venerdì 27 aprile 2012
Archeologia. Storia di Olbia, di Durdica Bacciu. (2° parte di 3)
Storia di Olbia
di Durdica Bacciu
Dopo la prima parte della tesi di laurea della D.ssa Bacciu pubblicata ieri, oggi proponiamo la 2° parte dedicata alle terme e all'Acropoli.
CAPITOLO III
Le Terme
I resti delle terme meglio conosciute di Olbia, si trovano in pieno centro storico, in un area compresa tra Via delle Terme, appunto, (a N-E ), Corso Umberto I (a S ) e Via S. Croce (a W), ed interessano una superficie di circa mq 160071. I primi rinvenimenti effettuati in quest’ area, sono della seconda metà del 1800 e vengono riportati negli scritti del Tamponi e riferitici dal Panedda in ordine cronologico mentre l’ultimo risale al 1991 riferitoci dal D’Oriano.
1) Nel 1864, dove oggi è ubicata la Biblioteca Simpliciana, furono ritrovate due piscine e un deposito di centinaia di bipedales con bollo delle officine vicciane di Rutilia (importante gens romana), lo stesso bollo che è stato ritrovato nei bipedales che sostenevano il pavimento del calidarium.
2) Nel 1880, nel cortile dietro la Biblioteca, furono ritrovati altri bipedales.
3) Nel 1881, sempre nello stesso cortile, oltre ai resti del calidarium, vennero scoperti: un tratto murari appartenente probabilmente al lato orientale delle terme, un pozzo ed una piscina con dei ruderi non ben identificati.
4) Nel 1882, nel tratto all’angolo tra Via S. Croce e V. delle Terme, fu scoperta una vasca rettangolare.
5) Nel 1896, nel lato S-W dell’area, furono rimesse in luce una serie di vasche (6) collegate con una centrale di grosse dimensioni attraverso dei canali e un tratto di selciato stradale .
6) Nel 1991, nel cortile della Biblioteca, ci fu il rinvenimento di strutture legate ad ambienti di servizio degli impianti termali. A tale proposito ricordo che già Panedda segnalava la presenza di due vasche in questa zona.
Gli studi lasciatici dal Panedda in base ai ritrovamenti effettuati nell’800 e all’esame attento dei ruderi dell’impianto termale ancora visibili all’epoca in cui egli scrive, sono fino ad ora fonte molto più che attendibile in quanto negli ultimi scavi non sono stati rinvenuti ulteriori resti collegabili alle terme. A tale proposito si può osservare che nell’area in cui il Panedda racchiude le terme, precisamente in Via delle Terme e Via Porto romano sono stati fatti recentemente degli scavi, ma non hanno riportato alla luce nessun elemento rapportabile alle terme, ma resti di abitazioni di cui una col pavimento in terra battuta e l’altra con pavimento che presentava sporadiche tessere di mosaico. Nonostante la mancanza di una visione coordinata dei ruderi suddetti, rinvenuti sempre in seguito a scavi occasionali, il Panedda, in base anche ad un attento studio topografico, evidenzia che in gran parte del lato Nord si trovavano i bagni al coperto mentre a Sud-ovest erano situati i bagni allo scoperto. Inoltre, ci fornisce importanti testimonianze sulle tecniche utilizzate per portare l’acqua alle terme e per drenarla verso il mare, segnalando due tipi di condutture ancora visibili alla sua epoca.
La prima conduttura, atta a trasportare l’acqua alle terme, aveva un tracciato pari a m 6, a sezione ogivale, muri in blocchi di granito legati con calce, una copertura con due spioventi di lastroni di granito, lo specus era rivestito in finissimo granigliato con il pavimento in opus signinum, con una luce di m 1,50 e un’altezza pari a m 3,60 al vertice della volta. Questo specus costituirebbe l’ultimo tratto di acquedotto in connessione con le terme, ma il Panedda, non avendo prove a sufficienza, afferma di non poter dire in quale tratto avvenga tale connessione. E’ probabile anche che questa condotta non servisse esclusivamente alle terme, ma che potesse distribuire l’acqua ad altre opere pubbliche della zona: ipotesi del Panedda in base al ritrovamento, nel 1882, di ruderi con pavimento a mosaico sul quale sono stati rinvenuti un migliaio di gusci appartenenti a resti di ostriche.
