo fiumi di denaro ci possono essere tangenti, posti di lavoro, appalti; dove c’è micragna no. Ecco perchè la cultura, fatta salva qualche rara isola virtuosa e qualche filibusta dove si è capito che si possono fare tangenti e mazzette anche su musei e cantieri archeologici, langue nella miseria dell’elemosina nazionale.
Reperti
Nei magazzini dei musei ci sono due categorie di reperti, che possiamo classificare in base al loro valore scientifico, ma anche sulla scorta di considerazioni più basse, quasi “antiquarie”, ossia il loro valore materiale, economico per capirci. Vi sono certamente statue, teste, vasi, monete rare, mosaici, ma vi sono anche centinaia di migliaia di “cocci”, ossia frammenti sparsi non ricomponibili, di vasellame frammentato e incompleto, di monete comuni, di mattoni, tegole, lacerti di intonaco. Mi domando: una volta catalogati e studiati questi materiali che valore oggettivo conservano? Un piede di anfora, una volta che è stato accertato dov’era, com’era, come è fatto, quanto è grande, di cosa è fatto, ed è stato disegnato e fotografato, a che serve? È fondamentale per la scienza che resti a impolverarsi in una cassetta nel sotterraneo di un museo o un magazzino? Che differenza farebbe se fosse nella vetrina di una casa privata?
Poi vi sono i “reperti nobili”, quelli che per una serie di motivi sono da considerare rilevanti, antiquariamente parlando si direbbe “di valore”. Vasi, anfore, vetri, statuette, ex voto, lembi di mosaico, porzioni di pitture murali, ma anche teste, parti di statue, elementi architettonici, persino intere statue. A che pro tenerle in magazzino? Nessuno può ammirarle, nessuno può fruirne, chi doveva studiarle dovrebbe già averlo fatto da tempo e se non lo ha fatto è in difetto.
Ovviamente le amministrazioni dovrebbero stilare una lista di beni inalienabili - una lista onesta, ragionata e seria - di quei reperti che sono ritenuti di interesse nazionale e che non possono essere trasferiti a privati.
Vendita
Cosa osta a ipotizzare una svolta “commerciale” a questa situazione di stallo? Ma chiedo di più: cosa impedisce di parlare, e persino di pensare, una soluzione in questo senso? Quale misterioso patto di silenzio avvolge tutti gli addetti al settore e tutti i politici? Immaginiamo che lo stato decida di cambiare rotta: viene resa possibile la vendita dei reperti.
I privati possono acquisire i reperti di minor scarso o comunque minor valore scientifico e oggettivo, mentre quelli più importanti vengono riservati ad acquirenti come aziende, enti e fondazioni. Se un privato, portando in casa propria l’oggetto lo sottrae alla pubblica visione, l’ente, l’azienda o la fondazione, assume invece l’obbligo di renderlo sempre e comunque visibile. Il vincolo della non esportabilità tutela in maniera granitica la permanenza in Italia dei reperti. Per garantire agli studiosi e all’amministrazione la tracciabilità dei reperti è sufficiente una banca dati nella quale viene archiviato l’acquirente, e vengono aggiornati ulteriori successivi trasferimenti.
L’acquirente sottoscrive quindi un documento nel quale accetta delle clausole precise:
* obbligo della tracciabilità, ossia rendere sempre noti e registrare i successivi eventuali passaggi di proprietà, in maniera tale che lo stato sappia in qualsiasi momento dove si trova il reperto
* obbligo della fruibilità, in maniera che uno studioso possa sempre esaminare il reperto qualora ne abbia esigenza
* obbligo della visibilità, ossia riconsegnare temporaneamente il reperto per mostre ed esposizioni
* obbligo della conservazione, garantendo le dovute accortezze per una sua perfetta custodia
* obbligo della rivendita, ossia il riconoscimento del diritto di prelazione allo stato per l’eventuale riacquisto del bene, al prezzo di vendita con gli interessi di legge
Vantaggi
I vantaggi di una simile operazione sono evidenti:
* riduzione del carico di conservazione e custodia per i magazzini e i musei, con relativa riduzione dei costi specifici
* diffusione capillare del patrimonio culturale, che entrerebbe di fatto in migliaia di case, ma soprattutto di uffici, aziende, banche (immaginiamo solo che le grandi banche acquistino reperti da esporre nelle loro filiali e sedi principali. Una teca blindata in una banca non è certamente più sicura e parimenti visibile rispetto a quella di un museo?)
* guadagno in termini banalmente economici per lo stato e soprattutto per i musei che hanno in carico i materiali
Questa soluzione sarebbe inoltre motore di due conseguenze di enorme importanza: la fine dei tombaroli e l'emersione del sommerso.
Da un lato permetterebbe di debellare tombaroli e commercianti clandestini, poiché la possibilità di avere un reperto in maniera legale renderebbe inutile il rischio della via illecita; dall’altro porterebbe alla luce una messe inimmaginabile di reperti: tutti quelli che sono attualmente custoditi clandestinamente nelle abitazioni private.
Immaginiamo infatti che una simile svolta nella gestione del patrimonio culturale sia accompagnata da una sorta di “sanatoria”, parola brutta ma utile. Chi possiede un reperto archeologico detenuto illegalmente potrà regolarizzare la sua posizione svelandone il possesso, autorizzando la soprintendenza a documentarlo e catalogarlo facendolo inserire nella banca dati dei reperti in possesso di privati, versando allo stato una somma, congrua ma non assurda, una sorta di acquisto postumo. Quanti archeologi potrebbero essere assunti per portare a compimento il lavoro di documentazione, studio e archiviazione del patrimonio archeologico privato? Pagati con quali soldi? Con quelli versati dai privati per la regolarizzazione.
Parliamone. Tutto questo è ovviamente solo una ipotesi partorita da un giornalista che si occupa di archeologia da vent’anni, non da una commissione di esperti. Ma mi domando, perchè in Italia non si può parlare di questo? Perchè una simile ipotesi è considerata un tabù?
Fonte: Archeorivista
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