lunedì 30 agosto 2010
Navi fenicie e puniche - Marco Bonino
Navi fenicie e puniche
di Marco Bonino
Sono stati rinvenuti alcuni relitti, che permettono di inquadrare alcuni aspetti tecnici delle imbarcazioni mediterranee orientali e puniche. Gli scafi arcaici, fin dal Bronzo, erano costruiti a partire dal guscio di fasciame, che era realizzato mediante tavole sagomate e piegate, cucite con legature. Solo dopo avere ottenuto la forma del guscio, si inserivano le strutture interne per garantire la forma e la consistenza dello scafo. A partire dal XIV a.C. le legature fatte di funicelle cominciarono ad essere sostituite da linguette di legno fermate da cavicchi: un miglioramento del sistema di fissaggio, che non cambiava la concezione del guscio portante, ma ne migliorava la robustezza. Nel passaggio dalle legature ai fermi, che diverranno comuni nel periodo classico e romano, sta uno degli argomenti maggiormente dibattuti e studiati dall’archeologia navale. Abbiamo citazioni da parte di Omero, che nell’Iliade ricorda le cuciture (II, 139) e nell’Odissea le biette (V, 240): siamo attorno al IX a.C.; la documentazione archeologica conferma che il cambiamento della tecnica fu un processo lento, che si protrasse fino a tutto il V a.C. con soluzioni miste (da Mazarron in Spagna, del VII a.C., ai relitti del V a.C. di Gela, Marsiglia, Magam el Michael in Israele). In questo processo probabilmente i Punici ebbero una parte, come ci dice Catone il Censore (L’agricoltura, XVIII, 9), quando chiama poenicanum coagmentum (assemblaggio punico) la giunzione con il sistema delle biette fermate da cavicchi, o tenoni e mortase. Si deve supporre che le costruzioni navali fenicie avessero seguito questo percorso, ma non abbiamo la possibilità di attribuire una nazionalità precisa ai relitti. La scarsezza delle nostre conoscenze non ci permette perciò di confermare la teoria secondo cui le navi fenicie fossero superiori alle altre (egizie in particolare) perché avevano la chiglia piuttosto che il fondo piatto. Il relitto di Ulu Burun mostra la presenza di chiglia nel XIV a.C. ma nulla possiamo dire sulla sua nazionalità: poteva essere cipriota, dell’Asia Minore, cretese, egea, siriana o fenicia: il carico di pani di rame e di vasellame non dà indicazioni sul luogo di costruzione. Le prime immagini abbastanza leggibili di navi della zona siro-palestinese (e quindi anche fenicia) provengono dall’Egitto del Nuovo Regno e sono affreschi tebani della metà del XV a.C. Sono immagini generiche, ma il loro autore ha voluto annotare alcuni dettagli non egiziani, come i dritti verticali, la coffa sull’albero, una balaustra che pare a graticcio, ma gli altri elementi non si distinguono molto da quelli delle navi egizie: forse non era facile neppure allora distinguere i tipi diversi di navi. Sempre nel Nuovo Regno, le navi dei bassorilievi della tomba della regina Hatscepsut, che narrano le spedizioni nel Punt (Corno d’Africa), e che appaiono “tipicamente” egizie, erano chiamate navi di Biblo. Più tardi il rilievo di Medinet Habu, del tempio funerario di Ramesse III (circa 1180 a.C.), mostra le navi dei Popoli del Mare, che erano diverse da quelle egizie ed a più riprese sono state attribuite a vari popoli mediterranei, tra cui Shardana e Filistei; è proponibile una loro collocazione mediterranea grazie all’analogia con modelli e raffigurazioni micenee, cipriote e sarde. In seguito abbiamo le serie di modelli in terracotta ciprioti e fenici, databili dall’ VIII al V a.C. che illustrano forme diverse di barche e navi a vela ed a remi; tali modelli probabilmente erano offerte votive alle divinità e in alcuni casi confermano le forme rotonde e simmetriche, con i dritti alti e a volte rientranti, che si sono viste negli affreschi egizi. Dall’VIII a.C. provengono le raffigurazioni più note: i bassorilievi del palazzo di Sennacherib a Ninive e di Sargon a Korsabad, ove compaiono navi a due file di remi, con e senza sperone e navi mercantili ad estremità simmetriche, con e senza remi e con la prua ornata da una scultura a forma di testa di cavallo. Ma questi bassorilievi sono stati eseguiti generalmente non per descrivere le navi, ma per ricordare un fatto storico, inoltre in essi mancano la prospettiva e le proporzioni tra le parti e questo rende difficile proporre ipotesi di ricostruzione tecnicamente coerenti. Alcuni dei modelli votivi di terracotta provenienti dall’area mediterranea orientale, da Cipro all’Egitto e databili dal VII al V a.C., ci danno alcune indicazioni per questo periodo, per noi ancora incerto, di passaggio dalla bireme alla trireme (Erodoto, II, 159). Sono fasi simili a quelle percorse dalla marineria greca, ma con risultati diversi, come confermato dalle fonti letterarie e dalle più recenti monete di Arado e di Sidone (V-IV a.C.). Durante le guerre persiane le navi fenicie a remi erano pontate e più massicce di quelle greche (Erodoto, VII, 184; Plutarco, Temistocle, XIV, 2) e questo ha fatto supporre, tra le altre ipotesi, che in esse fossero impiegati più rematori per ciascun remo: su questo principio si ebbe lo sviluppo delle altre poliremi: le tetreri (quadriremi) e le penteri (quinqueremi), nel IV a.C. Si arriva alle soglie delle guerre puniche attraverso continui aggiornamenti delle navi a remi, dai pentekonteri alle poliremi, che hanno interessato sia il campo cartaginese, sia quello romano, sullo sfondo del grande sviluppo delle navi a remi di ambito ellenistico; i bassorilievi, i graffiti e le monete ci danno alcuni suggerimenti su questi passaggi in modo più realistico dei secoli precedenti, mentre gli scritti degli storici, pur essendo abbastanza dettagliati (Diodoro, Polibio e Livio), danno informazioni tecniche che vorremmo più precise. Le grandi linee di questa evoluzione, tra il V e il III a.C. possono essere riassunte con l’introduzione della pentere e della tetrere da parte dei Siracusani di Dioniso I, presto imitati dai Cartaginesi, i quali svilupparono ulteriormente queste imbarcazioni, tanto che la tetrere fu poi considerata una loro peculiarità. All’inizio della prima guerra punica la flotta cartaginese era composta da triremi, quadriremi e quinqueremi, mentre quella romana solo da triremi. Roma dovette sopperire all’inferiorità dovuta alla mancanza di quinqueremi, e Polibio racconta che i Romani presero a modello una quinquereme catturata ai Cartaginesi. Il racconto lascia molti dubbi, perché al primo scontro tra le due flotte la quinquereme romana era più lenta di quella cartaginese e quindi non poteva essere una sua copia. Certo i Romani non dovevano essere così sprovveduti da sbagliarsi: avevano quindi privilegiato l’esigenza tattica di imbarcare un numero maggiore di armati. Per una decina d’anni (dal 260 al 249 a.C.) non vi furono cambiamenti sostanziali: dopo la battaglia di Trapani e l’assedio di Lilibeo, le prestazioni della quadrireme di Annibale Rodio suggerivano ai Romani il cambiamento delle quinqueremi per ottenerne migliori qualità nautiche: con la nuova versione vinsero la battaglia finale, alle Egadi nel 241 a.C. e tali quinqueremi furono da allora raffigurate sulle monete romane. Quale sia stato il cambiamento è oggetto di ipotesi: probabilmente si passò da due a tre file di remi, per ottenere scafi più stretti e l’appartenenza della quadrireme di Annibale Rodio alla tradizione rodia-ellenistica pare confermarlo. Le navi mercantili non hanno avuto la stessa fortuna letteraria e figurativa, per cui è più difficile delinearne sia le fasi evolutive che la loro natura. Sono stati ricordati, tra i tipi navali mercantili di origine e tradizione fenicia, i gauloi e gli hippoi: il primo termine fu forse generico per qualsiasi nave mercantile di origine fenicia (Erodoto, III, 136, 1; VI, 17; VIII, 97, 1), le cui sole caratteristiche distintive potevano essere la capacità e la rotondità dello scafo. Il secondo termine in origine definiva navi che avevano una testa di cavallo scolpita a prua e, in alcuni casi, a poppa e per questo è stato attribuito giustamente ai tipi scolpiti nel palazzo di Sargon a Korsabad; le fonti letterarie sono più tarde e si riferiscono a tipi presenti nel Mediterraneo occidentale, forse una tradizione punica rimasta nelle vicinanze di Cadice (Strabone, II, 3. 4; Plinio, Storia naturale VII, 57). Ma come fossero state esattamente queste navi non è dato di sapere con precisione: nel V-IV a.C. nel Mediterraneo le navi mercantili subivano il passaggio definitivo dalla tecnica arcaica a quella classica, con un aumento delle dimensioni, documentato, ad esempio, dall’affresco della Tomba della Nave di Tarquinia e da alcune delle raffigurazione del tophet di Cartagine. L’unico elemento certo relativo alle tecniche costruttive puniche è dato dai segni alfabetici dipinti dai costruttori sullo scafo della nave di Marsala: sono segni di riferimento per allineare e montare correttamente le strutture sul guscio portante. La nave, ora esposta al Museo del Baglio Anselmi di Marsala, è stata interpretata come nave a remi, ma non ci sono prove in merito: è molto probabilmente legata ad uno degli eventi bellici delle prima guerra punica, dall’assedio di Lilibeo, alla battaglia di Trapani, a quella delle Egadi, ma la forma e la profondità della carena sono più adatte ad una nave a vela che ad una nave a remi e non sono stati rinvenuti elementi del sistema di voga. Certo la leggerezza delle strutture può suggerire un sistema misto, ma con i documenti a disposizione questo non può essere stabilito. La cosiddetta nave sorella, di cui è ricostruito il dritto di prua al Museo del Baglio Anselmi, poteva essere una nave a remi, certamente diversa dalla precedente e con un tagliamare a prua ma lo stato del relitto non ci permette di ricostruirne il tipo.
Nell'immagine navi in un affresco ad Akrotiri.
Link: http://users.libero.it/haris/Mykonos_Santorini/Thira/pix/Akrotiri/source/fresque-navires2b.htm
Il popolo di bronzo - Angela Demontis
Il popolo di bronzo
Tratto dal libro di Angela Demontis
Potrebbe capitarvi, in giro per la Sardegna, di imbattervi in una mostra itinerante presso i musei nella quale un’artista sarda, Angela Demontis, ha riprodotto l’abbigliamento dei bronzetti nuragici, dando ai modelli proporzioni umane, così da offrire ai visitatori le meraviglie e i segreti rimasti per secoli nello scrigno delle nostre nonne. I personaggi prendono vita e nella ricomposizione della società antica, uomini e donne di diverso ceto e mestiere, si offrono in visione, costituendo uno spaccato di vita vissuta dell’età del Ferro, strizzando l’occhio ai leggendari guerrieri dell’epoca del Bronzo, quando i temibili spadaccini shardana costituivano la guardia reale del faraone Ramesse.