La seconda conduttura serviva per il drenaggio delle acque verso il mare e presentava un doppio canale, rivestito con il classico granigliato rosso, il pavimento ricoperto in opus signinum e la volta ricoperta con ciottoli arrotondati legati con malta; la stessa tecnica si poteva notare all’interno delle vasche di decantazione di Sa Rughitta. La presenza di due canali fa supporre al Panedda che l‟acqua provenisse da due zone diverse dell’area interessata e che i due canali, perfettetamente allineati nel tratto finale, funzionassero come unico collettore di scarico per tutte le terme.
Altri ruderi meglio conservati al periodo del Panedda, riguardavano la zona dei bagni al coperto, situata a settentrione dell’area termale (lato adiacente a Via delle Terme). Questi ruderi erano attinenti soprattutto al calidarium che il Panedda ricostruisce come una sala rettangolare (m. 8,50 x 9,50), nei lati più lunghi della quale erano situate quattro esedre semicircolari (due per lato di diametro di m 4; il pavimento era costituito da uno spesso strato di opus signinum che poggiava su una distesa di bipedales, a loro volta sostenuti da pilastri di mattoni (suspensurae) e veniva riscaldato con un sistema di tubuli in terracotta, fissati con dei sostegni di ferro al muro perimetrale, distante dal pavimento cm 9 e la cui struttura presentava due tecniche edilizie diverse: l’opus incertum sul lato Ovest e l’opus listatum sul lato Sud. Le volte erano state realizzate con massicce colate a secco. Nonostante i ruderi non gli permettessero di avere un’idea precisa sull’intero complesso, il Panedda ne ipotizza una lunghezza di circa m 40, dove potevano essere situati il Calidarium, il Tepidarium e il Frigidarium. Sul lato sud (lungo il Corso Umberto I) il Panedda ha potuto prendere in esame i ruderi dell’area dei bagni allo scoperto: resti di una grande vasca ovale centrale (m. 12,50 x 2,80 x 2,75) collegata da canali per il deflusso delle acque a sei vasche minori. Tutto l’insieme del complesso all’aperto poteva occupare una superficie di mq 600. Nei pressi dell’area occupata dalle vasche sopradescritte (a Ovest) è stato rintracciato un piano stradale (m. 6,50 x m. 6,20) ricoperto da materiale proveniente dai resti di un cunicolo in mattoni, per il drenaggio. Nell’area occupata dalle terme sono state trovate altre quattro vasche, che potrebbero essere collegate al funzionamento delle terme: due nell’angolo sud-est (tra Corso Umberto e Via delle Terme); una di fronte al calidarium (cortile Mossa); una nell’angolo N-W (cortile Colonna ), tutte in genere con le stesse caratteristiche edilizie (rivestimento con finissimo intonaco e pavimento in opus signinum), tranne quella rinvenuta nel cortile Colonna, che si differenzia perché presenta una bordatura perimetrale realizzata con regolari pietre granitiche legate con calce.
Per quanto riguarda la datazione, il Panedda ritiene fondamentali i bolli dei bipedales delle Figline Vicciane rinvenute nel calidarium, come la tecnica dell’opus listatum utilizzata nello stesso calidarium ma anche in opere situate in diverse aree dell’ impero, in Sardegna e della penisola, opere queste databili tutte tra il I e il II d.C. In relazione a tale datazione, sembra opportuno evidenziare i ritrovamenti effettuati agli inizi degli anni novanta dal D’Oriano nell’area attualmente occupata dalla Biblioteca Comunale Simpliciana (fronte Corso Umberto I ), che hanno restituito frammenti ceramici di sigillata africana tipo “A” databile certamente al II d.C. La datazione delle terme viene presa in esame anche dal Sanciu, il quale in un accurato studio sugli scavi dell’acquedotto effettuati nel 2001, osserva che i bolli dei bipedales regenti il pavimento del calidarium sicuramente sono databili al I d.C. Anche il Panedda riferisce di due tecniche edilizie diverse nel calidarium e di due momenti differenti della sua pavimentazione, mentre nel 1991 D’Oriano rinviene in un ambiente di servizio delle terme materiale ceramico databile al II d.C. Pertanto il Sanciu afferma che ci sono stati almeno due periodi diversi di costruzione dell’impianto termale. Il primo è da attribuire all’età claudia o molto più probabilmente all’età neroniana e comunque prima che a Olbia soggiornasse Ate, la liberta amata da Nerone, che vi rimase forse tra il 63 e il 65 d.C. e qui avviò una fabbrica di laterizi, molto diffusi nelle costruzioni, anche in aree della Sardegna lontane da Olbia. Ma nell’area termale è stato rinvenuto, proveniente dalle officine di Ate, un unico mattone probabilmente reimpiegato in una fase di restauro del primo impianto termale ( mentre i bipedales erano stati utilizzati nella fase di costruzione del calidarium ).
