Archeologia e storia dei popoli. La potenza politica di Atene e la "macchina del fango", un espediente ancora oggi utilizzato dalla politica.
Articolo di Matteo Riccò
La cosiddetta “macchina del fango” è uno degli ingranaggi più sfruttati dalla politica, non lo scopriamo certo oggi. Non credo stupisca nessuno, pertanto, che il caso più antico - ma probabilmente anche uno dei più celebri, risalga alla prima esperienza di democrazia occidentale, ovverosia all’antica Atene.Si tratta del c.d.
“scandalo delle Erme”, un episodio che talvolta trova ancora spazio nei
programmi di storia delle scuole superiori, solitamente salutato dagli sbadigli
annoiati delle scolaresche. Inconsapevoli, queste, di avere di fronte il
prototipo di tutti i telefilm polizieschi e di tutte le serie politiche alla
House of Cards di cui i nostri ragazzi sono, d’abitudine, avidissimi
consumatori.
Ma andiamo con ordine,
e partiamo dai fatti - quelli noti, almeno. Atene, anno 415 a.C., una notte
imprecisata del mese di Targelione, ovverosia fra la metà di maggio e la metà
di giugno del nostro calendario. E’ buio: è una di quelle notti di luna nuova
in cui, nelle città antiche, l’oscurità regnava sovrana sugli angoli delle
strade. Ed in cui, a meno di uscire in brigata, era meglio starsene in casa per
evitare guai. A patto che di casa non si uscisse apposta per provocarli, i
guai.
Come quella notte.
Quella notte, viene deciso il destino di migliaia di persone - eppure non scorre del sangue. Non
abbiamo, quantomeno, notizie di omicidi o di atti di violenza urbana. Il che, tuttavia, non rende meno grave ciò che fu evidente alle prime luci del mattino.Le statue di Hermes
sono state mutilate. Tutte - tranne una.
Hermes è un nome che
mantiene un minimo di familiarità anche al lettore del XXI secolo. Si tratta,
per farla facile, del Dio greco caratterizzato da uno strano berretto, un
bastone simile al caduceo dei medici, e delle scarpette alate che fanno molto Nike
Air Jordan del V secolo a.C. Protettore dei commerci (e della truffa, a voi le
possibili interpretazioni), Hermes era anche e soprattutto il custode delle
anime nel loro ultimo viaggio al regno dei morti (i.e. “psicopompo”, ovvero “il
conduttore delle anime”), funzione cui il famoso bastone era appunto associato.
Ad Atene, però, Hermes era soprattutto il portemanteau di antiche e mai
dimenticate divinità pre-elleniche associate al culto della fertilità: in suo
onore (con l’attributo di Hermes Ctonio) si celebravano rituali specifici nel
mese di Antesterione (Febbraio-Marzo), che prevedevano per l’appunto offerte
alle statue del Dio che punteggiavano la cartina dell’antica città Greca,
indicativamente in corrispondenza di ogni incrocio. Immaginate una cosa simile
alle edicole che, di quando in quanto, compaiono nelle nostre campagne - e che
a loro volta sono eredi di una non dissimile religiosità popolare preistorica.
In omaggio a questa sua primigenia natura di Dio della fecondità, le statue di
Hermes avevano caratteri un po’ particolari. Si trattava di busti stilizzati
(in alcune addirittura il viso si semplificava al punto da diventare
faticosamente riconoscibile), eredi dei primordiali menhir e delle steli
megalitiche, in cui la parte inferiore del corpo invariabilmente comprendeva un
enorme fallo (rigorosamente eretto) in bella vista cui, nei rituali di cui
sopra, erano appese corone di alloro ed altri doni votivi, rappresentando parte
integrante del rituale religioso. Ed è proprio contro il fallo delle Erme che
la furia degli ignoti vandali si è scagliata. Nell’antica Atene non c’era
Twitter, non c’era Facebook, non c’erano giornali e TV. Ma lo scandalo è così
grande che, nel giro di pochissime ore, tutta la città ne viene a conoscenza,
fra il furore e l’imbarazzato.