Lo studio dell’esercito di bronzo ci mostra come dovevano essere abbigliate le persone in epoca nuragica, come una sorta di scatti fotografici dell’epoca. Attraverso l’analisi delle incantevoli statuette esposte nei musei si acquisiscono informazioni sul gusto estetico e sull’articolazione della società.
Il costume doveva essere identificabile da lontano e caratterizzava un gruppo etnico, lo stato sociale o il mestiere praticato. In alcuni casi è possibile notare analogie in abiti, armi o accessori, che testimoniano uno scambio culturale fra popoli diversi. Già Lilliu, nel 1966 nella sua opera “Sculture della Sardegna Nuragica” evidenziava le diverse influenze culturali e le specificità delle tribù.
Le statuette femminili raffigurano donne coperte dalla testa ai piedi con lunghe tuniche e mantelli, mentre gli uomini vestono abiti corti e indossano spesso bandoliere che sostengono pugnaletti ad elsa gammata. Lo studio delle armi acquisisce importanza per capire il ruolo dei personaggi. Allo stesso modo, il cromatismo simbolico ancora persistente nelle produzioni artigianali della tradizione sarda e gli affreschi che rappresentano personaggi dell’Etruria (in particolare a Tarquinia) mostrano le strette relazioni fra antichi sardi ed etruschi.
Altro elemento caratteristico della mostra è costituito dai copricapo maschili e femminili, di varie fogge e colori, nonché le acconciature che fuoriescono e mostrano una cura nei dettagli che suggerisce una maestria tecnica difficilmente raggiungibile anche ai nostri giorni.
Fra le rappresentazioni a grandezza naturale confezionate dalla Demontis, sono rimasto affascinato da tre personaggi: l’arciere che presenta l’arco di tipo piatto come nelle statue in arenaria e la placca pettorale di protezione, il “guerriero di Uta” e, pur non essendo rappresentato fra i modelli della mostra, il “pugilatore di Dorgali” (visibile nell'immagine), ambedue rappresentati anche nella grande statuaria in pietra di Monte Prama, pur se il primo è di difficile interpretazione in quanto l’armatura è priva di spada (si notano solo i decori incisi nel corpo a evidenziare le protezioni) ma gli elementi che sono inequivocabilmente attribuibili all’oplita sono lo scudo piatto, come i 4 da assemblare trovati a Monte Prama, e l’elmo con la cresta fornito di corna brevi rivolte in avanti, anch’esso fra i reperti di Monte Prama.
Per questo guerriero la Demontis riporta un passo descritto da Omero nell’Iliade che parla dell’imbottitura dell’elmo di Ulisse: “Merione…in capo gli pose un casco fatto di cuoio…di fuori denti bianchi di verro…lo coprivano…in mezzo era aggiustato del feltro”. La lana di pecora compressa e infeltrita era dunque d’uso in antichità per il rivestimento interno e, in alcuni casi, all’esterno vi erano denti di cinghiale, come nella testina in avorio esposta al museo di Cagliari.
Il pugilatore-corridore, come si nota nell’immagine, era armato di maglio metallico, un’arma micidiale sul campo di battaglia, particolarmente utile nel corpo a corpo.
Fra gli altri personaggi, spicca un guerriero che utilizza uno strano bastone angolato, realizzato in legno di castagno. L’arma, chiamata amat, quando veniva lanciata compiva una traiettoria parabolica, ma non tornava indietro come invece fa il boomerang. Queste armi sono ritratte in affreschi tombali egizi risalenti al 1930 a.C. (tomba di Amenemath della XII dinastia) e sono state ritrovate nel corredo funerario di Tutankamon (XIII dinastia) datate al 1340 a.C. Data la sua angolatura, l’arma poteva essere utilizzata anche nel corpo a corpo come mazza, per aggirare le protezioni dell’avversario oppure colpirlo alle gambe per farlo cadere. Questa mazza è citata in alcuni testi antichi, come la Metamorfosi di Ovidio: “Insegue il bersaglio in una corsa che non è guidata dal caso, e a volte torna indietro, insanguinata, da sola”, e Virgilio nell’Eneide ne attribuisce l’uso a popolazioni germaniche: “sono abituati a lanciare la cateia, alla maniera dei Teutoni”.
La concia e la lavorazione delle pelli era una delle attività principali delle popolazioni nuragiche. Pelle, tendini, corna, zoccoli venivano trasformati in manufatti di grande utilità. A queste lavorazioni era collegata la preparazione di sostanze collanti, a partire dagli scarti di macellazione e di scuoiatura dell’animale. C’erano anche collanti di origine vegetale, soprattutto le resine delle conifere, usate pure miscelate alla cenere per diventare pece. I collanti erano indispensabili per il fissaggio delle lame e per l’assemblaggio di utensili.
La filatura, la tessitura e la colorazione dei tessuti erano svolti dalle donne. Per confezionare mantelli, gonne e corpetti si usavano tessuti di fibra vegetale come il lino, l’ortica e la ginestra odorosa. Si maceravano le fibre per eliminare le impurità, si lasciavano essiccare e poi si spazzolavano con un cardo selvatico (cardatura) molto pungente per eliminare i grovigli. Pronte per essere filate, le fibre venivano attorcigliate e, con l’ausilio del fuso, trasformate in un filo ininterrotto che si usava direttamente per la tessitura o veniva colorato con sostanze vegetali ricavate da corteccia, radici o foglie. Il colore veniva fissato con mordenti, ossia urina, tannini, argilla o allume di rocca (solfato di potassio e alluminio). Quindi veniva tinto macerandolo in acqua calda o fredda insieme alla pianta sminuzzata. Dopo accurata asciugatura il filato era pronto per essere lavorato al telaio.
Il lavoro della Demontis è arricchito di un capitolo dedicato al legno, una delle materie prime più utilizzate dai popoli della preistoria, per la facilità di reperimento e la versatilità della sua lavorazione, che forniva manufatti per ogni attività della vita quotidiana. Dalle navi alle coperture delle capanne nuragiche, dai carri ai gioghi per buoi e ai traini, dalle armi (archi e frecce) ai manici delle zappe, asce e contenitori di varia natura, dai mobili alle cassapanche, dai telai agli oggetti di uso domestico, come mestoli, pale da forno e taglieri. Allo stesso modo i manufatti ad intreccio mostrano sapienza nella scelta delle fibre vegetali e maestria nella lavorazione. Raccolte, scorticate, essiccate e tagliate a strisce, queste fibre venivano intrecciate per fabbricare cordame e cesteria, una tecnica rimasta immutata nel tempo e usata ancora oggi dai nostri artigiani.
Nell'immagine un disegno dell'artista Angela Demontis: Il pugilatore
domenica 29 agosto 2010
Cronologia dei giganti di Monte Prama
Si è svolto ieri sera, nella splendida cornice del palazzo baronale Santjust, a Teulada, il convegno sulla datazione delle statue giganti di Monte Prama. Circa 200 appassionati e studiosi hanno seguito per oltre due ore e mezza la conferenza che ha chiarito alcuni nodi fondamentali della ricerca.
I relatori, Giovanni Ugas e Pierluigi Montalbano, hanno mostrato oltre 300 immagini sui dettagli dello scavo e del restauro, ma il nucleo del discorso ha riguardato le comparazioni fra i reperti portati alla luce a Monte Prama e gli innumerevoli manufatti ceramici e bronzei ritrovati nel Mediterraneo. Lo stile geometrico, la miniaturizzazione delle torri nuragiche e dei personaggi rappresentati nei bronzetti, la tipologia delle tombe sopra le quali si trovavano le statue e le varie funzioni attribuite ai materiali, hanno catturato l'attenzione del pubblico. L'associazione Is Sinnus, organizzatrice dell'evento, ha impreziosito la serata con una mostra di prodotti artigianali teuladini.
I punti fermi messi in evidenza dai relatori sono:
1) la cronologia è da inquadrare fra i primi anni del VIII a.C. e la fine dello stesso secolo.
2) i committenti erano sardi
3) i personaggi rappresentati erano posti lungo la necropoli a formare un viale.
4) le oltre 50 piccole torri sono un forte richiamo al simbolismo dei nuragici e costituivano la divinità sotto la quale le comunità sarde si riconoscevano.
Gli scavi hanno portato alla luce solo una parte delle sepolture e delle statue. Si pensa che la necropoli possa essere composta da oltre cento tombe (e altrettanti personaggi).
venerdì 27 agosto 2010
Studi sui giganti
Cronologia sugli studi riguardanti le statue di Monte Prama.
di Alfonso Stiglitz
L’aggressione oscurantista nei confronti dell’archeologia sarda non fa un buon servizio alla storia e all’identità sarda e non è giusta nei confronti di quegli archeologi e studiosi che hanno deciso di rimanere a lavorare qui (noi sardi) o di quelli che hanno deciso tanti anni fa di venire qui per lavorare, nonostante altrove siano possibili carriere e potere più grandi. Poi ci sono i capaci e gli incapaci, gli onesti e i disonesti, come in tutte le professioni, ma è una professione che costa fatica, anche dura, e non molte soddisfazioni, ancor meno economiche. E' più facile prendere scorciatoie e scrivere libri che solleticano.
Analizziamo la cronologia degli eventi più importanti che hanno approfondito la storia delle statue di Monte Prama:
Partiamo dal primo testo, quello di G. Lilliu, "Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica", Sassari, Gallizzi 1977.
Pubblica il rendiconto degli scavi sino ad allora eseguiti, le schede di tutti i pezzi rinvenuti e l’analisi. Si tratta di almeno 7 statue diverse individuate attraverso 5 torsi e 2 teste non pertinenti ai torsi, a questi si aggiungono frammenti di braccia e gambe, alcuni dei quali sono pertinenti alle 7 statue mentre per altri non si sa. La documentazione comprende 19 tavole fotografiche, per complessive 66 fotografie, di cui 36 sono relative ai frammenti di statue.
Il testo venne pubblicato come articolo all’interno della rivista "Studi Sardi" (una rivista che con un sapiente meccanismo di scambi è presente in molte biblioteche del mondo), rivista della "Scuola di Specializzazione in Studi Sardi dell’Università di Cagliari". Venne immediatamente edito sotto forma di libro e diffuso nelle librerie a poche migliaia di lire, quindi pienamente disponibile a chiunque volesse vedere le statue e saperne di più. Il libro è ancora visionabile nelle biblioteche . Le statue vennero presentate in molte conferenze nell’isola. Una di queste venne anche trasformata in un testo divulgativo e pubblicata, in sardo, dalla rivista "Sardigna antiga" nel 1983, sempre da Lilliu, con il titolo "Is gherreris nuràgicus de Monti Prama", con 5 foto di statue.
Nel 1979 e nell’1981 Tronchetti dà notizia dei suoi scavi in una prestigiosa rivista nazionale, "Studi Etruschi", portando a conoscenza dei ritrovamenti delle statue anche il mondo scientifico internazionale.
Nel 1980 esce l’articolo di Lilliu, "L’oltretomba e gli dei" all’interno del volume "Nur, La misteriosa civiltà dei Sardi", un volume voluto dalla Cariplo di Milano. Qui è edita la foto della testa più nota, quella con il copricapo con le corna.
Nel 1981 esce il volume sull’archeologia sarda dal titolo "Ichnussa, La Sardegna dalle origini all’età classica", pubblicato da Scheiwiller di Milano, in una prestigiosa collana editoriale. Il libro è consultabile nelle librerie, ma se ne può trovare ancora qualche copia in vendita.