L’approvvigionamento del primo impianto termale avveniva quasi certamente con l’uso di cisterne che raccoglievano le acque piovane, come anche con lo sfruttamento della falda freatica. Ma il Sanciu non esclude che un altro acquedotto rifornisse la città con le acque dei monti di Telti (tesi sostenuta dall’abate Angius). Il secondo periodo volto soprattutto al restauro e all’ampliamento o al rifacimento dell’impianto termale, è databile tra il tardo II e l’inizio del III d.C. periodo, corrispondente alla costruzione dell’acquedotto. Una scoperta particolare è stata effettuata nei primi anni del 2000 in Via Nanni (lungo il perimetro della scuola media E. Pais), dove è stato rinvenuto un secondo impianto termale del quale si ignorava l’esistenza, anche perché molte fonti precedenti si limitano a citare resti evidenziati in diversi scavi, ma non identificati. Nell’area compresa tra il marciapiede, posto lungo il perimetro della scuola E. Pais e la strada è stato messo in luce parte di un ambiente con IPOCAUSTO e l’adiacente PRAEFURNIUM.
L’ipocausto può essere considerato il CALIDARIUM del piccolo complesso scavato; bipedales a loro volta intervallati da muri paralleli costruiti sopra la roccia appositamente livellata. L’ambiente, che si è potuto esaminare solo in parte in quanto si estendeva al di sotto dell’edificio scolastico e quindi di difficile studio, avrebbe potuto avere una forma rettangolare, con i lati più lunghi
ad est in corrispondenza del praefurnium, e a Ovest in prossimità di un innalzamento roccioso. Il prefurnium, invece, presentava due aperture in una delle quali era visibile lo spiccato d’arco e un prolungamento murario verso l’interno oltre il quale stava un accesso di servizio per le manutenzioni dell’ipocausto.
Le strutture murarie del complesso erano in opus incerta con presenza di laterizi (opus nixtum ). Non è stato possibile ricostruire l’intera pianta dell’edifico, in quanto il settore di scavo era molto limitato e la datazione è stata impossibile per la scarsezza di elementi utili a questo scopo e per le eccessive intrusioni moderne nella stratigrafia. Molto probabilmente erano i resti dei ruderi che già il Panedda aveva segnalato ma che non era riuscito a identificare meglio, infatti parla di ritrovamenti di vasche, ambienti pavimentati sia in opus signinum sia con tasselli bianchi e neri, resti di colonne e pilastri. Ancora in questa zona, negli anni 1980-1988, sotto il manta stradale di Via Nanni, sempre vicino alla scuola E. Pais, sono stati scoperti resti di un edificio collocato, probabilmente una domus o un edificio termale, ipotesi avanzata per il ritrovamento di una tegola hamata datata alla prima età imperiale. A sostegno della ipostesi che i ruderi di cui si parla costituissero i resti di un secondo edificio termale, la Pietra afferma che questa tesi collocherebbe Olbia, diventata ormai un importante centro urbano, sullo stesso livello socio-economico degli altri grandi centri della Sardegna come Cagliari, Nora, Tharros, Neapolis e Porto Torres nei quali erano presenti 2 o tre impianti termali.
Considerazioni finali sulle terme
Da quanto su detto, possiamo affermare che Olbia aveva due impianti termali, uno era situato nel cuore antico della città, mentre l’altro era in prossimità del lato settentrionale della antica cinta muraria. Quello situato nel cuore della città occupava l‟area che oggi può essere racchiusa tra Via delle Terme, Corso Umberto e Via S. Croce ed era costituita da due complessi: i bagni al coperto e i bagni allo scoperto.
