campo aperto, cercare nuove rotte, seguir con l’Ulisse di Dante virtute e canoscenza, “perché fatti non foste a viver come bruti”.
lunedì 19 dicembre 2016
Archeologia. Oltre il fiume Oceano: Uomini e navi romane alla conquista della Britannia. Un articolo di Attilio Mastino.
Archeologia. Oltre il fiume Oceano: Uomini e navi romane alla conquista della Britannia. Un articolo di Attilio Mastino, in occasione della presentazione al MUT- Museo della Tonnara di Stintino del libro di Cristiano
Bettini
campo aperto, cercare nuove rotte, seguir con l’Ulisse di Dante virtute e canoscenza, “perché fatti non foste a viver come bruti”.
Questo
libro dell’Ammiraglio di squadra Cristiano Bettini, già Sottocapo di Stato
Maggiore della Difesa dal 2011 al 2013 (con un curriculum davvero importante e
di tutto rispetto) vede la luce e viene presentato a pochi mesi dalla
cosiddetta Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, in un momento
storico complesso in cui il tema dell’unità del Nord e del Sud dell’Europa si
pone davvero in primo piano. L’autore conosce i luoghi di cui parla, è stato
per alcuni anni addetto militare italiano alla nostra ambasciata di Londra ed è
consapevole come <il modello politico, militare e sociale romano > sia
ancora centrale nella cultura britannica.
Il
titolo del libro edito in questi giorni da Laurus evoca uno dei grandi temi
dell’immaginario geografico e storico del mondo antico: l’Oceano, inteso nelle
rappresentazioni più antiche, come un fiume che circonda la terra e il cielo.
Nel diciottesimo canto dell’Iliade, Efesto forgia per l’eroe greco Achille uno
scudo sulla cui superficie sono rappresentate cinque zone nelle quali sono
distribuiti la terra, il cielo, il mare, il sole, la luna i segni celesti;
vengono poi raffigurati gli spazi fisici della terra: i campi arati e i
mietitori, le vigne, i pascoli e due città, una con l’agorà nella quale è
riunito il demos (il popolo), l’altra circondata da due eserciti. L’intero
complesso della rappresentazione forgiata, dal fabbro dall’inclita arte, figura
circondata dal fiume Oceano. L’Oceano non è interconnesso con gli elementi
dello scudo, esso è «l’insieme delle acque primordiali, una presenza cosmica,
un essere divino dal quale hanno origine tutte le acque ed in particolare i
fiumi terrestri. È in qualche modo la riserva freatica del mondo e la sua
cintura. Come tale non può essere realmente conosciuto ed esplorato se non
allegoricamente» (S. Magnani, Geografia
storica del mondo antico, Bologna 2003). Il passaggio dal mito alla
geografia e alla storia avviene nel VI secolo a.C. con Anassimandro di Mileto;
sulla sua rappresentazione in piano dell’ecumene (pínax), l’Oceano
esterno circonda il mondo allora conosciuto con i tre continenti affacciati sul
Mediterraneo, Europa, Asia e Africa. Ciò porta all’abbandono delle
caratteristiche mitico-cosmologiche e l’Oceano diviene un elemento geografico
che, nella cartografia del filosofo di Mileto, disegna i contorni della terra
emersa. Ad una modernizzazione del concetto di oikouméne ha dato poi un contributo decisivo,
nella seconda metà del IV secolo, l’astronomo e matematico Pitea di Marsiglia
che ha compiuto un viaggio, mai prima realizzato da alcuno, confluito nell’opera Perì Okeanou (di cui ci sono giunti pochi frammenti
e testimonianze indirette) lungo le coste oceaniche dell’Europa, da Cadice
passando per l’Armorica e le isole Casseritidi, toccando le isole Britanniche
per giungere sino all’isola di Thule (dirimpetto alle coste della Norvegia
meridionale), situata, secondo Pitea, a circa sei giorni di navigazione dalla
Britannia in direzione nord ad una latitudine approssimativa di 66°, laddove si
realizzava la coincidenza tra il circolo artico e il tropico estivo: «dove il
limite astronomico e geografico dello spazio abitabile… coincide con quello
fisico e filosofico tra la sfera terrestre e quella lunare, tra il nostro mondo
e l’Aldilà » (S. Magnani, il
viaggio di Pitea sull’Oceano, Bologna 2002). Pitea descriveva questo mare
come <un misto confuso e sospeso tra terra e acqua, un paesaggio spettrale e
nebbioso, quasi lunare, dove il solstizio d’inverno dura sei mesi e negli altri
la notte è breve, anche due o tre ore, mentre il sole né tramonta né sorge, ma
semplicemente passa all’orizzonte> (Corrado Petrocelli), direi rotola lungo
l’orizzonte. Attraverso l’esperienza diretta di un viaggio, Pitea ha dimostrato
che se alcune popolazioni vivevano in condizioni difficili a quelle latitudini,
il punto terminale dell’ oikouméne andava spostato, conferendo «al limite
astronomico il valore di confine dell’ecumene» e trasferendone «il significato
ad un piano geografico e cartografico». (S. Magnani, Da Massalia a Thule. Annotazioni etnografiche piteane,
in Dall’Indo a Thule: i
Greci, i Romani e gli altri, A. Aloni – L. de Finis (a cura di), Trento
1996).
