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venerdì 16 ottobre 2020

Sardegna, sardo e linguistica. URBI ET ORBI, Il Papa parla mezzo in sardo e mezzo in latino ma non lo sa. Articolo di Bartolomeo Porcheddu

Sardegna, sardo e linguistica. URBI ET ORBI, Il Papa parla mezzo in sardo e mezzo in latino ma non lo sa.

Articolo di Bartolomeo Porcheddu


«Urbi et Orbi» furono le prime parole che papa Pio XI riuscì a pronunciare affacciandosi alla finestra esterna che dà sulla Piazza di San Pietro, subito dopo la sua elezione al soglio pontificio, avvenuta il 7 giugno 1929. Essendo il primo sovrano del nuovo Stato della Città del Vaticano, grazie ai Patti Lateranensi firmati con il Governo Italiano guidato da Benito Mussolini, con voce rotta dall’emozione diede la benedizione e impartì l’Indulgenza “plenaria”. Fino a qual momento, i papi succedutisi all’evento della Breccia di Porta Pia (1870) che avevano perso in guerra lo Stato della Chiesa si erano affacciati sul cortile interno della loggia, per mostrare al mondo che erano prigionieri entro la loro città murata. Quindi Pio XI si rivolse, Urbi, alla Città, e Orbi, al Mondo. 

Urbi  (alla Città) è nella lingua latina il dativo (complemento di termine) di Urbs (nominativo singolare), sostantivo femminile della III declinazione, che significa tra gli altri “Città”. Orbi (al Mondo) è invece il dativo latino (complemento di termine) di Orbis (nominativo singolare), sostantivo maschile della III declinazione, che significa tra gli altri “Cerchio”, riferito, nella accezione più vasta del termine, al territorio del Circondario più ampio della Città, che poteva arrivare fino al resto del

Mondo. L’uscita in –s del nominativo e quella in –i del dativo sono uguali alle corrispondenti desinenze del greco. Il “caso” ablativo singolare, Urbe per Urbs e Orbe per Orbis, era tra le 12 voci della declinazione latina quella che più delle altre si avvicinava alla lingua parlata. I Romani avevano aggiunto un caso in più, l’ablativo, rispetto ai cinque del greco, proprio per non slegare del tutto il parlato dallo scritto.

«Benché fossi un ragazzino, li vedo ancora dentro i miei occhi quei traditori della lingua dei Patres (Padri, Antenati)» avrebbe detto Marco Pòrtzio Catone (Marcus Porcius Cato), quando all’età di sei anni, accompagnato dal padre, avrebbe assistito a Roma nel 240 a.C. ai fasti solenni per la vittoria dei Romani sui Cartaginesi nella prima guerra punica. Nelle prime file gli Scipioni, ramo della potentissima famiglia dei Cornelii. Questi, dopo la cerimonia, si felicitarono con Livio Andronico, uno schiavo greco fatto prigioniero a Taranto e ospitato nella Capitale dalla gens Livia come un liberto d’onore, quando, davanti alle maggiori autorità della Città, presentò la sua prima opera teatrale in lingua latina “comune”, che Tito Livio chiamerà qualche secolo dopo nella sua Ab Urbe Condita con la dizione di “Componimento Regolato”.

Nessuno dei presenti capì un’acca di quello che Livio Andronico aveva detto, ma questo in quel momento non aveva importanza, perché, avrebbero detto Senatori, Consoli e Censori: «La nuova lingua statuale invaderà il mondo nei prossimi anni, sarà studiata e parlata da tutti, e sostituirà il greco nei grandi poemi epici». Parole queste che fecero presa su guerrieri nati per combattere e con una sola aspirazione nella testa: il concetto dell’immortalità storica. Tutti i grandi comandanti romani sognavano di diventare dei personaggi leggendari come Achille o Agamennone. Pertanto, fu facile convincerli del fatto che unendo la lingua sarda, idioma delle loro origini, a quella greca, i maestri della penna avrebbero fatto scivolare più velocemente le loro vicende sulla pergamena indelebile della storia.

