giovedì 16 gennaio 2014
Archeologia in Sardegna. Tharros, Tarsos, Tirso, Tiro
Tharros, Tarsos, Tirso, Tiro.
dal libro di Danilo Scintu
Fin dalla preistoria europea si narra di popoli che hanno vissuto nella leggenda, e di altri popoli che li hanno tramandati sino a noi diventando anch’essi leggendari. Quella europea fu una civiltà imperitura, forgiata in un passato ben organizzato già durante il Paleolitico, che dipinse in tutta Europa le grotte facendone importanti santuari. Proprio qui a cominciare da 8 mila anni fa si costruì un patrimonio edilizio megalitico del tutto eccezionale a partire proprio dai pressi delle grotte per espandersi in tutte le contrade. Al popolo mitico delle origini, vennero associati caratteri unici, magici e fiabeschi, riportanti ad un mondo di fate e streghe, di draghi, elfi e dee. Fu una civiltà unica e fiorente quella europea che adottò il Megalitismo, cioè l’uso di gigantesche pietre per la costruzione dei loro edifici, assieme al culto della Dea Madre ed una moltitudine di altri simboli ricorrenti tra cui la protome taurina, il serpente e gli occhi della Dea civetta. Fu con l'arrivo di popolazioni orientali dal culto androcentrico che nel secondo millennio a.C. la religione della Dea venne assorbita e manipolata finendo per perdere il suo carattere più peculiare. Nell'Europa Atlantica, con la costruzione di Stonehenge termina il grande periodo del megalitismo ove l'arte legata alla Dea lentamente si dissolve in tutta l'Europa settentrionale sino alle propaggini estreme della Penisola Iberica. Solo nelle isole del Mediterraneo Occidentale, nell'arcipelago formato da Sardegna, Corsica e Baleari proseguì la sperimentazione e lo sviluppo dell'arte della Dea. Questo popolo è ricordato nei testi greci del 5 secolo a.C. per le sue opere stupefacenti. La particolare rilevanza costruttiva della Sardegna tra il Neolitico e l’Età del Bronzo ne è un esempio lampante. In quest'isola di soli 24.000 km quadrati, durante il Neolitico, furono scavate oltre 3500 tombe ipogee dette Domus de Janas, si costruirono al cielo grandi piramidi in pietra come Monte d'Akkoddi, assieme a gigantesche muraglie e centinaia di Dolmen. Durante l'epoca del Bronzo, quando altrove in Europa non si costruiva più, vennero eretti circa 10 mila grandi complessi turriti, i nuraghi, che hanno vinto le insidie del tempo assieme a un migliaio di templi a pozzo, un numero simile di tombe dei giganti e un altrettanto enorme patrimonio costituito dagli edifici civili, ville ed edifici termali.
I resti dei centri urbani nuragici ci raccontano di quegli uomini antichi, i loro muri narrano non solo della perizia tecnica ma anche dell’organizzazione degli ambienti abitati, la loro distribuzione documenta un’imponente urbanizzazione quasi a definire parti sterminate del territorio isolano come un “villaggio continuo”. Tradotta in termini di “livello di civiltà” quella nuragica possiamo definirla “civiltà urbana”, un esempio ne è la penisola del Sinis densamente popolata sin dal Neolitico. Nella penisola del Sinis coevi alla città di Tharros sono anche 118 nuraghi e i resti di sterminati villaggi sulle creste basaltiche dei colli, tra gli spietramenti agricoli si rinvennero centinaia di modelli di navi e statuette in bronzo assieme alle grandi statue in pietra denominate Giganti di Mont’e Prama, raffiguranti in nere guerrieri - arcieri, opliti, soldati della fanteria - dotati di elmo “cornuto”.
Lo stesso termine Sinis, dal significato etimologico nuragico e semitico, alla Dea Sin la Dea lunare e potrebbe spiegarci la sacralità e il dispendio di una tale edificazione tra mare e stagni salati a partire da epoche remote. Sulle propaggini meridionali del Sinis è la città di Tharros, abitata da tempi immemori sino al Medioevo quando capitale del Giudicato di Arborea venne abbandonata per costruire Oristano in una zona più difendibile dai pirati saraceni.
Malgrado la città sia stata abitata sino al 1076 d.C. l’abitato megalitico di Tharros inspiegabilmente è riemerso intatto durante gli scavi archeologici sulla collina di su Muru Mannu, in origine l’acropoli della città. Qui numerosi ambienti circolari, affacciati su un cortile centrale e un grande tempio anch’esso circolare sono racchiusi da imponenti mura di cinta, il tutto realizzato con massi enormi di pietra. Di epoca nuragica a perdurare nel tempo sino a noi è anche la rocca di Tharros, il promontorio ove oggi sorge la torre di S. Giovanni le cui fondamenta poggiano di misura su una struttura circolare preesistente in massi ciclopici posata su una piattaforma megalitica triangolare.
Seguendo il percorso storico fornito dai dati archeologici, essi portano a confermare la grande importanza assunta da Tharros nei millenni, una potente città del Mediterraneo Occidentale, alla foce del fiume Tirso, sulla costa del Mare Sardo, esattamente di fronte le Baleari. Era da Tharros che già dal Neolitico partivano alla volta delle coste spagnole, francesi e italiche, prodotti quali l’ossidiana, la botarga o il pesce salato come le sardine che della Sardegna mutuano addirittura il nome. Durante l’epoca nuragica la ricchezza mineraria della Sardegna forniva a Tharros, il bronzo e l’argento che commerciava con le corti di Micene e di mezzo Oriente, addobbando le tombe reali d’Egitto.