Uno degli articoli è di Lilliu e si intitola "Bronzetti e statuaria nella civiltà nuragica". Si tratta di un ampio studio che finalmente permette un inquadramento di ampio respiro della produzione di bronzetti e statue, a cui vengono aggiunti i modellini di nuraghe e alcune sculture in pietra di teste di animale. Compaiono le prime immagini a colori delle statue, dei frammenti editi nel 1977. Anche qui si mette in pieno rilievo l’originalità della produzione nel panorama del Mediterraneo occidentale e si ribadisce la datazione all’VIII a.C.
Nel 1982 esce il volume, fondamentale, di Lilliu dal titolo "La Civiltà nuragica" che ha in copertina la testa di una delle statue e nel testo l’analisi e lo studio delle statue (il volume è scaricabile gratuitamente dal sito della Regione).
Nel 1985 si svolge a Milano una mostra dal titolo "La Civiltà nuragica, nuraghi a Milano", finalizzata appunto a far conoscere la nostra civiltà fuori dall’isola e nel catalogo edito c’è uno studio a firma di Bernardini e Tronchetti di inquadramento dell’arte nuragica. Tra le varie cose si segnala l’edizione delle foto delle statue e, soprattutto, di una ricostruzione grafica di due esse, il pugilatore e l’arciere, partendo da frammenti esistenti, con descrizione filologica delle parti esistenti e di quelle mancanti e ci si può rendere conto di come erano in origine.
Viene riconosciuta e pubblicata per la prima volta la testa di statua nuragica rinvenuta a Narbolia prima di quelle di Monte Prama, ma non riconosciuta prima per il grave stato di deterioramento. Ci sono anche le foto delle statue e la prima ricostruzione grafica.
Nel 1990 esce il volume "La Civiltà nuragica" che non è altro che la riedizione del catalogo della mostra di Milano.
Nel 1986 esce un libro, il secondo della serie, dedicato all’archeologia sarda, a opera dell’Università del Michigan, curato da Miriam Balmuth che iniziava allora a operare con degli scavi in Sardegna. Nel volume intitolato "Studies in Sardinian Archaeology, Sardinia in the Mediterranean", che portò la conoscenza della nostra archeologia in tutto il mondo, c’è un articolo di Tronchetti con il rendiconto dei suoi scavi a Monti Prama, anche lì con immagini e planimetrie e uno studio di Brunilde Sismondo Ridgway che analizza la posizione delle statue nell’arte mediterranea.
Potrei continuare a lungo, citare gli interventi di Bernardini che propende per una datazione più bassa o quelli di Santoni decisamente rialzista (Bronzo finale), mi limito a richiamare un volume di Lilliu del 1997, dal significativo titolo "La grande statuaria nella Sardegna nuragica", edito dall’Accademia dei Lincei, ancora acquistabile per una decina di euro, dove si può trovare tutta la bibliografia precedente e le recenti riletture di Tronchetti in italiano (Le tombe e gli eroi, considerazioni sulla statuaria di Monte Prama, edito in "Il Mediterraneo di Herakles", Roma, Carocci, 2005, € 23,00) e in inglese (Entangle Objects and Hybrid Practices: Colonial Contacts and Elite Connections at Monte Prama, Sardinia, nel Journal of Mediterranean Arcaeology 18.2, 2005, assieme a Peter van Dommelen).
Nel 2006, poi, si è tenuto a Sant’Antioco un congresso sul rapporto tra Nuragici e Fenici, seguitissimo da un pubblico di non addetti ai lavori (senza che nessun giornale ne desse alcun resoconto). In quella occasione ci fu un confronto tra alcuni studiosi e Tronchetti sulle statue e la loro cronologia.
Negli ultimi 4 anni c'è stata l'esplosione definitiva, con articoli in giornali, convegni, dibattiti e altro e, periodicamente le tv mandano in onda servizi e interviste che riguardano queste statue giganti.
Allora cosa è stato nascosto? Chi ha voluto oscurare la storia sarda? Certo non gli archeologi.
Fonte http://www.emigratisardi.com/old/Giganti-di-Monti-Prama-chiarezza.html
giovedì 26 agosto 2010
I Giganti incontrano Teulada
Giganti di Monte Prama a Teulada.
Si svolgerà sabato 28 Agosto a partire dalle 18 la serata organizzata dall'associazione culturale Is Sinnus, dedicata alle statue dei "Giganti di Monte Prama" presso i giardini del Palazzo Sanjust a Teulada.
La giornata sarà allietata da una mostra di prodotti artigianali locali e, a conclusione della giornata, dalla esibizione, in Piazza Fontana, di due gruppi musicali.
Per l'occasione presenterò un lavoro sulla cronologia delle statue, attestate fra 950 e 850 a.C. e attualmente in restauro a Li Punti.
Ospiti d'onore il Prof. Giovanni Ugas docente di preistoria all'Università di Cagliari e il Prof. Franciscu Sedda, docente di semiotica all'Università di Tor Vergata di Roma.
Per l'occasione la LUMS, Libera Universidade Mediterranea Sarda, ha concesso una copia di arciere gigante che sarà esposto nella Piazza principale della cittadina.
mercoledì 25 agosto 2010
Centro di restauro di Li Punti, i giganti di Monte Prama 2° parte
Una mattina a Li Punti - 2
La parete che accoglie le strutture ricomposte offre ai visitatori la possibilità di visionare nei minimi dettagli le sculture. Incisioni, bruciature, treccine, occhi disegnati dal compasso, corpetti e dettagli delle armature sono a portata di polpastrelli. Un lungo brivido mi percorre la spina dorsale: i corridori-pugilatori sono imponenti, sono molto più muscolosi degli arcieri. È evidente che si tratta di personaggi addestrati per il corpo a corpo. Gli arcieri, invece, sono modellati secondo i canoni delle tendenze attuali: taglia da sfilata di moda. Le gambe sono ben proporzionate, il corpo è dritto e l’eleganza che contraddistingue questa tipologia sembra scolpita da una bottega specializzata in silouette. I corridori sono massicci, mettono paura. Immagino che quando i tecnici riusciranno a ideare delle strutture in grado di reggere gli scudi inseriti sopra la testa la visione sarà maestosa. Sono i “veri” giganti di Monte Prama, i temibili guerrieri che proteggevano il territorio. Provate a pensare cosa poteva suscitare la visione di questi personaggi a chi si avvicinava alla zona nella quale erano posizionati. Se la loro funzione era quella di deterrente verso i malintenzionati…funzionavano a meraviglia. I committenti erano evidentemente ben consci di ciò che un combattente doveva cagionare: terrore e rispetto. Molto più lineari sono gli arcieri. Figure apparentemente esili a confronto con i mastodontici compagni d’avventura, e facevano dell’arco la loro micidiale arma da combattimento. I vestiti sono eleganti, ricordano le figure impresse nelle decorazioni del palazzo di Cnosso a Creta e in quello di Avaris, capitale degli Hyksos, nonché le raffigurazioni ammirabili nelle decorazioni delle ceramiche greche. I mitici minoici che hanno ispirato gli autori facendo gettare fiumi di inchiostro sui manoscritti antichi e moderni, e gli eroici micenei della guerra di Troia. Sarebbe sufficiente mostrare solo uno di questi magnifici personaggi per attirare una folla di visitatori, ma a Li Punti sono una trentina le ricostruzioni, compresi gli spettacolari nuraghe in miniatura, e ogni scultura è straordinariamente incastonabile nella storia della Sardegna antica. I mitici guerrieri immortalati nei bronzetti sono il completamento della rappresentazione di un popolo che occupò certamente un ruolo di primo piano nelle vicende del Mediterraneo del Bronzo e del Ferro.
L’orgoglio di essere sardo e di avere avuto la fortuna di nascere in questa isola misteriosa e paradisiaca mi fa dimenticare che al termine della visita dovrò sopportare almeno un paio d’ore di canicola estiva al rientro in città. Dopo le foto di rito, e i complimenti ai gestori di questa meraviglia architettonica che accoglie le statue, vengo rapito da alcune stanze adiacenti la grande sala dell’esposizione: i laboratori di restauro. Mi affaccio timidamente ad una delle porte e capisco in un istante il paziente e immenso lavoro che c’è dietro le quinte. Migliaia di frammenti piccoli come uova sono posati ordinatamente su banconi e minuziosamente contrassegnati con foglietti bianchi. Mani, piedi, pezzi di torcieri, scudi frammentati, braccia, piccole porzioni di colonne e altri particolari che solo l’infinita passione di chi lavora in questo centro potrà, forse, un giorno restituire ai proprietari, in paziente attesa di essere ammirati nella completezza, dopo 3000 anni di polveroso riposo, sballottati dagli aratri degli agricoltori e dimenticati su una necropoli utilizzata come discarica. Alcuni scudi sono a Roma per essere studiati, altri giacciono su forme arcuate, quasi completi ma privi degli attacchi per essere riposizionati sulle teste dei giganti. Non sfugge agli occhi attenti di appassionato una particolarità: 4 di questi scudi frammentati sono rotondi e piatti, ben differenti da quelli lunghi, arcuati e costolati dei corridori. Chiedo lumi alle esperte del centro di restauro e mi rassicurano.
Appartengono a 4 guerrieri che ancora non sono stati ricomposti, probabilmente spadaccini, identici a quelli rappresentati nei bronzetti e simili ai personaggi raffigurati nei rilievi di Medinet Habu in Egitto, la guardia reale del faraone. Inizio a sognare a occhi aperti, i mitici Shardana. I tecnici continuano a parlare ma non li ascolto più, volo con l’immaginazione in quei campi di battaglia orientali dove i carri si affrontavano in polverosi e fragorosi duelli, decretando la vittoria di uno dei contendenti e assegnandogli il dominio sui metalli e sulle vie di comunicazione. Ugarit, Qadesh, il delta del Nilo e tutti quei luoghi che hanno segnato le imprese dei misteriosi Shardana. È tardi, la mente rientra a Li Punti, e mentre il professor Ugas si trattiene a colloquio con la Boninu, ritorno nella sala espositiva per una veloce panoramica finale sulle statue e per immortalare qualche dettaglio da mostrare sabato al convegno di Teulada. Dovrò riorganizzare gli appunti perché le sensazioni, le ipotesi di funzionalità, i percorsi mentali fatti fino ad oggi, necessitano di qualche aggiustamento. Ringrazio per l’attenzione chi ha letto fino a questa riga e consiglio a tutti una visita al centro di restauro di Li Punti, merita un applauso per l’organizzazione, la cura espositiva, la competenza dimostrata e la disponibilità.
Le immagini mostrano l’interno della grande sala che accoglie le statue ricomposte.
Centro di restauro di Li Punti, i giganti di Monte Prama
Una mattina a Li Punti.
C’era caldo in città, e quando ho avviato il motore dell’auto già pensavo ai 250 km di asfalto rovente che avrei dovuto affrontare prima di arrivare a destinazione. Scorrendo la rubrica per trovare un volontario che dividesse con me gioie e pene di questo viaggio non ho avuto dubbi: il mio maestro di archeologia, il prof. Giovanni Ugas. Un uomo mosso da una passione tanto forte per l’argomento “Storia della Sardegna antica” che non avrebbe battuto ciglio sui 40° che ci avrebbero accompagnato per l’intera giornata. Avevo ragione. Dopo qualche minuto era al mio fianco, e già parlavamo di tombe a pozzetto, faretrine e matriarcato.
