lunedì 30 giugno 2014
Tartesso, dove si trova la mitica città del Bronzo?
Interpretazione geografica del poema "ORA MARITTIMA" di Avieno sul territorio intorno al Golfo di Tartesso.
di Sonia Barja
(Traduzione dallo spagnolo di Pierluigi Montalbano)
Scusandomi per la traduzione a braccio, realizzata in mezza mattina e non perfezionata da uno specialista, vi propongo una interessante interpretazione sulla localizzazione della mitica città di Tartesso. (Vorrei puntualizzare che sono convinto della ubicazione in Sardegna di questa mitica città, precisamente a Tharros,...ma gli studiosi più accreditati la cercano nei dintorni di Siviglia in Andalusia).
Le notizie storiche più antiche che ci sono arrivate sui colonizzatori della penisola iberica e delle sue coste sono quelle citate da Rufo Festo Avieno, IV d.C, nel suo poema intitolato "Ora Marittima." Il concetto importante dell'opera è che Avieno utilizzò fonti antichissime di autori sconosciuti. La parte che ci concerne proviene da un marinaio marsigliese al quale proprio Avieno confessa di essersi ispirato. Questa fonte è il "periplo" di un marinaio di Marsiglia (Massalia) del V a.C. cioè, quasi mille anni prima dell'epoca in cui visse e scrisse Avieno. Secondo gli esperti, la fonte di Avieno per la descrizione delle coste andaluse di allora precede di poco la sparizione della mitica Tartesso. Avieno era un nostalgico della cultura antica, in un'epoca nella quale il cristianesimo era già la religione dell'Impero Romano. Essendo già molto vecchio decise di trascrivere, tradurre dal greco al latino e mettere in versi il citato periplo massiliota. Gli antichi marinai praticavano la navigazione di cabotaggio, dovevano imparare a memoria la rotta, gli incidenti costieri più notevoli, capi, isole, promontori, insenature...a partire da uno scritto originale poiché non esistevano carte per la navigazione. Una di queste rotte, o peripli, è quello che segue Avieno per scrivere il suo “Ora Marittima”. Gli studiosi convergono nell’affermare che Avieno fu fedele ai testi originali. Il periplo si riferisce alla rotta di navigazione costiera che passa nel Mediterraneo partendo dalle coste di Bretagna e Cornovaglia, per arrivare fino a Marsiglia. Risultato di quel viaggio fu la narrazione animata e viva dei posti visitati, proponendo in concreto una delle più antiche notizie esistenti sulle coste andaluse e sull'ambiente di Tartessos.
Benché ci basiamo sui testi di Avieno, per riassumere e non dovere comporre un puzzle complicato di altre prove testuali relative all'ubicazione (che noi attraverso dello studio di mappe geologice e topografiche crediamo concordanti con la complicata evoluzione del fiume Guadalquivir e dei suoi estuari negli ultimi 2500 anni), non ci rifiutiamo di apportare due attestazioni di Strabone che si riferiscono al I a.C. secondo le fonti delle quali questo autore si avvale, cioè quando Tartesso era sparita da almeno 400 anni.
di Sonia Barja
(Traduzione dallo spagnolo di Pierluigi Montalbano)
Scusandomi per la traduzione a braccio, realizzata in mezza mattina e non perfezionata da uno specialista, vi propongo una interessante interpretazione sulla localizzazione della mitica città di Tartesso. (Vorrei puntualizzare che sono convinto della ubicazione in Sardegna di questa mitica città, precisamente a Tharros,...ma gli studiosi più accreditati la cercano nei dintorni di Siviglia in Andalusia).
Le notizie storiche più antiche che ci sono arrivate sui colonizzatori della penisola iberica e delle sue coste sono quelle citate da Rufo Festo Avieno, IV d.C, nel suo poema intitolato "Ora Marittima." Il concetto importante dell'opera è che Avieno utilizzò fonti antichissime di autori sconosciuti. La parte che ci concerne proviene da un marinaio marsigliese al quale proprio Avieno confessa di essersi ispirato. Questa fonte è il "periplo" di un marinaio di Marsiglia (Massalia) del V a.C. cioè, quasi mille anni prima dell'epoca in cui visse e scrisse Avieno. Secondo gli esperti, la fonte di Avieno per la descrizione delle coste andaluse di allora precede di poco la sparizione della mitica Tartesso. Avieno era un nostalgico della cultura antica, in un'epoca nella quale il cristianesimo era già la religione dell'Impero Romano. Essendo già molto vecchio decise di trascrivere, tradurre dal greco al latino e mettere in versi il citato periplo massiliota. Gli antichi marinai praticavano la navigazione di cabotaggio, dovevano imparare a memoria la rotta, gli incidenti costieri più notevoli, capi, isole, promontori, insenature...a partire da uno scritto originale poiché non esistevano carte per la navigazione. Una di queste rotte, o peripli, è quello che segue Avieno per scrivere il suo “Ora Marittima”. Gli studiosi convergono nell’affermare che Avieno fu fedele ai testi originali. Il periplo si riferisce alla rotta di navigazione costiera che passa nel Mediterraneo partendo dalle coste di Bretagna e Cornovaglia, per arrivare fino a Marsiglia. Risultato di quel viaggio fu la narrazione animata e viva dei posti visitati, proponendo in concreto una delle più antiche notizie esistenti sulle coste andaluse e sull'ambiente di Tartessos.
Benché ci basiamo sui testi di Avieno, per riassumere e non dovere comporre un puzzle complicato di altre prove testuali relative all'ubicazione (che noi attraverso dello studio di mappe geologice e topografiche crediamo concordanti con la complicata evoluzione del fiume Guadalquivir e dei suoi estuari negli ultimi 2500 anni), non ci rifiutiamo di apportare due attestazioni di Strabone che si riferiscono al I a.C. secondo le fonti delle quali questo autore si avvale, cioè quando Tartesso era sparita da almeno 400 anni.
domenica 29 giugno 2014
L'alba della civiltà nuragica è legata a genti iberiche?
La cultura di El Argar e le relazioni con la Sardegna
di Claudia Pau
La cultura argarica, cominciò ad essere conosciuta quando al finale del secolo scorso due ingegneri belgi, i fratelli Luis e Enrique Siret, pubblicarono l’opera intitolata “Las primeras edades del metal en el Sudeste de España”, ma fu con il lavoro del Prof. Tarradell negli anni Quaranta che si fissarono i primi limiti geografici della Cultura di El Argar.
L’area spaziale della cultura di El Argar interessa gran parte della provincia di Granada, Jaén e Alicante e le province di Almeria e Murcia; nella stessa epoca, in altre regioni peninsulari, si svilupparono importanti culture influenzate da quella argarica: il Bronzo Valenziano (Levante), il Bronzo del Sud Est (Sud del Portogallo e Huelva), il Bronzo della Campiñas y della Bassa Andalusia (Valle del Guadalquivir), il Bronzo della Mancha (Provincia di Ciudad Real e Albacete), (Contreras et alii, 1997).
Attualmente si considera la Cultura Argarica come una tappa nell’evoluzione delle popolazioni autoctone del Sud Est, (Contreras et alii, 1997).
Seguendo la proposta di F. Molina e J. A. Camara, si ritiene che la cultura argarica abbia avuto origine nel Bronzo Antico: (2200-1900 A.C.) nella zona di Lorca e nella Depresión de Vera; si sia espansa verso l’altopiano granadino, l’Alto Guadalquivire, e la zona costiera orientale durante il Bronzo Pieno (1900-1650 A.C.); per concludersi nel Bronzo Tardo (1650-1450 A.C.) dopo un ultima espansione verso l’area di Villena.
Questa cultura presenta una serie di innovazioni strutturali e materiali rispetto alle anteriori culture calcolitiche: la costruzione degli insediamenti, le sepolture e il rituale funerario, il ruolo del metallo, le nuove forme ceramiche, la forte differenziazione sociale, e l’uso di un sistema economico che integra le attività agricole, l’allevamento, le attività forestali, e lo sfruttamento delle risorse vegetali e faunistiche.
Oggi si ritiene che la scelta e i processi espansivi siano legati allo sfruttamento diversificato delle distinte risorse zonali di ciascun territorio.
Anche se i villaggi argarci si adattavano all’ambiente naturale, e per tanto presentavano alcune differenze di carattere regionale, possiamo cercare di ricostruire lo schema “urbanistico” tipico.
Il villaggio veniva costruito in terrazze artificiali, ottenute tagliando lateralmente monti o colline, e creando piattaforme dove si situavano le abitazioni e gli spazi pubblici, ne sono un chiaro esempio i giacimenti di Castellon Alto, e Peñalosa. Alcuni spazi venivano dedicati alla circolazione, si tratta di piccole stradine che servono per comunicare le diverse terrazze e contemporaneamente per la raccolta delle acque piovane; nei villaggi argarici troviamo anche spazi collettivi specializzati come stalle e cisterne. I villaggi presentano buone difese naturali, nelle zone deboli venivano costruiti recinti difensivi. In alcuni casi come a Peñalosa, la posizione addossata delle case terrazzate contribuisce alla difesa del villaggio. Le aree che si trovano a maggior altitudine hanno solitamente un carattere speciale, sono le meglio difese e si considerano come residenza dell’élite del villaggio.
di Claudia Pau
La cultura argarica, cominciò ad essere conosciuta quando al finale del secolo scorso due ingegneri belgi, i fratelli Luis e Enrique Siret, pubblicarono l’opera intitolata “Las primeras edades del metal en el Sudeste de España”, ma fu con il lavoro del Prof. Tarradell negli anni Quaranta che si fissarono i primi limiti geografici della Cultura di El Argar.
L’area spaziale della cultura di El Argar interessa gran parte della provincia di Granada, Jaén e Alicante e le province di Almeria e Murcia; nella stessa epoca, in altre regioni peninsulari, si svilupparono importanti culture influenzate da quella argarica: il Bronzo Valenziano (Levante), il Bronzo del Sud Est (Sud del Portogallo e Huelva), il Bronzo della Campiñas y della Bassa Andalusia (Valle del Guadalquivir), il Bronzo della Mancha (Provincia di Ciudad Real e Albacete), (Contreras et alii, 1997).
Attualmente si considera la Cultura Argarica come una tappa nell’evoluzione delle popolazioni autoctone del Sud Est, (Contreras et alii, 1997).
Seguendo la proposta di F. Molina e J. A. Camara, si ritiene che la cultura argarica abbia avuto origine nel Bronzo Antico: (2200-1900 A.C.) nella zona di Lorca e nella Depresión de Vera; si sia espansa verso l’altopiano granadino, l’Alto Guadalquivire, e la zona costiera orientale durante il Bronzo Pieno (1900-1650 A.C.); per concludersi nel Bronzo Tardo (1650-1450 A.C.) dopo un ultima espansione verso l’area di Villena.
Questa cultura presenta una serie di innovazioni strutturali e materiali rispetto alle anteriori culture calcolitiche: la costruzione degli insediamenti, le sepolture e il rituale funerario, il ruolo del metallo, le nuove forme ceramiche, la forte differenziazione sociale, e l’uso di un sistema economico che integra le attività agricole, l’allevamento, le attività forestali, e lo sfruttamento delle risorse vegetali e faunistiche.
Oggi si ritiene che la scelta e i processi espansivi siano legati allo sfruttamento diversificato delle distinte risorse zonali di ciascun territorio.
Anche se i villaggi argarci si adattavano all’ambiente naturale, e per tanto presentavano alcune differenze di carattere regionale, possiamo cercare di ricostruire lo schema “urbanistico” tipico.