Il suo entroterra costituito dalla piana fertilissima dell’Arborea alla foce Tirso, produceva in abbondanza ogni prodotto capace di soddisfare tutte le necessità del popolo. Quella di Tharros fu una ricchezza senza pari per il mondo di allora, capace di realizzare possenti mura di cinta, templi ed edifici di grande monumentalità dal gusto megalitico come i nuraghi.
Le mura di megalitiche di Tharros.
La città di Tharros sorge su una rocciosa isola a picco sul mare oggi unita alla terraferma da una lingua di sabbia eolica che trasforma l’isola in una penisola. Prospiciente lo stretto canale che la divideva dalla terraferma, si erge la monumentale cinta muraria in ciclopici massi di basalto, trachite e arenaria che ancora oggi racchiudono la città fortificata. Il sistema di fortificazioni tharrense ha uno sviluppo di circa 1750 metri racchiudente un area di oltre 115 mila mq, imperniato su due punti focali: l’acropoli di su Muru Mannu a nord e la rocca di San Giovanni a sud.
Dagli scavi di Tharros effettuati sulle mura settentrionali di su Muru Mannu, è emerso un imponente sistema di fortificazioni, secondo una concezione di difesa multipla attestata successivamente anche nelle città puniche come Cartagine. La profondità del sistema di fortificazione a settentrione era di circa 230 metri, è presumibile che tale triplice sistema difensivo fosse impiegato solo nei pressi di Su Muru Mannu, la zona posta a baluardo della strada che conduceva a Tharros e che la collegava con il resto dell'isola.
Dunque a Tharros la prima linea di difesa era costituita dal canale artificiale che dal mare aperto conduceva all'arsenale di Mistras e alla zona portuale, affiancato da un muro in grossi blocchi poliedrici di basalto e trachite rossa osservabile ancora per circa 50 metri in senso est-ovest. La seconda linea in blocchi di arenaria è costituita da due muraglie parallele e un fossato situata a sud ad una novantina di metri dalla prima e si estende sempre da est ad ovest con una lunghezza di circa 267 metri.
I venti prevalenti di maestrale hanno addossato sulle mura una catena di dune di sabbia, presso l’attuale strada queste dune descrivono una larga rientranza semicircolare: quel luogo corrisponderebbe all’accesso di una porta ancora coperta dalla sabbia eolica.
La terza linea ubicata a 140 metri più a sud dalla centrale, è anch’essa in enormi massi poliedrici ed è quella meglio visibile oggi, perché interessata dagli scavi archeologici degli edifici nuragici e del Tofet fenicio, Su Muru Mannu. L’andamento di quest’ultima linea difensiva, è anch’esso in senso est-ovest visibile per 88 metri, descrive un’ampia rientranza verso sud-ovest e verso sud-est in modo da raccordarsi alle fortificazioni che chiudono l'acropoli e il resto della città. Questa terza linea che circonda l’acropoli per 2/3 ove sono le capanne nuragiche ed una torre megalitica, è articolata da un terrapieno, un fossato e una cortina muraria sempre in grandi massi ciclopici. Il terrapieno costituisce parte dell’acropoli, ha 10 metri di spessore ed è dotato di un muro di controscarpa in ciclopici massi poliedrici di basalto e arenaria. Il fossato largo sei metri, alla base è collegato al terrapieno tramite due postierle, due porte di un metro di luce che consentivano l’accesso alle fortificazioni nei settori est e ovest della linea difensiva. Le postierle, realizzate con grandi blocchi isodomi di arenaria, si innestano alla muratura poliedrica in modo mirabile, esse si evidenziano sul muro ciclopico con la bicromia ottenuta dal nero basalto con il giallo e l’isodomia dell’arenaria. La medesima rifinitura artistica la ritroviamo sul paramento esterno della cortina parallela al terrapieno. Essa ancora oggi svetta per oltre 5 metri d’altezza ed ha uno spessore di circa 3 metri, il suo muro è realizzato con conci poliedrici di basalto e filari con grandi blocchi squadrati di arenaria, producendo sul paramento ancora gli effetti della bicromia del bianco e del nero tanto cara al popolo sardana.
Il muro ciclopico di evidente matrice megalitica e nuragica, è stato invece datato dallo scavatore al principio del V secolo a.C. in epoca punica, benché nessuna città fenicia o cartaginese abbia mai impiegato la tecnica poliedrica e la bicromia. La dimensione dei massi e la tessitura del muro con la bicromia degli edifici nuragici adagiati sul terrapieno, mostrano come tali opere siano da riferire solo al nuragico, una decina di secoli prima. Come sappiamo, datare con certezza un muro di pietre è praticamente impossibile se non si trovano al suo interno reperti fittili; solo l’architettura con la conoscenza degli stili artistici del tempo può sopperire a tale scopo. La dimensione dei massi, la morfologia poliedrica e la loro posa in opera, riportano ad un quadro cronologico molto più antico del periodo cartaginese, ovvero alla stessa epoca dei nuraghi.
L’acropoli di Tharros
Il grande fascino emotivo dell’acropoli di Tharros nei pressi di Su Muru Mannu, è forse dovuto ad una serie di ambienti di epoca nuragica di forma circolare e quadrangolare, disposti attorno ad un grande edifico megalitico. Essi sono gli unici resti rimasti di Tharros risalenti al XIII secolo a.C., epoca dell’abbandono della città che da quanto raccontano le leggende tramandate dagli anziani venne distrutta a causa di un maremoto. Fu questa tragedia climatica che interessò l'intera isola una delle ragioni che spinsero i Sardana ad invadere l'Oriente e l'Egitto nella coalizione dei Popoli del Mare.