Attraversando l’isola si aprivano squarci di vita nei campi, con buoi e mucche che incuranti del sole a picco sulla loro pelle masticavano indisturbati il pasto quotidiano, e si facevano compagnia vicino ai muretti a secco. Campi arati erano in bella mostra, è evidente un migliore sfruttamento della risorsa idrica rispetto al recente passato, quando la mancanza d’acqua e il disinteresse dell’uomo per la dura vita in campagna provocavano desolazione e incuria nel paesaggio visibile dalla 131.
Ecco il nuraghe di Mogoro, le risaie di Oristano e le prime colline che richiedono un maggiore impegno nella guida. La temperatura continua a salire, ma i discorsi del professore abbreviano la percezione del tempo trascorso all’interno dell’auto. Una foto al Santa Barbara, una alle incantevoli vallate di Macomer ed eccoci davanti al Santu Antine. Ci osserva con la magnificenza acquisita nel tempo. È bellissimo, forse ancora più di quando fu edificato. Il gusto per le antichità non mi ha mai abbandonato e questi luoghi magici sono capaci di farmi dimenticare la quotidianità.
Troppo lontane le tombe di Sant’Andrea Priu, dobbiamo arrivare al centro di restauro alle 10.30, così mi raccomandò la gentile segretaria che rispose al telefono a Li Punti e fissò l'appuntamento.
In meno di mezz’ora la grande facciata in mattoni arancioni del laboratorio, e un poster che ritrae il volto di un gigante con i suoi occhi concentrici che ci osservano, sono davanti a noi.
Il parcheggio è piccolo ma ordinato, con gli ulivi che offrono ombra e profumo di Sardegna ai visitatori.
Ci accoglie una collaboratrice della D.ssa Boninu, spiegandoci che l’archeologa è impegnata con una delegazione di politici della provincia di Oristano. Il mio primo pensiero è che siano giunti per reclamare le statue in quel di Cabras, ma quando vedo quella donna minuta addomesticare con parole ferme il gruppo dei 6 giovanotti, apparentemente grandi e grossi, ma docili come agnellini, capisco perché è lei a guidare il centro di restauro.
Un breve cenno di saluto fra i due professori, Ugas e Boninu, e iniziamo la nostra visita in attesa di fare due chiacchiere con la piccola grande donna.
Percorso uno stretto corridoio si apre davanti a noi una visione inaspettata: una parete alta oltre dieci metri, sulla nostra destra, accoglie un manifesto a tutta lunghezza che simboleggia il panorama collinare nel quale le statue dei giganti dovevano fare bella mostra di se.
I giganti sono davanti ai nostri occhi, e ci osservano con interesse. Sembrano pensare: -Chi saranno questi nuovi visitatori? Riusciranno a capire chi siamo, quando siamo nati e chi sono i nostri padri?-
Domani la seconda parte.
Le immagini mostrano l’interno della grande sala che accoglie le statue ricomposte.
lunedì 23 agosto 2010
Ulisse
Ritrovato il palazzo di Ulisse a Itaca
Archeologi greci hanno annunciato di avere trovato i resti del palazzo di Ulisse ad Itaca. La notizia se confermata significherebbe la più grande scoperta archeologica degli ultimi decenni.
Il professor Atanasio Papadopolos, dell'Università di Ioannina, che ha guidato un'equipe di archeologi che da 16 anni compie scavi nel nord dell'isola, ha spiegato che il palazzo di grandi dimensioni ha una struttura simile a quella di altri edifici omerici scoperti in passato, fra cui quelli di Micene e Pylos. A confermare che quello ritrovato sarebbe effettivamente il palazzo di Ulisse, ha spiegato Papadopoulos, vi è il ritrovamento, nell'area dell'edificio, di una fontana che risale al 1300 a.C, il periodo in cui sarebbe vissuto l'eroe dell'Odissea tornato a casa dopo un lunghissimo viaggio alla fine della Guerra di Troia.
http://www.unionesarda.it/Articoli/Articolo/192833
Lunedì 23 agosto 2010
Purtroppo questo genere di notizie vengono accolte come scoop e messe in prima pagina, salvo poi essere smentite con un trafiletto in fondo alla pagina meno letta. Ovviamente si tratta di una bufala grande come una casa. Premesso che non voglio colpevolizzare lo staff di archeologi che ha lavorato allo scavo, ma come si può scrivere che in base ad una fontana del 1300 a.C. ritrovata nell'area si pensa al palazzo dell'eroe omerico?
E' sufficiente ribattere affermando che la guerra di Troia è avvenuta intorno al 1210 a.C., nel periodo durato circa 50 anni (1220-1170 a.C.) caratterizzato dalle invasioni dei popoli del mare, per smentire clamorosamente il ritrovamento.
Lo scavo a Itaca è, invece, importante e da approfondire con cura. Non bisogna ricorrere a falsi scoop per aumentare il valore dei ritrovamenti.
Ormai si abusa della credulità popolare, e chi dovrebbe filtrare queste notizie e diffonderle sotto la giusta luce ricorre alla fantasia e propone false verità.
Complimenti dunque agli archeologi e bocciati senza appello i giornalisti e i direttori che hanno acconsentito alla pubblicazione della sciocchezza.
Nell'immagine il quadro di Ugo Attardi "Ulisse uccide i Proci".
La Stele di Nora - 2° parte - scrittura dell'età fenicia
Altri studiosi hanno dimenticato d’inserire alcune lettere nell’alfabetario ricavabile dalla Stele (ad esempio Garbini). Altra interpretazione errata è stata quella del Moore-Cross nel 1984, avvenuta quattro anni dopo la pubblicazione del Dizionario Fenicio della Fuentes Estanol. La traduzione del Cross, cui attinge anche Barreca, viene proposta dal Rassu:
btršš (a Tarsis) wgrš h’ (ed egli li condusse fuori) bšrdn š (tra i Sardi) lm h’ šl (egli è adesso in pace) m sb’ m (ed il suo esercito è in pace) lktn bn (Milkaton, figlio di) šbn ngd (Subna, generale) lpmy (di re Pumay, ossia Pigmalione di Tiro).
L’ interpretazione che preferisco è, come ho già scritto, quella di Salvatore Dedola che sostiene che dal Dizionario Fenicio si estrae un testo lineare che è il seguente:
BT RŠ Š NGR Š H’ BŠRDN ŠLM H’ ŠLM SB’ (*) MLKTNBN Š BN NGR LPNY
Che significa:
(Questo è) il tempio principale di Nora che lui (il dedicante) in Sardegna ha visitato in segno di pace (o per compiere un voto sacrificale). Chi augura pace (o visita in segno di pace) è S,b’ figlio di Milkaton, che edificò Nora davanti all’isola (Capo Pula).
L’interlineare è:
bt (il tempio) rš (principale) š (di) ngr (Nora) š (che) h’ (egli) bšrdn (in Sardegna) šlm (ha visitato in segno di pace). h’ (Chi) šlm (augura pace) Sb’ (*) (è Sb’, cioè Saba, nome di origine berbera che si ritrova tra i Punici, ma è pure di origine cananea) mlktnbn (figlio di Milkaton) š (il quale) bn (edificò) ngr (Nora) lpny (davanti all’isola).
Se questa interpretazione è esatta nella Stele di Nora non si scrive di guerre o di eserciti contrapposti che depongono le armi, come sostengono il Cross e Barreca. Slm (Shalom in ebraico) è un classico motto di pace, non adatto a soldati che invadono terre altrui ed entrano nei santuari, per conto d’un supposto re Pigmalione, a violare religioni straniere.
Ai tempi della Stele di Nora i levantini erano di casa in Sardegna, almeno da un secolo, e sino ad oggi non c’è stato alcuno storico che abbia proposto che vi siano entrati con la violenza d’un esercito conquistatore. Si è sempre detto e scritto l’opposto, in armonia con quanto sappiamo da tutti gli storici greci. Saba pose la stele sul tophet su cui fece un sacrificio, un olocausto. Così recita la stele. Slm infatti non significa soltanto augurare pace ma anche compiere un atto pacifico, compiere un gesto rituale quale è appunto l’olocausto. Che poi l’olocausto sia stato operato sgozzando animali o bambini, resta materia d’interpretazione.
Il testo fenicio qui proposto ha tre lettere diverse rispetto al testo presentato dal Rassu. Le prime due lettere riguardano entrambe il nome di Nora (Ngr): nella seconda riga il traduttore ha sostituito N a W; nella settima riga ha preferito R a D (causa la grafia della stele poco perspicua). Alla ottava riga ha preferito N ad M (ipercorretto dal lapicida). Le tre lettere fenicie scelte consentono di avere dei riscontri nel Dizionario della Fuentes Estanol.
Peraltro è la stessa Fuentes Estanol a dare questo esempio, nel proprio Dizionario, proponendo spesso delle sostituzioni a causa di evidenti errori dei testi, forse causati dalla scarsa conoscenza della lingua o dell’alfabeto da parte dei lapicidi.
Nell'immagine una suggestiva inquadratura dal basso della Stele di Nora, prima del restauro. Oggi è in bella mostra al Museo di Cagliari, e consiglio a tutti gli amici blogger di andare ad ammirarla perché è possibile avvicinarsi fino a sfiorarla con le dita.
domenica 22 agosto 2010
Ci stiamo giocando la natura.
Raggiunto il giorno del superamento: l'umanità ha già terminato le risorse naturali dell'anno.
L'Earth Overshoot Day è arrivato. Con oltre quattro mesi di anticipo rispetto alla fine del 2010, l'umanità ad oggi ha già consumato tutte le risorse che la natura può fornire nel corso di un anno. Dall'acqua ai raccolti, fino al 31 dicembre prossimo si ricorrerà alle riserve. Saremo quindi nuovamente "in credito" per quanto riguarda la produzione di cibo, la neutralizzazione delle emissioni di anidride carbonica, ma anche la rigenerazione dell'acqua o la capacità di assorbire i rifiuti, che sono solo parte delle cose che la natura quotidianamente ci offre.
Ad annunciare la data del Earth Overshoot Day, il giorno del superamento, in cui la terra inizia a vivere al di sopra dei propri mezzi ecologici, è il Global Footprint Network, l'organizzazione internazionale che misura l'impatto dell'esistenza sulla natura. A misurare il numero massimo di giorni che la biosfera può approvvigionare in un anno è il rapporto tra l'impronta ecologica globale - un indice statistico di 150 Paesi che mette in relazione il consumo annuo di risorse ecologiche con la loro disponibilità - e la capacità della natura di rigenerarsi nel corso dello stesso arco di tempo.
Questo indicatore di sostenibilità ambientale precipita di anno in anno: nel 1987, primo anno in cui fu calcolato l'Earth Overshoot Day, il sorpasso avvenne con soli dieci giorni di anticipo rispetto alla naturale scadenza del 31 dicembre. Nel 1995 fu il 21 novembre mentre dieci anni dopo il pianeta andò in riserva già il 20 ottobre. Negli ultimi due anni l'Earth Overshoot Day è stato anticipato di un mese - da settembre ad agosto.