Il villaggio veniva costruito in terrazze artificiali, ottenute tagliando lateralmente monti o colline, e creando piattaforme dove si situavano le abitazioni e gli spazi pubblici, ne sono un chiaro esempio i giacimenti di Castellon Alto, e Peñalosa. Alcuni spazi venivano dedicati alla circolazione, si tratta di piccole stradine che servono per comunicare le diverse terrazze e contemporaneamente per la raccolta delle acque piovane; nei villaggi argarici troviamo anche spazi collettivi specializzati come stalle e cisterne. I villaggi presentano buone difese naturali, nelle zone deboli venivano costruiti recinti difensivi. In alcuni casi come a Peñalosa, la posizione addossata delle case terrazzate contribuisce alla difesa del villaggio. Le aree che si trovano a maggior altitudine hanno solitamente un carattere speciale, sono le meglio difese e si considerano come residenza dell’élite del villaggio.
sabato 28 giugno 2014
Tharros, scoperti gioielli, armi, monete e amuleti nelle tombe vicine alla spiaggia
Tharros, scoperti gioielli, armi, monete e amuleti nelle tombe vicine alla spiaggia.
Alcune decine di tombe di diverse tipologie datate tra il VII e il III secolo avanti Cristo e i loro ricchi corredi funebri costituiti dai consueti vasi rituali, da oggetti personali, armi (anche di ferro), gioielli, amuleti, scarabei e monete. E' la scoperta effettuata dalle archeologhe Carla Del Vais e Anna Chiara Fariselli. Diverse tombe erano integre e questo ha permesso di chiarire e documentare, per la prima volta, aspetti importanti della vita e dello sviluppo della città di Tharros in età fenicio punica. I materiali ritrovati, custoditi ora nei magazzini del Museo civico, saranno oggetto di analisi specialistiche che riguarderanno anche i contenuti dei vasi rituali e il DNA dei defunti.
I defunti erano tumulati col capo rivolto verso ovest, in tombe scavate nella sabbia della odierna San Giovanni di Sinis. A turbare il sonno di questi antichi sardi deposti nella necropoli settentrionale di Tharros sono arrivati i ricercatori.
Intorno alla metà del secolo scorso gli operai che scavavano le fondamenta delle prime case al mare di professionisti e possidenti oristanesi e cabraresi e assieme a loro gli immancabili tombaroli hanno scosso quella serenità. Quello che non era finito sotto la valanga di cemento delle seconde case e nelle mani avide dei predatori di amuleti e scarabei è stato portato alla luce dagli archeologi delle Università di Cagliari e di Bologna.
Si tratta di decine di tombe di diversa tipologia (a pozzo, a camera ipogeica, con o senza corridoio scalinato) e in gran parte integre e dei loro ricchi corredi funebri.
L'intervento, hanno spiegato gli archeologi, aveva anche carattere di urgenza, perché l'area della necropoli davanti alla spiaggia è interessata da fenomeni di erosione costiera e c'era il rischio concreto di perdere per sempre la possibilità di capire e documentare aspetti importanti della vita e dello sviluppo della città di Tharros in età fenicio punica e per la precisione nell'arco di tempo che va dalla fine del VII a.C. fino all'epoca della conquista romana della Sardegna contro Amsicora del 216 e 215 a.C.
Nella foto uno scorcio di Tharros
Alcune decine di tombe di diverse tipologie datate tra il VII e il III secolo avanti Cristo e i loro ricchi corredi funebri costituiti dai consueti vasi rituali, da oggetti personali, armi (anche di ferro), gioielli, amuleti, scarabei e monete. E' la scoperta effettuata dalle archeologhe Carla Del Vais e Anna Chiara Fariselli. Diverse tombe erano integre e questo ha permesso di chiarire e documentare, per la prima volta, aspetti importanti della vita e dello sviluppo della città di Tharros in età fenicio punica. I materiali ritrovati, custoditi ora nei magazzini del Museo civico, saranno oggetto di analisi specialistiche che riguarderanno anche i contenuti dei vasi rituali e il DNA dei defunti.
I defunti erano tumulati col capo rivolto verso ovest, in tombe scavate nella sabbia della odierna San Giovanni di Sinis. A turbare il sonno di questi antichi sardi deposti nella necropoli settentrionale di Tharros sono arrivati i ricercatori.
Intorno alla metà del secolo scorso gli operai che scavavano le fondamenta delle prime case al mare di professionisti e possidenti oristanesi e cabraresi e assieme a loro gli immancabili tombaroli hanno scosso quella serenità. Quello che non era finito sotto la valanga di cemento delle seconde case e nelle mani avide dei predatori di amuleti e scarabei è stato portato alla luce dagli archeologi delle Università di Cagliari e di Bologna.
Si tratta di decine di tombe di diversa tipologia (a pozzo, a camera ipogeica, con o senza corridoio scalinato) e in gran parte integre e dei loro ricchi corredi funebri.
L'intervento, hanno spiegato gli archeologi, aveva anche carattere di urgenza, perché l'area della necropoli davanti alla spiaggia è interessata da fenomeni di erosione costiera e c'era il rischio concreto di perdere per sempre la possibilità di capire e documentare aspetti importanti della vita e dello sviluppo della città di Tharros in età fenicio punica e per la precisione nell'arco di tempo che va dalla fine del VII a.C. fino all'epoca della conquista romana della Sardegna contro Amsicora del 216 e 215 a.C.
Nella foto uno scorcio di Tharros
venerdì 27 giugno 2014
La bella età dei Nuraghi,conferenza oggi alle 20.00
Conferenza: La bella età dei Nuraghi,oggi alle 20.00
Costa degli Angeli.
L'ACSRD Costa degli Angeli, in collaborazione con l'Istituto Universitario Sardo per le Tre Età ed ASC, inaugura la nuova stagione estiva 2014, che sarà caratterizzata da eventi culturali (ogni venerdì alle ore 20,00), sportivi, enogastronomici e di animazione.
Il programma prevede oggi alle ore 20.00 in Via Liri, relatore Pierluigi Montalbano, una conferenza dal titolo: "La bella età dei Nuraghi". Saranno illustrate le motivazioni che hanno spinto i nuragici a costruire quei grandi edifici in pietra, le funzioni che potevano svolgere, l'epoca di costruzione e la tipologia di antropizzazione del territorio.
Dall'ingresso del villaggio Costa degli Angeli, tenersi sulla destra fino alla zona sportiva con le bandiere.
La partecipazione è libera e gratuita.
A seguire ai partecipanti verrà offerto un piccolo rinfresco.
INFO: 3493056296 - 3457483411
Costa degli Angeli.
L'ACSRD Costa degli Angeli, in collaborazione con l'Istituto Universitario Sardo per le Tre Età ed ASC, inaugura la nuova stagione estiva 2014, che sarà caratterizzata da eventi culturali (ogni venerdì alle ore 20,00), sportivi, enogastronomici e di animazione.
Il programma prevede oggi alle ore 20.00 in Via Liri, relatore Pierluigi Montalbano, una conferenza dal titolo: "La bella età dei Nuraghi". Saranno illustrate le motivazioni che hanno spinto i nuragici a costruire quei grandi edifici in pietra, le funzioni che potevano svolgere, l'epoca di costruzione e la tipologia di antropizzazione del territorio.
Dall'ingresso del villaggio Costa degli Angeli, tenersi sulla destra fino alla zona sportiva con le bandiere.
La partecipazione è libera e gratuita.
A seguire ai partecipanti verrà offerto un piccolo rinfresco.
INFO: 3493056296 - 3457483411
giovedì 26 giugno 2014
Archeologia Cristiana: San Basilio e la diffusione del monachesimo
San Basilio e i monaci orientali
di Rossana Martorelli
L’archeologia cristiana parte convenzionalmente dalla nascita di Cristo e arriva fino a Papa Gregorio Magno, nel VI-VII secolo, un personaggio che ha avuto un ruolo importante anche in Sardegna. L’archeologia medievale si fa iniziare convenzionalmente dall’occupazione dei Vandali, alla metà del V secolo, e si conclude con la scoperta dell’America, alla fine del XV secolo, in quanto la scoperta del nuovo mondo sposta il baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico.
Betlemme e Gerusalemme sono i centri interessati alla nascita e morte di Cristo e proprio in quest’ultima città si forma la prima comunità cristiana, con discepoli e apostoli che iniziano a viaggiare e a portare le idee ovunque. Emblematici sono Pietro e Paolo, che moriranno a Roma. Paolo compì 4 viaggi missionari che lo portarono a visitare il Mediterraneo orientale e buon parte di quello Occidentale. Secondo una diffusa tradizione, ma assolutamente priva di fondamento, il Cristianesimo sarebbe arrivato in Sardegna proprio con San Paolo che, navigando verso la Spagna, avrebbe toccato il porto di Cagliari introducendo il cristianesimo. Quando inizia la vicenda di Cristo, il Mediterraneo era interamente compreso nell’impero romano. Anche l’Europa era romana, tranne parte delle attuali Germania, Ungheria e Russia, ossia i luoghi da cui partiranno le popolazioni barbariche che porranno fine all’impero romano. Cristo nacque quando era imperatore Augusto e morì sotto l’impero era nelle mani di Tiberio. La Sardegna era una delle province romane e quindi assorbì gran parte delle idee religiose del cristianesimo, andando a sostituire le precedenti divinità pagane. Già all’epoca di Tiberio abbiamo la prima diffusione delle idee cristiane in Sardegna. Fonti antiche segnalano una colonia di ebrei e di seguaci del culto egizio di Iside deportata in massa in Sardegna. Il cristianesimo nasce nell’ambito della comunità ebraica; pertanto è verosimile che proprio tramite questo primo nucleo di ebrei arrivati nell’isola sia stato introdotto nei pensieri delle comunità sarde. Abbiamo testimonianze archeologiche di questa comunità ebraica, come ad esempio una lucerna con la rappresentazione del candelabro ebraico. In Sardegna venivano anche deportati i condannati ai lavori forzati per lavorare nelle cave di granito e nelle miniere, forse a Metalla. Sotto l’imperatore Commodo, infatti, abbiamo fonti che parlano di una grande quantità di cristiani che furono deportati in Sardegna, fra i quali Papa Callisto, poi liberati dalla concubina dell’imperatore, simpatizzante per i cristiani, che convinse le autorità a far ritornare molti di questi cristiani.
Le fonti dicono che Ponziano, papa vissuto alla metà del III secolo, fu deportato “in un’insula nociva presso l’isola di Sardegna”. Ponziano è uno dei due papi che hanno conosciuto il proprio successore (l’altro è Celestino V), poiché quando fu deportato, per non lasciare i cristiani senza una guida, rinunciò al suo mandato e fu sostituito da Fabiano. Quest’ultimo, alla morte di Ponziano, si recò in Sardegna per prenderne le spoglie e trasferirle in una catacomba romana, quella di Callisto. L’epigrafe della lapide funeraria è scritta in greco e recita Pontianos Episcopos.
Al 314 risale la più antica testimonianza certa della presenza di cristiani in Sardegna. L’antica Karales aveva un vescovo di nome Quintasio, capo di una chiesa locale, e di un prete, Ammonius, che partecipò insieme al vescovo, ad un concilio indetto dall’imperatore Costantino ad Arles, in Francia, per discutere una delle tante eresie che si stavano sviluppando in quel periodo. Il cristianesimo si diffonde prima nelle città portuali, quelle che hanno più contatti con l’esterno. In un cubicolo sotterraneo scavato nel cimitero di Bonaria a Cagliari ci sono delle pitture murali, oggi quasi completamente scomparse, che fortunatamente furono copiate da archeologi della fine dell’Ottocento. La prima scena raffigura il mito di Giona, tratto dall’Antico Testamento. Il profeta aveva ricevuto da Dio il compito di andare a convertire all’ebraismo gli abitanti della città di Ninive, ma Giona si rifiutò e si imbarcò clandestinamente su una nave che, una volta in mare aperto, si imbatté in una tempesta. Gli antichi pensavano che le calamità naturali fossero una punizione di Dio e, scoprendo Giona, gli attribuirono le colpe e lo gettarono in mare. Giona venne inghiottito da un mostro marino, rimase tre giorni nella sua pancia ma poi viene rigettato fuori e decise di andare a compiere la missione. Evidenti sono le analogie con Cristo, incaricato di compiere una missione, nel sepolcro per tre giorni e poi risorto.
di Rossana Martorelli
L’archeologia cristiana parte convenzionalmente dalla nascita di Cristo e arriva fino a Papa Gregorio Magno, nel VI-VII secolo, un personaggio che ha avuto un ruolo importante anche in Sardegna. L’archeologia medievale si fa iniziare convenzionalmente dall’occupazione dei Vandali, alla metà del V secolo, e si conclude con la scoperta dell’America, alla fine del XV secolo, in quanto la scoperta del nuovo mondo sposta il baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico.