Ovviamente
il pragmatismo di Pitea di Marsiglia ma soprattutto l’oggetto delle sue
esplorazioni, le coste oceaniche dell’Europa, si attagliano perfettamente allo
scopo di questo libro dell’ammiraglio Bettini: egli da marinaio, per formazione
e vocazione si sente portato da una parte all’azione e dall’altra allo studio
dei piani attraverso i quali l’azione può concretizzarsi; anzitutto i piani
strategici che passano anche attraverso quel modello che Vittorio Emanuele
Parsi, nella prefazione al libro, definisce di “expeditionary”, ossia un
dispositivo militare costituito da forze armate rapidamente proiettabili con un
equilibrio fra “rapidità dello spiegamento e consistenza” (ovvero
caratterizzato “dalla intrinseca capacità di proiettarsi ed operare con
continuità in teatri esterni e distanti”, ormai assolutamente necessario a
causa della multidirezionalità delle minacce mondiali).
Il
“caso Britannia” rappresenta per Bettini un esempio di conquista e
provincializzazione romana paradigmatico, in un’area rimasta periferica sino
alla prima metà del I secolo d.C. e considerata ai confini dell’oikouméne:
anche dopo la costituzione della provincia nel 43 durante il principato di
Claudio, le opere di fortificazione promosse tra la prima e la seconda metà del
II secolo d.C. dagli imperatori Adriano e Antonino Pio, note come Vallo di
Adriano e Vallo di Antonino mostrano la necessità di proteggere la provincia a
Nord attraverso un limes “pesante” che isolava la Britannia
dalla Caledonia e dalle incursioni dei Pitti. Dunque ambiente e soprattutto
popoli che continuarono a mantenersi ostili ben oltre la seconda metà del II
secolo d.C.
L’effetto
propagandistico che poteva avere una spedizione di conquista in Britannia si
coglie con precisione se si analizzano i prodromi della conquista claudiana, un
secolo prima con Cesare. Questi nel 55 a.C. compì una sorta di prima
ricognizione nelle terre al di là del Fretum
Gallicum (il Canale della
Manica), muovendo con navi e uomini da Portus
Itius probabilmente Boulogne
(la futura Gesoriacum)
(Passo di Calais) verso la costa est del Kent, in prossimità di Walmer o Deal,
a S della foce del Tamigi: tale ricognizione, che non portò ad alcun risultato
concreto dal punto di vista delle acquisizioni territoriali, fu oggetto di una
vera e propria glorificazione da parte del Senato che decretò venti giorni di
feste e celebrazioni pubbliche a Roma; la stessa eco ebbe la seconda
“spedizione” del 54 a.C. con più uomini e mezzi che condusse al raggiungimento
di una serie di alleanze diplomatiche con le popolazioni locali, pur in assenza
di vere e proprie conquiste territoriali.
A
Cristiano Bettini va dato merito di esaminare con precisione da “navarco”,
laddove le fonti lascino spazi all’incertezza, l’adeguatezza o compatibilità
dei porti di partenza e di quelli d’approdo delle navi di Cesare, il perché
Dover a causa dell’aspra e impervia scogliera, i Cliffs, fosse inadatta
all’approdo delle navi romane e nella prima spedizione si fosse preferito
Walmer (o Deal) e nella seconda Wantsum, sempre presso la costa est del Kent.
