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sabato 17 dicembre 2016

Archeologia. In Sardegna il vino più antico? Probabilmente non è così. Viticoltura e vinificazione: breve sintesi su primati e falsati primati

Archeologia. In Sardegna il vino più antico? Probabilmente non è così. 
Viticoltura e vinificazione: breve sintesi su primati e falsati primati
di Marina Clissa.



In riferimento a una serie di articoli giornalistici nei quali si indica la Sardegna come sede del vitigno più antico del Mediterraneo Occidentale, vorrei proporre ai lettori le riflessioni dell’archeologa Marina Clissa. Tutto ha inizio quando l'equipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), guidata dal professor Gianluigi Bacchetta, ha rinvenuto oltre 15000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a un pozzo (Sa Osa - Cabras) che fungeva da paleo-frigorifero per gli alimenti. Questi semi non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli freschi reperibili da acini raccolti da piante odierne, grazie alla prova del Carbonio 14 sono stati datati intorno al XIII-XII secolo a.C., età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica. Lo studioso, secondo un articolo a firma Monica Rubino, sul giornale "La Repubblica", ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono. Sino a oggi, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che frequentavano l’isola dal
Primo Ferro, e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo Occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticoltura in Sardegna era già conosciuta: probabilmente ebbe un'origine locale e non fu importata dall'Oriente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili parentele tra le diverse specie di vitigni. (Nota della redazione)


Viticoltura e vinificazione: breve sintesi su primati e falsati primati
di Marina Clissa
Va innanzi tutto premesso che viticoltura, produzione e consumo del vino sono aspetti non necessariamente correlati. Possono, infatti, riscontrarsi attività di coltivazione della vite non finalizzate alla produzione di vino ma legate al solo consumo dell’uva, in quanto frutto. Il consumo di vino non costituisce prova di uno sviluppo locale di attività viticole ed enologiche perché il rifornimento può dipendere da apporti esterni. 

Alcune precisazioni sulla domesticazione della vite
Iniziali testimonianze di domesticazione della vite sono state riscontrate dall'ampelografo Revaz Ramishvili nel sito Shulaveris-Gora sulle colline a sud di Tbilisi, uno degli insediamenti permanenti più antichi conosciuti in Georgia. I semi addomesticati sono databili all'8000 a.C. e si riferirebbero alla Vitis vinifera subsp.sativa. Altri esemplari sono stati identificati nel sito neolitico di Atlit-Yam, sulla costa israeliana di Haifa databile al 6900-6300 a.C.
Forme embrionali di coltivazione della vitis silvestris sono state riscontrate anche nel sito laziale de”La Marmotta” presso il Lago di Bracciano datate fra il 5750 a.C. e il 5260 a.C.
i siti di Gerico-Palestina, Lachish -Israele, Nuemria-Mar Morto, Arad-Israele, Kurban-Turchia Meridionale, hanno restituito sia semi domesticati che frammenti di tronchi di vite, databili fra il 5000-4000 a.C.