"Quando si esauriscono in nove mesi le risorse di un anno si dovrebbe essere seriamente preoccupati", afferma Mathis Wackernagel, presidente di Global Footprint Network. "La situazione non è meno urgente sul fronte ecologico- spiega Wackernagel - cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e carenza di cibo e acqua sono tutti chiari segnali di come non potremo più continuare a consumare a credito".
Redazione Tiscali, 20 agosto 2010
Non avevo previsto l'inserimento di post fra le due parti dedicate alla Stele di Nora, ma questa notizia, peraltro non nuova ne inaspettata, pone una riflessione: fino a quando continueremo a pensare che il mondo produce risorse come un pozzo senza fondo? Quando inizieremo a rimboccarci le maniche e URLARE ai governanti che la natura è una e solo una? Dobbiamo trattarla come facciamo col nostro corpo, senza pretendere più di quanto è lecito aspettarsi in cambio. Il medico ci raccomanda di evitare il fumo, le sostanze alcoliche, i cibi troppo grassi e di condurre una vita all'aria aperta. La nostra vita dipende dalle nostre abitudini...e la vita del pianeta segue le stesse regole. Il problema principale sta nella presa di coscienza che la Terra non è infinita e, soprattutto, che inquinare l'aria o l'acqua in India piuttosto che in Angola o in Texas (qualunque altra nazione non cambierebbe il significato del discorso) porterà a problemi in altri luoghi e altre nazioni fino...a chiudere il cerchio e uccidere il pianeta.
Personalmente ho da tempo iniziato una sorta di vita ecologica, priva di plastica, di oggetti inutili, di alimenti dannosi e di tutto ciò che il consumismo sfrenato consiglia, invece, di acquistare. Uso tovaglioli in tessuto e piatti in porcellana, utilizzo mezzi pubblici limitando l'uso dell'auto al minimo indispensabile e, oltre altre cento piccole azioni quotidiane, raccomando a tutti gli amici di cambiare qualche abitudine a vantaggio dell'ecosistema.
Considero amici i frequentatori di questo blog e, nel mio piccolo, desidero farmi portavoce di questo problema verso coloro che leggeranno queste righe.
Aiutiamo la natura...l'abbiamo presa dai nostri padri e abbiamo l'obbligo di salvaguardarla per le generazioni future.
Nell'immagine la spiaggia di Baunei.
sabato 21 agosto 2010
La Stele di Nora - 1° parte - scrittura dell'età fenicia
La Stele di Nora
Attualmente le fonti scritte più antiche sui sardi sono i documenti egizi ma la Stele di Nora è altrettanto importante perché in essa sono presenti le lettere SHRDN, testimoni che questo termine era presente in Sardegna già nel IX a.C. Il fatto che alcuni studiosi sostengano che la stele sia scritta in fenicio non dice che sono stati i fenici a chiamare così la Sardegna, anzi è più ragionevole pensare il contrario e cioè che quei navigatori levantini siano arrivati su un'isola che già nel IX a.C. si chiamava SHRDN. L'orientamento prevalente è che i Popoli del Mare venissero da est e poi, raggiunto l'Egitto, abbiano occupato le isole dell'occidente per cui la Sardegna e la Sicilia hanno questo nome da Shardana e Shekeles e gli Etruschi da Twrsha. In effetti nel XIII e XII a.C. quando la civiltà nuragica era nella sua massima esplosione non era possibile che dall'esterno arrivassero in Sardegna popoli che potessero sgretolare il sistema di fortificazioni e di occupazione del territorio della civiltà nuragica, inoltre sappiamo che la Sardegna in quegli anni era nel suo massimo fulgore di architettura e di cultura materiale mentre i grandi imperi del Mediterraneo erano messi in crisi dai popoli del mare.
D’accordo con Ugas, possiamo dunque affermare con certezza che gli Shardana vivessero nell’isola già alcuni secoli prima di riversarsi in oriente coalizzandosi con gli altri popoli del mare.
I documenti egiziani ci restituiscono un quadro molto complesso di quello che era il Mediterraneo in quel periodo. Abbiamo attacchi di popolazioni occidentali all'Egitto: i Lebush, i Meshwesh e altre popolazioni dal Nord Africa attaccano i faraoni. Viene da chiedersi perché potevano muoversi solo le popolazioni nordafricane. Questi popoli non vivevano vicino all'Egitto: i Meshwesh sono interpretati come i Maxwess di Erodoto che abitavano vicino al lago Tritonio in Tunisia, cioè di fronte alla Sardegna. I Sardi avrebbero potuto facilmente sbarcare in Tunisia e poi fare come i Meshwesh, procedendo a piedi verso l'Egitto.
Gli Egiziani non considerano mai i Lebush come uno dei Popoli del Mare ma le fonti egizie registrano questi attacchi dei Lebush e poiché ci sono rapporti tra i Lebush, i Meshwesh e gli Shardana perché dovremmo escludere l'ipotesi più ragionevole?
In passato le analogie tra sardi e Shardana avevano un grosso ostacolo perché non si capiva come e quando si fosse formata la civiltà nuragica. Il XIV a.C. sembrava troppo alto ma oggi quel secolo vede già una civiltà nuragica matura e sviluppata e quindi capace di produrre un notevole incremento demografico in Sardegna e un conseguente movimento migratorio. I soldati mercenari sardi in giro per il Mediterraneo preannunciano l'esigenza che i sardi avevano di spostarsi dalla Sardegna. In Egitto ci arrivavano a varie riprese, in continuazione: gli Shardana e le loro navi sono rappresentati dagli egiziani così come i sardi sono rappresentati dai bronzetti che mostrano un mondo mitico. Sono una documentazione dell'epopea dei sardi come il mondo eroico dei poemi omerici e gli oggetti dell'artigianato etrusco.
Abbiamo ancora tante lacune sulla storia antica della Sardegna. Molti studi sono stati fatti negli ultimi due secoli e tuttavia non conosciamo le sepolture fra VIII e VI a.C. Abbiamo solo pochi dati. Non conosciamo abitati di interi periodi. Abbiamo pochissimi dati sui templi e questa carenza coinvolge anche la scrittura perché si scriveva sulle pietre dei sepolcri o in contesti sacri, quindi non dappertutto. Sono stati fatti molti passi avanti grazie a tanti studiosi illustri: Spano, Taramelli, Lilliu e altri, ma ci mancano tanti tasselli per capire la storia sarda.
Abbiamo pochi dati sul periodo tra il XVI e il XIV a.C., sui protonuraghe per esempio. Ugas conta oltre 8000 nuraghe e 3000 abitati nuragici, alcuni come Barumini, altri più piccoli e altri più grandi. Abbiamo scarse informazioni sulla consistenza, sulla cultura materiale, sull'architettura e sulla vita di questi abitati.
Attraverso il nostro patrimonio culturale capiamo che i cambiamenti che hanno interessato la Sardegna nei secoli sono legati alle altre civiltà mediterranee e ciò che univa i popoli del Mediterraneo era il mare, elemento di comunicazione e non di divisione. Inoltre le vie terrestri non erano sicure: certe popolazioni sacrificavano gli stranieri e forse era meglio non incontrarle sul proprio cammino, meglio andare per mare.
Ma ritorniamo alla lettura della stele dicendo che questo poderoso manufatto in pietra risale almeno al IX a.C. e rappresenta il più antico documento scritto della storia occidentale dopo le tavolette in bronzo nuragiche scritte di Tzricotu, rinvenute a Cabras nel 1995, risalenti al XII a.C.
Comunque, la Sardegna vanterebbe il fatto di aver posseduto, in periodo cosiddetto nuragico (Bronzo Finale), un codice di scrittura molto prima degli Etruschi, dei Romani e dei popoli italici. La stele fu ritrovata in un muretto a secco vicino alla chiesa di Pula, nella costa sud della Sardegna a circa 40 km da Cagliari. Pula rappresenta il moderno centro urbano che trae origine dall'antica città di Nora, una delle prime città Sardo-levantine. Visibile al Museo Archeologico Nazionale, la stele ci svela il primo scritto fenicio mai rintracciato a Ovest di Tiro.
Qualcuno sostiene che i nuragici non scrivevano in base a considerazioni legate all’ipotesi di una civiltà isolana barbarica, non mercantile, non dipendente da una economia di largo respiro mediterraneo. Una civiltà ritenuta isolata perché isolana, di cultura rozza e brillante nello stesso tempo, ma di una marginale terra dell’Occidente del Mediterraneo.
Riflettiamo su ciò che attualmente propongono le fonti.
L'epigrafe recherebbe scritto b Trss (in Tartesso) e b srdn (cioè in Sardegna), o farebbe riferimento al popolo degli Shardana che popolavano la Sardegna nel Bronzo e che facevano parte della coalizione dei Popoli del mare, quelli che posero fine nel 1200 a.C. ai grandi imperi del passato.
Secondo alcuni studiosi il contenuto della stele non riguarderebbe Tartesso, mitica città andalusa mai trovata, ma Tharros città nella quale, così come a Corras/Cornus, era venerato un Dio denominato AB SRDN (padre signore o giudice). Si potrebbe ipotizzare, in alternativa, che Tartesso e Tharros siano la stessa città.
Il documento quindi, per quanto scritto in fenicio, non sarebbe fenicio ma riguarderebbe il Sardus Pater dei nuragici. Ciò sembra dimostrare, insieme ad altri documenti, un coccio nuragico rinvenuto in Orani (prov. di Nuoro) negli anni Novanta che contiene la stessa tipologia di scrittura e lo stesso contenuto sintattico e lessicale, e ancor di più un ciondolo, rinvenuto nell’estate 2008 in territorio oristanese, che reca in scrittura fenicia arcaica la scritta BD AB SRDN che significa “servo del padre signore giudice”.
Negli ultimi due secoli molti studiosi hanno tentato di misurarsi con la traduzione della Stele di Nora ed ogni tentativo ha lasciato una versione radicalmente diversa. Attualmente soltanto metà delle lettere mostra distintamente il solco tracciato dal lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo un’attenta osservazione degli sfarinamenti prodottisi nel tempo. Trovata nel tophet, la stele fu utilizzata per la costruzione della casa del guardiano.
Oggi il testo è leggibile più che altro per la vernice che rimarca ogni lettera. Il team di scienziati che ha coraggiosamente deciso di marcare le lettere con la vernice rossa deve avere avuto qualche problema. Alcuni studiosi affermano che ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata rimarcata come una W ma potrebbe essere una N (ricordando che i segni fenici si leggono da destra a sinistra).
Salvatore Dedola afferma che in certi libri i caratteri sono alterati rispetto a quelli lapidei. Ad esempio, secondo lo studioso l’osservazione diretta della riga sesta della lapide mostra 6 lettere e non 7. Quindi la settima lettera sarebbe da togliere. Inoltre alcune lettere fenicie cambiano significato secondo l’inclinazione. Nella settima riga, la sesta lettera è R e non D come riportato in alcune traduzioni. Lo studioso sostiene, inoltre, che i traduttori avrebbero dovuto notare anche le incertezze del lapicida nello scolpire la stele e dovevano poi utilizzare il dizionario fenicio per capire a fondo la correttezza lessicale delle parole.