In quel frangente si stava mettendo in pratica la decisione già presa di utilizzare la nuova lingua statuale che aveva inserito nella radice sarda il morfema nominale greco, chiamato “caso”, che vuol dire “caduta”, calco latino del greco πτῶσις (ptosis). Poco tempo dopo, Marco Portzio Catone si oppose ferocemente alla ellenizzazione della lingua latina e, forse anche per questo, litigò violentemente con Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. Catone quindi riparò e militò per un breve periodo in Sardegna, lontano dal Circolo degli Scipioni. Catone fu ricordato in seguito anche dallo Scrittore Marziale (Marcus Valerius Martialis: 40-104 d.C.) nei suoi Epigrammi come colui che odiava la Lingua Latina Comune. «Un Catone non entrerà mai nel mio teatro» avrebbe detto e scritto Marziale nel prologo alle sue opere teatrali, dopo che molti Romani gli avevano contestato i testi recitati nella lingua dello Stato.

La lingua latina “comune” però non cadde immediatamente nello sfacelo, come era accaduto all’impero, perché venne abbracciata dalla nuova religione, chiamata Cristiana poiché professava la parola di Cristo, che aveva messo radici a Roma, dopo essere migrata dalla Palestina. «Roma caput Mundi (Roma capo del Mondo» diceva l’Alto Clero di Cristo, ripetendo più o meno la frase scritta da Tito Livio: «Roma caput orbis terrarum sit (Roma capo/capitale del circolo terrestre/mondo sia)». Il latino comune non era certo una lingua popolare e solo chi poteva permettersi un Litterator privato che gli insegnasse la grammatica poteva distinguere un nominativo da un dativo, vale a dire un soggetto da un complemento di termine. Pertanto, conquistato e perso l’impero, i cittadini Romani ereditarono dai loro Cesari un ibrido incomprensibile nella forma scritta e un miscuglio di dialetti nella lingua parlata.

In poco tempo, la memoria storica dei Romani si spense piano piano, tanto che nessuno era più in grado di comprendere neanche il significato di Urbe, neppure chi, come Varrone (Marcus Terentius Varro: 116 a.C. – 27 a.C.), era considerato tra i grandi letterati del primo secolo avanti Cristo. A tale proposito, citando il Settentrione segnato dalla costellazione dell’Orsa o del Carro, Varrone scrive: «I Greci chiamano questa costellazione “Carro”, mentre noi appelliamo queste sette stelle “Triones”». Poi aggiunge: «Triones sono chiamati dai bifolchi i buoi». Varrone aveva quindi associato il “Carro” ai “Sette” buoi che lo trainavano. Egli non aveva compreso che in presenza di una consonante iniziale sorda /t/ seguita da una liquida /r/, per una questione di metatesi (spostamento all’interno di parola della consonante liquida), solitamente, la vocale che accompagnava la consonante sorda veniva sincopata (fatta fuori). Per cui, Triones era in origine Turriones (Grandi Torri).

 


 

Nella lingua sarda delle origini, attraverso il latino, si ottiene quindi Sete Turriones per Septem Triones. Ancora oggi, una località nel territorio di Ossi (SS) è chiamata “Sos Turriones”. In altre parole, la costellazione del Carro o dell’Orsa segnava il Settentrione per mezzo di sette stelle che rappresentavano sette grandi torri. La grande torre nuragica costituiva la singola stella del cielo trasposta sulla terra e veniva chiamata “Pula”, come l’odierna cittadina di Pula nel Cagliaritano, mutuata dai Greci con un calco in “Polis”. Gli storici, che ancora pensano che la Polis sia di origine greca, si saranno beccati figuratamente qualche frecciata scoccata dall’arco di Orione, l’arciere celeste dell’omonima costellazione. Oppure, come si faceva un tempo per educare i bambini, Orione avrà preferito stendere sul loro deretano un paio di cinghiate.