Betlemme e Gerusalemme sono i centri interessati alla nascita e morte di Cristo e proprio in quest’ultima città si forma la prima comunità cristiana, con discepoli e apostoli che iniziano a viaggiare e a portare le idee ovunque. Emblematici sono Pietro e Paolo, che moriranno a Roma. Paolo compì 4 viaggi missionari che lo portarono a visitare il Mediterraneo orientale e buon parte di quello Occidentale. Secondo una diffusa tradizione, ma assolutamente priva di fondamento, il Cristianesimo sarebbe arrivato in Sardegna proprio con San Paolo che, navigando verso la Spagna, avrebbe toccato il porto di Cagliari introducendo il cristianesimo. Quando inizia la vicenda di Cristo, il Mediterraneo era interamente compreso nell’impero romano. Anche l’Europa era romana, tranne parte delle attuali Germania, Ungheria e Russia, ossia i luoghi da cui partiranno le popolazioni barbariche che porranno fine all’impero romano. Cristo nacque quando era imperatore Augusto e morì sotto l’impero era nelle mani di Tiberio. La Sardegna era una delle province romane e quindi assorbì gran parte delle idee religiose del cristianesimo, andando a sostituire le precedenti divinità pagane. Già all’epoca di Tiberio abbiamo la prima diffusione delle idee cristiane in Sardegna. Fonti antiche segnalano una colonia di ebrei e di seguaci del culto egizio di Iside deportata in massa in Sardegna. Il cristianesimo nasce nell’ambito della comunità ebraica; pertanto è verosimile che proprio tramite questo primo nucleo di ebrei arrivati nell’isola sia stato introdotto nei pensieri delle comunità sarde. Abbiamo testimonianze archeologiche di questa comunità ebraica, come ad esempio una lucerna con la rappresentazione del candelabro ebraico. In Sardegna venivano anche deportati i condannati ai lavori forzati per lavorare nelle cave di granito e nelle miniere, forse a Metalla. Sotto l’imperatore Commodo, infatti, abbiamo fonti che parlano di una grande quantità di cristiani che furono deportati in Sardegna, fra i quali Papa Callisto, poi liberati dalla concubina dell’imperatore, simpatizzante per i cristiani, che convinse le autorità a far ritornare molti di questi cristiani.
Le fonti dicono che Ponziano, papa vissuto alla metà del III secolo, fu deportato “in un’insula nociva presso l’isola di Sardegna”. Ponziano è uno dei due papi che hanno conosciuto il proprio successore (l’altro è Celestino V), poiché quando fu deportato, per non lasciare i cristiani senza una guida, rinunciò al suo mandato e fu sostituito da Fabiano. Quest’ultimo, alla morte di Ponziano, si recò in Sardegna per prenderne le spoglie e trasferirle in una catacomba romana, quella di Callisto. L’epigrafe della lapide funeraria è scritta in greco e recita Pontianos Episcopos.
Al 314 risale la più antica testimonianza certa della presenza di cristiani in Sardegna. L’antica Karales aveva un vescovo di nome Quintasio, capo di una chiesa locale, e di un prete, Ammonius, che partecipò insieme al vescovo, ad un concilio indetto dall’imperatore Costantino ad Arles, in Francia, per discutere una delle tante eresie che si stavano sviluppando in quel periodo. Il cristianesimo si diffonde prima nelle città portuali, quelle che hanno più contatti con l’esterno. In un cubicolo sotterraneo scavato nel cimitero di Bonaria a Cagliari ci sono delle pitture murali, oggi quasi completamente scomparse, che fortunatamente furono copiate da archeologi della fine dell’Ottocento. La prima scena raffigura il mito di Giona, tratto dall’Antico Testamento. Il profeta aveva ricevuto da Dio il compito di andare a convertire all’ebraismo gli abitanti della città di Ninive, ma Giona si rifiutò e si imbarcò clandestinamente su una nave che, una volta in mare aperto, si imbatté in una tempesta. Gli antichi pensavano che le calamità naturali fossero una punizione di Dio e, scoprendo Giona, gli attribuirono le colpe e lo gettarono in mare. Giona venne inghiottito da un mostro marino, rimase tre giorni nella sua pancia ma poi viene rigettato fuori e decise di andare a compiere la missione. Evidenti sono le analogie con Cristo, incaricato di compiere una missione, nel sepolcro per tre giorni e poi risorto.
mercoledì 25 giugno 2014
Civiltà Nuragica: grano, granai e alimentazione nell'età del Bronzo.
Grano, granai e alimentazione in età nuragica
di Mauro Perra
Gli archeologi stanno scoprendo gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove ricerche archeologiche, che si avvalgono di nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e, passando ad un’economia di produzione, deve adottare strutture economiche.
La produzione umana dei beni di sussistenza, così come avviene nei nostri tempi, si impatta sull’ambiente. Le attività dell’uomo lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cominciato a pensare al nuraghe non più procedendo alla descrizione di ogni singola pietra e di ogni ceramica trovata dentro l’edificio. Si è capito che gli archeologi non erano più quelli che, armati di piccozza, dovevano recuperare i manufatti, ma dovevano raccogliere anche più dati possibile, con nuove tecnologie. Ricordiamo che lo scavo è distruttivo, e una volta distrutto non lo si può recuperare. Bisogna quindi documentarlo nel migliore dei modi, con fotografie, disegni e analisi, altrimenti dopo non rimane più niente. Già dagli anni Settanta, in varie zone d’Europa, venivano applicate nuove tecniche che affiancavano il lavoro degli archeologi, perché si capì la connessione fra ambiente e strutture costruite.
Il dato di fondo è che l’uomo si alimenta, e per farlo deve produrre. Le sue attività hanno un impatto sull’ambiente circostante e lo trasformano.
L’alimentazione è un elemento culturale complesso e importante, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa una sorta di status symbol. Fino a pochi decenni fa c’era il pranzo dei morti: i parenti preparavano il pranzo per tutti i convenuti alla cerimonia funebre e la notte lasciavano qualcosa da mangiare per i defunti.
Se ci spostiamo nell’antichità greca, possiamo comparare la società civile con il mito dei centauri: la popolazione coltivava grano e la vite, cuoceva i cibi e beveva il vino con moderazione. I centauri erano dei mostri perché vivevano nei boschi, non producevano ciò che mangiavano, bevevano smodatamente vino e adottavano costumi sessuali che li distinguevano dalla società.
Negli anni Ottanta, sono stati fatti per la prima volta degli scavi nel sito di Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes, chiamato così perché composto da due strutture monotorre ben distinte, unite da un tratto murario. Intorno c’è il villaggio, più recente delle torri. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia passare al setaccio la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri. Questi ultimi sono frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati.
Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Da ciò si deduce che conoscevano la differenza fra i due tipi. In Sardegna il grano selvatico non c’era, e il grano coltivato arrivò dal vicino oriente, dove era conosciuto già dall’VIII Millennio a.C. Nell’isola, già dal Neolitico, abbiamo la coltivazione dei cereali, ossia il farricello e il farro, e ambedue provenienti dal vicino oriente grazie agli scambi commerciali fra popolazioni. Se ne deduce che la Sardegna, nel VI Millennio a.C, non era isolata e una delle prove di frequentazione è proprio l’utilizzo di piante addomesticate. Il grano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica.
Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghe, e al centro troviamo una tomba di giganti maestosa. In questi nuraghe si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, ossia nella stratigrafia del XIV a.C., nel materiale bruciato intorno ad un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
di Mauro Perra
Gli archeologi stanno scoprendo gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove ricerche archeologiche, che si avvalgono di nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e, passando ad un’economia di produzione, deve adottare strutture economiche.
La produzione umana dei beni di sussistenza, così come avviene nei nostri tempi, si impatta sull’ambiente. Le attività dell’uomo lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cominciato a pensare al nuraghe non più procedendo alla descrizione di ogni singola pietra e di ogni ceramica trovata dentro l’edificio. Si è capito che gli archeologi non erano più quelli che, armati di piccozza, dovevano recuperare i manufatti, ma dovevano raccogliere anche più dati possibile, con nuove tecnologie. Ricordiamo che lo scavo è distruttivo, e una volta distrutto non lo si può recuperare. Bisogna quindi documentarlo nel migliore dei modi, con fotografie, disegni e analisi, altrimenti dopo non rimane più niente. Già dagli anni Settanta, in varie zone d’Europa, venivano applicate nuove tecniche che affiancavano il lavoro degli archeologi, perché si capì la connessione fra ambiente e strutture costruite.
Il dato di fondo è che l’uomo si alimenta, e per farlo deve produrre. Le sue attività hanno un impatto sull’ambiente circostante e lo trasformano.
L’alimentazione è un elemento culturale complesso e importante, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa una sorta di status symbol. Fino a pochi decenni fa c’era il pranzo dei morti: i parenti preparavano il pranzo per tutti i convenuti alla cerimonia funebre e la notte lasciavano qualcosa da mangiare per i defunti.
Se ci spostiamo nell’antichità greca, possiamo comparare la società civile con il mito dei centauri: la popolazione coltivava grano e la vite, cuoceva i cibi e beveva il vino con moderazione. I centauri erano dei mostri perché vivevano nei boschi, non producevano ciò che mangiavano, bevevano smodatamente vino e adottavano costumi sessuali che li distinguevano dalla società.
Negli anni Ottanta, sono stati fatti per la prima volta degli scavi nel sito di Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes, chiamato così perché composto da due strutture monotorre ben distinte, unite da un tratto murario. Intorno c’è il villaggio, più recente delle torri. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia passare al setaccio la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri. Questi ultimi sono frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati.
Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Da ciò si deduce che conoscevano la differenza fra i due tipi. In Sardegna il grano selvatico non c’era, e il grano coltivato arrivò dal vicino oriente, dove era conosciuto già dall’VIII Millennio a.C. Nell’isola, già dal Neolitico, abbiamo la coltivazione dei cereali, ossia il farricello e il farro, e ambedue provenienti dal vicino oriente grazie agli scambi commerciali fra popolazioni. Se ne deduce che la Sardegna, nel VI Millennio a.C, non era isolata e una delle prove di frequentazione è proprio l’utilizzo di piante addomesticate. Il grano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica.
Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghe, e al centro troviamo una tomba di giganti maestosa. In questi nuraghe si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, ossia nella stratigrafia del XIV a.C., nel materiale bruciato intorno ad un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
martedì 24 giugno 2014
Archeologia preventiva per tutelare i beni culturali: Droni e Magnetometri
Archeologia preventiva per tutelare i beni culturali: Droni e Magnetometri per il sottosuolo.
di Giampaolo Colletti
Si definiscono
archeologici un po' particolari. Usano tecnologie innovative che guardano al
futuro per salvaguardare il passato. "Ci mettiamo passione e competenza. E
ci sporchiamo le mani studiando principi di telerilevamento, geofisica,
informatica, elettronica", racconta Francesco Pericci di Ats, prima
spin-off dell'Università di Siena e oggi società di servizi tecnologici
per i beni culturali.
"Immaginiamo di trovarci di fronte alla realizzazione di una qualsiasi grande opera pubblica. Gli enti preposti richiedono una relazione generica che riassuma le conoscenze sul territorio interessato. Poi si procede con ricognizioni. Finalmente partono i lavori e alla prima bennata della ruspa arriva la sorpresa. Ecco il sito archeologico, colpevole solo di aver resistito al tempo, a bloccare la realizzazione dei lavori". Una sequenza già vista raccontata da Stefano Campana, direttore scientifico di Ats, ovvero Archeo Tech and Survey, società che si occupa di servizi tecnologici per i beni culturali. Grazie a questa società nata come spin-off dell'Università di Siena e oggi sul mercato a tutti gli effetti si riesce a pianificare con metodo.