Non si trattava delle
feste religiose, le Targelie, che danno il nome all’undicesimo mese del
calendario religioso ateniese: la festività lustrale, invero piuttosto cruenta
(il rituale prevedeva di percuotere sui genitali un uomo e una donna per le vie
di Atene fino a cacciarli dalle mura urbane affinché portassero tutti i mali
con sé) si era, infatti, celebrata diversi giorni prima, indicativamente fra il
23 ed il 24 maggio del nostro calendario. No. L’eccitazione della metropoli
ionica era legata ad un evento estemporaneo, che - in un modo o nell’altro,
avrebbe cambiato il destino di Atene, e di questo i cittadini ne erano ben
consci, sebbene non potessero minimamente immaginarne il disastroso esito.
Poche settimane prima,
l’Assemblea ha infatti approvato un’ambiziosa spedizione militare contro la
città di Siracusa, in Sicilia. Spedizione che, nelle finalità del suo più
acceso promotore - il trentacinquenne Alcibiade, il leader della casata degli
Alcmeonidi, dovrà portare tutta l’isola sotto il controllo di Atene, ponendo le
basi di un grande impero Mediterraneo. Per questa spedizione, l’Assemblea ha
deliberato spese eccezionali, sia per la costruzione delle navi necessarie, sia
per il reclutamento dei rematori, sia per il rimborso dei cittadini che
avrebbero dovuto prestare servizio militare oltremare per chissà quanto tempo.
Fiumi di soldi attraversano la città di Atene, distribuendosi nelle tasche di
tutti coloro che sono, in qualche modo, coinvolti nell’allestimento della
flotta: falegnami, carpentieri, ma anche tessitori, mercanti di vino, cereali,
cavalli, fabbri - e soprattutto marinai, o per meglio dire, rematori.
Ecco, a questo punto
vi devo qualche spiegazione. Una tentazione che dobbiamo dissipare immediatamente
è di pensare che il Mondo Antico, solo perché tecnologicamente arretrato, sia
anche un mondo semplice. Atene in particolare era una realtà molto complicata,
con una dialettica sociale rivelatasi istruttiva per tutte le democrazie
successive - ivi compresa la nostra. Prima delle Guerre Persiane, Atene - città
costruita in prossimità del mare ma non sul mare, era soprattutto il capoluogo
di un grande centro agricolo, non ricco ma molto fiorente. Caratterizzata da
una grande vitalità demografica, l’Attica aveva per 2-3 secoli gestito la
crescita della popolazione contribuendo alla fondazione di colonie sulla costa
asiatica della Turchia (la c.d. “Ionia”), e in misura minore in occidente - in
Italia Meridionale, che fu più estesamente colonizzata da genti provenienti dal
Peloponneso. Con l’ascesa del Regno di Lidia prima, della Media e della Persia
poi, questo sbocco era venuto meno: il surplus demografico si era tradotto
nella crescente frantumazione delle proprietà terriere e, in ultima analisi,
nell’impoverimento dei contadini. Molti dei quali, nel corso del VI secolo,
vennero non raramente ridotti in schiavitù per colpa dei debiti contratti.
Tutto, ovviamente, a favore di alcune grandi famiglie aristocratiche (come i
già citati Alcmeonidi, ma anche come i loro grandi rivali, i Filaidi). Questa
Atene, a noi poco famigliare, inizia ad incrinarsi sotto la tirannide di
Pisistrato, e scompare quando, con la scoperta casuale di un ricco filone
d’argento nel monte Laurion, una città di contadini decide di tramutarsi in
potenza navale. Dopo aver ricoperto un ruolo decisivo nella difesa della Grecia
nel corso dell’invasione persiana, Atene prosegue le ostilità anche negli anni
seguenti, e raccoglie attorno a sé decine di città sparpagliate in tutto il mar
Egeo, che condividono la volontà di ridurre gli Asiatici a più miti consigli.
Si tratta della cosiddetta “Lega di Delo”. Molte di queste città sono in realtà
molto piccole - grandi realtà come Argo, Corinto, Tebe e soprattutto Sparta
avevano infatti già interrotto ogni conflitto con la Persia - e non possono
permettersi di mantenere a tempo indeterminato una flotta da guerra. Atene,
forte della sua supremazia demografica, decide di mettersi a disposizione degli
alleati: gli alleati pagheranno le flotte, loro ci metteranno marinai e
manodopera per costruire e mantenere le navi.