Per quanto riguarda la vinificazione:
A) siti archeologici
Fino a questo momento la testimonianza più antica di vinificazione al mondo è quella rintracciata presso il sito di Hadji Firouz, in Iran, sulla base delle analisi dei campioni databile fra il 5400-5000 a.C. Nell'occasione sono state rinvenute una serie di anfore interrate e sigillate da tappi che conservavano al loro interno depositi costituiti da acido tartarico (presente negli acini d’uva e noto componente del vino) associato a resina vegetale di terebinto (pistacia terebinthus) il cui uso come antiossidante per la conservazione del vino è ben attestato (Mac Groven 2004, pp. 75-93) 
Altro sito è quello di Dikili Tash- nord della Grecia, nei pressi della città di Phillipes risalente al 4.300 a.C. dove nel 2010 gli studiosi dell'Università Aristotele di Salonicco e l'Ecole Normale Supérieure hanno rintracciato una serie completa di vasi integri contenenti residui di vino confermato da marcatori legati a processi di fermentazione (acido piruvico e succinico).Esempio che si classifica al momento come testimonianza più antica in Europa.
sito di Areni-1 in Armenia databile al 4100-4000 a. C. Nel 2011 l’archeologo armeno Boris Gasparyan rinviene quella che ad oggi è considerata la più antica cantina del mondo. All'interno della c.d “grotta degli uccelli”, nella remota regione montagnosa di Vayots Dzor in Armenia meridionale, vengono scoperti oltre a vitigni e raspi, del tipo a bacca rossa, numerose giare per la conservazione del vino, una pressa ed utensili legati ai processi di vinificazione. 
A Kurban Höyük, nei livelli interni di un pozzo riferibile alla metà del IV millennio a.C., sono stati trovati pani compressi di uva domestica, elemento che suggerisce attività vinifi catorie già avviate su vasta scala.
Il ritrovamento di oltre 700 giare da vino nella tomba del “Re Scorpione” (3150 a.C.) ad Abido, in Egitto, testimoniano commerci di vini pregiati, importati da centri vitivinicoli della costa palestino - libanese, la biblica Terra di Canaan. A partire dal 2700 a.C. vigne reali “a pergola” vennero impiantate nelle pianure alluvionali del delta est del Nilo. (McGovern, 2004). nei Testi delle Piramidi riferibili alla V dinastia (2375-2354 a,C.), si parla diffusamente dell'“irep mehu”, vino del nord, riferendosi proprio al Delta. Le giare del Nuovo Regno confermano non solo la raggiunta padronanza delle tecniche di vinificazione, ma anche varietà e diversa qualità dei vini. Agli Egizi si può tributare il primato di aver “etichettato” il vino dato che alcune giare riportano dettagliate informazioni relative all'anno, alla qualità e dolcezza, tipo di prodotto, origine geografica, zona di produzione, tenuta, nome ed il titolo del vignaiolo. E' specificata anche la qualità del vino: buono (nefer), più che buono (nefer, nefer) e molto buono (nefer, nefer, nefer); in alcuni casi si sono trovate anche annotazioni aggiuntive relative alle modalità e tempi d'immagazzinamento ed eventuale riutilizzo delle anfore". Sull'etichetta di un’anfora di vino rosso del corredo funerario di Tutankhamon (1341-1323 a.C.) si legge: “Anno 9, vino della tenuta di Aten del Fiume Occidentale, Capo dei Vignaioli Khaa”. Raffigurazioni legate alla vinificazione (scene di vendemmia, pigiatura e spremitura, imbottigliamento, immagazzinamento) sono visibili in ben 29 cappelle funerarie databili all’Antico Regno (2700-2192a.C.), tra cui quelle più famose di Niankhkhnum e Khnumhotep (V dinastia) e Mereruka (VI dinastia) a Saqqara. In almeno altre 10 tombe datate al Medio Regno (2160 a.C. al 1785 a.C.), di cui due in aree provinciali in Medio Egitto e in 42 sepolture della necropoli di Tebe datate al Nuovo Regno (1552 a.C. fino al 1069 a.C). Il vino e la sua divinità protettrice Osiride venivano festeggiati annualmente ad Abido in occasione della “festa del nuovo anno”.
