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sabato 2 gennaio 2021

Archeologia e storia dei popoli. La potenza politica di Atene e la "macchina del fango", un espediente ancora oggi utilizzato dalla politica. Articolo di Matteo Riccò

Archeologia e storia dei popoli. La potenza politica di Atene e la "macchina del fango", un espediente ancora oggi utilizzato dalla politica.

Articolo di Matteo Riccò

La cosiddetta “macchina del fango” è uno degli ingranaggi più sfruttati dalla politica, non lo scopriamo certo oggi. Non credo stupisca nessuno, pertanto, che il caso più antico - ma probabilmente anche uno dei più celebri, risalga alla prima esperienza di democrazia occidentale, ovverosia all’antica Atene.

Si tratta del c.d. “scandalo delle Erme”, un episodio che talvolta trova ancora spazio nei programmi di storia delle scuole superiori, solitamente salutato dagli sbadigli annoiati delle scolaresche. Inconsapevoli, queste, di avere di fronte il prototipo di tutti i telefilm polizieschi e di tutte le serie politiche alla House of Cards di cui i nostri ragazzi sono, d’abitudine, avidissimi consumatori.

Ma andiamo con ordine, e partiamo dai fatti - quelli noti, almeno. Atene, anno 415 a.C., una notte imprecisata del mese di Targelione, ovverosia fra la metà di maggio e la metà di giugno del nostro calendario. E’ buio: è una di quelle notti di luna nuova in cui, nelle città antiche, l’oscurità regnava sovrana sugli angoli delle strade. Ed in cui, a meno di uscire in brigata, era meglio starsene in casa per evitare guai. A patto che di casa non si uscisse apposta per provocarli, i guai.

Come quella notte.

Quella notte, viene deciso il destino di migliaia di persone - eppure non scorre del sangue. Non

abbiamo, quantomeno, notizie di omicidi o di atti di violenza urbana. Il che, tuttavia, non rende meno grave ciò che fu evidente alle prime luci del mattino.

Le statue di Hermes sono state mutilate. Tutte - tranne una.

Hermes è un nome che mantiene un minimo di familiarità anche al lettore del XXI secolo. Si tratta, per farla facile, del Dio greco caratterizzato da uno strano berretto, un bastone simile al caduceo dei medici, e delle scarpette alate che fanno molto Nike Air Jordan del V secolo a.C. Protettore dei commerci (e della truffa, a voi le possibili interpretazioni), Hermes era anche e soprattutto il custode delle anime nel loro ultimo viaggio al regno dei morti (i.e. “psicopompo”, ovvero “il conduttore delle anime”), funzione cui il famoso bastone era appunto associato. Ad Atene, però, Hermes era soprattutto il portemanteau di antiche e mai dimenticate divinità pre-elleniche associate al culto della fertilità: in suo onore (con l’attributo di Hermes Ctonio) si celebravano rituali specifici nel mese di Antesterione (Febbraio-Marzo), che prevedevano per l’appunto offerte alle statue del Dio che punteggiavano la cartina dell’antica città Greca, indicativamente in corrispondenza di ogni incrocio. Immaginate una cosa simile alle edicole che, di quando in quanto, compaiono nelle nostre campagne - e che a loro volta sono eredi di una non dissimile religiosità popolare preistorica. In omaggio a questa sua primigenia natura di Dio della fecondità, le statue di Hermes avevano caratteri un po’ particolari. Si trattava di busti stilizzati (in alcune addirittura il viso si semplificava al punto da diventare faticosamente riconoscibile), eredi dei primordiali menhir e delle steli megalitiche, in cui la parte inferiore del corpo invariabilmente comprendeva un enorme fallo (rigorosamente eretto) in bella vista cui, nei rituali di cui sopra, erano appese corone di alloro ed altri doni votivi, rappresentando parte integrante del rituale religioso. Ed è proprio contro il fallo delle Erme che la furia degli ignoti vandali si è scagliata. Nell’antica Atene non c’era Twitter, non c’era Facebook, non c’erano giornali e TV. Ma lo scandalo è così grande che, nel giro di pochissime ore, tutta la città ne viene a conoscenza, fra il furore e l’imbarazzato.