I Fenici, probabilmente gli stessi Sardi di rientro dalle guerre di invasione all’Oriente, fecero dell’acropoli di Tharros il loro Tofet, secondo la Bibbia il luogo sacro più importante della città. L’area del Tofet di Tharros comprende circa 1000 metri quadri, al momento della posa delle urne gli ambienti nuragici erano già stati abbandonati. I Fenici del costruito nuragico sull’acropoli ne fecero il principale luogo sacro della città: accostarono ai preesistenti nuovi edifici, ma non si sovrapposero mai alle mura arcaiche come a voler rispettare l’antico luogo sacro, forse l’ancestrale dimora dei re di Tharros.
Il complesso di edifici nuragici dell'acropoli, era imperniato su una torre posta a nord-est, all’interno del risvolto del fossato. La torre, alla base, è costruita con massi imponenti di 15-20 tonnellate ciascuno, posati su fondazioni costituite di pietrame più minuto. Nello spazio alle spalle della torre, gli ambienti circolari abitati hanno in genere un diametro interno di 4-8 metri, costruiti con blocchi commisti di basalto e arenaria. Dallo spessore dei muri, si deduce che alcuni edifici erano voltati a cupola, mentre altri per la loro sottigliezza avevano un tetto stramineo in legno. La presenza presso i ruderi di conci isodomi di arenaria assieme a quelli poliedrici di basalto, mostra come anche questi ambienti fossero eretti e decorati con la bicromia delle pareti, un atto costruttivo che in quell’epoca era sinonimo di sacralità e di importanza del luogo. Decorare con la bicromia dunque significava andare ben oltre la semplice e umile dimora e - come dimostrato in Sardegna - questo decoro è riscontrato presso edifici sacri quali i nuraghi e i templi a pozzo.
All’interno dell’acropoli di Tharros, un imponente edificio circolare di epoca nuragica è costruito con massi ciclopici di basalto e arenaria; esso è al centro dell’area sacra proprio ove i Fenici deposero le loro urne nel tofet cittadino. L’edificio, in pianta è costituito da un grande ambiente circolare al centro, il cui diametro interno è di 33.20 metri (40 braccia megalitiche), gli ambienti disposti a raggiera intorno ad esso, sono racchiusi da poderosi muri concentrici, portando il diametro esterno totale del grande edificio a 44 metri, esattamente 53 braccia megalitiche.
Gli archeologi non sanno definire cosa possa essere stato un edificio di tali dimensioni sull’acropoli, nei pressi sono stati ritrovati solo dei crani di toro, perciò è considerato un macellum di epoca romana, anche se è risaputo che il toro e le protome taurine sono un inconfondibile segnale della sacralità della Grande Dea. L’edificio racchiude una vasta area di circa 1600 metri quadrati, ove solo il grande vano centrale è di 850 metri quadrati. Poteva essere un ambiente coperto o a cielo aperto, mentre gli ambienti intorno erano certamente coperti da un tetto ligneo. A mio parere, vista la posizione privilegiata al centro dell’acropoli è possibile che questo imponente edificio sia stato il tempio principale della città.
Tharros nel Mito.
Nella mitologia locale gli anziani (a partire da mio padre che mi giurò lo apprese da suo padre e lui dal suo, e così via nei millenni), narrano di una ancestrale tragica distruzione della città di Tharros a causa di un fortissimo maremoto. La collocazione di tale evento si perde nella notte dei tempi probabilmente 200 anni prima di quando i fenici sull'acropoli fecero del costruito nuragico il luogo di maggiore sacralità, il tofet. Una tragedia del genere può essersi verificata qualora forti raffiche di vento avessero soffiato per giorni sino a sollevare un moto ondoso eccezionale capace di distruggere la città. Si potrebbe anche supporre che tale evento sia stato determinato da movimenti tellurici. Ad ogni modo Tharros con le sue grandi e megalitiche mura nuragiche assieme all'acropoli e al suo tempio sono prova archeologica di una città prefenicia realmente esistita. I fenici grandi navigatori del I millennio a.C. nel tempo ricostruirono il florido emporio che Tharros deteneva già da millenni essendo un porto sicuro approdabile in ogni condizione di vento. Dai ritrovamenti archeologici notiamo un porto sempre a contatto con l'Oriente e con l'Egitto prova ne sono le statuette in argento e bronzo riportanti la Dea Hathor con in grembo Osiride, assieme a migliaia di scarabei statue e stele.
In quello stesso periodo, a cavallo della fine del 1300 e il primi anni del 1200 a.C., la distruzione di una città e della sua isola è documentato numerose volte nelle stele commemorative egiziane, quando i sardana coalizzati con altre genti del mare invasero l'Egitto e parte dell'Oriente. I geroglifici di Medinet Habu ad esempio raccontano una catastrofe che avrebbe messo in ginocchio alcuni dei popoli invasori appartenenti ai Popoli del Mare: “gli stranieri venuti dal nord vedono le loro terre scuotersi, il loro paese è distrutto le loro anime in angoscia. I popoli del settentrione complottarono nelle loro isole ma nello stesso tempo la tempesta inghiottiva il loro paese, la loro capitale distrutta, annientata”.
Gli stessi toni catastrofici li leggiamo anche nella Bibbia, quando Isaia ed Ezechiele narrano della punizione di Dio su una Tiro delle isole collocata in mezzo al mare. Secondo Max L. Wagner (1967), glottologo e studioso della lingua sarda, l’etimo di Tharros è da collegarsi a Tiro, entrambe significano “rocca” “promontorio roccioso”; in accadico Suru o Tzuru, in fenicio Sr o Tzur, in greco Turos, in latino Tyrus o Sarra. Dunque una Tiro che ritroviamo non solo sulla costa del Libano, ma anche ad Occidente sulla costa occidentale della Sardegna.