Scavi e fonti epigrafiche hanno confermato che la città di Ebla, in posizione intermedia fra l’Anatolia, Palestina e Mesopotamia già dalla metà del III millennio a.C. gestiva i commerci di oro, argento, rame, stagno, legname proveniente dalle vicine montagne dell’Antilibano, e del vino. Dal 2300 possedeva anche vaste aree riservate alla coltivazione della vite domestica.
B) fonti scritte 
La più antica attestazione scritta del vino in suolo europeo è rappresentata dalla serie di ideogrammi annotati su tavolette in Lineare A provenienti da Festos e da H. Triada a Creta, e risalenti al Medio Minoico II (ca 1850-1700)l'): l’ideogramma (131) è stato interpretato come una rappresentazione dei sostegni lignei bi-forcuti, i “tutori”, cui le viti si appoggiavano e attorno a cui venivano fatte arrampicare. Le rappresentazioni di questo ideogramma assomigliano notevolmente all’ideogramma geroglifico egiziano per “vite”, tanto che alcuni studiosi hanno proposto di vedere nell’esempio egizio l’antecedente dell’ideogramma minoico.
Nella successiva cultura micenea il vino viene chiamato wo-no, con la caratteristica indicazione del digamma, Fo‹noj. A Pilo nel Fr 1202, compare il nome di una festività definita Me-tu-wo ne-wo (mšqu nšou), ossia del vino nuovo che, con ogni probabilità, si legava alla vendemmia ed alla nuova produzione vinicola. A Cnosso (Uc 160) è attestato un vino definito de-re-u-ko interpretato come dleàkoj gleàkoj ossia il mosto, o il vino dolce non ancora fermentato. Il vino è anche definito pa-ra-we-wowo-no nel senso di “mite, dolce o domestico”. In una cretula di Pilo (Wr 1360) compare del vino definitome-ri-ti- jo, aggettivo derivato dal nome mšli, che rimanda probabilmente ad un vino misto a miele. La produzione viti-vinicola, pur non ricadendo sotto il diretto appannaggio dell’amministrazione palatina, si estendeva su larga scala ed il vino era ampiamente utilizzato come merce di prestigio per transazioni economiche di grande importanza 
Il vino trova menzione negli scritti più antichi della Bibbia. Nel libro della Genesi (9,20-23) Noè viene ricordato come il fondatore della viticoltura e anche come colui che per primo avrebbe sperimentato gli effetti inebrianti del vino. E' interessante sottolineare che la “mitica sbronza” presa dall'eroe-civilizzatore Noè segue l'approdo dell'arca sul monte Ararat. Questo monte si posiziona nella Turchia orientale, all'interno del c.d. “triangolo fertile della vite”, zona che dalla catena del Tauro della Turchia orientale si estende fino ai versanti settentrionali dei Monti Zagros dell'Iran occidentale e massiccio del Caucaso con la Georgia, l'Armenia e Azerbaigian. Areale che ha restituito le maggiori e più antiche testimonianze. Riferimenti alla vite ed alla sua coltivazione sono rintracciabili anche nei libri di Isaia ed Ezechiele. Dato che si stima che questi testi biblici siano stati scritti fra i secoli VIII e VI a.C. si può dedurre che tali descrizioni ricordino la compresenza di viti sia domestiche sia selvatiche nei paesaggi pre-protostorici palestinesi.
Anche l'Iliade ed Odissea fanno riferimenti continui al vino e sue varie tipologie. L'insieme dei due poemi viene a stabilirsi in forma scritta intorno al 750 a.C. ed è la riunione di una serie di racconti tramandati per secoli dalla tradizione orale. L'Iliade, in particolare, descrive avvenimenti relativi alla guerra di Troia avvenuta fra 1250 a.C. o 1194 a.C.