Ciò rileva da parte di Bettini una profonda conoscenza del territorio e
soprattutto, come chi opera in marina ben sa, la consapevolezza che mare e terra,
geografia marittima e terrestre sono strumenti unitari e imprescindibili per
qualunque operazione militare. In questo senso le spedizioni cesariane vengono
descritte con dovizia di particolari tratti da fonti autoptiche (in primo luogo
Cesare del De Bello gallico),
con un’attenzione al rapporto tra mezzi navali – lunghe navi da guerra (naves
longas), navi onerarie entrambe dotate di soldati con fionde
(frombolieri), frecce (sagittari) e con macchine da lancio – e truppe
da sbarco. Consapevole delle abilità strategiche del grande Cesare,
scrive Bettini: «Si tratta, in fondo, di un uso moderno della flotta a
copertura dei “marines” che sbarcano, attuato anche con macchine da lancio,
come balestre, lancia-giavellotti e, forse, catapulte imbarcabili, che davano
una copertura tra 300 e 1000 metri circa. Anche le unità più piccole da
esplorazione, gli speculatoria
navigia ed i tender delle
navi militari, scaphae,
collaborarono nel trasportare i legionari a terra più rapidamente perché i
primi a sbarcare non venissero sopraffatti». Il ritardo (nella prima
spedizione) nell’arrivo delle navi che trasportavano la cavalleria, lo
scoppiare di una tempesta, con il mare in burrasca, forse a forza 8-9, lo
sconquasso delle navi da trasporto con le ancore che dovettero cominciare ad
arare in rada, scontrandosi le une con le altre, suggeriscono al nostro autore
che Cesare avesse comunque imparato a proprie spese «che ormeggiare le navi
come in Mediterraneo, non era fattibile e sicuro nei mari del nord».
Nella
bella postfazione, il mio amico Rettore Emerito di Bari Corrado Petrocelli
spiega benissimo i limiti delle due spedizioni in Britannia di Cesare, ostaggio
di informazioni imprecise e intempestive: egli rivelò la Britannia a Roma ma
non gliela lasciò in eredità.
Certo
è che l’ammiraglio Bettini spende parole lusinghiere nei confronti del valore
di alcuni capi delle popolazioni autoctone della Britannia come Commio, capo
degli Atrebati già elogiato da Cesare (a proposito del quale analizza il
problema dell’esistenza di due capi tribali con lo stesso nome), mostrando di
inserirsi appieno – per venire al nostro oggi - nella politica delle forze
armate italiane tendente a stringere rapporti di parità sul piano culturale con
le popolazioni locali, nel pieno rispetto delle loro identità (due anni fa in
Afganistan un colonnello dell’Aviazione inquadrato nella forza italiana
coordinata dalla Brigata Sassari ha sorprendentemente discusso con noi sul
superamento dell’impostazione culturale, che credevamo progressista, del volume
di Alberto Mario Cirese: Cultura
egemonica e culture subalterne del 1971).
Per
quanto riguarda gli eventi militari successivi ricorderemo alcuni progetti di
spedizione da parte di Ottaviano Augusto e la farsesca spedizione di Caligola
in prossimità del canale della Manica, con dispiegamento di truppe, baliste e
macchine e l’ordine imperale di: «raccogliere le conchiglie e di riempirne gli
elmi e le vesti, dicendo che quelle erano le spoglie dell'Oceano dovute al
Campidoglio e al Palatino. In ricordo della sua vittoria fece costruire una
torre molto alta, dove i fuochi dovevano brillare tutte le notti, come sulla
cella del Faro, per illuminare la rotta delle navi…» (SUET. Calig., 46).
