Archeologia della Sardegna. Il misterioso Recinto-Torre di Monte Baranta, nella Sardegna nord-occidentale. Descrizione e interpretazioni.
Articolo di Pierluigi Montalbano
Il monumento è sistemato sul bordo di un promontorio con vista sulla costa di Alghero e su una vasta porzione del territorio di Olmedo. Il complesso comprende un recinto-torre, una muraglia che racchiude un villaggio e un circolo megalitico con menhir.
L’edificio, a forma di ferro di cavallo con diametro di circa 20 metri, spessore murario di circa 5 metri e altezza che da 4 metri nel culmine degrada verso i lati fino a una zona di crollo sul limite della scarpata. Il materiale utilizzato per la costruzione è composto da grossi blocchi di trachite sovrapposti a secco e presenta zeppe di rincalzo. All’interno si notano pietre leggermente più piccole, sbozzate e disposte su
filari regolari. La piazza interna al recinto è accessibile attraverso due ingressi alti circa 2 metri provvisti di corridoi coperti con grandi lastre piatte. I due varchi sono orientati lungo gli assi Nord-Sud e Est-Ovest.Il cortile interno ha un diametro di poco più di 10 metri ed è pavimentato da roccia naturale con aggiustamenti per regolarizzarlo.
A un centinaio di metri dal recinto-torre, c’è una muraglia
megalitica lunga 100 metri e spessa oltre 4 metri. Realizzata con la stessa tecnica
dell’edifico. Nell'area interna ad Est della muraglia ci sono decine di capanne
spesso pavimentate e tramezzate, probabilmente coperte in origine con tetto in
legno e frasche. Dalla parte opposta della muraglia, insieme a due circoli
megalitici, si notano alcuni menhir adagiati sul pianoro e altri frammentati,
che suggeriscono la presenza di un industria di monoliti. I materiali portati
alla luce nelle varie campagne di scavo sono di epoca Monte Claro, ossia della
metà del III Millennio a.C., in piena età del Rame.
A proposito del “Recinto-Torre” di Monte Baranta, a Olmendo, Giovanni Ugas nel suo libro “L’alba dei Nuraghi” scrive:
“Contenitori in
serie, rinvenuti spesso integri, tazzine e coppette contenenti dei liquidi,
attestano riti praticati, dal Bronzo Medio al Bronzo Recente, all’interno del
recinto megalitico a forma di arco o di ferro di cavallo, definito
recinto-torre, di Monte Baranta-Olmedo…la muraglia ad arco, che presenta due
ingressi, uno rivolto ad Ovest, e l’altro a Nord, ritaglia e separa uno spazio
attorno ad uno strapiombo con un “temenos”, ossia un muro di recinzione che
delimita un’area sacra. La presenza dello strapiombo consente di cogliere la
precisa natura, sacra, dell’area “tagliata” dal recinto megalitico arcuato
nuragico, già indiziata dagli elementi di cultura materiale. Tazzine e coppette
troncoconiche e carenate, atte a contenere liquidi, con ansa ben sviluppata per
favorire la presa, rinvenute in gran numero integre o quasi e dunque depositate
e abbandonate, sono concentrate nel corridoio dell’ingresso Ovest del recinto e
ciò significa che il rito dell’offerta si svolgeva proprio “non dentro e non
fuori”, come si addice ad uno spazio di incontro e di separazione tra due
mondi. Lo spazio del cortile delimitato dal temenos era un luogo interdetto,
tranne a colui che offriva e a colui che riceveva la bevanda sacrificale. Tutto
indirizza all’idea che sull’ingresso Ovest (volto verso il mondo senza luce) e
nel cortile si consumasse l’atto sacrificale degli anziani precipitati nel
baratro dall’alto della rupe, forse dopo essere stati avvelenati con la cicuta,
la bevanda che provocava il “riso sardonico”, contenuta all’interno delle
tazzine. Dal cortile, il mondo delle tenebre, tagliato dal recinto
simboleggiante il confine del tempo e della luce, il vecchio padre, una volta
entrato, non sarebbe più uscito. Il figlio accompagnatore poteva rientrare
dall’altro ingresso, che da Nord-Est conduceva alla luce, per rinascere nella
nuova veste di erede, forse di nuovo capo della comunità”.
Il tema dell’eutanasia connessa al “riso sardonico”, è stato precedentemente trattato anche da Raffaele Pettazzoni, massimo storico delle religioni, che nel 1912 così scriveva nel suo libro “La Religione primitiva in Sardegna”:
“Presso i Sardi,
i vecchi che avevano passato i settanta erano uccisi dai loro stessi figli, i
quali, armati di verghe e di bastoni, a forza di percosse spingendoli sull’orlo
di fosse profonde come baratri, barbaramente li facevano morire; e la crudele
operazione accompagnavano con risa inumane. Questo ci è raccontato da Eliano,
da Demone, e da altri; e pare risalga, ultimamente, a Timeo”.
Non condivido questa proposta di prof. Ugas per 3
motivi: non c'è alcuna traccia di scheletri nel fondo del burrone; non c'è
nessuna prova che questa pratica fosse in uso in Sardegna (sono solo leggende
metropolitane); la presenza di due passaggi, che il professore correttamente
individua e a cui assegna il giusto ruolo (illuminazione) ha un motivo ben
preciso, ma Ugas non coglie il profondo parallelo con i misteri eleusini e i
rituali sciamanici.
Chi si chiede il motivo del precipizio, sappia che lo
strapiombo che inghiotte è, come lo è per il mare, un aspetto dell‘inconscio
che si manifesta attraverso immagini, spesso drammatiche, a rappresentare
paure, angosce e tutto ciò che, nella realtà, non viene “visto”. E’ l’abisso,
la profondità ignota e buia, simbolo di un blocco o di una difficoltà che si
deve affrontare per ottenere il passaggio di vita simbolico ad un livello più
elevato.
La profondità può essere spaventosa, ma può dare anche
una sensazione di protezione, la sua cavità suggerisce un fondo misterioso
fatto di antri e caverne in cui rifugiarsi, in cui nascondersi ed in cui essere
contenuti e protetti. Il vuoto del burrone può essere il luogo in cui si avvia
un processo di gestazione, una crescita che segue strade non facili, costituisce
un percorso iniziatico, una prova da affrontare, una fase evolutiva. E' il
baratro con cui il candidato deve confrontarsi per sollevarsi di livello, una
sorta di nemico interiore che lo aspetta al varco e con il quale può vincere o
perdere.
Il burrone può portare a scoprire un nuovo paesaggio,
a vedere cose mai immaginate, a sperimentare un percorso salvifico che lo salva
dallo sfracellarsi al suolo.
Lo strapiombo che inghiotte è l’archetipo della prova
iniziatica che deve essere affrontata a tutti i costi anche contro la propria
volontà, a dispetto della voglia di fuggire o di seguire percorsi più facili e
più agevoli.
Se l’archetipo del nemico non viene affrontato, se si fuggono i fantasmi, i diavoli, i draghi interiori, se il mondo dell’ombra e gli aspetti rinnegati sono sepolti e non riconosciuti, l'inconscio troverà altri mezzi, altri simboli attraverso i quali presentare la sfida.
Il burrone è immagine dello sconosciuto, espressione
del vuoto in cui si precipita e dell’ignoto che spaventa ogni essere umano,
rappresenta lo spazio in cui è possibile una crescita interiore, ed in cui può
avvenire il cambiamento.
Immagini di Sergio Melis, Nurnet e portale Sardegna Regione.
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