Leggendo gli scritti sui miti e le leggende riguardanti i Fenici su Tiro e sua madre - figlia Tarsos, si resta colpiti dai numerosi dubbi interpretativi lasciati.
Di Tarsos o Tartesso se ne parla sopratutto nella Bibbia e nei testi degli autori greci e romani, ma per quanto queste località siano ben descritte oltre le Colonne d’Ercole, nella realtà in territorio iberico non sono mai state trovate prove archeologiche né tanto meno vi sono toponimi o altri segnali del suo nome, insomma niente che riporti alla Tartesso biblica.
A mio parere le uniche prove archeologiche sull’esistenza di Tartesso sono solo in Sardegna, tutte prove tangibili, con resti archeologici di rilievo tra cui la città di Tharros e numerosi toponimi assieme a tre antichissimi reperti scritti di grande valore.
Sallustio e Pausania, due commentatori dell’antichità, ci hanno raccontato come il condottiero iberico Norace avrebbe fondato la città di Nora dandole il proprio nome. Più tardi Solino completa la notizia dichiarando Tarsos madrepatria di Norace. Interpretare la validità di questo passo è difficile in quanto nel termine Norace vi è la più antica attestazione del nome dell'edificio sinonimo di Sardegna, il nuraghe.
Secondo Pausania: “Tartesso è quella località dell'Occidente che non deve niente all'azione civilizzatrice ellenica; è una isola ricca e felice che fa quasi ombra alla grandezza ellenica tanto che il mitico re Argantonio di Tarsos si è permesso il lusso di finanziare la ristrutturazione delle mura della città di Focea e di offrire nuova terra per concedere una nuova patria ai Focei in fuga”.
Pausania riprendendo il racconto di Erodoto sulle esplorazioni Focee in occidente, parla di Argantonio, re di Tarsos, quando per amicizia aiutò i Focei a ricostruire le mura della loro città in Grecia, al fine di resistere agli assedi dei Persiani. Successivamente dopo la loro fuga dalla Grecia, offrì loro asilo nelle terre del regno facendo erigere la città di Alaia in Corsica.
L’affinità culturale di Sardegna e Corsica entrambe con presenze nuragiche, porta a confermare l’esistenza di un unico Re nelle due isole avendo esse monumenti identici e una comune storia vissuta. A questo punto la mitica Tarsos del re Argantonio, potrebbe essere la stessa Tharros, non solo per l’identico nome TRSS, ma anche perché essa è congeniale all’archeologia fornendo prove concrete. In Spagna l'archeologia deve ancora testimoniare i legami tra Fenici e il regno del re Argantonio, a partire da epoche sufficientemente remote come raccontato dagli antichi autori e dalla Bibbia stessa. La prova tangibile più antica e concreta dell'esistenza storica di Tartesso in Sardegna, è la Stele di Nora. Si tratta della famosa iscrizione in caratteri fenici, oggetto di studi da parte di moltissimi esperti, i quali hanno fornito diverse traduzioni anche molto discordanti fra loro, indice questo di grosse difficoltà interpretative.
La prima riga per la maggior parte degli studiosi dovrebbe leggersi:
b - TRShSh = in T(a)rsh(i)sh, ovvero “in Tarsos”.
Questa scritta scolpita nella pietra, rappresenta la prima prova che la Sardegna ha avuto la sua Tartesso, probabilmente l'unica mai esistita.
Esistono altre due iscrizioni in Sardegna ove compare il nome di Tarsos: il frammento ceramico detto Coccio di Orani ritrovato nel centro-nord dell’isola e l’Altare di Zeddiani, dove anche in essi si legge b-TRShSh “in Tarshish”. Secondo le descrizioni la mitica Tarsos era di fronte alla foce del fiume che portava il suo stesso nome. Nell'ambito del golfo di Oristano, di fronte all’antica Tharros, esiste il fiume più importante dell'isola il cui nome è proprio Tirso, il cui etimo riporta alla Tharros- Tarsos.
Tutte le fonti antiche parlano di uno stretto legame fra Tartesso e l’argento. La Sardegna era famosa per le sue ricche vene d'argento, la Spagna invece più dell’argento poteva vantare giacimenti di stagno e oro. La corretta definizione di quel fiume Tarsos degli antichi, che trasportava ora l'uno ora l'altro metallo prezioso fin dentro le mura della città portuale, sembra indicare Tharros come la mitica città perduta, posta frontalmente alla foce del fiume Tirso ricco di miniere d’argento lungo il suo corso.
Tharros con le sue possenti mura ciclopiche la cui dimensione dei massi è fuori dal comune, assieme agli edifici costituiti di grandi ambienti circolari disposti su un vasta area urbana, conferma archeologicamente la sua esistenza gia dal II millennio a.C., in piena epoca nuragica. Risalenti all’ottavo e quinto secolo prima di Cristo, sono pure i numerosi rinvenimenti archeologici tharrensi che documentano lo stretto rapporto che la città intratteneva con l’Oriente Mediterraneo. Qui sono numerosi i monili e le statuette rinvenute in argento, bronzo, oro, pietra e terracotta, riportanti divinità femminili, assieme ad icone egizie quali Iside e Osiride, che dimostrano l’assidua attività commerciale di Tharros nell’antichità.