Immediatamente si cerca di scoprire cosa sia successo. L’Assemblea (in greco, Ecclesia), una specie di Parlamento che governa la città, fra l’indignato e lo scocciato, promette ricompensa ed amnistia per chiunque abbia il coraggio di svelare gli autori dell’oltraggio. Qualche nome, in effetti, esce. La ricostruzione dei fatti, però, è tutt’altro che semplice. Perché, la sera prima, la notte fatale, mezza Atene era fuori per la strada: l’atmosfera era in qualche modo euforica, e fin troppa gente aveva alzato il gomito più del dovuto.

Non si trattava delle feste religiose, le Targelie, che danno il nome all’undicesimo mese del calendario religioso ateniese: la festività lustrale, invero piuttosto cruenta (il rituale prevedeva di percuotere sui genitali un uomo e una donna per le vie di Atene fino a cacciarli dalle mura urbane affinché portassero tutti i mali con sé) si era, infatti, celebrata diversi giorni prima, indicativamente fra il 23 ed il 24 maggio del nostro calendario. No. L’eccitazione della metropoli ionica era legata ad un evento estemporaneo, che - in un modo o nell’altro, avrebbe cambiato il destino di Atene, e di questo i cittadini ne erano ben consci, sebbene non potessero minimamente immaginarne il disastroso esito.

Poche settimane prima, l’Assemblea ha infatti approvato un’ambiziosa spedizione militare contro la città di Siracusa, in Sicilia. Spedizione che, nelle finalità del suo più acceso promotore - il trentacinquenne Alcibiade, il leader della casata degli Alcmeonidi, dovrà portare tutta l’isola sotto il controllo di Atene, ponendo le basi di un grande impero Mediterraneo. Per questa spedizione, l’Assemblea ha deliberato spese eccezionali, sia per la costruzione delle navi necessarie, sia per il reclutamento dei rematori, sia per il rimborso dei cittadini che avrebbero dovuto prestare servizio militare oltremare per chissà quanto tempo. Fiumi di soldi attraversano la città di Atene, distribuendosi nelle tasche di tutti coloro che sono, in qualche modo, coinvolti nell’allestimento della flotta: falegnami, carpentieri, ma anche tessitori, mercanti di vino, cereali, cavalli, fabbri - e soprattutto marinai, o per meglio dire, rematori.

Ecco, a questo punto vi devo qualche spiegazione. Una tentazione che dobbiamo dissipare immediatamente è di pensare che il Mondo Antico, solo perché tecnologicamente arretrato, sia anche un mondo semplice. Atene in particolare era una realtà molto complicata, con una dialettica sociale rivelatasi istruttiva per tutte le democrazie successive - ivi compresa la nostra. Prima delle Guerre Persiane, Atene - città costruita in prossimità del mare ma non sul mare, era soprattutto il capoluogo di un grande centro agricolo, non ricco ma molto fiorente. Caratterizzata da una grande vitalità demografica, l’Attica aveva per 2-3 secoli gestito la crescita della popolazione contribuendo alla fondazione di colonie sulla costa asiatica della Turchia (la c.d. “Ionia”), e in misura minore in occidente - in Italia Meridionale, che fu più estesamente colonizzata da genti provenienti dal Peloponneso. Con l’ascesa del Regno di Lidia prima, della Media e della Persia poi, questo sbocco era venuto meno: il surplus demografico si era tradotto nella crescente frantumazione delle proprietà terriere e, in ultima analisi, nell’impoverimento dei contadini. Molti dei quali, nel corso del VI secolo, vennero non raramente ridotti in schiavitù per colpa dei debiti contratti. Tutto, ovviamente, a favore di alcune grandi famiglie aristocratiche (come i già citati Alcmeonidi, ma anche come i loro grandi rivali, i Filaidi). Questa Atene, a noi poco famigliare, inizia ad incrinarsi sotto la tirannide di Pisistrato, e scompare quando, con la scoperta casuale di un ricco filone d’argento nel monte Laurion, una città di contadini decide di tramutarsi in potenza navale. Dopo aver ricoperto un ruolo decisivo nella difesa della Grecia nel corso dell’invasione persiana, Atene prosegue le ostilità anche negli anni seguenti, e raccoglie attorno a sé decine di città sparpagliate in tutto il mar Egeo, che condividono la volontà di ridurre gli Asiatici a più miti consigli. Si tratta della cosiddetta “Lega di Delo”. Molte di queste città sono in realtà molto piccole - grandi realtà come Argo, Corinto, Tebe e soprattutto Sparta avevano infatti già interrotto ogni conflitto con la Persia - e non possono permettersi di mantenere a tempo indeterminato una flotta da guerra. Atene, forte della sua supremazia demografica, decide di mettersi a disposizione degli alleati: gli alleati pagheranno le flotte, loro ci metteranno marinai e manodopera per costruire e mantenere le navi.