Ma
la vera e propria conquista della Britannia venne realizzata da Claudio a partire
dal 43 d.C. Bettini sottolinea come, anche in questa occasione, vi fossero
resistenze da parte dei legionari, preda del timore reverenziale e
superstizioso di fronte alla navigazione oceanica e alla possibilità di essere
spinti fuori rotta; del resto erano note le perdite umane e di navi che avevano
già caratterizzato la spedizione di Cesare, ripetutesi poi nel 15 d.C. con
Germanico nel Mare del Nord, in occasione della navigazione dall’estuario del
fiume Amisia (oggi Ems a E dell’Olanda) fino al Reno. A questo proposito
l’autore cita le parole del poeta Albinovanus (note attraverso le Suasoriae di Seneca) presente nella spedizione
di Germanico, che ben sottolineano il terrore quasi religioso provocato dalla
navigazione nelle acque dell’Oceano. Solo la grande perizia e autorevolezza di
Aulo Plauzio, incaricato da Claudio di condurre la spedizione in Britannia a
fianco del popolo degli Atrebati messi in difficoltà dai Catuvellani, pose fine
alla rivolta dei legionari sulle coste settentrionali della Gallia; occorre poi
ricordare che in questa circostanza, secondo la testimonianza di Cassio Dione,
intervenne il liberto imperiale Narcisso che come emissario di Claudio, riuscì
a convincere le truppe ad abbandonare le resistenze e a salpare per lo sbarco
in Britannia. Le quattro legioni romane: IX Hispana (comandata da Cn. Osidio
Geta), II Augusta (comandata da Vespasiano), XIV Gemina (comandata da T. Flavio
Sabino), XX Valeria Victrix (secondo Eutropio comandata da Cn. Saturnino,
testimonianza del IV sec. d.C. e di attendibilità incerta), fanti di marina e
ventimila ausiliari (tratti da Traci e Batavi), sbarcarono secondo alcuni a
Richborough (l’antica Rutupiae)
nel Kent, località strategicamente eccellente per via del ridosso fornito
dall’isola di Thanet (ipotesi preferita da Bettini), secondo altri nel Sussex,
nel Solent o nell’Essex (ipotesi analizzate ma bocciate da Bettini), tra il 43
e il 51 d.C. (fino al 47 sotto la guida di Aulo Plauzio e successivamente di
Ostorio Scapula). Le truppe romane sconfissero i Catuvellauni di Verulamium
(guidati da Togodumno e Carataco) presso i fiumi Medway e Tamigi; poi valendosi
del sostegno dei Briganti della regina Cartimandua, Aulo Plauzio marciò su Camulodunum (Colchester) capitale dei
Catuvellauni, primo nucleo della provincia romana, dove fu raggiunto da Claudio
che per qualche settimana partecipò personalmente alla battaglia finale e
dichiarò avvenuta la conquista della Britannia. L’isola fu solo allora
costituita come provincia al cui governo fu preposto un legatus Augusti pro praetore di rango consolare.
Piero
Meloni, Giovanna Sotgiu e Guido Clemente nel lontano 1969 ci avevano portato,
studenti, a visitare le rovine Camulodunum, la fortezza del Marte celtico, con
le grandi sostruzioni del tempio del divo Claudio: ho un lontano ricordo di
quel viaggio indimenticabile. Oggi noi sappiamo che Colchester fu dedotta come colonia Vitricensis nel 49 d.C. e fu espressione di una
urbanizzazione modello: gli scavi hanno messo in luce il podio del tempio per
il culto imperiale, di matrice militare ma sempre osteggiato dalle popolazioni
locali. L’imperatore tornò a Roma nello stesso anno e rifiutò decisamente il cognomen ex virtute di Britannicus, che pure entrò a
far parte del nome del figlio suo e di Messalina Tiberio Claudio Cesare
Germanico, nato due anni prima: venne celebrato un imponente trionfo come
attesta l’iscrizione urbana sull’arco trionfale del 52 (CIL VI 920), dove Claudio viene onorato
come vincitore di undici re: [q]uod
reges Brit[anniai XI devictos sine] ulla iactura[a in deditionem acceperit]
gentesque b[arbaras trans oceanum primus] in dici[onem populi romani redegerit],
ricostruita da Th. Mommsen su Tacito Ann. 12, 35 ss., con riferimento
all’eroismo di Ostorio Scapula: <<le file dei Britanni si scompigliavano,
perché privi della difesa di elmi e corazze; e se tentavano di resistere agli
ausiliari, erano falciati dai gladi e dai pili dei legionari; se affrontavano
questi ultimi, cadevano sotto le lunghe spade e le aste degli ausiliari. Quella
vittoria fu splendida e caddero prigioniere la moglie e la figlia di Carataco,
mentre i suoi fratelli si arresero>>).