I primi, erano costituiti dal Calidarium, dal Tepidarium e dal Frigidarium, dei quali non erano rimaste tracce già all’epoca del Panedda. I secondi erano costituiti da una vasca centrale molto grande collegata ad altre sei più piccole con canalette per il drenaggio (descritte dal Tamponi e riportate dal Panedda). L’impianto termale veniva alimentato attraverso l’acquedotto e disponeva di due condutture, uno a Nord (verso Via delle Terme ) per l’entrata delle acque e uno a Sud (verso Corso Umberto) per il drenaggio delle acque verso il mare. Inoltre, nell’area interessata dalle Terme, si sono rinvenute quattro vasche (di cui i resti non sono attualmente visibili) per la raccolta delle acque piovane e lo sfruttamento della falda freatica per alimentare le Terme, sempre che non esistesse un primo acquedotto che prendeva l’acqua dai monti di Telti, del quale però non si sono trovate tracce. Per quanto riguarda la datazione, essa si basa principalmente su tre elementi: il primo riguarda i bolli dei bipedales ritrovati nel calidarium, marchiati dalle officine romane di Rutilia esattamente le Figline Vicciane; il secondo riguarda le tecniche edilizie dei muri perimetrali e le due fasi molto differenti nella pavimentazione del calidarium; il terzo si basa sui materiali rinvenuti all’interno dello scavo effettuato nel 1991 dove furono rinvenuti frammenti ceramici di sigillata africana tipo “A”. Prendendo in esame questi elementi di datazione, possiamo dire che la prima fase delle terme può essere ricondotta all’età claudia o probabilmente agli inizi di quella neroniana I e II d.C. La seconda fase di queste terme corrisponde al periodo in cui sono state edificate, ampliate o restaurate numerose opere pubbliche in Sardegna, spesso caratterizzate dal opus vittatum mixtum ( Nora, Porto Torre, Tharros, Neapolis e Fordongianus), ci riporta tra il II e il III d.C., periodo nel quale fu costruito anche l’acquedotto. Il secondo complesso termale invece, è stato scoperto durante uno scavo effettuato per lavori pubblici in Via Nanni, di fronte alle scuole medie E. Pais. Furono rinvenute due vasche, un ipocausto e un prefornium, ma per la mancanza di materiale e la difficoltà nella lettura stratigrafica, nella quale risultavano numerosi intrusioni di epoca moderna, non è stato possibile disporre di elementi validi per la datazione, ma nulla vieta ipotizzare che esso fosse collegato alle prime terme o che facesse parte di una domus.
CAPITOLO IV
Acropoli
L’acropoli di Olbia è ubicata su una piccola altura situata nel cuore del vecchio abitato punico e romano a m 13 s.l.m.; secondo gli studi di Rubens D’Oriano, qui si estendeva l’area sacra dedicata al dio Eracle-Melqart.
Durante la campagna di scavo effettuata nel 1939, in seguito ai lavori di ampliamento della chiesa di S. Paolo, vennero alla luce diverse strutture murarie ritenute dal Mingazzini strutture relative a un tempio del III-II a.C., in base alla tecnica costruttiva muraria e agli sporadici ritrovamenti di cultura materiale. La ricostruzione degli scavi effettuati in quest’area è stata effettuata dal D’Oriano in base ai testi e ai rilievi di Mingazzini, consentendo cosi una ricostruzione più che valida del contesto. D’Oriano ha ricostruito, secondo lo schema appresso riportato, come forse doveva apparire l’accesso monumentale al tempio dal versante orientale, in cima alla collina un altro edificio, anch’esso ritenuto di culto sacro punico, forse riguardante la fase iniziale della città.
Nel 1989, durante i lavori nel sagrato della chiesa è stata scoperta una struttura muraria di m 1.20 con adiacente lastricato stradale a gradini, molto simile a quella scoperta nel 1897 e quindi probabilmente la prosecuzione verso nord di quella messa in luce nel 1989, entrambe ritenute un tratto della recinzione del temenos.
Nel 1994 fu intrapresa una nuova campagna di scavo presso l’antica acropoli, esattamente nell’attuale piazza S. Croce, a sud della chiesa di S. Paolo. La costruzione della struttura ha comportato l’asportazione di diversi strati di terreno e probabili strutture preesistenti, sino a posizionare sulla roccia le fondamenta. Soltanto sotto la pavimentazione della cella si sono conservati strati di età repubblicana con diversi livelli di combustione, testimonianza probabile di un precedente culto. L’edificio è stato obliterato alla fine del III d.C. e in base ai materiali ritrovati (lucerne a volute, ceramica nera, forme iniziali della sigillata italica) può essere datato al I a.C. A ulteriore conferma di una frequentazione pre-punica del sito, (forse da mettere in relazione con i testi che sostengono la presenza a Olbia di Iolao ecista greco) è da rilevare che è stato rinvenuto un unico elemento di datazione arcaica, ossia una coppa ionica del tipo compreso tra B1 e B2. Questo rinvenimento conferma una frequentazione greca del sito.