Nel giro di pochi anni, i “disoccupati” (cioè i già citati “teti”), diventano così una colonna della vita sociale e politica ateniese. Sono loro i rematori che muovono la flotta che rende possibile l’impero: per questo ricevono un salario che li strappa alla inveterata povertà, e la loro voce (o per meglio dire: la capacità dei politici di guidarla) condiziona tutta la politica interna ed esterna dell’ancora giovane democrazia.

Per comprensibili ragioni, in breve tempo la Lega di Delo si trasforma in un vero e proprio impero ateniese: un primo momento di crisi con l’altra grande potenza greca, Sparta, arriva nel 460 a.C., quando Atene riesce a sovvertire la compagine politica che regge la vicina città di Tebe, minacciando direttamente il Peloponneso, cuore della potenza spartana. La Guerra che ne segue (la “Prima Guerra del Peloponneso”) si conclude nel 445 a.C. con un trattato favorevole a Sparta: Tebe torna indipendente, e gli Ateniesi sono costretti ad accettare un accordo che blinda per 30 anni almeno lo status quo delle alleanze. In altre parole, nessuna città greca può più cambiare alleanza rispetto a quella esistente al momento della stipula del trattato. Soprattutto, il trattato nega la legittimità politica della Lega di Delo, di cui gli Spartani e i loro alleati rifiutano il riconoscimento.

Tuttavia, molto prima della scadenza della pace, (433-432 a.C.), Atene arriva ai ferri corti con la città commerciale di Corinto, alleata di ferro di Sparta in quanto suo unico partner commerciale: il conflitto fra Atene e Corinto, in particolare per il controllo delle città di Corcira (inizialmente alleata dei Corinzi, che mira a legarsi agli Ateniesi) e Potidea (città inizialmente posseduta dai Corinzi, fatta propria dagli Ateniesi, e quindi a questi ultimi ribelle), spinge Sparta, altrimenti molto riluttante ad impegnarsi in qualsiasi conflitto, a muovere nuovamente guerra (431 a.C.).

Nonostante la terribile pestilenza del 429 a.C., Atene de facto vince militarmente la prima fase del conflitto. Sparta, messa alle corde dall’assedio di Pilo e dalla disfatta di Sfacteria, è costretta a chiedere un armistizio che Atene rifiuta (425 a.C.), e riesce a forzare Atene ad un trattato comunque svantaggioso solo grazie ad una campagna condotta in Tracia da parte del generale Brasida (che comunque muore nel corso delle ostilità). La pace (421 a.C.), che prende il nome dal negoziatore ateniese, l’aristocratico Nicia, riconosce i cambiamenti di “casacca” occorsi nelle prime fasi del conflitto (quasi tutti favorevoli ad Atene), e vede Sparta riconoscere come entità politica “Atene e i suoi alleati”, ciò che i peloponnesiaci si erano sempre rifiutati di fare.