Seguendo
Luttwack Bettini definisce quella del 43 d.C., una spedizione per la conquista
in profondità, per la quale nei porti di Boulogne (Svetonio) come pure di
Ambleteuse vennero raccolti circa 40.000 uomini con l’aggiunta di un migliaio
di “addetti alla logistica” e schiavi, cavalli, e ingenti attrezzature,
macchine da guerra e rifornimenti: il numero di navi impiegate, secondo
l’autore può fissarsi tra le 900 e le 1000 unità: «il che rimane compatibile
con l’ipotesi di tre ondate sbarcate in successione sull’isola, tutte nella
stessa area (non necessariamente nello stesso luogo), come ritengo più
verosimile». Risulta davvero interessante il calcolo della quantità di
approvvigionamenti in grano per un lasso di tempo di circa tre mesi, 3500
tonnellate, cui andavano aggiunti quantitativi sufficienti di carne e vino per
i soldati, per garantire un’autonomia durante i mesi invernali della campagna
militare, quando il mare
clausum avrebbe impedito
rinforzi e altri rifornimenti dalla Gallia attraverso la Manica. Del resto
andava poi considerato il foraggio per i circa 10.000 muli necessari per i
trasporti (pochi elefanti dice Bettini con esigenze limitate). Quanto allo
sbarco presso Richborough, l’autore mostra come l’esperienza in campo militare
possa servire a inserirsi nel dibattito storiografico rispetto ad una
testimonianza controversa delle fonti, nello specifico Cassio Dione (LX, 19)
che fa riferimento ad un frazionamento delle forze romane in tre colonne e ciò
avrebbe portato una buona percentuale degli storici britannici a ipotizzare
diversi punti di approdo della flotta ad es. Fischbourne e Chicester: in realtà
si sarebbe trattato di uno sbarco in tre ondate a poca distanza di ore l’uno
dall’altro, sempre nel tratto di mare che va da Richborough a Reculver, dovuto
alla necessità di non congestionare le operazioni di sbarco: «poiché la ritengo
la più plausibile militarmente» scrive Bettini che si cimenta, forte di un
efficace pragmatismo nella traduzione dal greco dello storico di epoca
severiana. «Plauzio suddivise le sue forze in tre ondate, in modo che sbarcando
in un’unica area non si ostacolassero nello sbarco». Per quanto riguarda Rutupiae-Richboroug poi vengono
analizzate le testimonianze archeologiche di epoca romana, quello che Bettini
chiama un fortilizio, con due muri paralleli di 640 metri, posti sulla sommità
del promontorio: attorno a questa costruzione militare difensiva sarebbe
successivamente sorto un villaggio a popolamento misto, soldati romani e
popolazioni romanizzate del Kent. Certo è che Bettini ritiene che Richborough
sia in breve tempo divenuto: «il principale hub marittimo
del sud-est della Britannia per lo smistamento delle merci». All’importanza di
questo porto d’imbarco andrebbe collegato il “tesoretto di Bredgar” costituito
da 37 aurei con l’effigie di Claudio, rinvenuto a Maidstone nel Kent, forse
sotterrato da militari o mercanti prima di imbarcarsi a Richborough.
Il
concetto di conquista in profondità verso l’area di Camulodunum in
un certo senso contrasta con il basso numero di fortificazioni che sono state
rinvenute nel sud-est della Britannia: ciò per Bettini potrebbe significare che
i popoli di quell’area dell’isola non valutavano del tutto negativamente i
Romani, forse consci del fatto che i veri nemici per Roma erano Carataco e la
coalizione dei Catuvellauni. L’autore riporta che: «lo storico John Manley
estremizza questo concetto con un’analogia alla percezione da parte di quelle
popolazioni, di un’odierna operazione di peacekeeping.
Bird rinforza questo concetto, affermando che i Romani inizialmente intendevano
più combattere le forze coalizzate che annettersi il territorio, perché i veri
nemici erano a nord del Tamigi (Catuvellauni) e ad ovest nel Dorset
(Durotrigi)». Del resto tra il 45 e il 46, Vespasiano il futuro imperatore,
dovette sedare la rivolta degli Iceni mentre le campagne successive fecero
avanzare il confine tra i fiumi Severn e Hamber, sebbene anche dopo la cattura
di Carataco nel 51 e lo spostamento del confine fino ai Welsh Marsh (un luogo
imprecisato al confine tra Inghilterra e Galles): sappiamo che proprio il
Galles rimase costantemente in preda alle ribellioni, come pure lo Yorkshire,
il regno dei Briganti.