Nel giro di pochi
anni, i “disoccupati” (cioè i già citati “teti”), diventano così una colonna
della vita sociale e politica ateniese. Sono loro i rematori che muovono la
flotta che rende possibile l’impero: per questo ricevono un salario che li
strappa alla inveterata povertà, e la loro voce (o per meglio dire: la capacità
dei politici di guidarla) condiziona tutta la politica interna ed esterna
dell’ancora giovane democrazia.
Per comprensibili ragioni,
in breve tempo la Lega di Delo si trasforma in un vero e proprio impero
ateniese: un primo momento di crisi con l’altra grande potenza greca, Sparta,
arriva nel 460 a.C., quando Atene riesce a sovvertire la compagine politica che
regge la vicina città di Tebe, minacciando direttamente il Peloponneso, cuore
della potenza spartana. La Guerra che ne segue (la “Prima Guerra del
Peloponneso”) si conclude nel 445 a.C. con un trattato favorevole a Sparta:
Tebe torna indipendente, e gli Ateniesi sono costretti ad accettare un accordo
che blinda per 30 anni almeno lo status quo delle alleanze. In altre parole,
nessuna città greca può più cambiare alleanza rispetto a quella esistente al
momento della stipula del trattato. Soprattutto, il trattato nega la legittimità
politica della Lega di Delo, di cui gli Spartani e i loro alleati rifiutano il
riconoscimento.
Tuttavia, molto prima
della scadenza della pace, (433-432 a.C.), Atene arriva ai ferri corti con la
città commerciale di Corinto, alleata di ferro di Sparta in quanto suo unico
partner commerciale: il conflitto fra Atene e Corinto, in particolare per il
controllo delle città di Corcira (inizialmente alleata dei Corinzi, che mira a
legarsi agli Ateniesi) e Potidea (città inizialmente posseduta dai Corinzi, fatta
propria dagli Ateniesi, e quindi a questi ultimi ribelle), spinge Sparta,
altrimenti molto riluttante ad impegnarsi in qualsiasi conflitto, a muovere
nuovamente guerra (431 a.C.).
Nonostante la
terribile pestilenza del 429 a.C., Atene de facto vince militarmente la prima
fase del conflitto. Sparta, messa alle corde dall’assedio di Pilo e dalla
disfatta di Sfacteria, è costretta a chiedere un armistizio che Atene rifiuta
(425 a.C.), e riesce a forzare Atene ad un trattato comunque svantaggioso solo
grazie ad una campagna condotta in Tracia da parte del generale Brasida (che
comunque muore nel corso delle ostilità). La pace (421 a.C.), che prende il
nome dal negoziatore ateniese, l’aristocratico Nicia, riconosce i cambiamenti
di “casacca” occorsi nelle prime fasi del conflitto (quasi tutti favorevoli ad
Atene), e vede Sparta riconoscere come entità politica “Atene e i suoi
alleati”, ciò che i peloponnesiaci si erano sempre rifiutati di fare.
Per noi moderni, la
Pace di Nicia dovrebbe essere vista come un trionfo ateniese, ed in effetti
(almeno stando all’Aristofane de “La Pace”) dovette essere accolta con sollievo
da buona parte della popolazione. In particolare da parte dei proprietari
terrieri. Questi ultimi avevano visto l’Attica periodicamente devastata dal
corpo di spedizione spartano, con enormi danni ai propri profitti. La Pace di
Nicia rappresenta, cioè, il tentativo della vecchia aristocrazia di sfruttare
la piega abbastanza favorevole del conflitto per chiudere le ostilità prima di
incorrere in ulteriori danni ai propri traffici. Il che, in realtà, è
avversatissimo da parte dei teti. Per i rematori, il prolungamento della guerra
significa il prolungamento del servizio, e quindi del proprio stipendio. La
sospensione delle ostilità significa, di contro, la dismissione di parte della
flotta, e quindi la temporanea messa a riposo - con il ritorno alla fame, ed
all’indigenza. Alla pace si era opposta tenacemente una serie di politici (i
cosiddetti “demagoghi”, termine poi entrato nella lingua comune) che, sfruttando
l’insoddisfazione dei teti, aveva maneggiato le corde dell’assemblea per
mantenere il più a lungo possibile lo stato di guerra. Nicia e il suo partito
avevano deliberatamente sfruttato la morte del più celebre dei demagoghi,
Cleone, ed il conseguente caos nel partito “popolare” - caos dal quale erano
poi emersi sia il già citato Alcibiade che Androcle, che di Alcibiade per altro
è nemico giurato. Partito che, tornando al punto di partenza, aveva poi colto
la prima occasione per rinnovare lo stato di guerra riattivando quella stessa
macchina economica che aveva fatto la fortuna dei propri sostenitori nel
decennio precedente.