Per noi moderni, la Pace di Nicia dovrebbe essere vista come un trionfo ateniese, ed in effetti (almeno stando all’Aristofane de “La Pace”) dovette essere accolta con sollievo da buona parte della popolazione. In particolare da parte dei proprietari terrieri. Questi ultimi avevano visto l’Attica periodicamente devastata dal corpo di spedizione spartano, con enormi danni ai propri profitti. La Pace di Nicia rappresenta, cioè, il tentativo della vecchia aristocrazia di sfruttare la piega abbastanza favorevole del conflitto per chiudere le ostilità prima di incorrere in ulteriori danni ai propri traffici. Il che, in realtà, è avversatissimo da parte dei teti. Per i rematori, il prolungamento della guerra significa il prolungamento del servizio, e quindi del proprio stipendio. La sospensione delle ostilità significa, di contro, la dismissione di parte della flotta, e quindi la temporanea messa a riposo - con il ritorno alla fame, ed all’indigenza. Alla pace si era opposta tenacemente una serie di politici (i cosiddetti “demagoghi”, termine poi entrato nella lingua comune) che, sfruttando l’insoddisfazione dei teti, aveva maneggiato le corde dell’assemblea per mantenere il più a lungo possibile lo stato di guerra. Nicia e il suo partito avevano deliberatamente sfruttato la morte del più celebre dei demagoghi, Cleone, ed il conseguente caos nel partito “popolare” - caos dal quale erano poi emersi sia il già citato Alcibiade che Androcle, che di Alcibiade per altro è nemico giurato. Partito che, tornando al punto di partenza, aveva poi colto la prima occasione per rinnovare lo stato di guerra riattivando quella stessa macchina economica che aveva fatto la fortuna dei propri sostenitori nel decennio precedente.

Alla decisione di muovere guerra a Siracusa, il partito di Nicia si era tenacemente opposto - senza successo. E quindi non stupirà che, cogliendo il caos legato allo scandalo delle erme, Nicia e i suoi riuscissero ad ottenere il rinvio della spedizione. Quantomeno: questo è quanto riusciamo a ricostruire mettendo insieme le fonti (ed in particolare Tucidide, Diodoro, Plutarco), che purtroppo sono abbastanza contraddittorie.

Alcibiade, ovviamente, scalpita. Lui non è solo il promotore della spedizione - l’Assemblea lo ha infatti intitolato a condurla. Il che significa, in caso di successo, riportare in Attica una gloria senza precedenti - e soprattutto costruire un sistema di potere economico e clientelare che gli permetterà di diventare l’assoluto padrone di Atene, molto più di quanto il parente e predecessore Pericle sia stato durante la prima metà del secolo. Il giovane Alcmeonide è, del resto, un personaggio chiacchierato. Il suo valore militare è indiscusso: ha iniziato a combattere per Atene nemmeno ventenne; ha servito come fante a Potidea, e lì è stato ferito gravemente, salvandosi solo grazie all’intervento del mentore Socrate, che ad un certo punto se lo caricò letteralmente sulle spalle per portarlo in salvo. Negli anni seguenti, come cavaliere, partecipò a tutti i tentativi di scacciare gli Spartani dall’Attica, e combatté con onore nell’infelice battaglia di Delion (dove nuovamente pare che Socrate ci mise del suo per salvargli la pelle, 424 a.C.). Poco più che trentenne, tutti sono più o meno d’accordo nel riconoscere in lui la migliore mente tattica e strategica di Atene. Eppure, prototipo del ritratto paradossale, a queste doti abbina vizi altrettanto colossali: oltre ad una sessualità sfrenata, ben oltre i limiti dell’empietà (ci sono tramandate tresche di varia natura con almeno una dozzina donne ateniesi di varia estrazione sociale; inoltre ad un certo punto, stringerà un matrimonio a tre con un cugino e una prostituta egiziana di origine greca; da quest’unione nascerà una figlia che non si saprà mai di chi fosse la figlia, e che poi diventerà sua amante), ad un amore quasi patologico per i cavalli, alla malcelata aspirazione alla tirannide, su Alcibiade aleggia un’aura di empietà. Contribuiscono a questa sua fama l’amicizia con il poeta tragico Euripide, le cui tragedie generalmente tradiscono un notevole disprezzo per la religiosità, in particolare per quella popolare, e soprattutto i rapporti con Socrate. Quello che a tutti gli effetti è considerato il padre del pensiero occidentale (insieme a Platone ed Aristotele, ovviamente), non era amato dai suoi contemporanei - anzi.