Tharros dunque con la sua esistenza fisica, porta a rivedere l’interpretazione degli storici sulla collocazione della antica Tartesso, capitale del grande impero amministrato da re Argantonio e allo stesso tempo consente con la sua storia, di avanzare nuove ipotesi sulla collocazione di Atlantide descritta da Platone.
dal libro di Danilo Scintu
Fin dalla preistoria europea si narra di popoli che hanno vissuto nella leggenda, e di altri popoli che li hanno tramandati sino a noi diventando anch’essi leggendari. Quella europea fu una civiltà imperitura, forgiata in un passato ben organizzato già durante il Paleolitico, che dipinse in tutta Europa le grotte facendone importanti santuari. Proprio qui a cominciare da 8 mila anni fa si costruì un patrimonio edilizio megalitico del tutto eccezionale a partire proprio dai pressi delle grotte per espandersi in tutte le contrade. Al popolo mitico delle origini, vennero associati caratteri unici, magici e fiabeschi, riportanti ad un mondo di fate e streghe, di draghi, elfi e dee. Fu una civiltà unica e fiorente quella europea che adottò il Megalitismo, cioè l’uso di gigantesche pietre per la costruzione dei loro edifici, assieme al culto della Dea Madre ed una moltitudine di altri simboli ricorrenti tra cui la protome taurina, il serpente e gli occhi della Dea civetta. Fu con l'arrivo di popolazioni orientali dal culto androcentrico che nel secondo millennio a.C. la religione della Dea venne assorbita e manipolata finendo per perdere il suo carattere più peculiare. Nell'Europa Atlantica, con la costruzione di Stonehenge termina il grande periodo del megalitismo ove l'arte legata alla Dea lentamente si dissolve in tutta l'Europa settentrionale sino alle propaggini estreme della Penisola Iberica. Solo nelle isole del Mediterraneo Occidentale, nell'arcipelago formato da Sardegna, Corsica e Baleari proseguì la sperimentazione e lo sviluppo dell'arte della Dea. Questo popolo è ricordato nei testi greci del 5 secolo a.C. per le sue opere stupefacenti. La particolare rilevanza costruttiva della Sardegna tra il Neolitico e l’Età del Bronzo ne è un esempio lampante. In quest'isola di soli 24.000 km quadrati, durante il Neolitico, furono scavate oltre 3500 tombe ipogee dette Domus de Janas, si costruirono al cielo grandi piramidi in pietra come Monte d'Akkoddi, assieme a gigantesche muraglie e centinaia di Dolmen. Durante l'epoca del Bronzo, quando altrove in Europa non si costruiva più, vennero eretti circa 10 mila grandi complessi turriti, i nuraghi, che hanno vinto le insidie del tempo assieme a un migliaio di templi a pozzo, un numero simile di tombe dei giganti e un altrettanto enorme patrimonio costituito dagli edifici civili, ville ed edifici termali.
I resti dei centri urbani nuragici ci raccontano di quegli uomini antichi, i loro muri narrano non solo della perizia tecnica ma anche dell’organizzazione degli ambienti abitati, la loro distribuzione documenta un’imponente urbanizzazione quasi a definire parti sterminate del territorio isolano come un “villaggio continuo”. Tradotta in termini di “livello di civiltà” quella nuragica possiamo definirla “civiltà urbana”, un esempio ne è la penisola del Sinis densamente popolata sin dal Neolitico. Nella penisola del Sinis coevi alla città di Tharros sono anche 118 nuraghi e i resti di sterminati villaggi sulle creste basaltiche dei colli, tra gli spietramenti agricoli si rinvennero centinaia di modelli di navi e statuette in bronzo assieme alle grandi statue in pietra denominate Giganti di Mont’e Prama, raffiguranti in nere guerrieri - arcieri, opliti, soldati della fanteria - dotati di elmo “cornuto”.
Lo stesso termine Sinis, dal significato etimologico nuragico e semitico, alla Dea Sin la Dea lunare e potrebbe spiegarci la sacralità e il dispendio di una tale edificazione tra mare e stagni salati a partire da epoche remote. Sulle propaggini meridionali del Sinis è la città di Tharros, abitata da tempi immemori sino al Medioevo quando capitale del Giudicato di Arborea venne abbandonata per costruire Oristano in una zona più difendibile dai pirati saraceni.
Malgrado la città sia stata abitata sino al 1076 d.C. l’abitato megalitico di Tharros inspiegabilmente è riemerso intatto durante gli scavi archeologici sulla collina di su Muru Mannu, in origine l’acropoli della città. Qui numerosi ambienti circolari, affacciati su un cortile centrale e un grande tempio anch’esso circolare sono racchiusi da imponenti mura di cinta, il tutto realizzato con massi enormi di pietra. Di epoca nuragica a perdurare nel tempo sino a noi è anche la rocca di Tharros, il promontorio ove oggi sorge la torre di S. Giovanni le cui fondamenta poggiano di misura su una struttura circolare preesistente in massi ciclopici posata su una piattaforma megalitica triangolare.
Seguendo il percorso storico fornito dai dati archeologici, essi portano a confermare la grande importanza assunta da Tharros nei millenni, una potente città del Mediterraneo Occidentale, alla foce del fiume Tirso, sulla costa del Mare Sardo, esattamente di fronte le Baleari. Era da Tharros che già dal Neolitico partivano alla volta delle coste spagnole, francesi e italiche, prodotti quali l’ossidiana, la botarga o il pesce salato come le sardine che della Sardegna mutuano addirittura il nome. Durante l’epoca nuragica la ricchezza mineraria della Sardegna forniva a Tharros, il bronzo e l’argento che commerciava con le corti di Micene e di mezzo Oriente, addobbando le tombe reali d’Egitto.
Il suo entroterra costituito dalla piana fertilissima dell’Arborea alla foce Tirso, produceva in abbondanza ogni prodotto capace di soddisfare tutte le necessità del popolo. Quella di Tharros fu una ricchezza senza pari per il mondo di allora, capace di realizzare possenti mura di cinta, templi ed edifici di grande monumentalità dal gusto megalitico come i nuraghi.
Le mura di megalitiche di Tharros.
La città di Tharros sorge su una rocciosa isola a picco sul mare oggi unita alla terraferma da una lingua di sabbia eolica che trasforma l’isola in una penisola. Prospiciente lo stretto canale che la divideva dalla terraferma, si erge la monumentale cinta muraria in ciclopici massi di basalto, trachite e arenaria che ancora oggi racchiudono la città fortificata. Il sistema di fortificazioni tharrense ha uno sviluppo di circa 1750 metri racchiudente un area di oltre 115 mila mq, imperniato su due punti focali: l’acropoli di su Muru Mannu a nord e la rocca di San Giovanni a sud.
Dagli scavi di Tharros effettuati sulle mura settentrionali di su Muru Mannu, è emerso un imponente sistema di fortificazioni, secondo una concezione di difesa multipla attestata successivamente anche nelle città puniche come Cartagine. La profondità del sistema di fortificazione a settentrione era di circa 230 metri, è presumibile che tale triplice sistema difensivo fosse impiegato solo nei pressi di Su Muru Mannu, la zona posta a baluardo della strada che conduceva a Tharros e che la collegava con il resto dell'isola.
Dunque a Tharros la prima linea di difesa era costituita dal canale artificiale che dal mare aperto conduceva all'arsenale di Mistras e alla zona portuale, affiancato da un muro in grossi blocchi poliedrici di basalto e trachite rossa osservabile ancora per circa 50 metri in senso est-ovest. La seconda linea in blocchi di arenaria è costituita da due muraglie parallele e un fossato situata a sud ad una novantina di metri dalla prima e si estende sempre da est ad ovest con una lunghezza di circa 267 metri.
I venti prevalenti di maestrale hanno addossato sulle mura una catena di dune di sabbia, presso l’attuale strada queste dune descrivono una larga rientranza semicircolare: quel luogo corrisponderebbe all’accesso di una porta ancora coperta dalla sabbia eolica.
La terza linea ubicata a 140 metri più a sud dalla centrale, è anch’essa in enormi massi poliedrici ed è quella meglio visibile oggi, perché interessata dagli scavi archeologici degli edifici nuragici e del Tofet fenicio, Su Muru Mannu. L’andamento di quest’ultima linea difensiva, è anch’esso in senso est-ovest visibile per 88 metri, descrive un’ampia rientranza verso sud-ovest e verso sud-est in modo da raccordarsi alle fortificazioni che chiudono l'acropoli e il resto della città. Questa terza linea che circonda l’acropoli per 2/3 ove sono le capanne nuragiche ed una torre megalitica, è articolata da un terrapieno, un fossato e una cortina muraria sempre in grandi massi ciclopici. Il terrapieno costituisce parte dell’acropoli, ha 10 metri di spessore ed è dotato di un muro di controscarpa in ciclopici massi poliedrici di basalto e arenaria. Il fossato largo sei metri, alla base è collegato al terrapieno tramite due postierle, due porte di un metro di luce che consentivano l’accesso alle fortificazioni nei settori est e ovest della linea difensiva. Le postierle, realizzate con grandi blocchi isodomi di arenaria, si innestano alla muratura poliedrica in modo mirabile, esse si evidenziano sul muro ciclopico con la bicromia ottenuta dal nero basalto con il giallo e l’isodomia dell’arenaria. La medesima rifinitura artistica la ritroviamo sul paramento esterno della cortina parallela al terrapieno. Essa ancora oggi svetta per oltre 5 metri d’altezza ed ha uno spessore di circa 3 metri, il suo muro è realizzato con conci poliedrici di basalto e filari con grandi blocchi squadrati di arenaria, producendo sul paramento ancora gli effetti della bicromia del bianco e del nero tanto cara al popolo sardana.
Il muro ciclopico di evidente matrice megalitica e nuragica, è stato invece datato dallo scavatore al principio del V secolo a.C. in epoca punica, benché nessuna città fenicia o cartaginese abbia mai impiegato la tecnica poliedrica e la bicromia. La dimensione dei massi e la tessitura del muro con la bicromia degli edifici nuragici adagiati sul terrapieno, mostrano come tali opere siano da riferire solo al nuragico, una decina di secoli prima. Come sappiamo, datare con certezza un muro di pietre è praticamente impossibile se non si trovano al suo interno reperti fittili; solo l’architettura con la conoscenza degli stili artistici del tempo può sopperire a tale scopo. La dimensione dei massi, la morfologia poliedrica e la loro posa in opera, riportano ad un quadro cronologico molto più antico del periodo cartaginese, ovvero alla stessa epoca dei nuraghi.
L’acropoli di Tharros
Il grande fascino emotivo dell’acropoli di Tharros nei pressi di Su Muru Mannu, è forse dovuto ad una serie di ambienti di epoca nuragica di forma circolare e quadrangolare, disposti attorno ad un grande edifico megalitico. Essi sono gli unici resti rimasti di Tharros risalenti al XIII secolo a.C., epoca dell’abbandono della città che da quanto raccontano le leggende tramandate dagli anziani venne distrutta a causa di un maremoto. Fu questa tragedia climatica che interessò l'intera isola una delle ragioni che spinsero i Sardana ad invadere l'Oriente e l'Egitto nella coalizione dei Popoli del Mare.
I Fenici, probabilmente gli stessi Sardi di rientro dalle guerre di invasione all’Oriente, fecero dell’acropoli di Tharros il loro Tofet, secondo la Bibbia il luogo sacro più importante della città. L’area del Tofet di Tharros comprende circa 1000 metri quadri, al momento della posa delle urne gli ambienti nuragici erano già stati abbandonati. I Fenici del costruito nuragico sull’acropoli ne fecero il principale luogo sacro della città: accostarono ai preesistenti nuovi edifici, ma non si sovrapposero mai alle mura arcaiche come a voler rispettare l’antico luogo sacro, forse l’ancestrale dimora dei re di Tharros.
Il complesso di edifici nuragici dell'acropoli, era imperniato su una torre posta a nord-est, all’interno del risvolto del fossato. La torre, alla base, è costruita con massi imponenti di 15-20 tonnellate ciascuno, posati su fondazioni costituite di pietrame più minuto. Nello spazio alle spalle della torre, gli ambienti circolari abitati hanno in genere un diametro interno di 4-8 metri, costruiti con blocchi commisti di basalto e arenaria. Dallo spessore dei muri, si deduce che alcuni edifici erano voltati a cupola, mentre altri per la loro sottigliezza avevano un tetto stramineo in legno. La presenza presso i ruderi di conci isodomi di arenaria assieme a quelli poliedrici di basalto, mostra come anche questi ambienti fossero eretti e decorati con la bicromia delle pareti, un atto costruttivo che in quell’epoca era sinonimo di sacralità e di importanza del luogo. Decorare con la bicromia dunque significava andare ben oltre la semplice e umile dimora e - come dimostrato in Sardegna - questo decoro è riscontrato presso edifici sacri quali i nuraghi e i templi a pozzo.
All’interno dell’acropoli di Tharros, un imponente edificio circolare di epoca nuragica è costruito con massi ciclopici di basalto e arenaria; esso è al centro dell’area sacra proprio ove i Fenici deposero le loro urne nel tofet cittadino. L’edificio, in pianta è costituito da un grande ambiente circolare al centro, il cui diametro interno è di 33.20 metri (40 braccia megalitiche), gli ambienti disposti a raggiera intorno ad esso, sono racchiusi da poderosi muri concentrici, portando il diametro esterno totale del grande edificio a 44 metri, esattamente 53 braccia megalitiche.
Gli archeologi non sanno definire cosa possa essere stato un edificio di tali dimensioni sull’acropoli, nei pressi sono stati ritrovati solo dei crani di toro, perciò è considerato un macellum di epoca romana, anche se è risaputo che il toro e le protome taurine sono un inconfondibile segnale della sacralità della Grande Dea. L’edificio racchiude una vasta area di circa 1600 metri quadrati, ove solo il grande vano centrale è di 850 metri quadrati. Poteva essere un ambiente coperto o a cielo aperto, mentre gli ambienti intorno erano certamente coperti da un tetto ligneo. A mio parere, vista la posizione privilegiata al centro dell’acropoli è possibile che questo imponente edificio sia stato il tempio principale della città.
Tharros nel Mito.
Nella mitologia locale gli anziani (a partire da mio padre che mi giurò lo apprese da suo padre e lui dal suo, e così via nei millenni), narrano di una ancestrale tragica distruzione della città di Tharros a causa di un fortissimo maremoto. La collocazione di tale evento si perde nella notte dei tempi probabilmente 200 anni prima di quando i fenici sull'acropoli fecero del costruito nuragico il luogo di maggiore sacralità, il tofet. Una tragedia del genere può essersi verificata qualora forti raffiche di vento avessero soffiato per giorni sino a sollevare un moto ondoso eccezionale capace di distruggere la città. Si potrebbe anche supporre che tale evento sia stato determinato da movimenti tellurici. Ad ogni modo Tharros con le sue grandi e megalitiche mura nuragiche assieme all'acropoli e al suo tempio sono prova archeologica di una città prefenicia realmente esistita. I fenici grandi navigatori del I millennio a.C. nel tempo ricostruirono il florido emporio che Tharros deteneva già da millenni essendo un porto sicuro approdabile in ogni condizione di vento. Dai ritrovamenti archeologici notiamo un porto sempre a contatto con l'Oriente e con l'Egitto prova ne sono le statuette in argento e bronzo riportanti la Dea Hathor con in grembo Osiride, assieme a migliaia di scarabei statue e stele.
In quello stesso periodo, a cavallo della fine del 1300 e il primi anni del 1200 a.C., la distruzione di una città e della sua isola è documentato numerose volte nelle stele commemorative egiziane, quando i sardana coalizzati con altre genti del mare invasero l'Egitto e parte dell'Oriente. I geroglifici di Medinet Habu ad esempio raccontano una catastrofe che avrebbe messo in ginocchio alcuni dei popoli invasori appartenenti ai Popoli del Mare: “gli stranieri venuti dal nord vedono le loro terre scuotersi, il loro paese è distrutto le loro anime in angoscia. I popoli del settentrione complottarono nelle loro isole ma nello stesso tempo la tempesta inghiottiva il loro paese, la loro capitale distrutta, annientata”.
Gli stessi toni catastrofici li leggiamo anche nella Bibbia, quando Isaia ed Ezechiele narrano della punizione di Dio su una Tiro delle isole collocata in mezzo al mare. Secondo Max L. Wagner (1967), glottologo e studioso della lingua sarda, l’etimo di Tharros è da collegarsi a Tiro, entrambe significano “rocca” “promontorio roccioso”; in accadico Suru o Tzuru, in fenicio Sr o Tzur, in greco Turos, in latino Tyrus o Sarra. Dunque una Tiro che ritroviamo non solo sulla costa del Libano, ma anche ad Occidente sulla costa occidentale della Sardegna.
Leggendo gli scritti sui miti e le leggende riguardanti i Fenici su Tiro e sua madre - figlia Tarsos, si resta colpiti dai numerosi dubbi interpretativi lasciati.
Di Tarsos o Tartesso se ne parla sopratutto nella Bibbia e nei testi degli autori greci e romani, ma per quanto queste località siano ben descritte oltre le Colonne d’Ercole, nella realtà in territorio iberico non sono mai state trovate prove archeologiche né tanto meno vi sono toponimi o altri segnali del suo nome, insomma niente che riporti alla Tartesso biblica.
A mio parere le uniche prove archeologiche sull’esistenza di Tartesso sono solo in Sardegna, tutte prove tangibili, con resti archeologici di rilievo tra cui la città di Tharros e numerosi toponimi assieme a tre antichissimi reperti scritti di grande valore.
Sallustio e Pausania, due commentatori dell’antichità, ci hanno raccontato come il condottiero iberico Norace avrebbe fondato la città di Nora dandole il proprio nome. Più tardi Solino completa la notizia dichiarando Tarsos madrepatria di Norace. Interpretare la validità di questo passo è difficile in quanto nel termine Norace vi è la più antica attestazione del nome dell'edificio sinonimo di Sardegna, il nuraghe.
Secondo Pausania: “Tartesso è quella località dell'Occidente che non deve niente all'azione civilizzatrice ellenica; è una isola ricca e felice che fa quasi ombra alla grandezza ellenica tanto che il mitico re Argantonio di Tarsos si è permesso il lusso di finanziare la ristrutturazione delle mura della città di Focea e di offrire nuova terra per concedere una nuova patria ai Focei in fuga”.
Pausania riprendendo il racconto di Erodoto sulle esplorazioni Focee in occidente, parla di Argantonio, re di Tarsos, quando per amicizia aiutò i Focei a ricostruire le mura della loro città in Grecia, al fine di resistere agli assedi dei Persiani. Successivamente dopo la loro fuga dalla Grecia, offrì loro asilo nelle terre del regno facendo erigere la città di Alaia in Corsica.
L’affinità culturale di Sardegna e Corsica entrambe con presenze nuragiche, porta a confermare l’esistenza di un unico Re nelle due isole avendo esse monumenti identici e una comune storia vissuta. A questo punto la mitica Tarsos del re Argantonio, potrebbe essere la stessa Tharros, non solo per l’identico nome TRSS, ma anche perché essa è congeniale all’archeologia fornendo prove concrete. In Spagna l'archeologia deve ancora testimoniare i legami tra Fenici e il regno del re Argantonio, a partire da epoche sufficientemente remote come raccontato dagli antichi autori e dalla Bibbia stessa. La prova tangibile più antica e concreta dell'esistenza storica di Tartesso in Sardegna, è la Stele di Nora. Si tratta della famosa iscrizione in caratteri fenici, oggetto di studi da parte di moltissimi esperti, i quali hanno fornito diverse traduzioni anche molto discordanti fra loro, indice questo di grosse difficoltà interpretative.
La prima riga per la maggior parte degli studiosi dovrebbe leggersi:
b - TRShSh = in T(a)rsh(i)sh, ovvero “in Tarsos”.
Questa scritta scolpita nella pietra, rappresenta la prima prova che la Sardegna ha avuto la sua Tartesso, probabilmente l'unica mai esistita.
Esistono altre due iscrizioni in Sardegna ove compare il nome di Tarsos: il frammento ceramico detto Coccio di Orani ritrovato nel centro-nord dell’isola e l’Altare di Zeddiani, dove anche in essi si legge b-TRShSh “in Tarshish”. Secondo le descrizioni la mitica Tarsos era di fronte alla foce del fiume che portava il suo stesso nome. Nell'ambito del golfo di Oristano, di fronte all’antica Tharros, esiste il fiume più importante dell'isola il cui nome è proprio Tirso, il cui etimo riporta alla Tharros- Tarsos.
Tutte le fonti antiche parlano di uno stretto legame fra Tartesso e l’argento. La Sardegna era famosa per le sue ricche vene d'argento, la Spagna invece più dell’argento poteva vantare giacimenti di stagno e oro. La corretta definizione di quel fiume Tarsos degli antichi, che trasportava ora l'uno ora l'altro metallo prezioso fin dentro le mura della città portuale, sembra indicare Tharros come la mitica città perduta, posta frontalmente alla foce del fiume Tirso ricco di miniere d’argento lungo il suo corso.
Tharros con le sue possenti mura ciclopiche la cui dimensione dei massi è fuori dal comune, assieme agli edifici costituiti di grandi ambienti circolari disposti su un vasta area urbana, conferma archeologicamente la sua esistenza gia dal II millennio a.C., in piena epoca nuragica. Risalenti all’ottavo e quinto secolo prima di Cristo, sono pure i numerosi rinvenimenti archeologici tharrensi che documentano lo stretto rapporto che la città intratteneva con l’Oriente Mediterraneo. Qui sono numerosi i monili e le statuette rinvenute in argento, bronzo, oro, pietra e terracotta, riportanti divinità femminili, assieme ad icone egizie quali Iside e Osiride, che dimostrano l’assidua attività commerciale di Tharros nell’antichità.
Tharros dunque con la sua esistenza fisica, porta a rivedere l’interpretazione degli storici sulla collocazione della antica Tartesso, capitale del grande impero amministrato da re Argantonio e allo stesso tempo consente con la sua storia, di avanzare nuove ipotesi sulla collocazione di Atlantide descritta da Platone.
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