In merito alla Sardegna:
L’archeologo Mauro Perra riferendosi ai rinvenimenti più antichi in terra sarda risalenti al XV-XIV secolo (in questo articolo che potrete aprire cliccando sopra) non parla di testimonianze di vinificazione ma più cautamente di esempi di iniziale domesticazione-coltivazione della vite, una precisazione che induce ad un consumo come frutto, senza spingersi necessariamente alla vinificazione. La domesticazione infatti offriva l'indubbio vantaggio di una più certa produzione rispetto alla vite selvatica, specie a prevalenza dioica e quindi subordinata alla casualità delle impollinazioni. Lo stesso Perra afferma che "È utile precisare che coltivazione della vite non significa immediatamente che essa fosse utilizzata per il consumo del vino, pertanto l’elaborazione dei dati archeologici richiede un livello approfondito delle indagini e delle successive analisi ed interpretazioni”. Poco oltre: “Le testimonianze più antiche della coltivazione della vite sono state trovate negli strati di base di uno dei due nuraghi di Duos Nuraghes di Borore (senza ulteriori specificazioni da parte dell’autore dello studio) e risalgono al XV-XIV secolo a.C. (Bronzo Medio tardo). I vinaccioli carbonizzati ivi recuperati sono stati analizzati e determinati come appartenenti alla sottospecie selvatica ma, ad una attenta analisi del carpologo francese Philippe Marinval, essi sono stati di recente ritenuti la testimonianza di una fase di avanzata domesticazione. Sono relativi ad un momento più recente (Bronzo Recente avanzato, XIII-XII secolo a.C.) i vinaccioli non carbonizzati rinvenuti dentro uno dei pozzi dell’abitato nuragico di Sa Osa di Cabras. Le indagini preliminari hanno consentito d'identificare come appartenenti alla sottospecie coltivata di Vitis vinifera tutti gli esemplari analizzati che con tutta probabilità sono riferibili a diverse varietà di vitigni. Alla descrizione del Perra deve integrarsi quella di Cinzia Loi: “il pozzo N, ha restituito - oltre a residui di pesci, di ossa animali, di frammenti di legno e di sughero grezzo e lavorato, di semi di fico e di melone, di grano duro, di fave e di prugne selvatiche - vinaccioli in avanzato stadio di domesticazione (datazioni C14: circa 1300-1100 a.C.; Bronzo Recente avanzato), che insieme alla compresenza di pollini negli strati di riempimento del pozzo può rappresentare la prova della coltivazione in loco, probabilmente destinata al solo scopo alimentare. Un dato di estremo interesse è fornito dalle analisi del DNA di alcuni vinaccioli che evidenziano una grande variabilità genetica . Le prime analisi dei residui depositatisi sulle pareti dei vasi non hanno infatti evidenziato tracce di vino. Nel repertorio vascolare di Sa Osa non sono attestate neppure le brocche, tipica forma atta a conservare e versare questa bevanda”(Cinzia Loi, “I pressoio litici tra classificazione tipologica e indagine sperimentale”. Tesi di Dottorato in “Storia, letterature e Culture del Mediterraneo”, 2015, pg. 37).
Per la successiva fase del Bronzo Finale e Iniziale Ferro il Perra aggiunge “Non solo vinaccioli ma acini carbonizzati provengono dalla capanna 5 dell’insediamento circostante il nuraghe Adoni di Villanovatulo, datata alle fasi iniziali del Bronzo Finale, intorno al XII secolo a.C. Vinaccioli ancora più recenti, inquadrabili nella prima fase della prima età del ferro (IX sec. a.C.), sono stati recuperati in diversi ambienti del villaggio nuragico di Genna Maria di Villanovaforru: in particolare dal vano 12, una sorta di magazzino dal quale provengono semi di grano tenero e duro, orzo, e anche i minuti frammenti carbonizzati di un preparato alimentare tipo pane." Alla lista può aggiungersi la testimonianza di Triei dove, nel vano n. 7 del villaggio pertinente al nuraghe Bau Nuraxi, sono stati rinvenuti pollini di vite in associazione con una brocca askoide frammentaria contenente residui di vino, in un livello datato al C14 al 1000 a.C. In considerazione di questi dati credo che sia chiaro che la Sardegna non possa rivendicare il primato della vinificazione, innanzi tutto a livello mondiale (come mi è capitato di leggere in svariati titoli). Per l'ambito Mediterraneo il primato è detenuto al momento dal sito greco di Dikili Tash (4300 a.C.). Da rimodulare anche le datazioni dell'eventuale primato in ambito Mediterraneo-occidentale dato che per la forchetta cronologica di XV_XIII a.C rappresentata dai siti di Duos Nuraghes di Borore e Sa Osa si può parlare con certezza di domesticazione della vite, giustificabile con il semplice consumo umano, senza provare la vinificazione. Come già evidenziato la pratica di domesticazione dei vitigni a queste date non costituisce eccezionalità o primato dato che in ambito italico (sito de “La Marmotta”-lago di Bracciano) è riscontrabile sin dall'inizio del VI millennio a.C. In fase con i più antichi esempi sardi di domesticazione della vita è da porsi il sito toscano di San Lorenzo a Greve nella periferia Sud Ovest di Firenze, datato al Bronzo Medio iniziale XVI-XV sec. a.C., dove, in un silos interrato all'interno dell'abitato, sono stati rinvenuti un migliaio di vinaccioli: un terzo di vite coltivata, un altro terzo di domesticazione ed ancora un terzo selvatici (Aranguren, Perazzi 2007). Nello stesso “silos” ipogeico sono stati recuperati 324 elementi riferibili a corniolo (Cornus mas) che, al pari della vite, si reputa fosse probabilmente utilizzato per la preparazione di una bevanda fermentata (Aranguren, Perazzi 2007, p. 