Un
risultato certamente importante e duraturo venne rappresentato dalla creazione,
in occasione della spedizione britannica di Claudio, forse nel 43, della Classis Britannica, la flotta
di supporto alla conquista, ormeggiata dapprima a Gesoriacum (Boulogne-sur-Mer) e destinata a
durare anche dopo la nascita della provincia romana per pattugliare il Fretum Gallicum, le acque
prospicienti la Britannia e per lo svolgimento di funzioni di rifornimento e
logistiche. Già con Claudio la sede della Classis venne
spostata a Rutupiae (Richborough) e, dopo
l’istituzionalizzazione di questa flotta con i Flavi, essa fu trasferita
nell’85 d.C. a Portus Dubris (Dover), con distaccamenti a Portus Lemanis (Lympne)
e Anderitum (Pevensey). Risulta assai nota la
circumnavigazione della Scozia, effettuata dalla Classis, negli anni in cui
era governatore Giulio Agricola. La Scozia poi venne attaccata nell’83 d.C.
La
grande rivolta degli Iceni della regina Boudicca, alla quale aderirono Londinium e Verulamium, a partire dal 60,
culminò nel massacro dei coloni romani di Camulodunum e fu sedata da Svetonio Paolino, il
sanguinario uccisore dei druidi rifugiati sull’isola di Mona, oggi
Anglesey; in età Flavia riprese l’avanzata romana per lo spostamento
verso nord dell’area di influenza sino alla conquista del Galles e della
Britannia settentrionale da parte di Giulio Agricola il suocero di Tacito
(77-84). La cadrai disgrazia di Agricola presso Domiziano ebbe serie
conseguenze: si verificò un deciso arretramento con la rinuncia alla Scozia, a
cui corrispose uno spostamento di truppe nell’area germanico-danubiana, e la
smobilitazione di una rete di forti nel territorio dei Pittii: dopo la sua
visita nell’isola nel 122 d.C., Adriano fece costruire il muro fortificato che
da lui prende il nome di vallum
Hadriani, lungo la strada romana dal golfo di Solway fino a Newcastle upon
Tine; lo Stanegate che corre tra Carlisle e Corbridge. La realizzazione di tale
progetto che mise fine al’avanzamento romano in Scozia fu portata avanti grazie
alle legioni, i corpi ausiliari e alla classis
Britannica; presso il forte di Vindolanda (Chesterholme)
sullo Stanegate la famosa scoperta archeologica delle 800 tavolette lignee
inscritte in latino corsivo testimonia come l’attività militare di questo avamposto
nei confronti dei Brittunculi,
fosse ormai assai limitata negli anni tra il 90 e il 130. A partire dal 142
d.C. venne fatto costruire da Antonio Pio un Vallo più avanzato sulla linea
Clyde Forth in Scozia, non più con pietrame ma con zolle di terra.
Questo Vallo sembra essere rimasto
attivo oltre il principato di Commodo: dopo la morte dell’imperatore la
Britannia venne coinvolta nella lotta per la conquista del potere attraverso il
suo governatore dal Clodio Albino. Con l’acclamazione del legato della Pannonia
Settimio Severo che divenne imperatore nel 193, le popolazioni della Britannia
in particolare i Meati e i Caledoni della Scozia, agevolate dal fatto che in
occasione della scontro tra i pretendenti all’impero le truppe romane fossero state
allontanate per intervenire in altri teatri di guerra, ripresero le ostilità
contro i Romani: fu forse per questo che Settimio Severo nel 208 intraprese
un’iniziativa nella Britannia settentrionale di cui non conosciamo con
precisione gli eventi militari, ma che si concluse con l’assunzione del cognome ex virtute di Britannicus
Maximus. Poco prima di morire l’imperatore africano fece collocare la
statua della Concordia a Eburacum (York) alternativamente negli appartamenti di
Caracalla e in quelli di Geta. La morte dell’imperatore il 4 febbraio 211 fece
decidere i figli che trasferirono il corpo del padre a Roma e posero termine
alle ostilità, anche se Geta fu ucciso dal fratello; si tornò allora
all’assetto territoriale segnato dal Vallo di Adriano e la Britannia fu divisa
in due province Superior (con un governatore di rango pretorio)
e Inferior (con un governatore di rango
consolare).