Nel 2002, sono stati effettuati altri lavori all’interno del braccio destro del transetto della chiesa di S. Paolo, con il successivo rinvenimento di una cisterna punica a bagneruola, obliterata nel II d.C. dalla costruzione del pavimento, sopra il quale sono state rinvenute altre strutture di utilizzo successivo sempre di epoca romana. Questa non era l’unica cisterna presente nell’area, nel 1939 ne sono state individuate altre due, una descritta dal Mingazzini (illustrata dal Panedda) e l’altra descritta dal De Rosas senza però elementi utili per la sua ubicazione nel contesto. Nel 1989 ne è stata individuata una terza sotto la scala di un ingresso laterale alla chiesa di San Paolo.
Nel 2005, in seguito ai lavori effettuati nell’area a nord della chiesa, sono state messe in luce strutture appartenenti alla delimitazione del temenos e databili tra il I e l’inizio del II d.C. in base ai frammenti di sigillata tardo italica e sigillata africana “A” trovati nelle fondazioni. Inoltre, in uno spazio limitato, è stato possibile rintracciare parte di strutture di un edificio preesistenze probabilmente di un tempio “C”.
L’edificio può essere datato intorno al I a.C. in base ai materiali ritrovati, come i frammenti di ceramica a vernice nera, un fondo decorato a palmette e un frammento di anfora punica. I rinvenimenti hanno dimostrato una frequentazione vasta del sito come area sacra, presumibilmente dal periodo greco, a cui è seguito un complesso monumentale riscoperto nel 1939 dal Mingazzini (tempio A) ritenuto di epoca punica, risalente alla fase iniziale della vita della città. Durante il periodo romano sono stati realizzati due templi (tempio B e C) nel I a.C. e un muro di delimitazione dell’area sacra (temenos) tra il I e il II d.C.
Il dio Melqart-Ercole
Nelle relazioni del Mingazzini del 1939, viene nominato un “frammento di maschera di creta gialla cotta rinvenuta vicino alle fondamenta dei ruderi”, descritto dal De Rosas come una raffigurazione di Giove libico, ma l’unico elemento che ci rimane di questo reperto è uno schizzo eseguito da un pittore dell’epoca.
Il frammento viene definito come un ex-voto già dal Mingazzini: “la terra cotta votiva”, “frammento di maschera votiva (che rappresenta Ercole riconoscibile dai denti di leone sopra la fronte e dalla criniera della fiera dietro l’orecchio destro)”. Durante le prospezioni subacquee effettuate nel Golfo di Olbia (Isola Bocca) nel 1990, sul fondale marino sono stati rinvenuti frammenti di anfore puniche e ceramica campana del II a.C., oggetti in terracotta, due dita di una mano, una testa femminile (cm 25 di altezza) di importante fattura e un’ulteriore testa maschile (grandezza naturale) raffigurante il giovane Ercole con la barba e con la testa ricoperta dalla pelle del leone di Nemea. Olbia (Isola Bocca).