La Cintura di Orione avrebbe fatto del male agli educandi, perché era formata da tre stelle appuntite che costituivano una Trìpula, termine che i Sardi avevano sonorizzato in Trìbula e che i Greci avevano ripreso in Tripolis. In antichità, il toponimo Trìbula esisteva in Liguria, nel Lazio e in Campania. Ancora oggi, Trìpoli è la capitale della Libia e il Tribulaun è la montagna dell’Alto Adige con tre cime. La Trìbula era in sardo il forcone a tre denti con cui si separava il grano dalla Pula. Roma era in origine una Trìbula, vale a dire una città costruita intorno a tre monti o colli sacri, sui quali campeggiava il Turrione, Palatu (Palatino) o Nuraghe, ed è per questo che la leggenda della sua fondazione narra degli abitanti appartenenti a tre Tribù, il cui termine è composto del sostantivo Tribu[la] troncato della sillaba finale.


Il Grande e Piccolo Carro raffigurato nella costellazione dell’Orsa maggiore e Orsa minore è tracciato da sette stelle che disegnano un carro o una nave da corsa. Il nome Orsa è per questo solo una corruzione del latino Ursa, che in origine aveva la consonante iniziale /c/ a sostegno della vocale /u/: Cursa. Ancora oggi, in parte della variante sarda del Nuorese, la consonante sorda /C/ iniziale viene fatta fuori per aferesi, come nell’esempio di “su Casu” (il formaggio) che diventa “su ‘asu”. Quindi il Piccolo e il Grande Carro erano destinati alla Corsa, ossia al combattimento. Il timone del Carro era costituito dalla “Barra”o “Asse”  fissata alla “Bara” o “Carena”. Non bisogna dimenticare che la bara odierna dove giace il defunto è la riproposizione del carro o della imbarcazione dove il soldato aveva militato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La stella più luminosa del Carro Minore che è posta all’estremità della barra si chiama Polare, come Pularisone (nel Comune di Belvì), e segna il Polo Nord Celeste. La punta della barra è unita al Giogo attraverso un anello, oggi di ferro, che in sardo viene chiamato “Bùssulu”, da cui è derivato il nome della Bussola. A seguito della “Processione degli Equinozi”, vale a dire della rotazione non lineare dell’asse terrestre che gira come una trottola, la stella Kochab, che si trova in posizione opposta a quella Polare, ha dato per diverso tempo l’indicazione del Polo Nord. La stella arancione Kochab è un adattamento al nome originario che gli Arabi hanno tramandato fino ai nostri giorni, ma che, è evidente, si tratta di un sostantivo sardo. Nell’Isola, infatti, Cocco si trova sia nell’onomastica sia nel frutto arancione, tondo e dello stesso colore della stella, che si chiama Barra-Cocco (Albicocca), da “bara” o “barra” e da “cocco” (telaio). Per questo, la “scocca”, che prende ugualmente il nome dalla stella, è l’intelaiatura del carro da guerra, dal quale l’arciere “scoccava” le frecce.

Come in un innesto “maschio” e “femmina”, il manico si legava alla carena. Il carro o la nave presentavano una parte concava e una parte convessa, a seconda del fatto che il mezzo fosse rispettivamente messo in posizione normale o capovolto. Similmente per il Nuraghe, se la torre era vista dall’interno nella parte concava era una Pula o Turre di genere femminile, mentre se era osservata dall’esterno nella parte convessa era un Turru o Turrione di genere maschile. Pertanto, anche la costellazione del Carro da [C]Ursa era ambivalente. In sardo, il manico dell’aratro, il timone della nave o le redini del carro vengono chiamati [B]urbu, nome che rappresenta figuratamente anche il membro maschile. All’opposto, la [B]urba è invece l’organo genitale femminile. Quindi in Sardegna troviamo ad esempio il villaggio nuragico di S’Urbale (Teti) e l’Altipiano di Badde Urbara (Santu Lussurgiu).

Il fenomeno linguistico secondo cui le consonanti /b/ e /v/ sono intercambiabili si chiama “Betacismo”. Per mezzo di questa norma linguistica, a seconda della località, lo stesso nome viene pronunciato ad esempio Binu o Vinu (vino). Le due consonanti iniziali, se precedute da una parola che termina per vocale, solitamente, subiscono un’aferesi, vale a dire vengono eliminate: quindi “su ‘inu”. Un’altra particolarità linguistica, secondo cui una consonante viene detta tecnicamente “liquida”, si ha quando la /r/ sostituisce la /l/ nei nessi consonantici (due consonanti nella stessa sillaba). Ad esempio, troviamo il sostantivo “Flore” (fiore) nella Sardegna settentrionale, in opposizione a “Frore” nella Sardegna centro meridionale. Entrambe le consonanti liquide /r/ e /l/, sempre a seconda della località, possono muoversi all’interno di parola generando il processo linguistico che si chiama “metatesi”: pedra, preda e perda (pietra).

Nel caso volessi applicare il betacismo anche alla lingua italiana, potrei trasformare “Bulbo” in “Vulva”, cambiando la consonante /b/ in /v/, compresa la desinenza finale –a che mi dà il genere femminile, opposto a quello maschile. Allo stesso modo, in sardo, scambiando la liquida /r/ con la /l/ e utilizzando il betacismo, posso trasformare l’italiano “Bulbo” nel sardo “Burbu” e “Vulva” in “Burba”. Ad esempio, il logudorese “truvare” (spingere) si trasforma nel nuorese “turbare” (che oltre a spingere significa anche fare l’amore. Una donna dis-turbata solitamente non fa l’amore perché ha il ciclo). In altre parole, tutti questi termini hanno una sola radice che muta dal maschile al femminile solo cambiando la desinenza finale. Tutto si svolge come in un gioco amoroso in cui il maschio e la femmina ruotano avvolti uno sull’altra come le stelle nel firmamento, come la donna e l’uomo nel cerchio della vita o come il rullo del telaio nell’ordito.

Questo abbraccio è tradotto in sardo, tra gli altri, con il nome di Sorbu o S’Orbu. S’Orbu, in latino Orbis (nominativo singolare) e Orbi (dativo singolare), è in sardo l’amore figurato, ovverosia la ruota del telaio su cui è avvolto il filo dell’ordito. Per questo i pianeti “orbitano” e sono attratti dal sole, come la donna dall’uomo e viceversa. Di fronte alle grandi forze della natura, l’uomo è vulnerabile e il suo filo della vita è come quello della trama, che può spezzarsi da un momento all’altro. Nella cultura popolare sarda, la “Filonzana” è la “Zana” o “Jana” (Fata) che tiene questo “filo”. «Maledetto sia colui che cercando l’immortalità personale ha ucciso la lingua degli avi, mandandola nel dimenticatoio dei posteri» avrebbe sicuramente detto Catone ai fautori del sardo-latino grecizzato.

«Domani» avrebbe potuto dire “Il Vecchio Censore” «Forse scorderemo che Roma era in origine una Trìpula, nata su tre monti, come la “Cintura di Orione”, e divenuta durante la Repubblica una Urba, che a Roma per volere del Senato chiamiamo Urbe, dopo aver esteso la sua pianta agli altri quattro colli, consacrandosi così a divenire sulla terra “costellazione delle sette stelle del Piccolo e Grande Carro”». Chi ha abbracciato la nuova lingua di stato ha fatto in modo che si spegnessero man mano anche le stelle del firmamento celeste per vedere nel cielo una sola luce. Ne è conseguito che oggi i discepoli di Cristo, saliti al soglio pontificio per dispensare la benedizione Urbi et Orbi, non sanno che quelle parole vengono dalla memoria primordiale dei Sardi e ignorano pertanto che Urbi viene da Urba e Orbi da Orbu. Se solo sapessero che Urba è il luogo da cui nasce la vita e Orbu il cerchio in cui è racchiuso l’Amore […].

1 commento:

  1. Non pensavo che ci si potesse spingere così avanti!! Va bene avere fantasia e voglia di divertirsi! Ma attenzione che qualcuno potrebbe prendere sul serio queste "teorie linguistico/storiche" o altri che potrebbero riderci dietro (non sardi)

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