Dedola afferma anche che a riga 4 il lapicida aveva inizialmente scritto una N ma notato l’errore in corso d’opera, corresse in M, vista la possibilità di aggiustarla con poco danno; a riga 8 credendo d’operare secondo le intenzioni del committente scrisse d’impulso una M (sbagliando, perché proprio lì occorreva invece una N, che a quel punto non fu più possibile cambiare considerata la grafia complessa della M). In ogni modo, con l’aiuto del dizionario fenicio il testo può essere tradotto con una certa sicurezza. Il testo, secondo Semeraro, è:
Et rš š ngr š Ea b Šrdn šlm et šm sbt mlk t nb nš bn ngr lpn j
Ma forse il Semeraro non ha letto la stele nell’originale, altrimenti non avrebbe sbagliato la traduzione, che per lui è:
Et (Accanto è) rš (il sacello) š (quello che) ngr (l’ambasciatore) š (di) Ea (Ea) b (in) Šrdn (Sardegna) šlm (ha edificato) et (questa) šm (memoria) sbt (*) (esprime il voto) mlk (che il re) t (per iscritto) nb (espone) nš (elevi) bn (la costruzione) ngr (l’ambasciatore) lpn (davanti) j (all’isola).
Nell'immagine la Stele di Nora esposta al Museo di Cagliari prima del restauro della primavera 2010.
venerdì 20 agosto 2010
Bronze Age - Aspetti formali delle navicelle bronzee nuragiche 5° e ultima parte - Ancient boat
Considerazioni sugli aspetti formali e simbolici
È evidente che gli artigiani tendevano a creare un oggetto che riproducesse la forma di un'imbarcazione ed è opportuno tenere presente l'esistenza di tre categorie fondamentali di modelli:
- vere e proprie riproduzioni di navi;
- oggetti d’uso nei quali l’aspetto naviforme ha un semplice scopo decorativo;
- prodotti simbolici di uso cultuale, specie in contesti funerari, legati al concetto del viaggio nell'oltretomba.
L'identificazione delle navicelle come doni votivi è strettamente dipendente dal contesto di rinvenimento, anche se a volte si è abusato nell’attribuire alla sfera votiva gli oggetti di cui non si riusciva ad individuare la funzione. Il dono votivo può essere un atto di gratitudine alla divinità da parte di un uomo di mare per lo scampato pericolo.
Il rinvenimento di questi modellini in contesti domestici, fa pensare a un loro uso nel quotidiano: oggetti votivi, lampade, simboli di prestigio. Votivo significa “offerto alla divinità”, e come tale può ben indicare un oggetto che ha una funzione pratica: una lucerna a navicella può avere anche un uso pratico. Il ritrovamento in diversi contesti dimostra che il bene era prezioso sia nella vita che nella morte.
Il valore religioso, oltre che dalla collocazione nei luoghi sacri, era messo in rilievo dalla valenza di ex-voto di particolare prestigio e importanza, ed all'utilizzazione della navicella come lucerna votiva adoperata nell'illuminazione degli ambienti bui, all'interno di santuari e sacelli, poggiata su un piano o sospesa per mezzo dell’appiccagnolo. La funzione di lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con un'analoga classe di manufatti realizzati in ceramica. Gli elementi più significativi di confronto giungono dai risultati di un'importante scavo effettuato nel nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.
Durante lo scavo del vano “e” in strati databili al Bronzo finale, alla prima età del Ferro e all'età orientalizzante ed arcaica, si rinvennero oltre 500 modellini fittili di navicelle. I dati dello scavo, condotto da Giovanni Ugas nel luglio 1989, e parzialmente editi dallo stesso autore nel 1990, mostrano la maggior parte delle navicelle con una protome generalmente bovina all'estremità della prua. Il ritrovamento di questi oggetti in un ambiente del nuraghe chiaramente adibito a sacello ribadisce il valore cultuale di queste classi di oggetti che richiamano negli aspetti tipologici le più preziose navicelle di metallo.
Al di là di un loro utilizzo in termini funzionali si leggono significati legati a convenzioni simbolico-religiose che rispecchiavano valori sociali in relazione con la figura dello status dell'offerente. La presenza di rappresentazioni animali sul margine di alcuni modellini può essere interpretata come espressione della volontà di accentuare con la ricchezza di elementi figurati il valore e l'importanza dell'oggetto.
Il ritrovamento di numerose navicelle in aree non cultuali, ripostigli ed ambiti insediativi, evidenzia comunque la circolazione e la tesaurizzazione del bene tra membri di rango della comunità, prospettando una possibilità della realizzazione dell'oggetto di pregio e della sua conservazione, non solo in vista del dono alla divinità, ma anche con l'intento di custodire in ambito domestico, privato o comunitario, un manufatto prezioso da riservare eventualmente per pratiche di scambio e dono ma questa ipotesi attualmente non si può dimostrare.
Le navicelle sono nate dall'osservazione delle imbarcazioni del tempo, lo attestano legature, alte mura, alberi, coffa. Negli esemplari più ricchi si aggiungono piccole sculture riproducenti animali. Le imbarcazioni attestano quindi un interesse per la navigazione che non poteva mancare in un popolo coinvolto nelle relazioni con l'esterno e stanziato in una terra insulare che, anche per posizione geografica, si pone al centro di un'area di intensi traffici transmarini.
Le rimarcate divergenze tipologico-formali che distinguono gli scafi delle navicelle bronzee di età nuragica possono costituire il punto di partenza per un tentativo di classificazione: da un lato abbiamo le navicelle a scafo ellittico-convesso tipo E ed EV, dall'altro le barchette con scafo del tipo V, che a loro volta mostrano qualche affinità con le navi del tipo C.
Le barchette ellittiche presentano spesso protomi prodiere di maggiori dimensioni, le colombelle, le sospensioni ad albero e a semialbero, il gavone prodiero. Gli scafi del tipo V si distinguono, oltre che per la foggia, per la presenza di costolature a rilievo sulle mura, protomi prodiere solitamente piccole, manici a ponte spesso con decorazioni e talora in forma di giogo bovino, peducci di sostegno, l'assenza di colombella sull'anello di sospensione e, talvolta, presenza dell'anellino sul bordo sinistro.
Lo scafo cuoriforme del tipo C, presenta anch’esso l'anellino sinistro e una piccola protome con lungo collo orizzontale. Le differenti forme degli scafi, ma anche il differente gusto decorativo per la foggia delle protomi, per l'alberatura e per la presenza di importanti dettagli nautici, deve farci ritenere che proprio gli scafi angolosi del tipo V, più di quelli ellittici, possono rappresentare vere e proprie riproduzioni di imbarcazioni d'uso locale, per brevi spostamenti, di piccolo cabotaggio.
Notiamo quindi delle tipologie parallele fra gli scafi, non un unico percorso evolutivo, da semplici scafi cuoriformi alle navicelle più elaborate, forse una tradizione di barche forestiere, dapprima soltanto osservate, in seguito forse anche imitate dalla cantieristica isolana. Cantieristica che doveva peraltro essere limitata dalla qualità e quantità dei materiali.
Mancavano in Sardegna alberi alti fino a 40 metri, come i grandi cedri del Libano, indispensabili per costruire lunghe e solide chiglie, remi, alberature. Si sarebbero potuti utilizzare i pini mediterranei, le querce o i cipressi, anche se il risultato non sarebbe stato paragonabile. Mancava il bitume, che consentiva di calafatare e rendere impermeabili gli scafi, il fasciame, i legni e le pelli; anche per questo materiale si potrebbe pensare ad una sostituzione con delle resine naturali, tuttavia il risultato non avrebbe avuto la stessa qualità. Mancavano soprattutto terre e isole vicine, a vista, con le quali intessere quella fitta rete di traffici e collegamenti marittimi, non limitati a contatti occasionali o stagionali, che avrebbe potuto trasformare gli antichi uomini di Sardegna da naviganti in navigatori.
E navigatori non si nasce: lo si diventa, attrezzando porti, cantieri di costruzione, rimessaggio e manutenzione, elaborando un'astronomia e una cartografia, lasciando tracce del proprio passaggio nelle testimonianze dei popoli vicini. Ciò che lascia perplessi, di fronte a tanta profusione di reperti, è la quasi assoluta mancanza, nei bronzi, dei mezzi di governo: vele, timoni, remi, scalmi, mostrati invece con tanto rilievo nelle raffigurazioni marinare di altre civiltà; e poi l'assenza, nei dipinti ma non nelle sculture, di strumenti di offesa e difesa: rostri, rinforzi, scudi, imprescindibili per la navigazione d'altura.
Armare una nave significava alla lettera dotarla degli armamenti necessari per affrontare coscientemente i pericoli, non sempre e solo naturali, del mare. Tutte le antiche civiltà mediterranee conoscevano la nave rostrata, che invece pare assente nei modelli sardi. Occorrerà forse allora riconsiderare, fra i due estremi che vogliono le antiche genti sarde ora un popolo di montanari legato alla terra, ora un popolo di temuti dominatori dei mari, il ricco ventaglio delle possibilità intermedie, tra le quali certamente trova luogo anche l'ipotesi di una cantieristica locale in grado di costruire imbarcazioni adatte per gli spostamenti in acque interne, per il piccolo cabotaggio, per il trasbordo e traghettamento delle merci o, forse, attrezzate per la difesa delle coste.
Senza peraltro escludere l'eventualità di avventurosi viaggi che abbiano visto gli uomini dei nuraghi allontanarsi su navi di tal fatta dal continente Sardegna, con quella frequenza e quella regolarità che sole possono stimolare lo sviluppo delle arti e delle tecniche marinaresche. Arti e tecniche che, nelle testimonianze archeologiche fino ad oggi esaminate, risultano solo in piccola misura attestate e significate. Resta aperta l’ipotesi che le navi più grandi fossero costruite in vari cantieri del Mediterraneo, con maestranze provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, con gli alti fusti del Libano e i vari materiali occorrenti, opportunamente scambiati con altre merci. Un anticipo, dunque, di quella globalizzazione di merci e uomini alla quale assistiamo nei nostri giorni.
Personalmente ipotizzo che il committente volesse racchiudere nella navicella un simbolismo fortissimo. Desiderava dimostrare la sua conoscenza e il relativo dominio sui 4 elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco. La terra con la riproduzione di nuraghi e animali; l’aria con gli uccelli e la colombella; l’acqua con lo scafo e il fuoco con il processo di fusione del bronzo. Se ipotizziamo l’uso come lucerne si aggiunge un altro fattore: lo stoppino acceso si troverebbe a poppa, costituendo il quarto punto cardinale a formare nord (colombella), sud (scafo), ovest (protome), est (fiamma). Una vera e propria cosmografia racchiusa in un unico oggetto prezioso.
Nelle immagini: colombelle e protomi di navicelle conservati al museo di Cagliari
giovedì 19 agosto 2010
Bronze Age - Aspetti formali delle navicelle bronzee nuragiche 4° parte - Ancient boat
Le colombelle sull’anello di sospensione...e altri animali.