253). Questa supposizione nasce anche dal fatto che la presenza del corniolo, molto abbondante in particolare nel corso della Media età del Bronzo, come si rileva pure in addensamenti registrati nella palafitta di Fiavé, cala drasticamente nell’età del Ferro (Rottoli 2001 A, p. 183; Rottoli 2001 B, p. 152; Fiorentino, Castiglioni, Rottoli, Nisbet 2004, p. 224; Marzatico 2009 A, p. 222). È in questo periodo che, come noto, in Italia settentrionale si afferma la viticoltura e il consumo di vino mentre a Pombia, in Piemonte, è documentata la più antica produzione di birra di cereali. Rimanendo in Etruria, vinaccioli di vite coltivata, associati a vinaccioli di vite selvatica sono presenti anche in contesti risalenti all’età del Bronzo Finale: Livorno-Stagno e Chiusi (MORI SECCI 2005, pp. 70-71; ZANINI 1997; BETTINI, ZANINI 1993). Nel primo sito sono stati recuperati oltre 4500 vinaccioli di cui 721 riferiti a vite selvatica, 841 a vite coltivata, 2993 non attribuiti in quanto presentanti caratteri intermedi e compositi. Anche per Chiusi si parla di «una cospicua quantità di semi di Vitis sia sylvestris, decisamente prevalente, sia vinifera, che attestano una raccolta estesa dei suoi frutti» (BETTINI, ZANINI 1993, p. 316). Per l'avanzato Bronzo Finale abbiamo anche Tarquinia (BONGHI JOVINO, CHIARAMONTE TRERÉ 1997, pp. 53, 147; ROTTOLI 1997, pp. 93, 96) e nella prima età del Ferro il sito di Gran Carro (COSTANTINI et alii 1987; COSTANTINI, COSTANTINI BIASINI 1995; HOPF 1995). Queste evidenze paleobotaniche documentano per l’Italia centrale di queste fasi, come per altre aree geografiche, il forte interesse per l’uva, nel senso, quanto meno, di attività di domesticazione e di selezione della vite, lasciando intravedere per alcuni contesti anche la possibilità di una produzione di vino già nella fase finale del Bronzo: «l’elevato numero di vinaccioli ritrovati nel sito di Livorno-Stagno farebbe infatti pensare a resti di spremitura, ma la mancanza di ulteriori conferme archeologiche (utensili, recipienti o altri attrezzi da riferirsi ai processi di vinificazione), non consente di asserire con sicurezza la presenza di vite coltivata per la vinificazione» (MORI SECCI 2005, p. 70). Il riscontro di brocchette e associazione brocchette-vasche rinvenute in altri siti sardi citati dal Perra e databili fra il XIII_IX secolo a.C. potrebbe essere un indizio indiretto, ma senza la connessione diretta con residui di fermentazione, e strumentario legato alla vinificazione rimaniamo, come per molti altri casi elencati, nel campo delle mere ipotesi. I reperti di Bau Nuraxi di Triei e Funtana di Ittireddu, che al momento forniscono gli indizi più puntuali di una eventuale produzione vinaria in Sardegna si datano comunque non prima del X-IX secolo a.C., guarda caso in parallelo all'evoluzione di nuovi modelli di brocche askoidi, in epoca comunque successiva rispetto ai siti evidenziati nell'elenco iniziale. Premesso tutto ciò restano incogniti vari punti: 
1-Si può effettivamente parlare di viticoltura o di testimonianze di semplice fermentazione? Abbiamo una vasta documentazione archeologica relativa alla produzione di bevande alcoliche ottenute dalla fermentazione di uva silvestre e di numerosi altri frutti, sia soggetti a coltura, sia spontanei e di semplice raccolta. Il riscontro dei soli processi e residui fermentativi non basta per parlare di viticoltura. Questa si colloca ad un livello specialistico più avanzato ed implica l'utilizzo sia di tecniche relative alla conservazione che di specifico strumentario per invecchiamento del prodotto non riscontrate nei contesti sardi sovra menzionati. 
2- Anche qualora venisse confermato che i riscontri sardi siano da includersi fra gli esempi di vinificazione, bisogna accertare a quale grado del processo evolutivo viti- vinifero debbano essere ascritti? La pratica della viticoltura implica infatti forme primitive e forme evolute. Distinzioni fondamentali e tutt'altro che agevoli perché legate e dedotte dalla morfologia dei vinaccioli e dai loro rapporti dimensionali. 
3- Questa eventuale invenzione è da considerarsi frutto di un processo autonomo o di derivazione? Ora con tutta onestà date queste premesse e lunga lista di domande ancora insolute mi chiedo con che coraggio si propinino assunti così assolutistici. Non nascondo il mio stupore nel vedere simili primati posti a firma dell'Università di Cagliari, spero di cuore si tratti di un fraintendimento giornalistico Non meno biasimevole che questi articoli- fotocopia siano ciclicamente ribattuti sulle diverse pagine, nonostante innumerevoli rimostranze e prove di smentita presentate dagli interlocutori. A tale proposito voglio evidenziare l'imperante tendenza in molte di queste pagine, quelle stesse che si ergono a paladine della verità ed identità sarda, ad epurare chirurgicamente tutti gli interventi oppositivi. Un simile comportamento, oltre ad evidenziare una profonda scorrettezza intellettuale ed umana, palesa i reali interessi degli amministratori. Interessi, precisiamolo, che non hanno nulla a che fare con la reale ricerca storica dell'identità sarda dato che questa ne esce non solo mortificata ma anche ridicolizzata. Comportamenti simili minano quel doveroso e legittimo percorso di revisionismo storico che la Sardegna realmente si merita. Mi auguro che nei tempi futuri si lasci da parte la politica e si punti di più alla storia, ricordando che per entrambe, ma sopratutto per la prima occorrerebbe una maggiore e sincera onestà.

3 commenti:

  1. Concordo pienamente con le argomentazioni e i dubbi posti da Montalbano, che ringrazio per questa esaustiva carrellata sulla addomesticazione e coltura della vite, silvestris o sativa che sia, che non coincide ovviamente con i processi guidati di fermentazione e di produzione vinicola.
    Mi occorre precisare due cose:
    nella recente pubblicazione del libro su Bosa c'è all'inizio un estratto dal lavoro dell'amica Cinzia Loi sui pressoi che fu oggetto della sua tesi di dottorato; lei afferma che le vasche scavate nel granito a s'Abbadrucche (Bosa) sono di epoca nuragica ma non porta alcun dato materiale di scavo a sostegno della sua ipotesi (o tesi...), parrebbe per il semplice fatto che sotto l'insediamento romano c'è quello nuragico. La presenza di due doppie vasche fra le altre comporta immediatamente la comparazione con impianti identici in Calabria, da tempo pubblicati e afferenti a contesti tardo romani. Per cui avendo anche io studiato questi pressoi in tutta Italia ed avendo altre comparazioni (vedi Isola del Giglio, Italia meridionale in genere, Maremma toscana)ritengo errata la sua interpretazione perchè, come detto, non supportata da materiali datanti in stratigrafia mentre a s'Abbadrucche è invece attestata la presenza di un impianto romano di coltura della vite. Anni prima le vasche del sito erano state fantasiosamente pubblicate ed attribuite ad un impianto artigianale nuragico per la concia del pellame con il mirto...

