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giovedì 26 aprile 2012

Archeologia: Olbia, di Durdica Bacciu

Storia di Olbia 1° parte di 3

di Durdica Bacciu




Ricevo e volentieri pubblico la tesi di laurea di Durdica Bacciu, olbiense. Sarà divisa in tre parti. Oggi parleremo dei primi due capitoli: Le mura antiche e l'acquedotto.




Cenni storici sul nome di Olbìa

Nessuna altra città, antica o non antica, ha cambiato il proprio nome quanto la “città felice”: Olbìa, Fausania, Civita, Terranova, Terranova Pausania sino ad arrivare al nome attuale. Olbìa è il suo nome più antico. Il poleonimo è greco: Olbìa (che viene trasformata in Olbia passando alla lingua latina). Nel lessico greco, Olbìa è il femminile dell’aggettivo “olbios” e significa felice, ricco, splendido. Questo riferimento si adatta alla perfezione con la posizione veramente "felice" di Olbia nella Sardegna, dato che è posta in un'ampia baia, ben difesa dai venti, adatta alla navigazione, alla pesca, all’estrazione del sale e dotata di un discreto retroterra agricolo.
Secondo una tradizione riferita da tre autori greci Diodoro, Strabone e Pausania, Olbia sarebbe stata fondata dai Greci; sul piano del poleonimo Olbìa della Sardegna trova riscontro in altre Olbìa fondate sempre dai Greci, tra le quali una nella Scizia, vicino a Odessa, e l'altra fondata dai Marsigliesi nella costa meridionale della Gallia (attuale Almanarre) riferitaci da Strabone.
In base a queste testimonianze e grazie a nuove scoperte e studi, possiamo affermare che al primo insediamento fenicio ne succedette uno più consistente di matrice greca. Della traslitterazione latina Olbia del greco Olbìa abbiamo notizie attraverso due fonti scritte: la prima è attestata da Valerio Massimo che descrive la battaglia del 259 a.C., nel corso della prima guerra punica, quando Roma inviò contro Olbìa e Aleria, una flotta comandata da Lucio Cornelio Scipione e la città fu presa. Durante il combattimento cadde Annone, comandate delle truppe cartaginesi, al quale L.C. Scipione rese importanti onoranze funebri. La seconda è attestata da Polibio, che descrive una battaglia navale tra Roma e Cartagine nelle acque di Olbìa, sempre nel corso delle guerre puniche. Il durissimo colpo inferto dai Vandali alla città romana verso il 450 d.C. e la conseguente fase di crisi nell’Alto Medioevo spiegano il mutare del nome in quello di Fausiana. Il risorgere di una più vitale area urbana in Età Giudicale trova riscontro in un ulteriore nuovo nome, Civita, e nel successivo Terranova, che resterà tale per svariati secoli durante i quali la città attraversò altre fasi di crisi, dovute anche a fattori quali le incursioni dei pirati saraceni, il prevalere della infezione malarica nell'intera zona e l'interramento più o meno totale dell'imboccatura della baia conseguente al deposito di detriti del fiume Padrongianus. Nell’800 a Terranova si aggiunse la denominazione Pausania, e solo nel 1939 si recuperò il nome classico di Olbia.

