sabato 30 aprile 2016
Archeologia. Il Toro, un simbolo divino in Sardegna e nelle civiltà a base agricola
Archeologia. Il Toro, un simbolo divino in Sardegna e nelle civiltà
a base agricola
di Enio Pecchioni e
Giovanni Spini
Prima di parlare della
Sardegna, ci sembra doveroso un rapido excursus per
mettere in evidenza l’importanza del toro nelle antiche culture mediterranee e
indoeuropee.
Nel 1851, Auguste Mariette
cominciò a scavare a Saqqara presso la piramide a gradoni eretta dal faraone
Zoser attorno al 2750 a.C., facendo una delle più straordinarie scoperte di
tutta la storia dell’archeologia: il cimitero sotterraneo dei tori Api.
Il toro rappresentava la forza
creatrice della natura, in particolare del Sole. Infatti, nelle raffigurazioni
in cui ci sono state tramandate le loro immagini, i tori portano il disco
solare tra le corna. Il toro Api si confonde anche con Osiride, il dio della
resurrezione dell’anima; questo animale aveva, perciò, molta importanza
nell’antico Egitto. Nel recinto sacro, a Saqqara, si teneva racchiuso, protetto
e adorato fino alla morte, un magnifico esemplare di toro che secondo la
leggenda dimagriva e ingrassava a seconda delle fasi lunari e aveva una
macchia bianca sulla fronte a forma di mezzaluna; al momento del trapasso,
veniva mummificato e sepolto con una solenne cerimonia alla quale partecipava
tutto il popolo. Ma subito, un nuovo toro lo sostituiva, a significare la
continuità della vita sulla terra. Il toro era venerato anche a
Cipro, in diverse località della Grecia continentale e nell’altopiano
anatolico. In tutti i paesi celtici l’animale rappresentava uno dei simboli
della regalità. Mitra, divinità di origine persiana, uccide il toro primordiale
affinché dallo spargimento del suo
sangue nasca l’ordine sociale e la sovranità
dell’uomo sull’animale. La mitologia greca ci racconta che il Minotauro, mostro
con corpo umano e collo e testa di toro, nato dall’unione di Pasifae (moglie di
Minosse re di Creta) con un toro celeste, fu rinchiuso nel Labirinto costruito
da Dedalo e gli furono assegnati sette fanciulli e altrettante fanciulle, che
gli ateniesi davano ogni nove anni a Minosse come tributo di guerra. Sappiamo
tutti come andò a finire. Ma più interessanti sono le interpretazioni date a
questa leggenda. Il mostro sarebbe nato dall’unione sempre di Pasifae, ma con
un cortigiano cretese poi ucciso da Teseo in una caverna. Per altri si
identificherebbe col re stesso (Minos), e Teseo
sarebbe invece il capo dell’esercito invasore della terza ondata proveniente
dal nord, ovvero gli Achei. O ancora il mostro non sarebbe stato altri che un
generale di Minosse di nome Tauros, sempre sconfitto da Teseo in una battaglia
navale.
Oltre al tridente, come
emblema della civiltà minoica, poi sostituito dall’ascia bipenne, appare
tuttavia importante la frequenza del simbolo delle corna del toro
nell’architettura cretese, così come la sua rappresentazione pittorica a tutto
tondo, legata specialmente ai giochi che i giovani cretesi intrattenevano con
l’animale. Il toro è presente anche in altre civiltà, ma non è questo che
vogliamo approfondire. Rivolgiamoci dunque alla Sardegna.
Le ricerche e gli scavi
condotti dagli archeologi Lilliu, Pesce, Soldati e precedentemente dal
Taramelli, dimostrano la grande antichità del culto del toro in Sardegna con la
sua persistenza dal IV millennio a.C. fino alla fine del periodo nuragico
(II sec. a.C). Tale fenomeno è una delle caratteristiche più notevoli della
preistoria mediterranea, almeno fin dal sorgere delle più antiche civiltà
agricole e pastorali. Il toro è l’animale più
presente, per non dire esclusivo, nell’arte e nella religione neolitica della
Sardegna. In un amuleto in pietra ritrovato a Bau Porcus, è evidente
l’importanza e il valore taumaturgico del simbolo taurino che vi è inciso con
la testa di forma ovale sormontata da corna lunate, così come nelle protomi
bovine scolpite nell’ipogeo di Sa Londra ad Alghero, entrambi ascritti alla cultura
di Ozieri. Dalla località di Bingia Eccia, presso Dolianova, proviene un piatto
tetrapode in calcare con protomi taurine. Nelle grotte di Monte Majore e Sa
Ucca ‘e su Tintirriolu, sono stati ritrovati quattro frammenti di vasi databili
agli inizi del III millennio a.C. in cui sono raffigurati lo schema del toro in
forma di mezzaluna, oppure con la testa trapezoidale allargata alle froge, o
ancora, con la protome taurina, quest’ultima presente in maniera consistente ad
Anghelu Ruju, nella zona di Cagliari, dipinta sugli architravi delle tombe. Ma
le protomi taurine si ritrovano, scolpite o dipinte, isolate o in coppia, in
numerose domus de janas (tombe scavate nella roccia
solitamente riunite in necropoli) sparse per tutto il territorio sardo, come
simbologia magica e protettiva delle sepolture. Per non parlare dei bronzetti
di guerrieri sardi con elmi ornati di corna, a volte poste in verticale, altre
in orizzontale.