    Altro dato che può interessare è un lavoro del 2005 a più mani ma principalmente di un mio amico, Dolara, professore emerito di Farmacologia (Università di Firenze) relativo alla miscelazione di acqua e vino in cui il vino è ritenuto agente antibatterico e depuratore della Salmonella; in sintesi, vino utilizzato nei simposii per depurare l'acqua e non acqua per diluire il vino troppo forte di gradazione.
    "Inhibitory activity of diluted wine on bacterial growth:
    the secret of water purification in antiquity"
    in https://www.academia.edu/25591592/Inhibitory_activity_of_diluted_wine_on_bacterial_growth_the_secret_of_water_purification_in_antiquity
    ed altri collaterali pubblicazioni facilmente rintracciabili sul web.
    Circa la sua ipotesi suffragata da dati scientificamente rilevati è da dire che solo il mondo accademico archeologico (non quello di Dolara) l'ha rigettata in quanto non si allinea alla letteratura antica che parla largamente di simposii a base di vino e non di acqua.
    Probabilmente la verità sta nel mezzo.

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  2. Malinu Carta Raspi scrive:
    Sembra che l'archeologa Marina Clissa che ha prodotto questa documentazione sulle origini della vinificazione sia poco presente sulla rete. Una specie di fantasma, dunque, che si materializza solo per combattere ovunque si annidi il mostro dalle cento teste e altrettante berritas: la tremenda mitopoiesi.
    Come da clichè la si butta in politica. La Biechi Sentieri, che evocava scenari da pulizia etnica nella ex Jugoslavia, docet. Ed è paradossale che la si butti in politica accusando gli altri, il perpetuo nemico mitopoietico, di essere ideologizzati. Siano essi poco probabili studiosi o nientepocodimenochè l'Università di Cagliari e l'Unione Sarda.
    E si parla di ridicolo. Manca il corollario degli ossequi alla Sanders e il classico e provinciale tributo alla False Carte di Arborea e poi siamo a posto. Belli sistemati. Perché se no si rischia il ridicolo. Magari si dovrebbe pure ringraziare.
    Ma cos'è ridicolo? Certo, alcune strampalate teorie fanno sorridere, ma non è molto più ridicolo prendere sul serio materiale non scientifico piuttosto che occuparsi di ciò che veramente arreca danno alla nostra cultura e alla conoscenza della nostra storia?
    Per esempio, a me pare assai più ridicolo che esista una fiorente pubblicistica fatta da archeologi per sparare bordate al vento, il tremendissimo vento mitopoietico, mentre poi a Olbia si costruiscono i viadotti sopra i nuraghi e i centri commerciali a ridosso dei pozzi sacri, c'è un museo bellissimo e modernissimo, ma con la muffa alle pareti dove si custodiscono le navi romane combuste dai Vandali, e non c'è invece posto per la rotella d'Archimede, spedita in aeroporto tra i turisti vacanzieri.
    Cosa davvero è ridicolo? Cosa davvero è dannoso?
    I primati chi ce li ha se li vanta, così la Tomba di Agamennone si bea di essere stata per molti secoli la più grande cupola mai costruita prima del Pantheon romano. Con buona pace di Is Paras, che avrebbe quasi gli stessi attributi per dire lo stesso, ma non può, questione di qualche centimetro.
    Che poi si sa, in Sardegna non è che siamo proprio abituati a certi primati. Tanto che quando capita l'occasione della vita si va in orgasmo mitopoietico davanti a Piero Angela vantando le statue di Mont'e Prama come le più longeve del Mediterraneo. Mentre sono soltanto le più antiche d'Europa e del Mediterraneo Occidentale. Soltanto.
    Tornando al vino. Non si fa menzione proprio delle ultime ricerche dell'Università cagliaritana a riguardo del torchio nuragico di Monte Zara che presenta tracce di acido tartarico. L'uva in un torchio serviva a fare le bolle di sapone?
    Magari sul significato e l'importanza del vino per i nuragici si farebbe meglio a chiedere a Camporeale e Rendeli. Magari loro saprebbero dire qualcosa di più interessante. Sempre a proposito di quel "doveroso e legittimo percorso di revisionismo storico che la Sardegna realmente si merita".

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  3. Sig. Montalbano, la ringrazio per l'editing, rapido ed efficace. E' una pratica un po' bizzarra per un blog, ma pur con qualche "variatio" volta a mitigarne l'asprezza continuo a riconoscere il mio commento.

    (Può anche prendere questo come un messaggio privato).

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