La
fase degli usurpatori Carausio e Alletto viene analizzata con grande interesse
da Bettini, probabilmente anche per il ruolo svolto dalla Classis Britannica (fonti Aurelio Vittore ed Eutropio):
il menapio originario della Belgica Carausio, distintosi al fianco di
Massimiano nella campagna militare contro i Bagaudi del 286, dalla fine di
quello stesso anno nominato comandante della Classis
Britannica, era stato incaricato dall’Agusto Erculeo a combattere i pirati
franchi e sassoni; successivamente lo stesso Massimiano aveva cercato di farlo
eliminare, venuto a conoscenza di sue intese con i pirati. A quel punto
Carausio si fece acclamare imperatore rifugiandosi in Britannia con la flotta
che aveva raccolto ai suoi ordini; Massimiano impegnato in Germania non poté
contrastarlo immediatamente ma si trovò ad intervenire solo nella primavera del
289: la sua flotta fu altresì danneggiata da una tempesta e Carausio ebbe la
meglio su di lui. L’usurpatore riuscì a presentarsi come liberatore della
Britannia dall’oppressione romana e ad estendere la sua sfera di influenza
sulla costa della Gallia, sostenuto dalle legioni stanziate in quelle aree:
sono indicativi in questo senso i conii battuti a Londinium e
forse a Camolodunum con la legenda Restitutor Britanniae e Genius Britanniae. Del resto
a proposito della monetazione Bettini cita la famosa emissione con la
rappresentazione personificata della Britannia che stringe la mano a Carausio e
la legenda: expectate veni e la monetazione con la quale Carausio
cerca di accreditarsi come terzo Augusto comparendo con Diocleziano e Massimiano: Pax Auggg.; Laetitia Auggg.; Carausius et fratres sui. A
proposito di tale monetazione va sottolineato che dopo la sconfitta di
Massimiano, questi, supportato da Diocleziano, convenne sulla necessità di
riconoscere a Carausio il suo potere sulla Britannia e di affidargli le
operazioni contro i pirati germani, tant’è che l’usurpatore dopo tale
riconoscimento assunse il nome M.
Aurelius per accreditarsi
come fratello di Massimiano. In quest’ottica rientra anche l’emissione con il
terzo consolato, per quanto i due tetrarchi non lo abbiano mai citato come
console nei documenti ufficiali. La stagione di Carausio si concluse nel 293
quando il suo prefetto del pretorio (forse rationalis
summae rei) Alleto, lo uccise e lo sostituì nelle sue funzioni sulla Britannia
e la Gallia settentrionale.
Bettini
dedica grande spazio alla riconquista della Britannia (296 d.C.) da parte del
cesare Costanzo Cloro, che per sconfiggere Alletto e per sbarcare nell’isola si
affidò alla strategia consolidata di Cesare ma soprattutto di Claudio, cioè
quella di utilizzare diversi porti di partenza per la flotta, anzitutto
Boulogne-sur-Mer, che era stata dotata di un molo per chiudere il porto
nell’ansa di Brequerecque (probabilmente per aumentare la capacità d’ormeggio
ma anche in funzione difensiva) e un secondo porto sulla Senna, più a SW.
Secondo i panegiristi del IV secolo, Alletto, la cui flotta era probabilmente
ormeggiata a ridosso dell’isola di Wight al largo di Southampton, a causa della
fitta nebbia fu sorpreso da Giulio Asclepiodoto, prefetto del pretorio di
Costanzo, che dopo aver fatto bruciare le navi sbarcate nell’area ridossata del
Solent, raggiunse Alletto sconfiggendolo, mentre la flotta al comando di
Costanzo Cloro si diresse verso Londra per combattere contro i mercenari di
Alletto, dove nel 296 Costanzo venne accolto come liberatore: redditor lucis aeternae.