Alla decisione di
muovere guerra a Siracusa, il partito di Nicia si era tenacemente opposto -
senza successo. E quindi non stupirà che, cogliendo il caos legato allo
scandalo delle erme, Nicia e i suoi riuscissero ad ottenere il rinvio della
spedizione. Quantomeno: questo è quanto riusciamo a ricostruire mettendo
insieme le fonti (ed in particolare Tucidide, Diodoro, Plutarco), che purtroppo
sono abbastanza contraddittorie.
Alcibiade, ovviamente,
scalpita. Lui non è solo il promotore della spedizione - l’Assemblea lo ha
infatti intitolato a condurla. Il che significa, in caso di successo, riportare
in Attica una gloria senza precedenti - e soprattutto costruire un sistema di
potere economico e clientelare che gli permetterà di diventare l’assoluto
padrone di Atene, molto più di quanto il parente e predecessore Pericle sia
stato durante la prima metà del secolo. Il giovane Alcmeonide è, del resto, un
personaggio chiacchierato. Il suo valore militare è indiscusso: ha iniziato a
combattere per Atene nemmeno ventenne; ha servito come fante a Potidea, e lì è
stato ferito gravemente, salvandosi solo grazie all’intervento del mentore Socrate,
che ad un certo punto se lo caricò letteralmente sulle spalle per portarlo in
salvo. Negli anni seguenti, come cavaliere, partecipò a tutti i tentativi di
scacciare gli Spartani dall’Attica, e combatté con onore nell’infelice
battaglia di Delion (dove nuovamente pare che Socrate ci mise del suo per
salvargli la pelle, 424 a.C.). Poco più che trentenne, tutti sono più o meno
d’accordo nel riconoscere in lui la migliore mente tattica e strategica di
Atene. Eppure, prototipo del ritratto paradossale, a queste doti abbina vizi
altrettanto colossali: oltre ad una sessualità sfrenata, ben oltre i limiti
dell’empietà (ci sono tramandate tresche di varia natura con almeno una dozzina
donne ateniesi di varia estrazione sociale; inoltre ad un certo punto, stringerà
un matrimonio a tre con un cugino e una prostituta egiziana di origine greca;
da quest’unione nascerà una figlia che non si saprà mai di chi fosse la figlia,
e che poi diventerà sua amante), ad un amore quasi patologico per i cavalli,
alla malcelata aspirazione alla tirannide, su Alcibiade aleggia un’aura di
empietà. Contribuiscono a questa sua fama l’amicizia con il poeta tragico
Euripide, le cui tragedie generalmente tradiscono un notevole disprezzo per la
religiosità, in particolare per quella popolare, e soprattutto i rapporti con
Socrate. Quello che a tutti gli effetti è considerato il padre del pensiero
occidentale (insieme a Platone ed Aristotele, ovviamente), non era amato dai
suoi contemporanei - anzi.
