mercoledì 27 aprile 2016
Archeologia nella preistoria. Dolmen e Menhir, le pietre sacre del Salento
Archeologia nella preistoria. Dolmen e Menhir, le pietre
sacre del Salento
di Lory Larva
Dolmen e Menhir, epicentri
arcani di aree sacre primordiali, dove venivano officiati riti alle divinità
del cielo e della terra, si nascondono all’ombra di ulivi millenari. Scenari
rievocanti l’anima oscura del mondo si spalancano alla vista di dolmen, menhir
e menanthol, che imperturbabili aspettano di risvegliarsi da un letargo
atavico, dopo essere stati colpiti dal sortilegio del tempo che divora tutte le
cose che crea.
Percorrendo il Salento in
lungo e in largo si fanno incontri ravvicinati con questi giganti di pietra,
depositari di antichi segreti, che si perdono nella notte dei tempi,
allorquando risuonavano nel ventre della terra sonorità ancestrali riprodotte
da inquietanti sciamani, che, oltre a praticare riti di guarigione,
sovrintendevano a quelli di iniziazione segnati
dall’impressione delle mani sulle volte delle grotte-santuario come quella dei
Cervi di Porto Badisco considerata per il suo repertorio pittorico come la
cappella Sistina della Preistoria. Imponenti e maestosi con il loro fardello
pesante come un macigno, dolmen e menhir ti aspettano al varco, immobili e
silenziosi, incutendo un certo timore reverenziale, non solo per le loro forme
stupefacenti e le loro dimensioni mastodontiche, ma
anche per l’aura di
sacralità che emanano.
Ad erigerli i popoli che si
affacciavano all’alba della storia intrisi di miti cosmogonici e di
superstizioni religiose, suggeriti da foschi presagi imprigionati nei lontani
bagliori delle stelle, che rischiaravano le tenebre a gruppi di cacciatori
intagliatori di ossidiana, destinati a trasformarsi da pastori in agricoltori,
seppur condannati a rimanere ancorati ad un’economia di sussistenza basata sul
ciclo delle stagioni per la semina e i raccolti. In un ambiente così ostile la
sopravvivenza del singolo e della comunità era garantita non solo dai rituali
di rinascita e fertilità della natura, ma anche dalle cerimonie di
purificazione accompagnate da preghiere rivolte alla dea-madre per invocare la
fecondità e la virilità umana.
Per ottenere la potenza
fecondatrice si plasmavano nella pietra a volte organi sessuali maschili e
femminili altre volte idoletti, come quello rinvenuto ad Arnesano, anche se la
scena era dominata dalle spettacolari statuine con il ventre prominente,
identificate come Veneri, sulla scia di quelle venute alla luce sulle Serre di
Sant’Eleuterio a Parabita.
Nel delirio mistico di
liturgie e libagioni tra il Neolitico e l’età del Bronzo tra solstizi ed
equinozi si delineò il volto della più antica architettura di pietra incentrata
in qualche caso intorno a cromlech caratterizzati da cippi disposti a
semicerchio quasi a demarcare i recinti litici in cui venivano officiate le
cerimonie cultuali e funerarie.
Primitivi osservatori
astronomici, intimamente connessi al culto del sole e della luna i monumenti
megalitici furono innalzati per delimitare terreni, segnalare luoghi di culto,
seppellire i defunti, assorbire l’energia vitale emanata dalle forze
telluriche. In qualche caso, come le specchie, costituite da cumuli di pietrame
informe, dall’alto delle quali si avvistavano i nemici che incalzavano verso il
villaggio, forse vennero sopraelevate in atto di sfida verso il cielo, che
colpiva la terra con la folgore, riducendo tutto ciò che sfiorava in cenere.
L’intervento millenario
dell’uomo artefice di queste pietre fitte, incastonate nel terreno come le
tessere di un mosaico, lentamente ma inesorabilmente trasformò il paesaggio,
costellato di boschi e foreste, che divenne scrigno di queste meraviglie diaboliche
che trionfavano prima del sincretismo tra culto pagano e cristiano sancito con
il segno della croce.
A detenere il primato della
più alta concentrazione di megaliti in Italia, dopo la Sardegna, si attesta il
Salento che, a torto o a ragione, per molti rappresenta una Stonehenge in
miniatura come suggerito dallo straordinario giacimento attestato nella
rigogliosa campagna di Minervino di Lecce intorno allo spettacolare dolmen Li
Scusi
Nelle campagne di Calimera e
Melendugno sonnecchiano invece i dolmen Gurgulante e Placa, mentre a
Giurdignano cresce rigoglioso il “giardino megalitico d’Europa” che si perde
nei meandri della ragnatela di San Paolo che liberava dal morso del ragno. A un
tiro di schioppo dal fondo Quattro Macine, interessato da un insediamento medievale,
in agro di Giuggianello troneggia il dolmen Stabile mentre tra Zollino e
Martano si snoda un filare di megaliti che punteggiano un territorio un tratti
selvaggio.
Benvenuti nel regno dei
megaliti innalzati dall’uomo ed abitati in tempi lontani, secondo la
superstizione popolare, da giganti, gnomi, ninfe e fate. Una dopo l’altra,
infatti, non tardarono a fiorire le leggende come quella che avvolse nel
mistero la collina incantata dei fanciulli e delle ninfe, dove furono scolpiti
in età miocenica i “Massi della Vecchia”. In questo angolo remoto del Salento
il silenzio è rotto soltanto dal rumore spettrale del fuso, che consentiva alla
vecchia di filare la lana mentre rivolgeva domande da sfinge ai viandanti, che
arrivavano nel suo antro sperduto. I malcapitati che non riuscivano a
rispondere venivano pietrificati, mentre coloro che superavano brillantemente i
suoi quesiti sibillini venivano ripagati con un gallina con sette pulcini d’oro
come in una favola. Eppure quella dei megaliti non è una favola, ma
un’affascinante storia scolpita in un libro di pietra sfogliato dal vento e
modellato dalla magia della natura.
Fonte: http://www.salentoacolory.it/
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