Quest’ultimo reperto appariva realizzato con due diversi stampi, uno per il viso di Eracle e per la leontè e l’altro per la parte posteriore con la criniera leonina. I punti di congiunzione del manufatto non erano visibili perché ben nascosti dai riccioli della criniera; invece nella parte posteriore appariva un foro per l’aerazione durante la cottura, probabilmente perché questo lato della statua era destinato ad essere invisibile. Se si considerano le tecniche artigianali caratterizzate dall’utilizzo di argilla ricca di inclusi di granito, materiale tipico della produzione di Olbia e dintorni si può ipotizzare che la statua sia stata prodotta nelle officine di Olbia o in quelle limitrofe. Appartenente alla stessa produzione apparivano anche le anfore ritrovate durante le stesse operazioni subacquee, a dimostrazione che i reperti appartenevano al carico di una nave diretta da Olbia verso qualche approdo della Sardegna che conservava ancora le tradizioni culturali e religiose di origine punica. E’ improbabile che il carico fosse diretto verso la penisola, dove la produzione di artigianato artistico era di gran lunga superiore. E’ arduo ipotizzare verso quale complesso di culto la statua fosse destinata ma, se diretta verso una località sarda dove perduravano le tradizioni religiose puniche, è verosimile che si trattasse di una statua raffigurante Melqart eroe viaggiatore fenicio divinizzato, protettore della navigazione e delle espansioni, assimilato fin dai tempi antichi ad Ercole. Melqart, rappresentato anch’esso con la leonté, si differenziava dall’eroe greco solo per una tunica stretta in vita da una cintura, ma essendo stata recuperata solo la testa della statua non è possibile stabilire a chi appartenesse. Realizzata ad Olbia nel II a.C. è da ritenersi tuttavia opera non prodotta da artigiani locali, ma da maestranze provenienti dalla penisola o dalla Sicilia; potrebbe essere stata commissionata dalla classe dirigente romana, a dimostrazione, ancora una volta, della permanenza dopo la conquista di Roma di tradizioni puniche. Un’ulteriore conferma, sulla identificazione della divinità protettrice di Olbia, si può avere tramite uno studio di D’Oriano e Pietra sul culto e sulle immagini di Ercole a Olbia impresse nelle Heraklesschalen e nelle Corinthian relief bowls, reperti ritrovati negli scavi d’urgenza effettuati nell’antico porto romano in seguito alla realizzazione del tunnel di connessione tra il lungomare e la viabilità extraurbana. Le tre coppe prese in esame dallo studio, presentano caratteristiche simili, tutte riportano una raffigurazione di Ercole stante che porta nella mano sinistra la leonté e la clava, e nella mano destra un vaso. Il bollo è circondato da una striatura a rotella, in una fascia bordata inferiormente e superiormente da solcatura, tranne la coppa n° 2 che ne è priva, e tutte presentano un disco di impilamento. La forte similitudine formale e tecnica dei tre corpi ceramici, fa supporre la provenienza da una stessa bottega romana e la diffusione sembra circoscritta all’Italia centrale tirrenica da Populonia a Paestum (da non escludersi altri centri di produzione) con una datazione nella seconda metà del III a.C.
I corpi ceramici delle Corinthian relif bowles presentano una ricca decorazione a rilievo, vengono prodotte a Corinto tra la metà del II e la fine del III d.C. e sono limitatamente diffuse in tutti i principali porti italiani. Durante lo scavo sopra descritto ne furono rinvenuti otto esemplari differenti suddivisi a loro volta in quattro gruppi di scene: fatiche di Ercole, scene di battaglia, scene rituali e scene di caccia. La decorazione riguardante Ercole è delimitata in basso da una fascia composta da un listello tra due scanalature ed è pertinente al gruppo delle 12 fatiche. Le scene vengono divise da elementi vegetali stilizzati e dall’arco e dalla faretra e consistono in: Eracle e Ippolita, Eracle che pulisce la stalla di Augias, Ercole e la cerva.
Considerazioni finali sull’Acropoli
In base agli scavi e ai rinvenimenti eseguiti dal 1897 sino al 2005, possiamo avere una stratificazione cronologica della frequentazione dell’antica Acropoli di Olbia, situata nel punto più alto della città.
In base ai frammenti ceramici ritrovati, una prima frequentazione è attestata a partire dall’età arcaica, per proseguire poi in quella punica, come è confermato dalla scoperta di strutture relative ad un edificio sacro, la cui datazione viene attribuita dal Mingazzini (1939) al III-II a.C. Tale edificio viene riconosciuto dal D’Oriano come ingresso monumentale dell’area sacra, dedicata probabilmente al dio ed eroe protettore delle città puniche: Melqart. Una successiva frequentazione è attestata a partire dal I a.C. , momento in cui i romani penetrano nell’isola, determinando un forte rinnovamento delle città sarde. E’ proprio in questo periodo infatti che vengono realizzati, nell’acropoli, il tempio B nel settore settentrionale e il tempio C nel settore meridionale e successivamente, tra il I e il II d.C., un muro perimetrale per chiudere l’area (temenos). Questi templi rimasero in uso dal I al III d.C., subendo una obliterazione nel corso del III-IV d.C. a cui seguì la costruzione di un altro muro perimetrale sopra il tempio C, riducendo cosi l’area sacra già punica. Inoltre durante il periodo romano, l’area sacra venne dedicata al dio romano Ercole, affiancato a quello punico Melqart, fatto confermato anche dai numerosi ritrovamenti su detti che raffigurano Ercole.
Tutti i diritti sono riservati e appartengono all'autore. (Durdica Bacciu)
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