Diciamolo apertamente:
con la dovuta eccezione di una cerchia di giovani rampolli dell’alta società
che letteralmente lo idolatravano, Socrate era riuscito a farsi odiare
praticamente da tutti. In lui infatti si sposavano due tradizioni - quella
della ricerca proto-scientifica della filosofia ionica, e quella
politico-sociale dei mai amati sofisti, risultandone una critica radicale a
tutto quel complesso di credenze, sia religiose che politiche, che costituivano
l’essenza stessa dell’Atene del tempo. I suoi detrattori già da tempo
ventilavano accuse di empietà, ben rappresentate dal Socrate delle “Nuvole”, in
cui il padre della filosofia occidentale appare come un proto-scienziato (con
la testa, letteralmente, fra le nuvole) che di fatto incita i propri allievi al
totale disprezzo delle leggi patrie, fino alla legittimazione del parricidio.
Il sospetto è che lo stesso Alcibiade, che di giorno partecipa ai riti pubblici
della città, civili e religiosi, regolarmente e fedelmente, nascostamente sia
empio quanto Socrate. Ovvio che l’Alcmeonide tema di essere coinvolto nello
scandalo delle erme, tanto più che questo apre la strada alla resa dei conti
nel suo stesso partito.
D’altra parte,
Alcibiade - che come accennato è un grande e brillante uomo di guerra, sa che
non c’è tempo da perdere. Ritardare la spedizione in Sicilia significa dar
tempo a Siracusa per potenziare le difese, e soprattutto essere costretti ad
una campagna invernale, con tutte le difficoltà del naso nel ricevere
rifornimenti dalla madrepatria.
Le peggiori
preoccupazioni di Alcibiade iniziano presto a manifestarsi. Pochi giorni dopo
il classico “chi sa, parli”, i primi testimoni iniziano a farsi vivi. Si parla
di gruppi di giovani ubriachi, poi le voci si fanno più precise: su spinta di
Androcle, emergono accuse rivolte su alcuni meteci (cioè, abitanti di Atene di
origine straniera), i quali sono immediatamente interrogati e, finalmente,
fanno dei nomi. Fra i quali ci sono i giovani della Jeunesse Dorée ateniese.
Cioè, Alcibiade e i suoi amici. Cioè, il circolo di Socrate.
Poi, ad un certo punto,
qualcuno fa notare che l’UNICA delle erme a non essere stata deturpata si
trovasse nei pressi dell’abitazione di un certo Andocide, un altro esponente
del gruppo di Socrate. Mentre Alcibiade, sempre più nervosamente, invoca
l’invio della spedizione, l’Assemblea manda a chiamare Andocide perché sia
interrogato.
E qui il primo colpo
di scena. Andocide si presenta spontaneamente di fronte all’Assemblea, contando
sull’amnistia in caso di confessione. Secondo colpo di scena: Andocide rivela
di avere assistito alla deturpazione delle erme, ma non è in grado di fare dei
nomi precisi. Qualcuno gli chiede se ci fosse di mezzo Alcibiade. Andocide non
è sicuro. Forse sì. Forse no. Ma non ne ha la certezza. Anzi, è più probabile
di no. Mentre le Autorità iniziano a spazientirsi, la testimonianza, che ci è
pervenuta sia indirettamente, sia direttamente (di Andocide sopravvivono
fortunosamente due opere autografe o comunque a lui attribuite),
improvvisamente cambia tono: sì, è vero - non ho visto Alcibiade. Ma so per
certo che quella sera Alcibiade, a casa sua, stesse oltraggiando i misteri di
Eleusi. La testimonianza di Andocide è confermata da Tessalo, figlio di Cimone
(cioè, il precedente leader del partito avverso a quello di Alcibiade: non
proprio un testimone disinteressato), il quale, non si capisce bene come, aveva
visto Alcibiade con abiti di alto sacerdote parodiare i sacri riti.
L’accusa è infamante.