Diversamente vanno interpretate le colombelle che spesso ornano la sommità dell'anello di sospensione. Esistono sostanzialmente due linee di interpretazione: una fa capo al Lamarmora che considera le colombelle animali esclusivamente e variamente simbolici; l'altra, del Crespi, che legge nei volatili anche un significato funzionale e pratico, allude alla avventurosa scoperta della terra, mediante la direzione segnata dal passaggio delle emigrazioni di certi volatili. La tesi ricorda come non si può escludere che le colombelle rappresentate avessero più che funzione rituale valore pratico, “per il loro sapersi dirigere, se liberate, verso casa e che i marinai di legni a vela usavano talvolta liberare le colombe quali vivi, anche se muti e romantici, messaggi di favorevoli navigazioni”. Il navigante, fuori dalla vista della terra, faceva uso di uccelli che liberava da una gabbia e seguiva nel loro volo per raggiungere l'approdo. Questo metodo, noto nel viaggio degli Argonauti (Apollodoro), è lo stesso raffigurato su di un sigillo babilonese, seguito da Ut-Napitshstim (il Noè babilonese) nella leggenda del diluvio, e dai suoi successori biblici. La tesi trova ulteriore conferma nelle navicelle sarde dove la colombella si trova in cima all'anello di sospensione, quasi sempre, salvo nei manufatti n° 15 da Nuragus e n° 40 da Gravisca, correlata alla presenza dell'albero o del semialbero.
Anche altri animali, oltre le colombelle e quelli raffigurati nelle protomi, sono presenti su alcune navicelle sarde. Nella n° 43 da Nuoro appare una scimmia, nella n° 2 da Abbasanta Lilliu pensa di riconoscere un topo o un ranocchio, nella n° 31 da Bultei la battagliola è ornata da due cani, nella n° 64 navicella del Duce da Vetulonia Lilliu descrive due anatrelle, un riccio, alcuni cani, un suino, un torello con le corna giovani, una pecora e un animale sdraiato e disteso per lungo sull'orlo.
Il Lilliu ritiene “la navicella da Vetulonia, come le analoghe, un esempio di battello da trasporto di lunga navigazione per la forma e le dimensioni, ma non certamente per l'ornato plastico, che non ha relazione alcuna con animali trasportati per mare. A quale scopo caricare cani e cinghiali?”.
Tuttavia lo scopo c’è: i cani sono animali da caccia e per la difesa personale, mentre i cinghiali erano preziosi per la carne e il grasso. I cinghiali possono essere addomesticati se catturati da piccoli e perciò potevano diventare una merce. Inoltre i denti e le zanne erano ottimi talismani per la loro forma lunata.
Altre strutture presenti in coperta su alcune navicelle di età nuragica sono infine barrette bronzee, cosiddette di rinforzo. Il Crespi avanza l'ipotesi che le lunghe barrette raffigurino due remi ovvero un albero a doppia antenna, temporaneamente smontato come d'uso sulle navi antiche. Vi sono inoltre le protomi prodiere: tutte le navicelle oggi conosciute, qualunque sia la foggia dello scafo, mostrano traccia di un prolungamento della prora ornato da una protome animale che riproduce in modi diversi il toro (o il bue), il cervo (o il daino), l'ariete (o il muflone). Il toro è la figura predominante.
Estremamente varia è poi la tipologia delle corna, nelle quali gli artigiani si sono sbizzarriti, per Lilliu, “nell'inventare forme, posizioni, movimenti vari, per lo più naturali rendendole col modellato per lo più robusto ma non pesante e quasi sempre elegante nelle linee bellamente ricurve”. Anche la lunghezza e l'orientamento del collo presentano una ricchissima casistica, variando da inclinazioni perfettamente orizzontali ad altre esattamente verticali. Non è da escludere l'ipotesi che la protome, saldata per ultima alla prua, venisse poi modificata nell'orientamento, deformandone il collo, per bilanciare in modo micrometrico la navicella.
Dal punto di vista nautico le protomi delle navicelle sarde, di generose dimensioni, paiono nella maggior parte dei casi inadatte alla navigazione. Nel maggior numero dei casi le protomi venivano fuse a parte e solo in un secondo momento saldate alla prora, con tecniche diverse. Si possono riconoscere le tecniche d'unione “a manicotto”, più diffuse sulle barche del tipo V, e le tecniche a “piastra saldata”, più comuni sugli scafi ellittici. Nella tecnica a manicotto la protome viene innestata tramite un bottone o spinotto in un corrispondente alloggiamento. Nella tecnica a piastra saldata la protome presenta all'estremità inferiore del collo una flangia triangolare che viene adattata, saldandola, alla prora dello scafo, formando in tal modo una sorta di gavone.
Molte delle barchette nuragiche possono essere utilizzate, oltre che posate su un piano, anche in posizione sospesa. Ciò grazie ad appositi apparati di sospensione i quali, seppure di differenti fogge, presentano tutti sulla cima un anello verticale e sono calibrati in modo da consentire il perfetto equilibrio dell'oggetto, che nel supposto uso come lucerna doveva essere tale da evitare ogni perdita di liquido combustibile.
La tipologia degli apparati di sospensione può essere ordinata secondo tre classi ben distinte: a ponte, ad albero impostato sul fondo, mista. Al culmine è situato un anello, talvolta aperto sulla sommità, altre volte saldato o chiuso in cima da una colombella. È possibile che all'anello fosse collegata una corda o una catenella del tipo “a otto”, ben noto ai fonditori di età nuragica. La sezione piatta delle maglie sembra bene adattarsi agli anelli aperti nei quali l'ultima maglia della catena poteva facilmente essere introdotta di traverso per poi reggere senza difficoltà, quando raddrizzata, l'oggetto.
L'uso di funi o catenelle sembra tuttavia impedito, in alcune navicelle, dalla presenza della colombella che sovrasta l'anello. Ci pare allora più verosimile ipotizzare che la navicella venisse sospesa inserendo l'anello in un piolo fissato alla parete in posizione orizzontale. In questo modo la colombella, lungi dal rappresentare un ostacolo, sarebbe anzi servita da appiglio per sfilare più comodamente la navicella dal suo sostegno.
Al di là delle evidenti funzioni che il manico a ponte riveste nell'oggetto-lucerna, resterebbe da chiedersi fino a che punto la sua foggia possa aver tratto ispirazione da strutture similari eventualmente presenti su un ipotetico modello reale.
Strutture centinate simili nella forma sono visibili su barche egizie dell'Antico Impero e possono essere ritrovate nei cerchi a botte delle imbarcazioni tradizionali del lago di Como. Un preciso richiamo a queste strutture, la cui funzione era quella di offrire, ricoperta con pelli o tessuti, un estemporaneo riparo dalle intemperie, uno spazio per il pernottamento. Una protezione alle merci più delicate si può leggere anche nella costruzione centinata a graticcio (cabina?) che è presente nella n° 53 (proveniente dalla Sardegna).
In luogo della più diffusa sospensione a ponte, sette navicelle presentano un vero e proprio albero saldato al fondo e terminante con una sorta di capitello, in cima al quale è impostato l'anello, che in questo tipo di barche è sempre sormontato da una colombella che guarda verso poppa.
Altre dodici barchette adottano invece un sistema misto, in virtù del quale un albero più piccolo è fuso in un sol pezzo sulla sommità di un manico del tipo a doppio ponte. Tanto la sospensione ad albero che quella a semialbero sono caratteristiche esclusive delle barchette a scafo ellittico di tipo E ed EV, e mancano del tutto negli scafi cuoriformi C e in quelli del tipo V.
L'albero delle barchette nuragiche, basso e tozzo, pare inadatto ad accogliere un gioco velico. È tuttavia possibile che alberi di tal fatta non fossero destinati ad accogliere vele, ma avessero in realtà il compito di sostenere, come nella hippos fenicia, una coffa di avvistamento da leggersi nel disegno a capitello della parte terminale della struttura.
Questi capitelli sono sorprendentemente simili ai ballatoi delle torri nuragiche così come raffigurate nei modellini classificati da Lilliu con Sc. 268 e 269 (da Ittireddu e Olmedo), tanto da far ritenere non improponibile l'ipotesi che alcuni alberi volessero in qualche modo significare, quasi come una sorta di “insegna nazionale”, la struttura a torre dell'edificio più rappresentativo della civiltà nuragica.
Nell'immagine alcune navicelle conservate al Museo Archeologico di Cagliari: Cuoriforme con antropoide e trilicne da Mandas.
mercoledì 18 agosto 2010
Bronze Age - Aspetti formali delle navicelle bronzee nuragiche 3° parte - Ancient boat
Orli e listelli in rilievo sulle mura
Lo scafo delle navicelle nuragiche, di disegno lineare e di norma austero nella decorazione, presenta talvolta sulle fiancate uno o più ordini di rilievi che, a differenti altezze, corrono lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. Gli scafi di tipo V possiedono sempre almeno due cordonature; una, superiore, solitamente situata poco sotto il bordo; un'altra, inferiore, sempre in corrispondenza dell’intersecarsi del fondo con le bande. Una terza cordonatura è talvolta interposta equidistante tra le prime due.
Sappiamo per certo che la cantieristica antica faceva largo uso di funi e gomene nella costruzione degli scafi. Non solo nella legatura delle stuoie di papiro, come documentato nei numerosi dipinti egizi dell'Antico Impero, ma anche nella costruzione di scafi in legno, utilizzandole con precise funzioni strutturali. Questa cima era destinata a contrastare le forze che, qualora la nave si fosse trovata in dorso d'onda, avrebbero altrimenti spezzato in due o più parti lo scafo.
La struttura doveva probabilmente essere completata da una seconda cima, tesa al di sotto della chiglia, allo scopo di conferire uguale resistenza alle opposte sollecitazioni alle quali la nave era invece soggetta durante la navigazione in caso d'onda. Poco sotto il bordo, ancora oggi è d'uso che le piccole imbarcazioni applichino un listello di legno, con funzione di paracolpi (detto bottazzo), situato in tale posizione per sfruttare la maggiore resistenza che ha lo scafo in corrispondenza dell'intersezione tra le mura e le pontature di coperta.
Questo listello viene talvolta sostituito da una grossa gomena, come d'uso ancor oggi, che con il medesimo scopo corre lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. L'ipotesi che i rilievi a listello (e la funicella), presenti poco sotto il bordo delle navicelle nuragiche con scafo di tipo V, siano un elemento strutturale e non decorativo della costruzione, sarebbe accettabile se tali navicelle fossero il modello di imbarcazioni di modeste dimensioni adibite a compiti di traghettamento, con la conseguente necessità di proteggere lo scafo dai frequenti piccoli urti durante le operazioni di accosto, di abbordo, di approdo.
Se così fosse sarebbe possibile, a partire dalla presumibile dimensione delle gomene e dal posizionamento dei parabordi, trarre una precisa indicazione di scala che ci consentirebbe di stimare intorno ai 7 metri la lunghezza dell'eventuale modello reale di una navicella con scafo del tipo V.
Completano lo scafo di molte navicelle, oltre la protome e gli apparati di sospensione, diversi altri elementi, strutture e attrezzature tra i quali possiamo comprendere, insieme al gavone di prora che spesso risulta dalla fusione della protome con lo scafo, altri oggetti quali trasti, anellini, animali, totem, rilievi, colonnine, barrette di rinforzo.
La connessione delle parti può essere ottenuta fondamentalmente in due modi: mediante un procedimento di fusione limitato alle superfici da unire oppure mediante l'introduzione tra esse di un altro metallo fuso.