"La situazione che ho descritto comporta sempre un danno economico per il costruttore e una frettolosa attività archeologica che raramente produce interventi organici. Insomma tutti perdono. Al contrario i nostri sistemi diagnostici consentono di realizzare una scansione sistematica e continua di tutto il contesto interessato dall'intervento", precisa Campana. Si va dalle immagini da satellite a sistemi aviotrasportati attivi e passivi, abbinati alle indagini geofisiche a terra di tipo integrato. Il risultato è paragonabile alle analisi mediche: una sorta di radiografia con conseguente quadro clinico. "Produciamo mappe dettagliate delle presenze archeologiche nel sottosuolo. Ciò comporta rispetto al passato un cambiamento sostanziale. Una progettazione dell'opera molto più accurata e in grado di limitare fortemente gli imprevisti. La conoscenza in fase di progettazione dei contesti archeologici offre la straordinaria opportunità di scegliere fin dal principio una strategia organica di valorizzazione dell'intero territorio", precisa Campana.
Il Next di Siena ospita così questa impresa composta da sei tecnici provenienti dall'università. A parlarne Francesco Pericci, vice-presidente di Ats. Presicci salirà sul palco del Next con un drone, ma spesso nel suo lavoro utilizza un magnetometro, ovvero una tecnologica diagnostica che rileva ciò che c'è nel sottosuolo. "Riceve solo i segnali di ciò che è ferro magnetico e si usa perché consente di avere una fotografia di un eventuale insediamento".
Pericci, in cosa consiste il vostro progetto di innovazione? Perché diventa strategico in un Paese come l'Italia?
"Ats ha portato sul mercato nazionale e internazionale una serie di metodologie non invasive innovative rivolte a risolvere i problemi che da sempre affliggono l'archeologia preventiva italiana. Siamo leader per la documentazione 3D di scavi archeologici tramite l'uso di droni, con particolare riguardo ai grandi cantieri dell'archeologia preventiva".
Siete uno spin-off dell'Università di Siena: quanto ha contato per la ricerca incubarvi in un contesto accademico?
"Il grande valore aggiunto per noi è nascere come spin-off. L'esperienza sviluppata in ambito universitario in decenni di ricerca di punta su un'ampia gamma di sistemi di telerilevamento, dal satellite, all'aereo, ai droni, fino ai vari metodi geofisici ci hanno dato una padronanza ampia e variegata delle variabili e della complessità dei contesti archeologici. Il laboratorio in cui siamo cresciuti - laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento diretto dal prof. Stefano Campana - ci ha permesso di sperimentare e di collaborare con i maggiori esperti del settore a livello internazionale. L'incubazione dello spin-off è durata poco. Invece dei tre anni previsti, alla fine del primo anno abbiamo iniziato a camminare con le nostre gambe".
Cosa rappresenta oggi per l'Italia fare archeologia preventiva?
"Va detto che l'ambiente archeologico è fortemente conservativo. C'è chi continua a fare archeologia di emergenza secondo logiche e applicando metodi e sistemi anacronistici. Ma le nuove opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie diagnostiche incalzano e il cambiamento è in corso. Al momento è in atto un testa a testa tra Italia, Francia e Austria con Germania e Inghilterra che stanno rimontando. Siamo profondamente convinti che lo sviluppo del nostro paese passa anche attraverso queste sfide, solo apparentemente di nicchia".
Che tipo di competenze occorre avere per poter al meglio effettuare questo monitoraggio con la vostra tecnologia?
"Anzitutto bisogna essere archeologi! Archeologi con un solide conoscenze diacroniche e una grande esperienza di lavoro sul campo. Ci sono poi delle specificità: bisogna essere archeologi un po' particolari e avere la passione e il coraggio di sporcarsi le mani studiando principi di telerilevamento, geofisica, informatica, elettronica. Insomma tutto ciò che è necessario per sapere comprendere gestire gli strumenti, la loro applicazione ai contesti più diversi e soprattutto interpretare i risultati archeologici".
In quali progetti vi siete potuti già misurare?
"Il progetto più importante al quale abbiamo partecipato è senza dubbio l'archeologia preventiva sul tracciato della Brescia, Bergamo, Milano. Un'esperienza straordinaria caratterizzata da un'intensità di lavoro eccezionale".
Le prossime sfide dell'archeologia preventiva?
"Francamente pensiamo siano più di carattere normativo che tecnologico. In primo luogo l'archeologia dovrebbe entrare a far parte dei criteri di progettazione basilari, prima ancora che venga deciso un percorso piuttosto che un altro. Sono certo che tutti siamo d'accordo che l'archeologia non può essere considerato un bene secondario nel nostro Paese! Secondo, la diagnostica non invasiva dovrebbe svolgere un ruolo centrale per legge nel processo conoscitivo, non diversamente da quel che accade in ambito medico".
"Immaginiamo di trovarci di fronte alla realizzazione di una qualsiasi grande opera pubblica. Gli enti preposti richiedono una relazione generica che riassuma le conoscenze sul territorio interessato. Poi si procede con ricognizioni. Finalmente partono i lavori e alla prima bennata della ruspa arriva la sorpresa. Ecco il sito archeologico, colpevole solo di aver resistito al tempo, a bloccare la realizzazione dei lavori". Una sequenza già vista raccontata da Stefano Campana, direttore scientifico di Ats, ovvero Archeo Tech and Survey, società che si occupa di servizi tecnologici per i beni culturali. Grazie a questa società nata come spin-off dell'Università di Siena e oggi sul mercato a tutti gli effetti si riesce a pianificare con metodo.
"La situazione che ho descritto comporta sempre un danno economico per il costruttore e una frettolosa attività archeologica che raramente produce interventi organici. Insomma tutti perdono. Al contrario i nostri sistemi diagnostici consentono di realizzare una scansione sistematica e continua di tutto il contesto interessato dall'intervento", precisa Campana. Si va dalle immagini da satellite a sistemi aviotrasportati attivi e passivi, abbinati alle indagini geofisiche a terra di tipo integrato. Il risultato è paragonabile alle analisi mediche: una sorta di radiografia con conseguente quadro clinico. "Produciamo mappe dettagliate delle presenze archeologiche nel sottosuolo. Ciò comporta rispetto al passato un cambiamento sostanziale. Una progettazione dell'opera molto più accurata e in grado di limitare fortemente gli imprevisti. La conoscenza in fase di progettazione dei contesti archeologici offre la straordinaria opportunità di scegliere fin dal principio una strategia organica di valorizzazione dell'intero territorio", precisa Campana.
Il Next di Siena ospita così questa impresa composta da sei tecnici provenienti dall'università. A parlarne Francesco Pericci, vice-presidente di Ats. Presicci salirà sul palco del Next con un drone, ma spesso nel suo lavoro utilizza un magnetometro, ovvero una tecnologica diagnostica che rileva ciò che c'è nel sottosuolo. "Riceve solo i segnali di ciò che è ferro magnetico e si usa perché consente di avere una fotografia di un eventuale insediamento".
Pericci, in cosa consiste il vostro progetto di innovazione? Perché diventa strategico in un Paese come l'Italia?
"Ats ha portato sul mercato nazionale e internazionale una serie di metodologie non invasive innovative rivolte a risolvere i problemi che da sempre affliggono l'archeologia preventiva italiana. Siamo leader per la documentazione 3D di scavi archeologici tramite l'uso di droni, con particolare riguardo ai grandi cantieri dell'archeologia preventiva".
Siete uno spin-off dell'Università di Siena: quanto ha contato per la ricerca incubarvi in un contesto accademico?
"Il grande valore aggiunto per noi è nascere come spin-off. L'esperienza sviluppata in ambito universitario in decenni di ricerca di punta su un'ampia gamma di sistemi di telerilevamento, dal satellite, all'aereo, ai droni, fino ai vari metodi geofisici ci hanno dato una padronanza ampia e variegata delle variabili e della complessità dei contesti archeologici. Il laboratorio in cui siamo cresciuti - laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento diretto dal prof. Stefano Campana - ci ha permesso di sperimentare e di collaborare con i maggiori esperti del settore a livello internazionale. L'incubazione dello spin-off è durata poco. Invece dei tre anni previsti, alla fine del primo anno abbiamo iniziato a camminare con le nostre gambe".
Cosa rappresenta oggi per l'Italia fare archeologia preventiva?
"Va detto che l'ambiente archeologico è fortemente conservativo. C'è chi continua a fare archeologia di emergenza secondo logiche e applicando metodi e sistemi anacronistici. Ma le nuove opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie diagnostiche incalzano e il cambiamento è in corso. Al momento è in atto un testa a testa tra Italia, Francia e Austria con Germania e Inghilterra che stanno rimontando. Siamo profondamente convinti che lo sviluppo del nostro paese passa anche attraverso queste sfide, solo apparentemente di nicchia".
Che tipo di competenze occorre avere per poter al meglio effettuare questo monitoraggio con la vostra tecnologia?
"Anzitutto bisogna essere archeologi! Archeologi con un solide conoscenze diacroniche e una grande esperienza di lavoro sul campo. Ci sono poi delle specificità: bisogna essere archeologi un po' particolari e avere la passione e il coraggio di sporcarsi le mani studiando principi di telerilevamento, geofisica, informatica, elettronica. Insomma tutto ciò che è necessario per sapere comprendere gestire gli strumenti, la loro applicazione ai contesti più diversi e soprattutto interpretare i risultati archeologici".
In quali progetti vi siete potuti già misurare?
"Il progetto più importante al quale abbiamo partecipato è senza dubbio l'archeologia preventiva sul tracciato della Brescia, Bergamo, Milano. Un'esperienza straordinaria caratterizzata da un'intensità di lavoro eccezionale".
Le prossime sfide dell'archeologia preventiva?
"Francamente pensiamo siano più di carattere normativo che tecnologico. In primo luogo l'archeologia dovrebbe entrare a far parte dei criteri di progettazione basilari, prima ancora che venga deciso un percorso piuttosto che un altro. Sono certo che tutti siamo d'accordo che l'archeologia non può essere considerato un bene secondario nel nostro Paese! Secondo, la diagnostica non invasiva dovrebbe svolgere un ruolo centrale per legge nel processo conoscitivo, non diversamente da quel che accade in ambito medico".
Fonte: www.repubblica.it
Immagine di Danilo Scarato
lunedì 23 giugno 2014
Tharros e la civiltà nuragica
Civiltà nuragica a Tharros
di Pierluigi Montalbano
Le tracce di cultura nuragica a Tharros sono evidenti. Già il toponimo fornisce la sicurezza di un insediamento antecedente l’arrivo dei commercianti levantini che si fusero con la popolazione locale dando vita a quella che ritengo sia stata la capitale del mondo economico nuragico. (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). L’organizzazione della comunità vede l’accoglimento, da parte dei nuragici, di genti straniere interessate a scambiare merci e tecnologie. Nell’area sono presenti, da sud verso nord, una serie di nuraghi: S’Arenedda, Baboe Cabitza, il monotorre sul colle di San Giovanni, il complesso con villaggio sul pianoro di Murru Mannu, il Preisinnis edificato in basalto sulla parte occidentale della laguna di Mistras.