Diciamolo apertamente: con la dovuta eccezione di una cerchia di giovani rampolli dell’alta società che letteralmente lo idolatravano, Socrate era riuscito a farsi odiare praticamente da tutti. In lui infatti si sposavano due tradizioni - quella della ricerca proto-scientifica della filosofia ionica, e quella politico-sociale dei mai amati sofisti, risultandone una critica radicale a tutto quel complesso di credenze, sia religiose che politiche, che costituivano l’essenza stessa dell’Atene del tempo. I suoi detrattori già da tempo ventilavano accuse di empietà, ben rappresentate dal Socrate delle “Nuvole”, in cui il padre della filosofia occidentale appare come un proto-scienziato (con la testa, letteralmente, fra le nuvole) che di fatto incita i propri allievi al totale disprezzo delle leggi patrie, fino alla legittimazione del parricidio. Il sospetto è che lo stesso Alcibiade, che di giorno partecipa ai riti pubblici della città, civili e religiosi, regolarmente e fedelmente, nascostamente sia empio quanto Socrate. Ovvio che l’Alcmeonide tema di essere coinvolto nello scandalo delle erme, tanto più che questo apre la strada alla resa dei conti nel suo stesso partito.

D’altra parte, Alcibiade - che come accennato è un grande e brillante uomo di guerra, sa che non c’è tempo da perdere. Ritardare la spedizione in Sicilia significa dar tempo a Siracusa per potenziare le difese, e soprattutto essere costretti ad una campagna invernale, con tutte le difficoltà del naso nel ricevere rifornimenti dalla madrepatria.

Le peggiori preoccupazioni di Alcibiade iniziano presto a manifestarsi. Pochi giorni dopo il classico “chi sa, parli”, i primi testimoni iniziano a farsi vivi. Si parla di gruppi di giovani ubriachi, poi le voci si fanno più precise: su spinta di Androcle, emergono accuse rivolte su alcuni meteci (cioè, abitanti di Atene di origine straniera), i quali sono immediatamente interrogati e, finalmente, fanno dei nomi. Fra i quali ci sono i giovani della Jeunesse Dorée ateniese. Cioè, Alcibiade e i suoi amici. Cioè, il circolo di Socrate.

Poi, ad un certo punto, qualcuno fa notare che l’UNICA delle erme a non essere stata deturpata si trovasse nei pressi dell’abitazione di un certo Andocide, un altro esponente del gruppo di Socrate. Mentre Alcibiade, sempre più nervosamente, invoca l’invio della spedizione, l’Assemblea manda a chiamare Andocide perché sia interrogato.

E qui il primo colpo di scena. Andocide si presenta spontaneamente di fronte all’Assemblea, contando sull’amnistia in caso di confessione. Secondo colpo di scena: Andocide rivela di avere assistito alla deturpazione delle erme, ma non è in grado di fare dei nomi precisi. Qualcuno gli chiede se ci fosse di mezzo Alcibiade. Andocide non è sicuro. Forse sì. Forse no. Ma non ne ha la certezza. Anzi, è più probabile di no. Mentre le Autorità iniziano a spazientirsi, la testimonianza, che ci è pervenuta sia indirettamente, sia direttamente (di Andocide sopravvivono fortunosamente due opere autografe o comunque a lui attribuite), improvvisamente cambia tono: sì, è vero - non ho visto Alcibiade. Ma so per certo che quella sera Alcibiade, a casa sua, stesse oltraggiando i misteri di Eleusi. La testimonianza di Andocide è confermata da Tessalo, figlio di Cimone (cioè, il precedente leader del partito avverso a quello di Alcibiade: non proprio un testimone disinteressato), il quale, non si capisce bene come, aveva visto Alcibiade con abiti di alto sacerdote parodiare i sacri riti.

L’accusa è infamante. Benché Alcibiade sia, de facto, scagionato dall’accusa di essere un ermocopide, la valanga di fango che Andocide gli riversa addosso è anche peggio. I misteri di Eleusi appartengono ad una religiosità molto radicata nella società ateniese: abituati come siamo ad associare Atene ai grandi filosofi, ai tragediografi, ai sublimi artisti, e così pure a Socrate e Platone, colpevolmente dimentichiamo che quella ateniese fosse una società estremamente superstiziosa ancor più che religiosa, ed aggrappata ai propri riti di origine ancestrale. Atene non era solo la città del Partenone e dei Festival tragici - era anche una città che, nel mese di Ecatombeone, cioè fra Luglio e Agosto, vedeva i marmi dell’acropoli (colorati, del resto) inondati da un mare di sangue proveniente dagli animali sacrificati agli dèi. Le cui carcasse erano quindi consumate in grigliate domestiche che oscuravano il cielo per giorni e giorni. E così via: i dodici mesi del calendario attico erano segnati da altrettante feste religiose, che comportavano rituali più o meno complicati e truculenti, come quello di Targelione di cui si diceva poc’anzi.

Alcuni di questi rituali (in parte metabolizzati dal rito ortodosso, e quindi sopravvissuti sotto altra forma al collasso del paganesimo) erano così segreti che, di fatto, non abbiamo idea di come si svolgessero - e difatti il loro nome, Misteri, ha acquisito significato comune di qualcosa di ignoto. I misteri di Eleusi rientravano in quest’ambito. Non soltanto, cioè, Alcibiade aveva riprodotto un rito religioso particolarmente sentito dal popolo al di fuori del proprio contesto, ma lo aveva fatto in senso pornografico al fine di aggredire quanto di più sacro l’Atene del suo tempo ancora possedesse. Immaginatevi che domattina qualcuno dichiari di avere visto con i propri occhi Conte, Di Maio ed il loro portavoce Casalino celebrare delle messe nere e concluderle con un’orgia degna di un film porno. Non credo servano ulteriori spiegazioni.

Alcibiade capisce immediatamente la gravità della situazione e, terzo colpo di scena, chiede all’Assemblea di essere immediatamente interrogato. Anzi: di essere seduta stante processato. I suoi rivali del partito aristocratico, però, riescono a bloccare la sua istanza. I teti, che sono la maggioranza nell’assemblea, abboccano alla trappola del partito di Nicia: non si può processare il leader della spedizione in Sicilia. Anzi: si è perso fin troppo tempo. Visto che le accuse non riguardano direttamente la mutilazione delle Erme, ma un fatto del quale non sussistono altre prove, Alcibiade DOVRA’ partire il prima possibile per la Sicilia alla testa della spedizione. Per il processo ci sarà tempo al suo ritorno. Per sicurezza, Nicia (che non ha nessuna voglia di partire) e Lamaco dovranno accompagnarlo ed assicurarsi che non fugga o tenti colpi di mano.

Il gioco degli aristocratici è fin troppo semplice. Nel mondo antico, in cui gli spostamenti erano lenti, ed in contesti in cui il corpo votante si identificava con i cittadini in armi, anticipare o spostare votazioni particolarmente critiche a spedizioni militari era anche un sistema per alterare geneticamente il corpus degli elettori, potendo pilotare in modo netto ed inequivoco il risultato delle votazioni. In questo caso, votare PRIMA della partenza in Sicilia, significa che Alcibiade sarà giudicato dall’esercito e dalla flotta. Esercito e flotta che vogliono a tutti i costi la guerra, e che quindi ben difficilmente voteranno contro l’uomo che più di ogni altro vuole quest’avventura militare.

Alcibiade lo sa, ovviamente. Pericle era asceso al potere giocando un numero simile al suo grande rivale Cimone.

