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mercoledì 10 novembre 2010

I potenti Shardana - 2° e ultima parte


Tramonto a Occidente
di Luciano Gometz

Stupefacenti navi, snelle e affusolate quelle da guerra, panciute e solide quelle da carico, veri cargo dell'antichità, dotate di alette stabilizzatrici sotto la chiglia, un ritrovato che gli ingegneri navali hanno riscoperto solo nei primi anni del 900. Solcavano il mare in tutte le direzioni, commerciando o talora depredando, la pirateria non era allora così disdicevole. Omero ci racconta che Achille si vantava di aver messo a sacco 90 città. Possiamo vedere al vivo l'aspetto del re e dei guerrieri, ma anche della gente comune, il portatore d'acqua, il venditore di ciambelle. Possiamo vedere le donne, con quei cappellini che Dior non avrebbe esitato a copiare. Dovevano essere superbe, le donne shardana, superbamente belle. Portavano larghe gonne a tre balze che arrivavano fino ai piedi, e un giubbino aderente che fasciava la schiena e le spalle lasciando scoperti i segni, in modo che gli orgogliosi guerrieri ricordassero sempre che di lì era venuto il loro primo nutrimento, e di lì sarebbe venuto il primo nutrimento dei loro figli. Ritroviamo gli stessi modelli nei dipinti di palazzi di Cnosso a Creta, a riprova che anche allora la moda varcava i mari, ma non sapremo mai se gli Armani o Valentino dell'epoca dimorassero a Creta o in Sardegna. Questa immensa produzione statuaria era destinata in parte alle esigenze del culto e si collocava nei templi e nei santuari, ma verosimilmente veniva anche venduta e acquistata nelle fiere e nei mercati a scopo puramente ornamentale. È possibile che le statuine fossero dei veri e propri status symbol dell'epoca, e chi poteva permettersele marcava così il suo censo. Tutto questo ci permette di delineare una società complessa, al cui vertice stavano probabilmente gli architetti delle torri, in virtù del loro superiore sapere tecnico, che doveva essere considerato dal popolo segno distintivo del favore delle divinità. Nulla sappiamo circa la forma di governo e la titolatura dei capi.

Forse si chiamavano Vanax come il re micenei o forse no, in ogni caso non conosciamo neppure i loro nomi, travolti nei gorghi della storia assieme alla loro lingua. Rimangono poche decine di vocaboli, che non essendo Fenici, non essendo greci, né latini né arabi, potrebbero appartenere al sostrato nuragico, ma la certezza non la raggiungeremo mai. Del pari nulla di certo sappiamo sull'origine degli shardana, ma il mistero dei misteri riguarda il perché, più o meno all'improvviso, abbandonarono le loro torri e tutto quanto in secoli e secoli avevano costruito per affidarsi al mare, e raggiungere terre lontane e ostili. Fu un'improvvisa smania di conquista e di bottino? Si direbbe di no, considerato che sulle navi imbarcarono anche donne, bambini e carri, i rilievi sui templi egizi e i loro resoconti tramandati ce ne danno puntuale conferma. Gli studiosi si accapigliano da par loro su questo enigma, e per il momento volano insulti. Forse con i nuovi modernissimi mezzi di indagine, con l'esame comparato del DNA, si riuscirà a risolverlo, ma ci vorranno anni, ci vorrà soprattutto uno studioso di genio che riesca a ribaltare le incrostazioni mentali stratificate in decenni di pedissequa acquiescenza a ipotesi precostituite. Un'altra cosa che intristisce il cuore è che degli 8000 nuraghi residui, soltanto un centinaio sono stati scavati sistematicamente, solo uno ogni 80. Questo ci dà un'idea di quale immenso patrimonio di conoscenza si celi tuttora sotto i nostri piedi, abbandonato senza difesa alle avide cure di tombaroli e mercanti senza scrupoli. Dopo gli sconvolgimenti causati dalle migrazioni dei popoli del mare, ci fu un intervallo di secoli, e quando lo scriba del re di Tiro, percorrendo all'incontrario la stessa rotta, approdò all'isola del mistero, trovò le torri semidiroccate, e una gente stranita che non conservava se non labili tracce della grandezza di un tempo. E si dovette aspettare che fosse ritrovata la stele di Rosetta, che Champollion decifrasse quei segni astrusi, perché si potesse leggere sulle colonne dei templi di Luxor almeno il nome di quella stirpe leggendaria, misteriosamente uscita dalla storia. E se la terra è senza storia, sarà la geografia a raccontarcela, se solo avremo occhi e cervello per penetrarla, se sapremo leggerla con amore. Percorrendo le antiche rotte, arrivando da Oriente, non sui traghetti superveloci, quegli orribili recipienti metallici, ma su una piccola barca a vela che fila i 5-6 nodi come le navi shardana, vedremo apparire una terra alta e aspra, montagne dopo montagne, e scogliere selvagge a picco sul mare. Metteremo la barra a sud, doppieremo la lunga salsiccia di Serpentara, eviteremo le secche dell'isola dei Cavoli, e all'improvviso ci si aprirà davanti un ampio golfo orlato di spiagge bianchissime. Ci verrà naturale puntare su quella al centro. Centinaia di metri di spiaggia, riparata da ogni vento, un punto di approdo ideale per le navi shardana, che erano poi grossi barconi che venivano tirate a secco per il bivacco notturno. Su un lato della spiaggia sfociava un torrente (vi sfocia tuttora quando le piogge sono abbondanti) che permetteva agli equipaggi di dissetarsi e ricostituire le scorte di acqua. Alle spalle una breve pianura, e tutt'attorno una cerchia di collinette raggianti come una muraglia, fino a 500 m di quota, ricoperte da una vegetazione fittissima e impenetrabile. Dalla cerchia si stacca una collinetta più bassa, un cono perfetto alto una sessantina di metri, e cosa troviamo sulla cima? Troviamo il solito nuraghe, piazzato lì a protezione dell'approdo. È un vero peccato che le migliaia di vacanzieri che d'estate si rosolano al sole sulla spiaggia non vadano neppure a vederlo. È un vero peccato, perché potrebbero vedere ancora quasi intatto uno spaccato di vita di 3500 anni fa. Grattando appena la terra con le dita saltano fuori i frammenti di ceramica, forse di piatti e brocche lanciati fuori in un'estrema difesa, perché il nuraghe fu bruciato, se ne vedono chiarissimi i segni alla base della costruzione. E guardando abbasso, alla base della collinetta, si scorgono, dispersi in un mandorleto rinselvatichito, allineamenti di pietra che non possono essere casuali, e in mezza giornata di lavoro, con vanghe e badili, si tirerebbe fuor di terra il villaggio che offriva ricovero agli antichi marinai.

Ma non si tirerà fuori un bel nulla. Intanto non ci sono i soldi, e poi si farà finta di non vedere e di non sapere, e magari tra qualche anno sui resti dell'antico villaggio sorgerà una bella fila di villette a schiera, € 5.000 al metro quadro. Allora anche il paesaggio non avrà più nulla da dirci. Diventerà muto testimone di civiltà che sono fiorite e scomparse, e il tramonto non sarà più, come per il passato, lo svanire del sole all'orizzonte d'Occidente, sarà il tramonto del nostro spirito.

Ringrazio, ancora, il caro amico Luciano per avermi fornito questo breve racconto, da lui scritto nel 2004 e pubblicato nel 2005 sulla rivista "Volere Volare", grafiche Solinas.

Le immagini sono di Franco Montalbano, Sara Montalbano e Daniele Cortis.

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