Fra questi, l’unico interessato a campagne di scavo è il sito di Murru Mannu. Attribuibile al periodo a cavallo fra Bronzo Medio e Recente, è un frammento miceneo attribuibile a un vaso con decorazione floreale. Nel Primo Ferro, parte dell’area del villaggio è stata smantellata per far posto al tofet, testimonianza forte della presenza fenicia nell’area. Nel colle di Murru Mannu gli archeologi hanno trovato cocci di una fiasca da pellegrino in ceramica d’impasto nuragica, grigia, comparabile con quelle conosciute a Monte Olladiri (Monastir), Piscu (Suelli), Santu Brai (Furtei), Nurdole (Orani), e nelle vicine Neapolis e Othoca (Is Olionis). La stessa tipologia di fiasche è presente dal Primo Ferro a Sant’Imbenia e a Sulky, e consente di trovare un filo conduttore dei commerci navali che lega indissolubilmente la costa occidentale sarda al Vicino Oriente, soprattutto a Cipro, l’isola del rame. Sul colle della Torre di San Giovanni, scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce due manufatti nuragici integri: una pintadera e un vaso a cestello del VIII a.C. Un buon numero di bronzi nuragici sono stati scavati nell’Ottocento nell’area della necropoli meridionale di Tharros (Torre Vecchia): una navicella, una coppia di buoi aggiogati, un bottone, il manico di un pugnale, un piccolo pugnale miniaturizzato e varie faretrine, oltre oggetti d’uso come spilloni, una lama di pugnale, spade a costolatura mediana e armille. Lilliu alla fine del secolo scorso ricondusse la presenza di questi bronzi agli scambi fra nuragici e fenici, forse doni o oggetti di prestigio riferibili a sepolture di aristocratici sardi. La deposizione funeraria di tali oggetti potrebbe rientrare in un’ipotesi di trasmissione di cimeli di famiglia (quindi più antichi) con riti che esaltavano il passato glorioso ed eroico dei sardi. Tracce di consumo e di riparazione, che testimoniano il riuso dei manufatti, sono i fori di sospensione di alcune faretrine e la presenza di un anellino, realizzato con filo di bronzo, applicato a un foro rotto. I commercianti levantini che frequentavano l’area di Tharros furono protagonisti, con i locali, di un florido periodo di rapporti di scambio e interrelazioni (Zucca, 2013). Una parte degli insediamenti nuragici della zona sono distanti poche centinaia di metri dal mare e ciò testimonia la presenza, non necessariamente in scansione cronologica, di genti levantine (ciprioti, tirii, aramei, filistei, gibliti, sidoni, cretesi). Lo stretto rapporto tra Cipro e la Sardegna attivò certamente una marineria nuragica che si avvalse di infrastrutture portuali delle quali oggi, purtroppo, si rilevano solo poche tracce nel bacino occidentale della laguna di Mistras (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). Se è vero che nella Sardegna del II Millennio a.C. non sono stati rilevati cantieri navali, ciò non impedisce di ipotizzare che negli approdi il rimessaggio delle navi era praticato, come è testimoniato nel resto del mondo mediterraneo. Intorno al 1150 a.C. presso le comunità nuragiche si nota la presenza di materiale cipriota (bronzi e ceramiche) fra i quali spiccano i tripodi e gli specchi. I locali rielaborano i modelli del Vicino Oriente e introducono le novità verso le comunità interne attraverso il Tirso. Un tripode bronzeo con decorazione a zig zag giunge fino a Samugheo, a 32 km a est della foce. Altri frammenti sono stati ritrovati a Solarussa, a 10 km a nord-est della foce del Tirso. Nei contesti nuragici del Bronzo Finale, compaiono martelli, palette, molle da fonditore e lingotti ox-hide interi (con marchi di fabbrica incisi sulla faccia superiore) e frammentati. Ciò suggerisce con forza l’inserimento dell’isola nella rotta tra Oriente e Occidente di navi levantine come quelle naufragate nelle coste a sud dell’attuale Turchia, a Uluburun e Capo Gelydonia (SRDN, Signori del mare e del metallo, Montalbano, 2009). I traffici con Cipro nel X a.C. sono testimoniati anche dalle ceramiche fuori contesto originario scavate a Tharros nel 1989 da Bernardini. Altre tracce di scambi fra nuragici e levantini sono evidenti nei bronzi di fattura siro-palestinese ritrovati nel pozzo di Santa Cristina e in quello di Santu Antine di Genoni, a 38 km a est del Golfo di Oristano. Sempre a Genoni gli archeologi hanno trovato un pugnale con immanicatura in avorio di fattura levantina, forse filistea, così come filisteo è uno scarabeo di Tharros del V a.C. che testimonia un teoforo composto dal massimo dio filisteo Dagon, e un frammento fittile di sarcofago antropoide che consente di ricostruire un contenitore cilindrico di 60 cm di diametro con volto umano nella parte superiore e braccia con mani congiunte sotto il viso, secondo lo schema tipico dei sarcofagi filistei.
Altre tracce dei rapporti pacifici fra nuragici e genti del Vicino Oriente sono testimoniati dalla pratica della vinificazione. A cavallo fra Bronzo e Ferro si sviluppa nell’isola, in particolare nella zona della Nurra (Sant’Imbenia), la produzione industriale di un’anfora per il trasporto del vino testimoniata anche a Irgoli, San Vittorio (Isola di San Pietro), San Vero Milis (S’Uraki), Nuraxinieddu (Oristano), Su Cungiau ‘e Funtana, ed esportata in Etruria, a Cartagine, in Andalusia, a Gadir e Huelva. Queste anfore, associate spesso con brocchette askoidi sarde riccamente decorate, diedero vita a imitazioni locali a Vetulonia, Creta, Cartagine, Mozia, Lipari e nella Sicilia sud orientale. In ambito etrusco, la circolazione di queste ceramiche sarde testimonia l’accoglimento da parte delle èlites villanoviane del Primo Ferro di forme di commensalità cerimoniale di matrice sarda con consumo di alimenti e bevande rivelato dall’uso dello strumentario vascolare ad essi connessa (Delpino 2002). La Sardegna del Primo Ferro rivela l’acquisizione e il consumo del vino speziato con la diffusione di coppe tripodate, conosciute in oriente per il legame con la triturazione di spezie e il consumo di vino aromatizzato (Bernardini, 2008). Nell’isola, questi tripodi sono testimoniati a Nora, Bithia, Sulky, Neapolis, Othoca, Tharros, Sant’Imbenia, Senorbì, Sirai, e nuraghe Sa Ruda di Cabras. L’intreccio culturale nuragico-levantino si coglie particolarmente nell’insediamento del principale nuraghe dell’area oristanese: S’Uraki, a San Vero Milis. Quì è rilevante la presenza di ceramiche in red slip e altre a decoro metopale presenti nel 750 a.C. a Cartagine, Mozia, Sulky e Sant’Imbenia (Stiglitz 2007). La fusione fra sardi e commercianti levantini non si arresta a S’Uraki. Altre ceramiche sono attestate presso gli insediamenti dei nuraghi Prei-Medau (Riola), Figus de Cara Mannu (Cabras), Arganzola (Narbolia) e l’isola di Mal di Ventre. Il destino del mercato del Golfo di Oristano è legato certamente alla presenza di attrezzati approdi lungo la costa (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore), e un’iscrizione del 300 a.C. riferibile ad un tempio dedicato a Melqart, la divinità di Tiro e dell’espansione commerciale, pare dimostrarlo. A rafforzare l’ipotesi c’è la tradizione delle iscrizioni puniche di Tharros, sviluppatasi forse a partire dal santuario. Gli scambi attuati in questo emporio fenicio dovrebbero spiegare la presenza del prestigioso scarabeo ritrovato nella tomba 25 della necropoli di Monte Prama (Zucca, 2013). L’archeologo Zucca riferisce che probabilmente l’intenso scambio fra levantini e sardi creò le condizioni per la produzione delle statue di Monte Prama e rese possibile l’intesa sul mare che porterà alla deposizione simbolica nel santuario di El Carambolo (Sevilla), fra gli altri approdi sardi, di una navicella fittile, ridotta alla prora, con protome bovina.
Nelle immagini il nuraghe S'Uraki
di Pierluigi Montalbano
Le tracce di cultura nuragica a Tharros sono evidenti. Già il toponimo fornisce la sicurezza di un insediamento antecedente l’arrivo dei commercianti levantini che si fusero con la popolazione locale dando vita a quella che ritengo sia stata la capitale del mondo economico nuragico. (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). L’organizzazione della comunità vede l’accoglimento, da parte dei nuragici, di genti straniere interessate a scambiare merci e tecnologie. Nell’area sono presenti, da sud verso nord, una serie di nuraghi: S’Arenedda, Baboe Cabitza, il monotorre sul colle di San Giovanni, il complesso con villaggio sul pianoro di Murru Mannu, il Preisinnis edificato in basalto sulla parte occidentale della laguna di Mistras.
Fra questi, l’unico interessato a campagne di scavo è il sito di Murru Mannu. Attribuibile al periodo a cavallo fra Bronzo Medio e Recente, è un frammento miceneo attribuibile a un vaso con decorazione floreale. Nel Primo Ferro, parte dell’area del villaggio è stata smantellata per far posto al tofet, testimonianza forte della presenza fenicia nell’area. Nel colle di Murru Mannu gli archeologi hanno trovato cocci di una fiasca da pellegrino in ceramica d’impasto nuragica, grigia, comparabile con quelle conosciute a Monte Olladiri (Monastir), Piscu (Suelli), Santu Brai (Furtei), Nurdole (Orani), e nelle vicine Neapolis e Othoca (Is Olionis). La stessa tipologia di fiasche è presente dal Primo Ferro a Sant’Imbenia e a Sulky, e consente di trovare un filo conduttore dei commerci navali che lega indissolubilmente la costa occidentale sarda al Vicino Oriente, soprattutto a Cipro, l’isola del rame. Sul colle della Torre di San Giovanni, scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce due manufatti nuragici integri: una pintadera e un vaso a cestello del VIII a.C. Un buon numero di bronzi nuragici sono stati scavati nell’Ottocento nell’area della necropoli meridionale di Tharros (Torre Vecchia): una navicella, una coppia di buoi aggiogati, un bottone, il manico di un pugnale, un piccolo pugnale miniaturizzato e varie faretrine, oltre oggetti d’uso come spilloni, una lama di pugnale, spade a costolatura mediana e armille. Lilliu alla fine del secolo scorso ricondusse la presenza di questi bronzi agli scambi fra nuragici e fenici, forse doni o oggetti di prestigio riferibili a sepolture di aristocratici sardi. La deposizione funeraria di tali oggetti potrebbe rientrare in un’ipotesi di trasmissione di cimeli di famiglia (quindi più antichi) con riti che esaltavano il passato glorioso ed eroico dei sardi. Tracce di consumo e di riparazione, che testimoniano il riuso dei manufatti, sono i fori di sospensione di alcune faretrine e la presenza di un anellino, realizzato con filo di bronzo, applicato a un foro rotto. I commercianti levantini che frequentavano l’area di Tharros furono protagonisti, con i locali, di un florido periodo di rapporti di scambio e interrelazioni (Zucca, 2013). Una parte degli insediamenti nuragici della zona sono distanti poche centinaia di metri dal mare e ciò testimonia la presenza, non necessariamente in scansione cronologica, di genti levantine (ciprioti, tirii, aramei, filistei, gibliti, sidoni, cretesi). Lo stretto rapporto tra Cipro e la Sardegna attivò certamente una marineria nuragica che si avvalse di infrastrutture portuali delle quali oggi, purtroppo, si rilevano solo poche tracce nel bacino occidentale della laguna di Mistras (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore). Se è vero che nella Sardegna del II Millennio a.C. non sono stati rilevati cantieri navali, ciò non impedisce di ipotizzare che negli approdi il rimessaggio delle navi era praticato, come è testimoniato nel resto del mondo mediterraneo. Intorno al 1150 a.C. presso le comunità nuragiche si nota la presenza di materiale cipriota (bronzi e ceramiche) fra i quali spiccano i tripodi e gli specchi. I locali rielaborano i modelli del Vicino Oriente e introducono le novità verso le comunità interne attraverso il Tirso. Un tripode bronzeo con decorazione a zig zag giunge fino a Samugheo, a 32 km a est della foce. Altri frammenti sono stati ritrovati a Solarussa, a 10 km a nord-est della foce del Tirso. Nei contesti nuragici del Bronzo Finale, compaiono martelli, palette, molle da fonditore e lingotti ox-hide interi (con marchi di fabbrica incisi sulla faccia superiore) e frammentati. Ciò suggerisce con forza l’inserimento dell’isola nella rotta tra Oriente e Occidente di navi levantine come quelle naufragate nelle coste a sud dell’attuale Turchia, a Uluburun e Capo Gelydonia (SRDN, Signori del mare e del metallo, Montalbano, 2009). I traffici con Cipro nel X a.C. sono testimoniati anche dalle ceramiche fuori contesto originario scavate a Tharros nel 1989 da Bernardini. Altre tracce di scambi fra nuragici e levantini sono evidenti nei bronzi di fattura siro-palestinese ritrovati nel pozzo di Santa Cristina e in quello di Santu Antine di Genoni, a 38 km a est del Golfo di Oristano. Sempre a Genoni gli archeologi hanno trovato un pugnale con immanicatura in avorio di fattura levantina, forse filistea, così come filisteo è uno scarabeo di Tharros del V a.C. che testimonia un teoforo composto dal massimo dio filisteo Dagon, e un frammento fittile di sarcofago antropoide che consente di ricostruire un contenitore cilindrico di 60 cm di diametro con volto umano nella parte superiore e braccia con mani congiunte sotto il viso, secondo lo schema tipico dei sarcofagi filistei.