E non è quindi una sorpresa il fatto che, alcune settimane dopo (secondo alcuni poco prima che la flotta arrivi in Sicilia, secondo altri poco dopo l’arrivo), la spedizione sia raggiunta da una nave proveniente da Atene, sulla quale emissari dell’Assemblea chiedono che Alcibiade abbandoni la spedizione e torni in città per difendersi di fronte alle accuse di empietà, di avere dissacrato i misteri di Eleusi e (notare) di avere deturpato le Erme a scopo eversivo: gli atti compiuti avevano cioè la finalità di destabilizzare la pace urbana per emergere dal caos come “uomo forte” grazie al controllo dell’esercito e della flotta, in modo da diventare padrone della città. Durante la sua assenza, due accusatori, Diocle e Teucro, hanno infatti fatto dei nomi dichiarando di aver riconosciuto i volti degli ermocopidi alla luce della luna. La testimonianza era chiaramente fasulla - l’unica cosa certa della datazione è che la deturpazione delle erme avvenne in una notte di luna nuova, ma tanto bastava ad esigere che Alcibiade dovesse tornare subito in patria per rispondere di una ricostruzione degli eventi che onestamente lasciava e lascia di sasso.

Ovviamente, Alcibiade non accetterà mai di rientrare in patria a quelle condizioni: tornerà in Grecia, questo sì, ma fuggendo in modo rocambolesco ed infine approdando sulle coste del Peloponneso e cercando asilo politico a Sparta.

Il processo non si consumerà mai: Alcibiade, profugo a Sparta, sfrutterà le sue doti seduttive per entrare nel talamo della moglie del Re di Sparta - e soprattutto per convincere i suoi magistrati, gli Efori, che la guerra contro Atene debba essere ripresa quanto prima, sfruttando la piega favorevole determinata dalla spedizione in Sicilia, frattanto risoltasi in un disastro epocale, con decine di migliaia di perdite e centinaia di navi perse per sempre. La guerra, che gli Spartani troveranno il modo di farsi finanziare dalla Persia, volgerà a mal partito per Atene, che sarà costretta a richiamare Alcibiade.

Il richiamo del rampollo degli Alcmeonidi non avverrà però nel contesto di un’amnistia. Di fatto, nonostante l’appello di Sofocle nel suo “Filottete”, il governo Ateniese non perdona Alcibiade. Lo richiama, certo, e gli consegna persino la conduzione della flotta, ma il processo penale pendente non viene annullato. Grazie alla nomina ad Arconte Stratega senza compagni (in pratica, una specie di dittatore militare), tutti i procedimenti nei suoi confronti sono sospesi fino alla fine della sua magistratura. Magistratura che però gli viene tolta dopo il 406 a.C., a seguito di un episodio disgraziato ma non decisivo, nel contesto di una guerra che Alcibiade era riuscito a rimettere in equilibrio - la battaglia di Nozio. Appena privato del titolo di Arconte, il processo non consumatosi nel 415 a.C. viene improvvisamente riattivato (nell’antica Grecia non esisteva la prescrizione, che è un concetto romano), ed Alcibiade è nuovamente costretto alla fuga. Non potendosi celebrare in contumacia, il procedimento contro Alcibiade fu sospeso fino al 404 a.C., quando fu spiccato l’equivalente di un mandato di cattura internazionale da parte del governo (all’epoca nelle mani di Crizia, altro socratico ma del partito oligarchico): durante il tentativo di cattura, Alcibiade però morì (o per meglio dire, fu assassinato usando il pretesto della cattura), rendendo nuovamente impossibile il completamente dell’atto processuale.

La parola fine sarà scritta solo 5 anni dopo (e quindi 16 anni dopo l’inizio della vicenda) quando Andocide fu trascinato di fronte ad un tribunale con l’accusa (fra le altre cose) di falsa testimonianza contro Alcibiade. E così, nel 399 a.C., emerse infine la verità processuale: Alcibiade partecipava spesso e volentieri a rituali ai limiti (e forse oltre i limiti) dell’empietà, ma non aveva mutilato le erme. Chi fosse stato, non si riuscì a stabilirlo e non lo si saprà mai. Unica cosa certa, che Alcibiade avesse DAVVERO in mente di provocare un colpo di stato per abbattere le istituzioni democratiche, che in questo suo progetto la deturpazione delle erme avesse un qualche ruolo - ma quale fosse lo aveva in mente solo Alcibiade. Magra consolazione (sempre ammesso che la verità fattuale corrisponda a quella processuale): se la democrazia ateniese sopravvisse al 415 a.C. lo dovette proprio a quello scandalo. Che, in compenso, decretò la crisi definitiva della potenza politica di Atene.

 

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