Benché Alcibiade sia, de facto, scagionato dall’accusa di essere un ermocopide,
la valanga di fango che Andocide gli riversa addosso è anche peggio. I misteri
di Eleusi appartengono ad una religiosità molto radicata nella società
ateniese: abituati come siamo ad associare Atene ai grandi filosofi, ai
tragediografi, ai sublimi artisti, e così pure a Socrate e Platone,
colpevolmente dimentichiamo che quella ateniese fosse una società estremamente
superstiziosa ancor più che religiosa, ed aggrappata ai propri riti di origine
ancestrale. Atene non era solo la città del Partenone e dei Festival tragici -
era anche una città che, nel mese di Ecatombeone, cioè fra Luglio e Agosto,
vedeva i marmi dell’acropoli (colorati, del resto) inondati da un mare di
sangue proveniente dagli animali sacrificati agli dèi. Le cui carcasse erano
quindi consumate in grigliate domestiche che oscuravano il cielo per giorni e
giorni. E così via: i dodici mesi del calendario attico erano segnati da
altrettante feste religiose, che comportavano rituali più o meno complicati e
truculenti, come quello di Targelione di cui si diceva poc’anzi.
Alcuni di questi
rituali (in parte metabolizzati dal rito ortodosso, e quindi sopravvissuti
sotto altra forma al collasso del paganesimo) erano così segreti che, di fatto,
non abbiamo idea di come si svolgessero - e difatti il loro nome, Misteri, ha
acquisito significato comune di qualcosa di ignoto. I misteri di Eleusi
rientravano in quest’ambito. Non soltanto, cioè, Alcibiade aveva riprodotto un
rito religioso particolarmente sentito dal popolo al di fuori del proprio
contesto, ma lo aveva fatto in senso pornografico al fine di aggredire quanto
di più sacro l’Atene del suo tempo ancora possedesse. Immaginatevi che
domattina qualcuno dichiari di avere visto con i propri occhi Conte, Di Maio ed
il loro portavoce Casalino celebrare delle messe nere e concluderle con
un’orgia degna di un film porno. Non credo servano ulteriori spiegazioni.
Alcibiade capisce
immediatamente la gravità della situazione e, terzo colpo di scena, chiede
all’Assemblea di essere immediatamente interrogato. Anzi: di essere seduta
stante processato. I suoi rivali del partito aristocratico, però, riescono a
bloccare la sua istanza. I teti, che sono la maggioranza nell’assemblea,
abboccano alla trappola del partito di Nicia: non si può processare il leader
della spedizione in Sicilia. Anzi: si è perso fin troppo tempo. Visto che le
accuse non riguardano direttamente la mutilazione delle Erme, ma un fatto del
quale non sussistono altre prove, Alcibiade DOVRA’ partire il prima possibile
per la Sicilia alla testa della spedizione. Per il processo ci sarà tempo al
suo ritorno. Per sicurezza, Nicia (che non ha nessuna voglia di partire) e
Lamaco dovranno accompagnarlo ed assicurarsi che non fugga o tenti colpi di
mano.
Il gioco degli
aristocratici è fin troppo semplice. Nel mondo antico, in cui gli spostamenti
erano lenti, ed in contesti in cui il corpo votante si identificava con i
cittadini in armi, anticipare o spostare votazioni particolarmente critiche a
spedizioni militari era anche un sistema per alterare geneticamente il corpus
degli elettori, potendo pilotare in modo netto ed inequivoco il risultato delle
votazioni. In questo caso, votare PRIMA della partenza in Sicilia, significa
che Alcibiade sarà giudicato dall’esercito e dalla flotta. Esercito e flotta
che vogliono a tutti i costi la guerra, e che quindi ben difficilmente
voteranno contro l’uomo che più di ogni altro vuole quest’avventura militare.
Alcibiade lo sa,
ovviamente. Pericle era asceso al potere giocando un numero simile al suo
grande rivale Cimone.
E non è quindi una
sorpresa il fatto che, alcune settimane dopo (secondo alcuni poco prima che la
flotta arrivi in Sicilia, secondo altri poco dopo l’arrivo), la spedizione sia
raggiunta da una nave proveniente da Atene, sulla quale emissari dell’Assemblea
chiedono che Alcibiade abbandoni la spedizione e torni in città per difendersi
di fronte alle accuse di empietà, di avere dissacrato i misteri di Eleusi e (notare) di avere deturpato le Erme a scopo eversivo: gli atti compiuti avevano
cioè la finalità di destabilizzare la pace urbana per emergere dal caos come
“uomo forte” grazie al controllo dell’esercito e della flotta, in modo da
diventare padrone della città. Durante la sua assenza, due accusatori, Diocle e
Teucro, hanno infatti fatto dei nomi dichiarando di aver riconosciuto i volti degli
ermocopidi alla luce della luna. La testimonianza era chiaramente fasulla -
l’unica cosa certa della datazione è che la deturpazione delle erme avvenne in
una notte di luna nuova, ma tanto bastava ad esigere che Alcibiade dovesse
tornare subito in patria per rispondere di una ricostruzione degli eventi che
onestamente lasciava e lascia di sasso.
Ovviamente, Alcibiade
non accetterà mai di rientrare in patria a quelle condizioni: tornerà in
Grecia, questo sì, ma fuggendo in modo rocambolesco ed infine approdando sulle
coste del Peloponneso e cercando asilo politico a Sparta.
Il processo non si
consumerà mai: Alcibiade, profugo a Sparta, sfrutterà le sue doti seduttive per
entrare nel talamo della moglie del Re di Sparta - e soprattutto per convincere
i suoi magistrati, gli Efori, che la guerra contro Atene debba essere ripresa
quanto prima, sfruttando la piega favorevole determinata dalla spedizione in
Sicilia, frattanto risoltasi in un disastro epocale, con decine di migliaia di
perdite e centinaia di navi perse per sempre. La guerra, che gli Spartani
troveranno il modo di farsi finanziare dalla Persia, volgerà a mal partito per
Atene, che sarà costretta a richiamare Alcibiade.
Il richiamo del
rampollo degli Alcmeonidi non avverrà però nel contesto di un’amnistia. Di
fatto, nonostante l’appello di Sofocle nel suo “Filottete”, il governo Ateniese
non perdona Alcibiade. Lo richiama, certo, e gli consegna persino la conduzione
della flotta, ma il processo penale pendente non viene annullato. Grazie alla
nomina ad Arconte Stratega senza compagni (in pratica, una specie di dittatore
militare), tutti i procedimenti nei suoi confronti sono sospesi fino alla fine
della sua magistratura. Magistratura che però gli viene tolta dopo il 406 a.C.,
a seguito di un episodio disgraziato ma non decisivo, nel contesto di una
guerra che Alcibiade era riuscito a rimettere in equilibrio - la battaglia di
Nozio. Appena privato del titolo di Arconte, il processo non consumatosi nel
415 a.C. viene improvvisamente riattivato (nell’antica Grecia non esisteva la
prescrizione, che è un concetto romano), ed Alcibiade è nuovamente costretto
alla fuga. Non potendosi celebrare in contumacia, il procedimento contro
Alcibiade fu sospeso fino al 404 a.C., quando fu spiccato l’equivalente di un
mandato di cattura internazionale da parte del governo (all’epoca nelle mani di
Crizia, altro socratico ma del partito oligarchico): durante il tentativo di
cattura, Alcibiade però morì (o per meglio dire, fu assassinato usando il
pretesto della cattura), rendendo nuovamente impossibile il completamente
dell’atto processuale.
La parola fine sarà
scritta solo 5 anni dopo (e quindi 16 anni dopo l’inizio della vicenda) quando
Andocide fu trascinato di fronte ad un tribunale con l’accusa (fra le altre
cose) di falsa testimonianza contro Alcibiade. E così, nel 399 a.C., emerse
infine la verità processuale: Alcibiade partecipava spesso e volentieri a
rituali ai limiti (e forse oltre i limiti) dell’empietà, ma non aveva mutilato
le erme. Chi fosse stato, non si riuscì a stabilirlo e non lo si saprà mai.
Unica cosa certa, che Alcibiade avesse DAVVERO in mente di provocare un colpo
di stato per abbattere le istituzioni democratiche, che in questo suo progetto
la deturpazione delle erme avesse un qualche ruolo - ma quale fosse lo aveva in
mente solo Alcibiade. Magra consolazione (sempre ammesso che la verità fattuale
corrisponda a quella processuale): se la democrazia ateniese sopravvisse al 415
a.C. lo dovette proprio a quello scandalo. Che, in compenso, decretò la crisi
definitiva della potenza politica di Atene.
Molto interessante con una descrizione avvincente e “modernissima”
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