Altre tracce dei rapporti pacifici fra nuragici e genti del Vicino Oriente sono testimoniati dalla pratica della vinificazione. A cavallo fra Bronzo e Ferro si sviluppa nell’isola, in particolare nella zona della Nurra (Sant’Imbenia), la produzione industriale di un’anfora per il trasporto del vino testimoniata anche a Irgoli, San Vittorio (Isola di San Pietro), San Vero Milis (S’Uraki), Nuraxinieddu (Oristano), Su Cungiau ‘e Funtana, ed esportata in Etruria, a Cartagine, in Andalusia, a Gadir e Huelva. Queste anfore, associate spesso con brocchette askoidi sarde riccamente decorate, diedero vita a imitazioni locali a Vetulonia, Creta, Cartagine, Mozia, Lipari e nella Sicilia sud orientale. In ambito etrusco, la circolazione di queste ceramiche sarde testimonia l’accoglimento da parte delle èlites villanoviane del Primo Ferro di forme di commensalità cerimoniale di matrice sarda con consumo di alimenti e bevande rivelato dall’uso dello strumentario vascolare ad essi connessa (Delpino 2002). La Sardegna del Primo Ferro rivela l’acquisizione e il consumo del vino speziato con la diffusione di coppe tripodate, conosciute in oriente per il legame con la triturazione di spezie e il consumo di vino aromatizzato (Bernardini, 2008). Nell’isola, questi tripodi sono testimoniati a Nora, Bithia, Sulky, Neapolis, Othoca, Tharros, Sant’Imbenia, Senorbì, Sirai, e nuraghe Sa Ruda di Cabras. L’intreccio culturale nuragico-levantino si coglie particolarmente nell’insediamento del principale nuraghe dell’area oristanese: S’Uraki, a San Vero Milis. Quì è rilevante la presenza di ceramiche in red slip e altre a decoro metopale presenti nel 750 a.C. a Cartagine, Mozia, Sulky e Sant’Imbenia (Stiglitz 2007). La fusione fra sardi e commercianti levantini non si arresta a S’Uraki. Altre ceramiche sono attestate presso gli insediamenti dei nuraghi Prei-Medau (Riola), Figus de Cara Mannu (Cabras), Arganzola (Narbolia) e l’isola di Mal di Ventre. Il destino del mercato del Golfo di Oristano è legato certamente alla presenza di attrezzati approdi lungo la costa (Antichi popoli del Mare, Montalbano, 2011, Capone Editore), e un’iscrizione del 300 a.C. riferibile ad un tempio dedicato a Melqart, la divinità di Tiro e dell’espansione commerciale, pare dimostrarlo. A rafforzare l’ipotesi c’è la tradizione delle iscrizioni puniche di Tharros, sviluppatasi forse a partire dal santuario. Gli scambi attuati in questo emporio fenicio dovrebbero spiegare la presenza del prestigioso scarabeo ritrovato nella tomba 25 della necropoli di Monte Prama (Zucca, 2013). L’archeologo Zucca riferisce che probabilmente l’intenso scambio fra levantini e sardi creò le condizioni per la produzione delle statue di Monte Prama e rese possibile l’intesa sul mare che porterà alla deposizione simbolica nel santuario di El Carambolo (Sevilla), fra gli altri approdi sardi, di una navicella fittile, ridotta alla prora, con protome bovina.
Nelle immagini il nuraghe S'Uraki
domenica 22 giugno 2014
27/28 Giugno 2014. Escursione e doppio convegno dedicato alla civiltà nuragica.
L'archeologia della Sardegna raccontata ai turisti.
Doppio appuntamento con la Civiltà Nuragica il prossimo week-end, 27/28 Giugno 2014. Si inizierà Venerdì 27 alle ore 20.00 a Costa degli Angeli con il primo appuntamento della rassegna "Archeologia sotto le Stelle". Pierluigi Montalbano illustrerà una relazione dal titolo "La bella età dei Nuraghi", con approfondimenti su chi costruì i nuraghi, quando e perché. Ingresso libero e, al termine, festa del solstizio.
Il giorno seguente sarà dedicato ai Giganti di Monte Prama, con un'escursione nella Penisola del Sinis. Bus turistico da Cagliari alle ore 08.15, visita guidata a Tharros, pranzo all'agriturismo Sa Pedrera, visita pomeridiana al museo di Cabras, sede delle statue, convegno sui giganti di Monte Prama e, al termine, dibattito e degustazione vini. Alle 20.30 rientro a Cagliari.
Costo complessivo 45 euro con prenotazione obbligatoria al 3382070515.
Per chi viaggia con mezzi propri il costo è di 30 Euro.
Al seguente link altre informazioni.
https://www.facebook.com/events/722459351150106/
Doppio appuntamento con la Civiltà Nuragica il prossimo week-end, 27/28 Giugno 2014. Si inizierà Venerdì 27 alle ore 20.00 a Costa degli Angeli con il primo appuntamento della rassegna "Archeologia sotto le Stelle". Pierluigi Montalbano illustrerà una relazione dal titolo "La bella età dei Nuraghi", con approfondimenti su chi costruì i nuraghi, quando e perché. Ingresso libero e, al termine, festa del solstizio.
Il giorno seguente sarà dedicato ai Giganti di Monte Prama, con un'escursione nella Penisola del Sinis. Bus turistico da Cagliari alle ore 08.15, visita guidata a Tharros, pranzo all'agriturismo Sa Pedrera, visita pomeridiana al museo di Cabras, sede delle statue, convegno sui giganti di Monte Prama e, al termine, dibattito e degustazione vini. Alle 20.30 rientro a Cagliari.
Costo complessivo 45 euro con prenotazione obbligatoria al 3382070515.
Per chi viaggia con mezzi propri il costo è di 30 Euro.
Al seguente link altre informazioni.
https://www.facebook.com/events/722459351150106/
sabato 21 giugno 2014
Cartografia nautica. I toponimi del Mediterraneo nel “Compasso da Navigare”
I toponimi del Mediterraneo nel “Compasso da Navigare”.
di Bianca Fadda, Università di Cagliari.
Nel 1947 Bachisio Raimondo MOTZO
pubblicava il testo di un Portolano medievale custodito presso la Biblioteca
dello Stato Prussiano di Berlino, il codice Hamilton 396; un testo anonimo, datato 1296, intitolato Compasso da Navegare. Si tratta del più antico portolano relativo alla
totalità del Mediterraneo che sino ad oggi sia stato rinvenuto. È un'opera
italiana scritta in volgare, che non si può però definire toscano, genovese o
veneziano, essendo frequenti i vocaboli catalani, provenzali, arabi e
bizantini. Si potrebbe parlare, come disse il Motzo, di una "lingua
franca" derivante dalla fusione di diversi idiomi e dialetti, che veniva
parlata dai marinai di tutto il mondo latino per intendersi tra loro. Il lavoro del Motzo non si è limitato
alla pubblicazione di tale manoscritto, peraltro preziosissimo per la mole dei
dati contenuti e per la sua originalità, ma è stato accompagnato da una lunga
parte introduttiva nella quale è stata
affrontata la questione relativa all'origine e al!'evoluzione dei portolani e
delle carte nautiche che, nati contemporaneamente,
si completavano a vicenda durante la navigazione. Il Motzo annunciava inoltre
l'intenzione di curare la stampa di altri tre portolani derivanti dal Compasso
e far così un "Corpus" che evidenziasse il contributo
fornito dall'Italia alla Storia della navigazione. Si riferiva, in
particolare, ai codici di Grazia Pauli (fine XIV secolo), di Carlo di
Primerano (metà XV secolo) e di
Giovanni da Uzzano (metà XV secolo),
alcuni esemplari dei quali si trovano custoditi nella Biblioteca Nazionale e in
quella Riccardiana di Firenze e nella Biblioteca Universitaria di Cagliari.
L’avanzare dell'età impedì al Motzo di
portare a compimento il suo progetto, che si interruppe con la trascrizione dei
tre manoscritti.
Il codice Hamilton 396 - II cosiddetto codice Hamilton, è attualmente
custodito nella Biblioteca dello Stato Prussiano di Berlino. Scritto su buona pergamena, misura cm. 21 x 14 e consta di 107 carte. La scrittura è una gotica libraria della fine del XIII
secolo (1).
Riguardo al contenuto, esso si
divide in tre parti. Nella prima sono descritte le coste da capo San Vincenzo
in Portogallo a Gibilterra; seguono le coste della Spagna mediterranea,
Francia, Italia, della penisola Balcanica fino ad Istanbul, dell'Anatolia,
Siria, Palestina e ancora dell'Africa settentrionale fino a Capo Spartel, ed
infine le coste atlantiche del Marocco fino a Saffì. Sono precisate le distanze
tra le diverse località calcolate in
miglia (2),
sempre associate alle direzioni date in base alla rosa dei venti (o
compasso) (3). Si trovano poi informazioni sui fondali marini, le
correnti, le secche, i venti dominanti e sui procedimenti di attracco e sbarco.
La seconda parte ha un doppio oggetto: da un lato raccoglie un gran numero di
traversate o percorsi attraverso il mare aperto (pelei o pileggi) da un punto all'altro generalmente lontani
di coste continentali e insulari, con menzione delle distanze e delle
direzioni; dall'altro descrive il periplo delle grandi isole: le Baleari, la
Sardegna, la Corsica, la Sicilia, le Egadi, le Eolie, Malta, Creta, Milo,
Cipro. La terza parte, contenente la descrizione delle coste del Mar Nero, è sicuramente un'aggiunta successiva
trovandosi dopo l'explicit. Il manoscritto è di
origine italiana. Secondo il Motzo sarebbe stato composto in Toscana, più
precisamente a Pisa. Infatti la descrizione delle coste catalane, di quelle
francesi e provenzali, dell'Italia meridionale e dell'Adriatico è piuttosto sommaria, rispetto a quella delle
coste liguri, toscane, corse e sarde. Ciò porta ad escludere Catalani, Francesi,
Provenzali, ma anche Italiani del meridione e Veneziani. Due lunghi segni di
richiamo al principio della carta 14, descrizione di Porto Pisano, e all'inizio
della carta 15, descrizione di Monte Argentario con porto Ercole e porto Santo
Stefano, che non hanno riscontro nel resto del manoscritto, lo riconnettono con
la Toscana. Con tutta probabilità dovette appartenere ad un navigatore pisano. Il fondo della lingua
del Compasso, pur con
infiltrazioni di altri idiomi e dialetti, è sostanzialmente toscano, non ripulito dall'uso letterario, ma così come era parlato dai
marinai abituati ad andare di porto in porto. Il Compasso non comprendeva in origine la descrizione delle coste
del Mar Nero. Se l'autore fosse stato un genovese non avrebbe di certo omesso
di descriverlo, essendo fortissimi gli interessi genovesi in quel mare.
Il testo si apre con l'indicazione: "In nomine Domini Nostri Iesu Christi, amen.
Incipit Liber Compassuum MCCLXXXXVI. de mense ianuari fuit inceptum opus
istud". Ma si tratta della data della copia; il testo primitivo
del Compasso, secondo il Motzo,
sarebbe stato composto quarant'anni prima, esattamente tra il 1250 e il 1265.
Rispetto all'originale,
il testo presenta tutta una serie di aggiunte minori, di ampliamenti e
rifacimenti, oltre a contenere non pochi errori dovuti alla trascuratezza dei
successivi copisti e all'aver in più la descrizione delle coste del Mar Nero.
Dopo la
distruzione per opera dei Pisani della Villa di Santa Igia nel 1258, la
capitale del Giudicato di Cagliari venne trasferita sul colle che gli stessi
Pisani chiamarono CHASTELLO DI CHASTRO.
Nel codice Hamilton 396 si ha
l’indicazione generica di un castello cui viene attribuito lo stesso nome della
città: castello de CALLARI per
indicare la città. Nel Grazia Pauli ( fine XIV secolo- Biblioteca Nazionale di
Firenze) si riporta il toponimo CHASTELLO DI CHASTRO per indicare la città, il
castello e il porto. Quindi è lecito pensare che l’autore del manoscritto
avesse delle cognizioni precise circa l’evolversi della toponomastica sarda
sotto l’influenza pisana, probabilmente viveva e scriveva a Pisa
note
(1) Trattasi del già citato portolano
pubblicato da B. R. MOTZO sotto il titolo:
Il
Compasso da Navigare, opera italiana detta metà del secolo XIII. in: "Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliari" (voI.
VIII), 1947. Tutte le notizie qui riportare sono state tratte dall'opera
sopraccitata.
(2) Si tratta di
un'unità di misura non coincidente con quella omonima (miglio romano)
utilizzata dai romani negli "Itineraria Scripta", e pari agli attuali
1480 metri, ma corrispondente a 5/6 (cinque sesti) di esso ossia 1230 metri,
come ha stabilito all'inizio di questo secolo H. WAGNER in Der Ursprung der "Kleinen
Seemàile" auf den mittefafterlichen Seekarten der ltaliener, Goningen,
1900.
(3) I dati di
direzione da imprimere all'imbarcazione, sin dall'inizio di ogni rotta,
vengono sempre forniti in base al sistema della rosa dei venti con l'orizzonte
scisso in 128 direzioni. La necessità di ricorrere a tante direzioni era
imposta dalle molteplici sfaccettature che la provenienza dei venti può
assumere nel regime barico discontinuo e multiforme proprio del Mediterraneo.
Le direzioni delle rotte vengono segnalate tramite otto venti principali:
tramontana, greco, levante, scirocco, mezzogiorno, libeccio, ponente, maestro
più otto venti intermedi…
Questo è
il parere di Charles H. Hapgood – Le mappe delle civiltà perdute – mondo ignoto
2004.
La carta
Pisana. In questo caso il tipico schema portolano fu applicato a una mappa di
qualità estremamente inferiore, per esempio una mappa che potrebbe essere stata
tracciata nel Medioevo o copiata in maniera molto imprecisa da un portolano
preciso. Quest’ultima supposizione è sostenuta dal fatto che il cartografo fece
un pessimo uso dello schema portolano. Questo consisteva in due cerchi, ma il
cartografo li disegnò di diametri diversi e così nemmeno una linea del suo
nuovo schema risulta dritta.
venerdì 20 giugno 2014
Ulisse e il solstizio d'estate
Ulisse e il Solstizio d’Estate
di Alberto Majrani
Nei precedenti interventi abbiamo visto come i poemi omerici
assumano improvvisamente una straordinaria "coerenza", una volta che
vengano letti con il giusto criterio e come molte frasi misteriose diventino
chiarissime per chi possiede una solida preparazione scientifica. Vediamo ora
in questa chiave uno dei momenti più drammatici dell’Odissea: la descrizione
della strage dei Proci, ad opera di Ulisse (o chi per lui), di suo figlio
Telemaco e dei fedeli servitori. Ma è
possibile capire in quale giorno avviene il fattaccio? Proprio il capo dei
pretendenti Antinoo ci darà un suggerimento:
Oggi tra il popolo c’è la festa solenne (XXI, 258)
quindi questo non è un giorno qualunque, ma è un giorno di
festa per tutto il popolo: in un’epoca in cui pochi sono in grado di usare un
calendario, se dei congiurati devono darsi un appuntamento, possono farlo solo
in un giorno particolare, ben noto a tutti. Pochi versi dopo si scopre che la
festa è dedicata al dio Apollo arciere. Dato che Apollo era anche il dio della
luce, possiamo azzardare addirittura l’ipotesi che potesse essere una festa
solare, come il solstizio d’estate, che era un giorno particolarmente
importante per gli antichi. Il solstizio d’estate è il giorno più lungo
dell’anno, mentre il solstizio di inverno è quello più corto. Spesso chi non
conosce l'astronomia crede che il sole sorga sempre esattamente a est e
tramonti a ovest: in realtà questo succede solo nel giorno dell'equinozio di
primavera o d'autunno. Durante gli altri giorni dell'anno il punto di levata e
di tramonto si sposta gradualmente verso destra o sinistra. Nel solstizio il
sole sorge e tramonta nel punto più lontano rispetto all’est e all’ovest: si
dice che il "sole sta" perché per pochi giorni sembra fermarsi in un
punto fisso per poi tornare indietro.
Le conoscenze astronomiche erano già presenti in epoca
preistorica: molti archeologi pensano che persino gli animali dipinti nelle
famose grotte di Lascaux siano una rappresentazione delle costellazioni. Nel
14000 avanti Cristo, periodo che concorda con le datazioni dei dipinti ricavate
con altri metodi, il sole tramontava al solstizio d’estate andando ad
illuminare proprio la parete pitturata, posta a una quarantina di metri
dall’ingresso. E’ decisamente improbabile che ciò sia dovuto al caso, perché ci
sono molte grotte nella zona e quella è l’unica dipinta, e il fenomeno si
verificava soltanto nei giorni immediatamente vicini al solstizio d’estate.
giovedì 19 giugno 2014
Il ballo tradizionale in Sardegna
Il ballo tradizionale in Sardegna
di Cristiano Cani
Il ballo
è forse uno degli elementi che accomunano le culture di tutto il mondo. Ancora
oggi possiamo vedere, nelle tribù amazzoniche, africane o della Nuova Guinea,
danze scandire i momenti più importanti della vita. La nascita, il passaggio dall’adolescenza
alla vita adulta, le unioni matrimoniali, la morte e tutti gli eventi religiosi
e propiziatori sono regolati dal ballo.
La Sardegna si inserisce di diritto in questo contesto, potendo reclamare ancora oggi un posto predominante nelle tradizioni popolari mondiali: il canto a tenore è già parte del patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO, così come potrebbero entrare a breve le launeddas, uno degli strumenti musicali più antichi documentati (ricordiamo il bronzetto nuragico itifallico di Ittiri). Abbiamo parlato di canto e di strumenti musicali, non possiamo quindi escludere il ballo, che con essi crea un legame indissolubile.
La Sardegna si inserisce di diritto in questo contesto, potendo reclamare ancora oggi un posto predominante nelle tradizioni popolari mondiali: il canto a tenore è già parte del patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO, così come potrebbero entrare a breve le launeddas, uno degli strumenti musicali più antichi documentati (ricordiamo il bronzetto nuragico itifallico di Ittiri). Abbiamo parlato di canto e di strumenti musicali, non possiamo quindi escludere il ballo, che con essi crea un legame indissolubile.
Le fonti storiche
Il primo documento si trova a
Sassari, nel Museo Sanna, nella sala dedicata all’altare di Monte
d’Accoddi. In una vetrina riguardante i
villaggi presenti nell’area del santuario nel periodo della cultura di Ozieri
(3200 – 2700 a.C.), è esposto una scodella carenata frammentata, decorata con una scena di danza, dove delle figure stilizzate
a clessidra (se ne individuano 4) si tengono per le mani (a formare una sorta
di cerchio).
Abbiamo
già parlato del bronzetto del Suonatore itifallico di Ittiri, che testimonia,
assieme ad altri bronzetti nuragici, come il suonatore di corno proveniente da
Genoni , la presenza della musica e quindi, facendo un logico collegamento, al
ballo.
Da
Tharros, invece, proviene una colonnina rappresentante una scena di danza con persone, una delle quali con la testa di
bovino (probabilmente una maschera, o raffigurazione di qualche entità
divina), da notare come la figura del
toro ha segnato costantemente la cultura sarda, come le sue raffigurazioni
all’interno delle domus de janas, nella forma delle tombe dei giganti (a
protome bovina), nei bronzetti nuragici, fino ad arrivare a noi attraverso le
maschere di Carnevale di Ottana (i Boes, assieme ai Merdules) e di molti centri
isolani. Ancora oggi i bovini sono utilizzati nelle feste religiose, in
particolar modo nelle processioni, dove vengono utilizzati per trainare il
carro del santo, determinando ancora oggi un elemento fondamentale della vita
religiosa isolana.
mercoledì 18 giugno 2014
Cartografia e Portolani, disciplina per chi ha sale in zucca.
Cartografia e Portolani,
di Rolando Berretta
Per
capire l’origine della Cartografia Portolana, in particolare della CARTA
PISANA, bisognerebbe
tornare
indietro nel tempo, fino ai tempi di Marino di Tiro. Bisognerebbe disporre di
proiezioni sferiche, portarle in piano, bisognerebbe capire come è nato
l’errore nel passaggio dalla Rosa dei Venti a 24 direzioni a quella classica a
16 e, poi, a 32.
Abbiamo
iniziato a tracciare un cerchio inscritto in un quadrato con la croce centrale
e sulle diagonali. Ci siamo ritrovati con il cerchio diviso in 8 parti. Con la
stessa aperture di compasso abbiamo messo il compasso negli 8 punti e la
circonferenza si è divisa in 24 parti. Questo valore, molto semplice da
ottenere, spiega la durata delle 24 ore e tutto quello che è dietro ai
meridiani.
Tutte
queste cose, che sto elencando, sono state illustrate nei precedenti pezzi.
Ogni tanto mettevo un pezzo che, preso singolarmente, non diceva assolutamente
nulla, adesso è arrivato il momento di mettere tutto insieme. Tutto fa
riferimento alla Carta Veneziana del 1484.
La Carta
Veneziana, unica riproducente la Rosa dei Venti a 24, è finita su di una
griglia che ha riportato il giro di compasso su di un quadrato di 8 x 8 unita
per lato.
E le
terre riprodotte comiciarono a dilatarsi.
Tutto
questo fa parte del passato ma sta riemergendo piano piano.
A Noi
interessa la prima Carta Portolana che ha fatto la sua comparsa verso il 1260.
A noi
interessa la Carta Pisana, quindi la presento inserita su di uno schema
geometrico che, secondo me, è quello giusto.
10 x 10.
Controllate bene in basso, a sinistra, quella griglia esiste.10 e 14 esterno.
Passiamo,
adesso, ad approfondire bene il tutto. Vediamo come si lavorava nel 1200;
quando non esisteva la Bussola. La prossima immagine è fondamentale per
inquadrare il problema delle antiche carte.
Immaginiamo
di disporre di una griglia composta da tanti quadrati che valgono 10 unità per
lato.
Le
diagonali azzurre, per LORO, valevano 14. Ripeto: quadrati da 10 (quelli neri)
e diagonali da 14.
(Conosco
bene le misure reali; quindi non andiamo su questa strada.) Ci ritroviamo con
una griglia di quadrati da 10 x 10. Se ruoto l’immagine di 45gradi, mi ritrovo
con una griglia di quadrati azzurri da 14, o sette, o multipli vari. Se capite
tutto ciò passo a farvi veder lo schema della Pisana.
Abbiamo
girato la griglia di 45 gradi. Quella da 14 è sull’asse nord/sud mentre quella
da 10 è finita sulla diagonale. Si dovrebbe capire che la nuova griglia rossa è
quella che vale 10.
Immaginiamo,
adesso, di disporre di una precisa riproduzione del Mediterraneo suddiviso in
blocchi da 10 gradi.
Strano,
ma vero STORICAMENTE, queste immagini sono saltate fuori nel 1200.
Adesso
proviamo ad inserire i 20° geografici nel settore da 10 unità
Ma… la
scala che varrebbe dieci gradi non dovrebbe essere quella sulle diagonali?
Bella
osservazione!
La scala
che vale 14 ha un quadrato, che origina il giro di compasso, che vale 10.
10 + 10
= 20. Quanti sono i gradi delle carte da inserire ? sono due quadrati da 20.
Qui
abbiamo un quadrato da 20. Stesso numero.
Vediamo
adesso come è finito il lavoro.
Questa è
la situazione.
Stesso
giro di compasso da 20. Osservate come si dispongono i meridiani e i paralleli.
Eppure
lo schema era nato per quest’ultima configurazione.
Evito
ogni commento sul fraticello che si è trovato con la griglia pronta e il Mediterraneo
da inserire.
Tutto
questo per dire che:
dal
passato abbiamo ricevuto delle proiezioni sferiche. Le proiezioni sono finite
in giri di compasso
su
griglia da 10 unità.
Capisco
che con i disegni non si capisca nulla. Capisco tutto. Quello che non capisco è
perché tutti parlano di Carte Portolane senza aver mai disegnato uno schema.
E le
carte le avevano. E’ il giro di compasso da dieci quadratini che non va bene.
Ho
sintetizzato in pochi righi 3 secoli di cartografia.
La carta
Pisana dimostrano un cattivo orientamento che salta di una unità ogni dieci.
Poi venne la Bussola e lo scarto divenne di una quarta di vento pari a 11° 15’ o 11,20°.
Anche la
carta nautica di Pietro Vesconte ha un’inclinazione di una quarta di vento di
differenza con il nostro nord geografico.
Questo
dovrebbe essere lo spunto per una nuova ricerca. Non è la risoluzione del
problema.
Ma la
sorpresa più grande è stata…
Quando
ho scoperto che, anche un famoso castello, era stato realizzato con quello
schema.
Se non
si vuole il massimo della pignoleria… se ne può discutere.
Per chi
vuole, solo riprodurre, dei capolavori del Medio Evo, lo schema RoBer aiuta.
Basta
non esagerare.
Lo
schema andrebbe girato a croce; girato di una quarta di vento…..
martedì 17 giugno 2014
La prima Marina Militare dell'impero romano nasce in Sardegna, a Cagliari, istituita da Cesare Ottaviano Augusto.
La prima marina militare dell'impero romano nasce in Sardegna, a Cagliari, istituita da Cesare Ottaviano Augusto.
di Pierluigi Montalbano
Sarei felice di poter raccontare le vicende di qualche
marinaio nuragico, ma le fonti storiche sono avare di dati. Vista la tecnologia
navale del tempo e l’invariabilità di tempo, venti e correnti, si navigava solo
nella buona stagione e i coraggiosi equipaggi consentivano a genti lontane di
conoscersi e commerciare. Il preconcetto di alcuni studiosi che vede i sardi
provare repulsione verso il mare è oggi da scartare perché le testimonianze
archeologiche mostrano una frequentazione stabile almeno da 8000 anni. E’
sciocco proporre i sardi impauriti dal mare e abbarbicati sul Gennargentu e il Limbara,
e chi propone questa teoria dovrebbe dimostrare, fra le altre cose, che i circa
200 modellini di navi nuragiche in bronzo, realizzate 3000 anni fa con un
sofisticato sistema di fusione denominato a cera persa, riproducano mezzi di
trasporto per andare da Barumini al Nuraghe Losa. Qualche studioso afferma che
le navicelle bronzee sono mezzi per raggiungere l’aldilà, quindi dovrei dedurre
che i nostri antenati progettavano le crociere dopo la morte. Per chi non vede
di buon occhio una civiltà sarda proiettata verso il Mediterraneo, tutte le
proposte sono buone, e va detto che per fortuna finora nessuno ha ipotizzato
che le navicelle fossero giocattoli o portacenere, ma resta da domandarsi come
siano arrivati i primi abitanti. Esclusa la germinazione spontanea s’intuisce
un affannoso via vai di barche e zattere, con remi e vele. Il detto “Dae su
mare su male” che ho sentito con toni di compiaciuto pessimismo si riferisce,
evidentemente, a una storia molto più recente.
Alcuni documenti egizi, tra i quali il papiro di Wilbour citato da Lilliu a proposito del periodo degli attacchi dei popoli del mare a Qadesh e nel Delta del Nilo, nel pieno sviluppo della Civiltà Nuragica, riferiscono di Sardi dal cuore ribelle, invincibili guerrieri che giungono dal mare. Sono raffigurati nei rilievi scolpiti sui templi egizi di Medinet Abu, Karnac e Abu Simbel, e mostrano personaggi simili ai nostri bronzetti, soprattutto nel vestiario e nelle armi. Tanta ricchezza di armi e armati nei bronzetti sembra eccessiva se il compito fosse limitato a regolare faide tribali interne all’isola. Inoltre, le coste italiche non sono lontane: risalendo le coste sarde e quelle della Corsica, e dirigendosi verso l’isola d’Elba, si naviga a vista fino all’arcipelago toscano. Vi erano tutte le condizioni favorevoli per uno scambio commerciale fra le due sponde, e l’archeologia conferma che nella Sardegna di 3000 anni fa c’erano asce, spade, fibule, anfore e brocche per il vino, e numerose navicelle in tombe etrusche. Nelle città di Tarquinia, Vulci, Populonia e Vetulonia troviamo un repertorio archeologico vicino al mondo nuragico, e sono testimoniati scambi col mondo miceneo dell’Egeo.
Alcuni documenti egizi, tra i quali il papiro di Wilbour citato da Lilliu a proposito del periodo degli attacchi dei popoli del mare a Qadesh e nel Delta del Nilo, nel pieno sviluppo della Civiltà Nuragica, riferiscono di Sardi dal cuore ribelle, invincibili guerrieri che giungono dal mare. Sono raffigurati nei rilievi scolpiti sui templi egizi di Medinet Abu, Karnac e Abu Simbel, e mostrano personaggi simili ai nostri bronzetti, soprattutto nel vestiario e nelle armi. Tanta ricchezza di armi e armati nei bronzetti sembra eccessiva se il compito fosse limitato a regolare faide tribali interne all’isola. Inoltre, le coste italiche non sono lontane: risalendo le coste sarde e quelle della Corsica, e dirigendosi verso l’isola d’Elba, si naviga a vista fino all’arcipelago toscano. Vi erano tutte le condizioni favorevoli per uno scambio commerciale fra le due sponde, e l’archeologia conferma che nella Sardegna di 3000 anni fa c’erano asce, spade, fibule, anfore e brocche per il vino, e numerose navicelle in tombe etrusche. Nelle città di Tarquinia, Vulci, Populonia e Vetulonia troviamo un repertorio archeologico vicino al mondo nuragico, e sono testimoniati scambi col mondo miceneo dell’Egeo.
La marina di Roma nasce nel 261 a.C., quando si comprese che
Cartagine con le sue pentère e la sua flotta possedeva il dominio sul mare e a
poco sarebbe valso conquistare il predominio terrestre. Già nello stesso anno i
romani costruirono venti trière e cento pentère, utilizzando una nave
cartaginese recuperata. Nel 260 a.C., il console Caio Duilio sconfisse i punici
a Milazzo, catturando parte della flotta. Attilio Regolo, un eroe con modesto
discernimento politico, valutò definitivo il successo e incautamente si recò a
Cartagine per imporre durissime condizioni ma i punici, che non sempre si
comportavano elegantemente, si ricordarono di una vecchia botte con le punte di
ferro all’interno e vi fecero accomodare dentro l’incauto romano precipitandolo
giù da una rupe. Nel 241 a.C. Lutazio Catulo sconfisse i cartaginesi al largo
delle isole Egadi. Tre anni dopo la Sardegna divenne romana ma i sardi
resistettero a più riprese ai tentativi di romanizzazione attuati dal senato
tramite l’invio di legioni e comandanti in cerca di gloria. Dal II secolo a.C.
il Mediterraneo fu progressivamente smilitarizzato per mancanza di nemici ma
ciò favorì un aumento della pirateria. Fu Pompeo che con la legge Gabinia del
67 a.C. ebbe ragione di questa piaga che creava lutti e danneggiava le economie
dei popoli del Mediterraneo.
Diona Cassio e Strabone raccontano che nel
6 a.C. alcune popolazioni dell’isola si ribellarono a Roma, si riversarono
nelle fertili terre del campidano, aggredirono le città costiere sarde e disturbarono
con atti di pirateria i traffici marittimi dell’alto Tirreno, arrivando a
sbarcare nella Lunigiana. Le 4 tribù montanare sarde (i Diaghesbei, prima
chiamati Iolei) sono conosciuti attraverso gli scritti degli antichi autori
latini: Parati, Sossinati, Balari e Aconiti. L’imperatore Cesare Ottaviano
Augusto valutò la serietà del pericolo e decise di controllare l’isola
personalmente, preferendo non cederla al Senato. Schierò a Karalis il primo
distaccamento navale della marina militare. Pochi decenni dopo i romani
cominciarono a reclutare soldati e marinai nell’isola, anche per far cessare i
tumulti. La Coorte degli Aquitani fu trasferita in Germania e quella dei
Lusitani fu spedita in Numidia. Nell’isola rimasero le coorti dei Corsi e dei
Liguri, affiancati dalla Cohors I Sardorum. In altre parole i contingenti
militari incaricati di controllare le coste del Mediterraneo Occidentale erano
sardi. La Tavola di Esterzili, del 65 d.C., conferma una situazione positiva: i
Gallilenses occuparono i territori delle pianure posseduti dai Patulcenses, ma
non vi fu un conflitto armato. I tempi erano cambiati e sorprendentemente i
Patulcenses, davanti a quel sopruso, non reagirono e si rivolsero al
proconsole. Anche i Gallilenses andarono per vie legali utilizzando tutti i
cavilli giuridici per giustificare l’occupazione delle terre. La romanizzazione
della Sardegna, a mio avviso, si completa proprio in questo periodo. Nerone nel
67 d.C. restituì il controllo della Sardegna al Senato. Nel I secolo le truppe
sono concentrate nel nord o dislocate a vigilanza delle montagne barbaricine. Nel
71 d.C. Vespasiano creò due flotte: la Ravennate nel Mediterraneo
nord-orientale con basi in Epiro, Macedonia, Acaia (Peloponneso), Propontide
(Mar di Marmara), Ponto (Mar Nero), Creta e Cipro; la seconda flotta, più
grande, aveva il suo comando a Capo Miseno (Napoli) e controllava il
Mediterraneo Occidentale, comprese le coste africane. Aveva basi in Gallia,
Spagna, Baleari, Mauretania, Egitto, Sicilia e Sardegna, dove contava sui porti
di Olbia, Turris Lybisonis, Sulky e Carales. Tharros e il Golfo di Oristano
erano approdi minori, non graditi ai romani. Lo statunitense Starr osserva che
la Sardegna fu la provincia occidentale che fornì il maggior numero di navi e
uomini alla flotta di Miseno. Non male per un popolo che alcuni propongono
privo di esperienze marinare, a meno che non paia credibile l’ipotesi che i
romani volessero autodistruggere la flotta dandola in mano a equipaggi
incompetenti. Il Pais ricorda che i ritrovamenti epigrafici che ricordano i
classiari sardi sono pari, in termini quantitativi, a quelli che ricordano
classiari di tutte le altre regioni mediterranee messi insieme, e solo la Siria
vantava contingenti di pari livello a quelli sardi. Con i Flavi e gli Antonini
la Sardegna è prospera e alcuni documenti riferiscono di soldati sardi
inquadrati nelle legioni pretorie con gradi molto elevati. Nel II secolo la
concentrazione militare si sposta a Carales, con compiti di guardia d’onore e
polizia, mentre la marina mantiene compiti di prevenzione della pirateria e di
collegamento con Roma. Altre forze si dispongono nell’Iglesiente a protezione
delle miniere, e la pace è confermata per tutto il III secolo.
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