L’ammiraglio Bettini ritiene che la scelta di muovere da due diversi punti di
sbarco fosse dovuta al piano di dividere le forze dell’usurpatore,
sorprendendole in una sorta di tenaglia: si sarebbe così resa vana «una sua
resistenza incentrata sulla capacità di avvistamento e difesa dei Saxon Shore,
in particolare quelli del Kent e del Sussex». Cosa erano i Saxon Shore, il litus saxonicus? Una linea
fortificata di installazioni militari, speculari alle esigenze della Classis Britannica, posta
sotto il controllo del comes
litoris saxonici per Britanniam; la serie di postazioni fortificate iniziò
ad essere costruita presumibilmente alla fine del II secolo d.C. con i forti di
Reculver e Brancaster proseguendo poi nel III secolo (a partire dal 275) con
Richboroug (all’altra estremità del canale di Wantsum rispetto a Reculver),
Pevensey e Lympne. La linea dei Saxon Shore venne senza dubbio potenziata da
Carausio per difendersi e arroccarsi sulle sue posizioni in Britannia e non già
per azioni di contrasto alla pirateria, a questo periodo risalirebbero
Portchester e Pevensey; il forte romano di Burgh Castle invece venne edificato
dopo Costanzo Cloro e Costantino a partire dal 320. Tali postazioni avevano lo
scopo di fornire supporto logistico alla flotta come pure alle legioni, con una
funzione di avvistamento: si assicurava in tal modo l’efficienza strategica
romana sui due versanti della Manica (per quanto riguarda il settore
settentrionale della Gallia le fortificazioni si estendevano sino all’Armorica
dove stazionava la Classis
Sambrica) e si favoriva lo shipping attorno
alla Britannia. Con la sua estrema precisione Bettini sottolinea poi il cambio
di passo, in epoca tardoantica, nelle costruzioni navali militari: le navi con
alte prore e poppe e dotate di un solo ponte di vogatori erano di dimensioni
più modeste rispetto al passato, per rispondere ad una esigenza di dispersione
presso vari porti marittimi e fluviali e per poter agire prontamente in caso di
attacco da parte dei pirati, per quanto tali imbarcazioni incontrassero alcune
difficoltà nel navigare stringendo il vento.
Da
ultimo vengono analizzate l’architettura e le costruzioni navali, con le loro
peculiarità legate alla navigazione oceanica, quanto a robustezza, stabilità,
velocità, armamento. Mi immagino che l’autore vorrà parlarcene in dettaglio.
Colpisce in senso positivo, all’interno della narrazione di questo testo, la
modernizzazione del linguaggio tecnico-strategico, che da un lato può
considerarsi come un portato della storiografia anglosassone e dall’altro
deriva senza dubbio dall’esperienza marinara dell’autore: mettendo a fuoco la
storia militare del mondo romano, Bettini parla sia a proposito della spedizione
di Cesare che poi della conquista di parte dell’isola sotto Claudio oltre che
di “expeditionary” di “una migliorata organizzazione anfibia”; tutto ciò
ribalterebbe il luogo comune dell’esercito romano da considerarsi un “trained
automata” (“una monolitica macchina bellica”). Del resto nel rapporto tra
comizi e consules in epoca repubblicana, e poi tra
grandi comandanti militari (come Mario) e legionari, l’ammiraglio vede
piuttosto che un’organizzazione monolitica, una forma di partecipazione dei cittadini-soldato
alle scelte dei comandanti, una sorta di “diritto di consenso”, tanto che si
dovrebbe parlare di una gerarchia militare top-down e bottom
upwards, certamente diversa da quella attuale e caratterizzata dal
rapporto fiduciario con i comandanti. La scelta del linguaggio deriva anche
dall’uso delle opere di esperti di strategia militare, come Edouard Luttwak che
viene spesso citato dall’autore nelle conclusioni; certo è che l’analisi del
tema della logistica della Marina romana, della logistica integrata, della
logistica di aderenza e della logistica di sostegno secondo il linguaggio della
strategia contemporanea, applicata al mondo antico attirano l’interesse dei
lettori: paragrafi interi vengono dedicati al foraggiamento,
all’approvvigionamento idrico, alla costruzione di strade e ponti, alla sanità
a bordo delle navi e in campo. Appare oggi evidente che senza una grande
organizzazione militare alcune gigantesche imprese sarebbero state impossibili,
come quelle di Cesare che si svolsero dalla Britannia alle Gallie all’Egitto,
dalla Hiberia al Nord Africa, alla Sardinia fino alla fondazione di Turris
Libisonis nel golfo dell’Asinara. Il modello antico appare ancor oggi
interessante da conoscere e studiare in un’ottica strategica di intervento militare
e peacekeeeping, anche se nel mondo che viviamo i contrasti, i rischi e i
tragici pericoli dei nostri giorni non vengono da un lontanissimo finis terrae o dal fiume Oceano ma piuttosto dal
cuore stesso del Mediterraneo e da entrambe le sue sponde.
Fonte:
http://www.attiliomastino.it
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento