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mercoledì 1 dicembre 2010

Oriente e Occidente 2° e ultima parte

Gli indoeuropei nell'antica Cina
di Giovanni Monastra
da «Percorsi», anno III (1999), n. 23

Altri studiosi, come Hans Günther, già diversi decenni addietro avevano avanzato alcune ipotesi ben articolate e supportate con dati di un certo rilievo, attribuendo a queste penetrazioni di popoli indoeuropei l'introduzione dell'agricoltura fra le tribù nomadi dell'Asia Centrale alla metà del II millennio e mostrando come l'agricoltura si espanse nell'Asia centrale parallelamente al diffondersi di popolazioni di stirpe nordica.
La stessa introduzione del bronzo in Cina sembrò riconducibile alle invasioni indoeuropee, tanto da far supporre che agli inizi della storia cinese sia da porre un'invasione del popolo dei carri da guerra, cioè di un popolo proveniente dal lontano Occidente. Va detto che i sinologi oggi riconoscono l'estrema importanza della lavorazione e del commercio del bronzo nello sviluppo della società nell'antica Cina (Nota 7). Altrettanta importanza viene riconosciuta, ormai da più parti, alla introduzione di certe tecniche agricole e del carro trainato dai cavalli.

Anche gli studi di Günther sul parallelismo tra la presenza di popoli biondi e la diffusione della cultura indoeuropea in Asia, nonostante siano stati demonizzati, meritano attenzione nelle parti ancora valide. Così pochi amano ricordare che nell'oasi di Turfan, situata nel Turkestan cinese dove vivevano i Tocari, si possono vedere ancora affreschi in cui questo popolo viene raffigurato con tratti nettamente nordeuropei e con i capelli biondi (Nota 8). E' una riconferma della attendibilità degli annali del Celeste Impero.
Non si può, quindi, negare una certa concatenazione degli eventi, per quanto, fino a pochi anni fa mancavano prove più dirette e convincenti di insediamenti indoeuropei molto antichi, nell'area asiatica di cui stiamo parlando, cioè insediamenti avvenuti all'epoca delle grandi migrazioni arie verso Oriente (II millennio a.C.) prima che si manifestassero certi aspetti della civiltà cinese.
Dicevamo, appunto, fino a pochi anni fa, ma...
Nel 1987 Victor Mair, un sinologo della università della Pennsylvania, durante la visita nel museo della città di Ürümqui, capitale della regione autonoma del Xinjiang, vide qualcosa che gli provocò uno shock. Si trattava dei corpi mummificati, per cause naturali, di una famiglia: un uomo, una donna e un bambino di due-tre anni. Si trovavano dentro una teca di vetro. Erano stati rinvenuti nel 1978, nella depressione di Tarim, a sud del Tian Shan (le Montagne Celesti), in particolare nel deserto del Taklimakan (un posto ospitale, a giudicare dal significato del suo nome: "entra e non ne verrai più fuori").
Alcuni anni dopo, Mair dichiarava al redattore del mensile americano Discover: "Ancora oggi sento i brividi pensando a quel primo incontro. I cinesi mi dissero che quei corpi avevano 3.000 anni, ma sembravano essere stati sepolti ieri" (Nota 9). Ma il vero shock venne quando lo studioso guardò da vicino i loro volti. In acuto contrasto con le popolazioni asiatiche, di stirpe cino-mongolica, questi corpi mummificati presentavano degli evidentissimi caratteri somatici di tipo europeo, addirittura nordeuropeo. Infatti Mair notò i loro capelli, ondulati, biondi o rossicci, i nasi lunghi e stretti, l'assenza di occhi a mandorla, le ossa lunghe (la loro struttura longilinea contrastava con quella tarchiata delle popolazioni gialle). Lo stesso colore della pelle, mantenutosi incredibilmente quasi intatto nei millenni, gli appariva quello tipico di una popolazione bianca. L'uomo presentava un fitta barba, carattere del tutto assente tra le popolazioni gialle.
Le tre "mummie" (sarebbe più corretto dire: corpi disidratati dal clima fortemente secco e preservati dalla alta percentuale di sali del terreno che hanno impedito la crescita batterica) costituivano gli esempi rappresentativi di una serie di poco più di un centinaio di individui che i cinesi avevano dissotterrato nelle zone circostanti. Dalle datazioni con il radiocarbonio (Nota 10), eseguite negli anni precedenti dai ricercatori locali, era risultato che questi corpi avevano una età compresa tra i 4000 e i 2300 anni. Quindi ciò induce a pensare che la popolazione di cui erano parte visse e prosperò a lungo in quelle zone, la cui natura nel lontano passato doveva essere più ospitale (sono stati trovati numerosi tronchi secchi di alberi).
Anche il corredo funebre e il vestiario di queste "mummie" è assai interessante. Ad esempio: la presenza di simboli solari, come spirali e svastiche, raffigurate nei finimenti dei cavalli collegano ancora una volta, sotto il profilo culturale, queste genti con gli antichi Arii.
Il materiale usato per i vestiti è la lana, che fu introdotta in Oriente dall'Occidente. Il "popolo delle mummie" conosceva bene l'arte della tessitura: non solo perché sono state trovate molte ruote da telaio, ma anche perché le stoffe rinvenute hanno una eccellente fattura. A testimonianza dei rapporti con il Celeste Impero si può portare poi un dato: la presenza di una piccola componente di seta negli indumenti più recenti (dopo il VI a.C.), evidentemente acquisita dai Cinesi. Gli articoli di vestiario nella maggior parte dei casi dimostrano stretti rapporti con le culture indoeuropee occidentali e includono giacconi ornati e foderati con pelliccia, pantaloni lunghi.
Più rilevante è il ritrovamento, in una tomba, di un frammento di tessuto incredibilmente identico ai "tartans" (Nota 11) celtici trovati in Danimarca e nell'area della cultura di Hallstatt in Austria, sviluppatasi oltre la metà del II millennio a.C., quindi in parte contemporanea alla popolazione "bianca" del Xinjiang. Se si ipotizza che costoro furono i progenitori dei cosiddetti Tocari (o furono i Tocari tout court), questo dato si accorda bene con quanto detto in precedenza circa le similitudini tra la lingua celtica e quella degli Indoeuropei del Turkestan cinese: i due dati si rinforzano a vicenda.
Una ulteriore nota di interesse deriva da un copricapo a punta, con larghe falde, definito scherzosamente "cappello della strega", indossato da una mummia di sesso femminile, risalente a circa 4000 anni fa: è molto simile a certi copricapo usati dagli Sciti, popolo ario di guerrieri della steppa, ma si possono trovare anche raffronti nella cultura iranica (si pensi ai cappelli dei Magi).
Erano agricoltori, come dimostra la presenza di sementi nelle borse e avevano rapporti con popolazioni che vivevano sul mare, dato che sono state trovate numerose conchiglie di molluschi marini.
L'estrema rilevanza di questi reperti ha indotto a eseguire alcuni studi antropologici (principalmente di antropometria classica), condotti da Han Kangxin, dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali di Pechino, che hanno confermato quanto già a una prima occhiata risultava evidente: in molti casi le loro proporzioni corporee, dal cranio alla struttura generale dello scheletro, sono incompatibili con qualsiasi popolazione asiatica "gialla", mentre si inseriscono pienamente nei valori consueti degli europei, specie nordici.
Tramite la cosiddetta archeologia genetica, è stato possibile ottenere dati ancora più sofisticati, per chiarire ulteriormente le origini e le parentele di questo popolo misterioso. La tecnica, abbastanza recente, si basa sul raffronto del DNA mitocondriale (Nota 12) di varie popolazioni che si vogliono confrontare per valutare la distanza genetica. Uno dei vantaggi risiede nel fatto che si può analizzare anche il DNA di individui morti da molto tempo, naturalmente stando molto attenti a evitare eventuali contaminazioni derivanti dall'ambiente (es. batteri) e dalla manipolazione dei campioni. L'archeologia genetica risulta, quindi, utile per creare un collegamento, a livello molecolare, tra l'antropologia fisica e la genetica delle popolazioni.
I primi test, eseguiti dal ricercatore italiano Paolo Francalacci dell'Università di Sassari, hanno ulteriormente confermato l'appartenenza degli individui analizzati alle popolazioni del ceppo indoeuropeo, in quanto il DNA mitocondriale, estratto e tipizzato, è risultato appartenente ad un aplogruppo frequente in Europa (apl. H) e praticamente assente nelle popolazioni mongoliche (Nota 13). Purtroppo le autorità di Pechino hanno permesso di analizzare solo pochi campioni per cui rimane ancora molto da studiare, ammesso che ciò sarà possibile in futuro.
Da ultimo va notato come gli attuali abitanti del Turkestan cinese, gli Uyghuri, mostrano dei caratteri somatici misti, dove i tratti europoidi si uniscono a quelli asiatici, secondo quanto ci si potrebbe aspettare da una situazione dove stirpi assai diverse si sono incrociate formando un nuovo popolo. Non a caso le autorità di Pechino temono che la dimostrazione dell'esistenza di ceppi "bianchi" tra i fondatori dell'etnia uyghura porti al rafforzamento della loro identità culturale e allo sviluppo ulteriore delle già presenti aspirazioni indipendentistiche, violentemente anticinesi. E questo contribuisce a spiegare certi comportamenti di aperto boicottaggio verso le ricerche condotte da Mair e dai suoi collaboratori.
In conclusione ci sembra evidente che l'ampiezza, la solidità e la coerenza dei dati ottenuti supporta l'intuizione di quegli studiosi, a lungo ignorati, che avevano avanzato l'ipotesi di un contributo esterno alla formazione della civiltà cinese, contributo dovuto a stirpi arie alle quali, dopo la scoperta delle "mummie", si tende a far risalire l'introduzione diretta, e non mediata, del bronzo e di altre importanti acquisizioni nella Cina arcaica.
Ad esempio, Edward Pulleyblank ha sottolineato di recente che "esistono segni indubbi di importazioni dall'Occidente: grano e orzo, per quel che riguarda le coltivazioni di cereali, e, ancor più di rilievo, il carro trainato dai cavalli... sembra molto probabile che uno stimolo, proveniente da Occidente, abbia svolto una funzione importante nella nascita dell'età del bronzo in Cina" (Nota 14). Naturalmente tutto ciò non toglie originalità alla grande cultura del Celeste Impero, ma evidenzia alcuni aspetti fondamentali della sua genesi e del suo sviluppo, riconoscendo il giusto ruolo giocato dagli antichi migratori provenienti dall'Europa.

Note

Le immagini sono tratte dalla rivista "Discover", 15/04/1994.
7- Jacques Gernet, La Cina Antica, Luni, Milano 1994, pp. 33-4.
8- Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, Popoli e Lingue, Adelphi, Milano 1996, p. 156.
9- Discover, 15, 4, 1994, p. 68.
10- Il metodo del radiocarbonio (14C) si basa sul fatto che in ogni organismo vivente, oltre al normale atomo di carbonio (12C), si trova anche una certa quantità del suo isotopo, il radiocarbonio, che decade in modo costante diventando un isotopo dell'azoto. Mentre il rapporto tra 14C e 12C rimane stabile quando l'organismo è in vita, ciò non avviene più alla sua morte in quanto si osserva un decadimento costante che comporta la progressiva scomparsa del radiocarbonio che si dimezza ogni 5730 anni. Quindi in un campione è sufficiente conoscere il rapporto tra i due isotopi per poter calcolare gli anni intercorsi dalla morte dell'organismo. Un limite del metodo consiste nel fatto che non può essere usato per reperti che hanno più di 70000 anni.
11- Archaeology, Marzo 1995, pp. 28-35. Il "tartan" è la tipica stoffa dei plaid scozzesi. Per un approfondimento dei vari aspetti legati alla tessitura e al vestiario di questo popolo rimandiamo a un eccellente ed esaustivo testo, ricco di comparazioni con le aree europee: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, W. W. Norton & Company, Inc., New York, 1999.
12- I mitocondri sono organuli presenti nelle cellule degli eucarioti (dai funghi ai mammiferi), talora anche a decine di migliaia. Solo queste strutture, a parte il nucleo cellulare, contengono il DNA, molecola-base della trasmissione ereditaria, ma il loro DNA è molto più piccolo di quello nucleare (200000 volte più corto): serve unicamente per la sintesi di proteine necessarie a questi organuli. Va comunque ricordato che al momento della fecondazione sembra che solo la madre trasmetta i mitocondri alla prole.
13- Journal of Indo-European Studies, 23, 3 & 4, 1995, pp. 385-398. 14- International Rewiew of Chinese Linguistics, I, 1, 1998, p. 12. Vedi anche: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, cit..

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