Sembra strano che un animale
come il toro, così utile nella realtà quotidiana della civiltà agricola e allo
stesso tempo tanto sacro da costituire quasi un’unione tra la natura animale e
quella divina, sia stato effigiato solo con i segni della testa e delle corna
anziché con l’intero corpo. Ma questo modo di offrire in immagine simbolica una
parte dell’animale, non è certamente dovuto alla scarsa abilità dell’artigiano
neolitico protosardo, bensì a una specie di “norma di rappresentazione” fondata
su idee e credenze che, pur restando a noi sconosciute, hanno agito come regola
di elaborazione del sistema artistico e religioso più remoto della
Sardegna, per cui l’espressione animalesca si riduce a un mitogramma.
Altri animali, al contrario, non sono affatto figurati né simbolizzati, ad
evidenziare, forse, una riconosciuta inferiorità rispetto al “Signore degli
animali”, secondo le comunità sarde del tempo. Memorizzare l’animale a mo’ di
simbolo, era più che naturale, tenuto conto che il toro atteneva al mondo del
sacro e persino del divino come partner della Dea
Madre. Si coglie dunque, per tale aspetto, una visione del mondo abbastanza
singolare di gruppi sardi neolitici, divergente da quella di altre culture con
le quali, al contrario, la Sardegna del IV-III millennio a.C. procede in
sintonia per quanto riguarda altre pratiche materiali.
Al lungo elenco pertinente
all’importanza del toro in Sardegna, si può aggiungere che secondo alcuni
studiosi nella forma delle “Tombe dei Giganti” si potrebbe evidenziare un altro
simbolo taurino: dalla grossa stele granitica centrale, dotata di un piccolo
ingresso, si diramano infatti due bracci semicircolari costituiti da lastroni
conficcati nel terreno, che riprodurrebbero la forma delle corna del toro (per
altri, i monumenti rappresenterebbero il grembo della Dea Madre, un simbolo
quindi di fertilità). Dopo il lunghissimo periodo
della storia dell’uomo dedicato esclusivamente alla caccia e alla raccolta,
bisogna rifarsi al sorgere delle civiltà pastorali e agricole per comprendere
meglio il significato di questi simboli. Infatti fu la luna, l’astro notturno
più evidente, che attirò con i suoi cicli l’attenzione degli uomini
preistorici. Il nostro satellite venne considerato la “personificazione” in
cielo della Madre Terra per la sua manifesta influenza sul crescere delle
piante e sul risultato delle messi (era consuetudine dei contadini non arare e
non mietere se non a luna nuova, per non parlare dei trapianti). Le fasi
crescenti e calanti dei suoi “quarti”, richiamavano alla mente delle antiche
popolazioni i periodi di fecondità e gravidanza sia del bestiame sia delle
donne dei clan. L’uomo si accorse che anche il suo destino dipendeva in parte
dalla Gran Madre che solcava il cielo notturno bianca e splendente, e forse
anche la vita dell’oltretomba era regolata dalla stessa divinità. Ma chi dava
ad essa la forza e il vigore per generare tutte le cose? Evidentemente la luna
si “sposava” con una forza di fuoco, che non poteva essere che il Sole,
identificato col toro.
Il sito preistorico di Santu
Lesèi, presso Nule, è famoso per il ritrovamento di uno strano bronzetto
nuragico che rappresenta un toro androcefalo. Custodito nel Museo Archeologico
di Cagliari, il bronzetto raffigura un mostro antropomorfo, metà toro e metà
uomo, quasi un centauro in versione sarda. O forse rappresenta il Boe Muliache,
un uomo divenuto toro, mitico personaggio del folclore sardo. Ma è anche
interessante supporre una sua influenza minoica, in questo caso invertita,
della leggenda del Minotauro, considerato che sembrerebbero certi i contatti
con l’antica civiltà dell’isola greca. Occupiamoci ora di un
monumento che sta a metà fra il certo e l’incerto, fra la supposizione
suggestiva di molti e quella più pragmatica di alcuni archeologi del
secolo scorso, tenendo presente l’indifferenza e il silenzio di quelli odierni.
Percorrendo da Sassari la S.S.
131 “Carlo Felice”, dopo circa 56 chilometri si raggiunge Bonorva. Da qui si
prende la strada per Bono, dopo 6 km si gira a destra in una strada bianca che
porta alla chiesa di Santa Lucia; si oltrepassa la chiesa e si procede per
altri 500 mt sino ad arrivare alla necropoli di S. Andria Priu, sulla sinistra
in un’area recintata e gestita da una cooperativa. Si tratta del più grande
complesso di grotte artificiali che gli antichissimi abitatori dell’isola
scavarono per le sepolture dei loro morti e per compiervi riti religiosi.
Databili, almeno per le prime
fasi di utilizzo, fra il IV e il III millennio a.C. le quindici grotte, alcune
di architettura estremamente complessa, conservano ancora affreschi
paleocristiani e dipinti bizantini ed evidenziano un riuso in epoca tardo-medievale.
L’ipogeo preistorico più vasto e significativo, infatti, fu trasformato in
chiesa da cui prende il nome tutto il sito archeologico, appunto, di
Sant’Andrea Priu. Entrando in queste caverne (alcune non sono visitabili a
causa di un vasto fronte trachitico franato), si nota subito l’eccezionale
somiglianza con le tombe rupestri dell’Etruria lungo la costa tirrenica della
penisola, essendo le diverse stanze all’interno collegate tra loro da passaggi,
come avviene nelle tombe di S. Giuliano, Blera, Norchia, Castel d’Asso, S.
Giovenale, Luni sul Mignone ecc. e, ovviamente, con l’architettura tombale
cretese. Alcuni scavi, condotti intorno alla metà dell’800 ai piedi del costone
di 180 metri in cui si aprono le grotte, hanno evidenziato l’esistenza di un villaggio
romano pertinente alla necropoli.
La chiesa, o “Tomba del Capo”,
è la più grande caverna artificiale di tutto il Mediterraneo centrale. Questa
tomba ha tutto l’aspetto di un labirinto: una grande anticamera a mezzaluna
accoglie chi oltrepassa la soglia, intorno, scolpita nella roccia, si trova una
specie di panca dove forse venivano deposte le offerte, poiché con ogni
probabilità ci troviamo di fronte ad un mausoleo funebre. Sul soffitto è inciso
un sole radiante che manda i suoi raggi come delle lunghe braccia in direzione
dell’ingresso. Tale motivo si ritrova in tutta la Sardegna, infatti è presente
nell’architettura dei nuraghi, nelle “fontane sacre” e nel disegno delle “tombe
dei giganti”. La grande camera d’ingresso a forma di mezzaluna, si unisce al
sole inciso sul soffitto che getta i suoi raggi verso lo stretto passaggio
della caverna: colui o coloro, sepolti qui, sarebbero entrati immediatamente
nel complesso cosmico dominato dall’unione Sole-Luna.
In corrispondenza dell’altare,
il soffitto è perforato da un camino quadrangolare che, attraversando la roccia
per circa 5 metri, sbuca sul pianoro sovrastante. In estate, quando il sole è
alto a mezzogiorno, la luce piomba quasi a perpendicolo nella caverna. Ma è
proprio sul pianoro, a pochi metri dal foro, che si trova il monumento oggetto
delle dispute archeologiche: un monolite dall’inconfondibile aspetto di un
enorme toro con la testa mozzata, con una lunghezza di m 4,50, una larghezza di
m 2,50 e un’altezza di m 1,95.
Descriviamolo nei due diversi
aspetti del contendere.
Secondo quanto scrisse nella
prima metà del ‘900 l’archeologo Taramelli, il monumento (chiamato dai vecchi
del luogo “il campanile” per via della pertinenza alla chiesa e al resto delle
grotte identificate come un convento), non sarebbe altro che un masso trachitico, sporgente dalla sommità del banco, ritagliato
esternamente ed internamente traforato da una cella ipogeica le cui pareti
furono sfondate.
E a conforto della sua tesi e
allo stesso tempo mettendo in guardia dalle dicerie e dalle “leggende”, fece
notare che in corrispondenza della presunta testa, non si notavano fratture, o
almeno tali da autorizzare altre interpretazioni.
Prendiamo ora in
considerazione l’altra ipotesi, la più suggestiva, che vede nella struttura
un’evidente raffigurazione di un toro decapitato, probabilmente in epoca
cristiana perché visto come un idolo pagano, e poi eroso dal vento e dalle
intemperie a cancellare la mutilazione. Un animale che ha ancora, a distanza di
migliaia di anni, le quattro larghe zampe ben piantate nel sasso rossiccio e le
spalle sollevate per sostenere una testa scomparsa da tempo che doveva
ammiccare verso il giro del sole. La divinità per eccellenza della Sardegna
antica, che proteggeva con la sua mole le anime dei morti sepolti nella
necropoli. L’essere che univa in sé la falce magica della luna e la potenza
della forza generatrice.
Nella stessa area, in località
Sa Pala Larga, gli archeologi hanno rinvenuto in un’altra tomba, purtroppo
ricoperta e quindi non più visibile, una testa di toro scolpita con eccezionale
maestria con sopra una serie di spirali a formare una specie di “albero della
vita”.
Le tombe rupestri di
Sant’Andrea Priu, con in cima la (presunta) scultura taurina, ci raccontano
tutta un’epopea leggendaria e mitica dove affondano le radici delle tradizioni
e della religione delle popolazioni sarde, esaltanti la poderosità e la forza
generatrice del toro che balza maestoso sull’alto della rossa roccia
“infiammata” dal tramonto estivo come un sacro falò.
Oggi, oltre ai dati
archeologici ed epigrafici, si può aggiungere alle nostre conoscenze quello
offerto dall’archeoastronomia. Il GRS (Gruppo Ricercatori Sardi), in
controtendenza nei riguardi dell’archeologia cosiddetta accademica, ha
pubblicato un libro dal titolo “La luce del Toro” in cui si descrive, in base
alle ricerche effettuate, l’esistenza di un rapporto astronomico nuraghe-astri,
ottenuto dall’esame della luce che penetra attraverso le finestrelle degli
antichi monumenti. In particolare, all’interno del nuraghe di Santa Barbara di Villanova
Truschedu, al solstizio d’inverno, il sole proietta una chiara immagine della
testa di un torello sulla parete opposta alla finestrella. Questo fenomeno è
riscontrabile anche in altri numerosi nuraghi. Ma quello che lascia più
perplessi è la scoperta che nel nuraghe Toroleo di Paulilatino, l’immagine di
una testa di toro più grande appare capovolta in coincidenza col solstizio
d’estate, essendo la finestrella orientata proprio nel punto astronomico dove
il sole comincia il suo ciclico declino verso l’equinozio d’autunno. Il che
suggerisce che a Santa Barbara si festeggiava la nascita del torello, mentre a Toroleo la vecchiaia e poi la morte
apparente del toro (più grande).
Fonte: http://www.e-archeos.com
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Non credo che nella cosiddetta tomba del capo di Sant'Andria Priu sia rappresentato il sole radiante, come nella bandiera giapponese da combattimento. Mi pare una suggestione. L'interpretazione più attendibile è quella della riproposizione della capanna neolitica, il cui palo centrale di sostegno è rappresentato da un semicerchio, dal quale si irradiano le travi di copertura. Tra l'altro è cosa piuttosto usuale nelle domus de janas, in quella immediatamente a fianco ciò è evidente.
RispondiEliminaAltra imprecisione è definire la necropoli bonorvese come la più estesa fra le domus de janas. Mi pare che quelle di Montessu ricoprano un ben più ampio fronte.
In generale il post mi appare interessante per l'argomento trattato, ma le approssimazioni e le inesatezze sono troppo marcate. Anche perché io ho probabilmente rilevato solo quelle maggiormente evidenti.
Resta il fatto che la simbologia del toro permane in Sardegna per millenni, persistendo a quanto pare anche nel passaggio alla civiltà nuragica. L'elmo cornuto dei guerrieri nuragici, nella versione egiziana con disco solare, sembrerebbe riproporlo. Anche la supposizione circa le tombe dei giganti che simboleggiano ancora una volta la protome taurina potrebbe avere un suo fondamento.
Giuste osservazioni, tutte. In effetti l'articolo è divulgativo, e il suo obiettivo è proprio quello di avviare delle riflessioni.
RispondiEliminaI collegamenti con gli astri sono sconvolgenti in generale in tutta la Sardegna. Il pozzo di Santa Cristina per esempio. La Sardegna é magica, i siti archeologici sono carichi di energia e mettono i brividi. Purtroppo non si occupano in molti o, non abbastanza, di studiare e capire realmente il mistero ma la Sardegna é stata definita da alcuni studiosi uno dei luoghi più importanti al mondo per le testimonianze di un passato ancora troppo sconosciuto
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