Il gavone di prora è del tutto assente negli scafi cuoriformi e del tipo V, dove è spesso sostituito da una particolare giunzione della protome che simula una funicella avvolta a spirale. Il gavone non svolge solo la funzione di tenere all'asciutto cibi, indumenti e quant'altro occorra riparare dall'acqua durante la navigazione, ma anche quella, strutturale, di chiudere con una parziale pontatura, irrobustendola, la sezione di scafo maggiormente esposta alla violenza delle onde.
La presenza del gavone può essere trascurata solo nel caso di piccoli scafi, destinati ad acque tranquille. La sua assenza parrebbe allora confermare che almeno per quanto concerne gli scafi di tipo V, non a caso sempre privi di albero, siano da escludere le grandi dimensioni e l'utilizzazione nella navigazione d'altura.
L'ambito costiero-palustre dello scafo del tipo V consentirebbe allora una diversa lettura del piccolo anellino che compare in posizione laterale su alcuni scafi, nonché del piccolo rilievo a “sella” presente sui tre scafi cuoriformi. Tanto l'anellino che il rilievo a sella si mostrano sempre nella medesima posizione, sull'orlo delle mura di sinistra in posizione circa equidistante tra prua e poppa.
Secondo Lilliu nella n° 78 da Tula questo anello sostituiva l'anello che, in altri esempi, sormonta il mezzo del manico a doppio ponte, e ancora quando si voleva appendere l'oggetto dopo l'uso in piano. L'interpretazione lascia tuttavia spazio ad alcune considerazioni:
1) ci si domanda per quale motivo l'anellino sia presente su alcune barche del tipo V e C, mai in quelle di tipo E ed EV, e sia sempre posizionato nel medesimo punto rigorosamente sul lato sinistro;
2) non si vede inoltre la necessità di un ulteriore anello di sospensione, e per giunta di tanto minori dimensioni, in alternativa ad altri numerosi e più efficienti appigli, come il manico, l'anello, la protome.
Cosa si deve intendere poi per “appendere dopo l'uso”? Certamente l'espressione è da riferire all'uso domestico dell'oggetto-lucerna. Ma l'unico risultato pratico che poteva ottenersi appendendo l'oggetto lateralmente era forse quello di facilitare lo sgocciolamento dell'olio combustibile residuo, al fine di ripulire perfettamente la lampada.
Resta tuttavia da chiedersi se un artificio di così complessa realizzazione (l'anellino doveva essere fuso a parte e poi saldato in una posizione che consentisse di bilanciare l'oggetto) sia giustificabile dal modesto risultato raggiunto, che si sarebbe più facilmente potuto conseguire posando la barchetta capovolta su un piano ovvero sospendendola per la protome. Tuttavia in questi due ultimi casi i manufatti si sarebbero potuti danneggiare.
Negli scafi cuoriformi compare un piccolo rilievo a sella che per Lilliu “forse stilizza un uccello o qualche altro animaletto”. Tuttavia riesce assai difficile leggere nel rilievo la stilizzazione di un uccello e non si comprende perché in questi scafi debba mostrarsi appena accennato e per di più rinunciando alla simmetria che su altre navicelle nuragiche vuole gli uccelli sempre disposti a coppie.
Potremmo allora avanzare l'ipotesi che questi rilievi altro non siano che i frammenti residui di anellini del tutto simili a quelli già visti sulle navicelle del tipo V, e che la posizione meno protetta abbia fatto sì che nessuno di tali anelli si sia conservato integro. Si può allora ipotizzare che tale anellino non rappresenti se non un particolare tipo di scalmo atto ad accogliere un solo remo, propulsore e direzionale insieme, ovvero una pertica atta alla navigazione lagunare e palustre in bassi fondali, ovvero un unico remo con funzioni solo direzionali. Sulle navi nuragiche la propulsione doveva essere affidata a remi a pagaia (così come sono d'altronde equipaggiate le barche fenice di Korshabad), vista l'assenza di altri oggetti sulle fiancate interpretabili come scalmi. Difficilmente si può ravvisare nelle colombelle un vezzo artistico di oggetti aventi funzione di scalmo.
Nell'immagine alcune navicelle bronzee esposte al Museo Archeologico di Cagliari
martedì 17 agosto 2010
Bronze Age - Aspetti formali delle navicelle bronzee nuragiche 2° parte - Ancient boat
Navicelle bronzee 2° parte.
Alcune presentano un attacco per catenelle metalliche fini che chiudevano in un quadro simmetrico la catenella maggiore che, al centro, sosteneva il manico arcuato. È evidente che questo sistema di sospensione non consentiva la soluzione alternativa del poggiare l'oggetto in piano, visto che in tal modo sarebbe risultato problematico riporre in modo adeguato il complesso delle nove catenelle.
L'oggetto, progettato dunque per essere utilizzato in posizione sospesa, presenta uno scafo non più piatto, ma di sezione ovale in lunghezza. Il fondo piatto, non più necessario, è stato quasi del tutto eliminato, e la navicella mostra uno scafo decisamente convesso. Contro questa prima ipotesi potremmo tuttavia osservare che l'esigenza di posare l'oggetto in piano avrebbe potuto essere agevolmente risolta, senza deformare lo scafo, con l'aggiunta di sostegni o peducci, così come si nota in molte delle barchette definite di tipo V. Vi è anche da dire che la navigazione antica, praticata in molto maggior misura che non oggi a brevissima distanza dalle coste, faceva dell'isola uno straordinario punto d'osservazione lungo il quale era facile osservare il continuo e ininterrotto transito di navi e imbarcazioni di ogni genere e provenienza.
Più vicine alla costa dovevano navigare le barche a remi; più lontane, dove il vento non era alterato in forza e direzione dai rilievi montuosi, le grandi navi a vela. In tali condizioni l'osservatore poteva distinguere le forme ma non i dettagli, poteva riconoscere come tale un'alta protome, ma non l'animale che essa intendeva rappresentare, poteva intuire un'alberatura, ma non le complesse attrezzature di governo, il sartiame, la tecnica con la quale l'albero veniva impostato sullo scafo. Di contro si potrebbe ribattere che quelle stesse navi dovevano pur prima o poi venire a diretto contatto con le genti del luogo, o per commerci, o per rifornimenti, o per naufragio. In tali casi sarebbe certo stato possibile osservare nei dettagli lo scafo.
Accanto allo scafo di forma ellittico-convessa con fondo piano è possibile riconoscere altre due tipologie che vanno sempre più arricchendosi di nuove testimonianze archeologiche. Si tratta degli scafi di tipo V, con prua e poppa fortemente carenate e sezione maestra trapezoidale, e di quelli cuoriformi tipo C. E’ sempre assente l'albero mentre sono frequenti le decorazioni in rilievo, assenti nelle tipologie ellittiche, tanto sul manico che sulle mura, talvolta ornate con animali, personaggi, oggetti.
Più di ogni altra la navicella di tipo V è quella che sembra fedelmente riprodurre una vera e propria imbarcazione. Le pareti dello scafo disegnano nella sezione maestra un trapezio capovolto, il cui baricentro risulta spesso così alto che per assicurare la stabilità dell'oggetto è necessario provvederlo di peducci di sostegno. Il fondo piatto è qui certamente un dato strutturale della costruzione, dando così vita a un natante di piccole dimensioni, circa 7 metri, adatto per via del basso pescaggio alla navigazione in acque interne o a brevi tragitti verso le isole minori o ancora alle funzioni di navetta per assicurare i collegamenti tra la terraferma e navi di assai maggiori dimensioni, costrette a sostare in rada per l'assenza di scali ben attrezzati.
Lo scafo cuoriforme tipo C si distingue per la caratteristica foggia a lucerna, dal corpo basso e tondeggiante che si affila in prossimità della poppa disegnando un beccuccio, mentre sul lato opposto è saldato il manico, orizzontale e relativamente lungo e sottile, che termina con una piccola protome animale. Inizialmente classificati come lucerna, gli scafi cuoriformi sono oggi concordemente conosciuti e definiti come navicelle bronzee. Dal punto di vista nautico la funzionalità dell'oggetto è pressoché nulla per le mura troppo basse e per il peso eccessivo della protome, che inevitabilmente avrebbe spinto la prua dentro l'onda causando l’ingavonamento dell'imbarcazione. Nulla vieta, tuttavia, che la lucerna si ispiri a un tipo reale di imbarcazione palustre e che le incongrue dimensioni della protome non siano che una forzatura interpretativa dell'artigiano, che avrebbe ingrandito la piccola prominenza prodiera per facilitarne la presa nell'uso domestico.
Nel 1960, come ricorda il Paglieri , “tutti i tipi di navi antiche riconosciuti dalle raffigurazioni si rifanno chiaramente a tre forme fondamentali di scafo: la nave tonda, con le due estremità rialzate; quella lunga, forgiata a trave con acuminato sperone a prora; quella di tipo misto, con uno scafo del tipo della nave tonda e l'aggiunta di uno sperone sotto la prua”.
Il Lilliu distingue nelle navicelle sarde un tipo corto, tondeggiante, simile alla gôlah dei Fenici, e un tipo lungo, assimilabile alla hippos sempre fenicia. Tuttavia la gôlah si distingue dalle navi nuragiche per la presenza di due ordini di rematori, così come per l'assenza della protome.
S. Moscati riferisce che “due erano i tipi principali: il primo prettamente da guerra, con poppa fortemente ricurva e lo sperone a filo d'acqua; il secondo con entrambe le estremità rialzate. Un terzo tipo di imbarcazione, più piccolo, è riprodotto sulle porte bronzee di Balawat e sui rilievi di Sargon II a Korshabad”.
Risulta così esclusa ogni possibile identificazione tra navi fenicie di tipo lungo, caratterizzate dalla presenza del rostro, e navicelle nuragiche, generalmente prive di sperone. L'assenza tra le raffigurazioni nuragiche di esemplari rostrati può condurci a due differenti considerazioni:
a) le imbarcazioni sarde non erano adatte a intraprendere rischiose navigazioni d'alto mare;
b) le navicelle nuragiche sono l'imperfetto modello di navi anche rostrate, osservate lungo le rotte, che in gran numero costeggiavano l'isola e il cui sperone, occultato alla vista per essere quasi del tutto sommerso, non è stato di conseguenza rappresentato.
E se è pur vero che le navi dei primi Fenici venivano spesso tirate in secca sulle spiagge dell'isola per far lì mercato con le popolazioni del luogo, ciò accadeva più di frequente alle navi commerciali che non a quelle lunghe da guerra, le quali comunque venivano sempre tirate in spiaggia dal lato di poppa, pronte alla fuga, così che l'eventuale rostro prodiero restava comunque sommerso.
L'assenza di rostro sulle navicelle sarde parrebbe ancora alimentare l'ipotesi che i sardi ignorassero la tecnica costruttiva a coste e chiglia, o che quantomeno non disponessero del legname d'alto fusto necessario alla sua realizzazione. L'efficacia del rostro è infatti strettamente correlata all'insostituibile presenza di una lunga e solida trave di chiglia, unito alla quale lo sperone si comporta come una testa d'ariete e solo in virtù di quella è in grado di infliggere e sopportare urti anche di notevole violenza.
Nell'immagine alcune navicelle esposte al Museo Archeologico di Cagliari
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