Le mura antiche


Oggi non è più possibile vedere l’intera cinta muraria di Olbia, ma gli studi del Tamponi (fine 800) e in seguito del Taramelli (primi del 900), hanno consentito al Panedda di ricostruire l’originario tracciato, precisato in seguito alle ricerche del D’Oriano e del Sanciu. Il tratto murario meglio conservato, è situato tra Via regina Elena e Via Mameli e precisamente in Via Torino. Lungo circa m 64 appartiene al settore occidentale delle mura ed è caratterizzato da un torrione, da una apertura e da una doppia cortina.
Il torrione ha una forma quadrangolare ed è stato costruito con blocchi di grosse dimensioni, ben levigati nella sola faccia a vista, e appena sbozzati all’interno. Tale torrione, corrisponderebbe a uno di quelli ricordati dal Panedda e denominato “Torre B”, ma già il Taramelli nel 1911, con il ritrovamento di un tratto murario pari a m 100, ne segnalava altre 4, descrivendo in maniera precisa la torre “A”, che presentava una suddivisione interna in due sezioni una delle quali a sua volta era suddivisa in tre comparti. Tra la torre “A” e la torre “B”, oggi ancora visibile, abbiamo un’apertura che corrispondeva ad una porta del tratto occidentale, larga m. 3,45 dove sono ancora visibili i basamenti degli stipiti. Oggi non sono rintracciabili tracce di fori per poter capire il sistema di chiusura. Dopo l’apertura riprende per m 28 l’andamento del tratto murario, largo m 6 e costituito da due paramenti, ottenendo così la doppia cortina, certamente più sicura come difesa dagli attacchi alla città nel versante occidentale. Durante gli scavi eseguiti nell’ultimo decennio del ‘900, a scopo di tutela dal degrado in cui versava il tratto murario, è stata rinvenuta una cisterna ellittica, ora ricoperta, rivestita di malta impermeabile, per la raccolta delle acque piovane da utilizzare come riserva idrica.
Nel corso degli stessi scavi, sono state evidenziate tecniche di rafforzamento murario a scopo difensivo in caso di attacco con macchine belliche. Questo rafforzamento è stato realizzato attraverso trincee ortogonali riempite di terra e pietre e di mura trasversali all’interno della cortina. I materiali rinvenuti confermano la datazione al IV a.C. per tutta la cinta muraria e smentiscono la convinzione che faceva risalire le mura ad epoca romana. A poca distanza da questo sito, nel corso di uno scavo per la realizzazione di un complesso residenziale in Via Acquedotto, nell’anno 2000, sono riemersi altri resti della cortina occidentale e più precisamente un muro di m 9 circa, alto m 0,76, costruito con blocchi granitici, lavorati nella sola faccia a vista e inserito nello scavo effettuato nella roccia granitica sottostante.
Nella parte esterna sono stati trovati scarti di pietra di diverse dimensioni, che creavano uno strato di riempimento tra l’unità stratigrafica muraria e la roccia granitica. Nello stesso orientamento delle mura, in direzione Nord, sono state trovate tracce di un probabile fossato che in alcuni punti supera i m 3 di larghezza e profondità. All’interno di questo fossato erano presenti parti di mura o crollate o abbattute, probabilmente tra la fine del II e l’inizio del III d.C., in base ai frammenti ceramici di sigillata africana di tipo “A” e di ceramica africana da cucina rinvenuti soprattuto in qualche particolare settore.
Negli scavi effettuati all’interno delle mura sono state rinvenute tracce di un’altra struttura muraria sempre di epoca punica in base ai materiali ritrovati, e una cisterna a bagnarola, ottenuta scavando direttamente il piano roccioso e rivestita di coccio pesto. L’andamento delle mura occidentali non sarebbe rettilineo, come ipotizzato dal Panedda, ma risulterebbe spostato un po’ più a Ovest, sempre che tale tratto non risultasse la cortina esterna di un corpo avanzato. Nel lato occidentale la cinta muraria doveva proseguire sino ad arrivare a Est della dorsale granitica di San Simplicio, nel tratto posto a ovest del Cimitero Vecchio. In località Idazzonedda Taramelli, nel 1911, segnala dei ruderi di una torre rettangolare che apparivano in connessione sui lati Nord e Sud con due bracci di mura di uguale struttura e che per dimensione e tecnica costruttiva (nonostante le tracce di restauro posteriori) ricordavano la tecnica edilizia dei tratti murari situati in Via Torino; perciò pensò trattarsi della continuazione della cinta muraria, precisamente dell’ultimo tratto del lato occidentale e dell’inizio del lato settentrionale. Questi resti in località Idazzonedda testimoniano un percorso rettilineo di tutto il tratto occidentale della cinta, ed evidenziano una struttura tecnico-difensiva che determinava l’impossibilità di accedere al porto extra-moenia. In questo tratto di 580 m ( fra Via Torino e il tratto sino al Cimitero Vecchio) non sono stati trovati resti attestanti la presenza di un’altra porta. Da Idazzonedda la cinta doveva svoltare quasi ad angolo retto (da Ovest a Est) per procedere in direzione della località Oltu Mannu nel quartiere denominato Porto Romano. In località Oltu Mannu, delimitata a Nord dalla spiaggia e a Sud dal binario ferroviario che conduceva all’Isola Bianca, nel 1890 il Tamponi ritrovava le fondamenta di un tratto di mura pari a m 360; inizialmente il muro presentava un proseguimento di m 160 e quasi rasenti alla spiaggia se ne notavano altri m 200, che svoltando come a gomito si ricollegavano con il fronte orientale. Nel lato settentrionale, considerato dal Panedda come il vecchio Porto Romano, sono visibili resti di strutture quadrangolari molto simili a quelle di Via Torino per le dimensioni e tecnica.


Situate ad una distanza di m 5,20 l’una dall’altra, spazio che il D’Oriano considera come una porta nord della cinta in base al catasto del secolo scorso, denominato Catasto De Candia, dove si vede una strada che esce dal lato settentrionale e viene chiamata strada de Parau (l’odierna strada per Palau), quindi ieri come oggi l’arteria più importante per il Nord Sardegna.




Infine, il tratto orientale delle mura è conservato per una cinquantina di metri all’interno del cortile della Villa Tamponi, costruita nel 1874 da Pietro Tamponi. Questo tratto seguiva l‟andamento della costa e presentava due aperture: la prima è di m 4,43 e qui terminava la strada denominata “Karalibus-Olbiam per Hafa”, le cui tracce sono state attestate anche dal Tamponi e dai rinvenimenti di due cippi miliari scoperti in località “Su Cuguttu”. A circa m. 120 da questa interruzione, ancora il Tamponi aveva notato un’altra apertura che, secondo il Panedda, giustamente il Taramelli aveva definito una posterla. Il lato orientale, infine continuava, fuori dalla villa Tamponi, in località denominata Regione Mulino esattamente dietro l’ex scolastico e il Comune. Diventa invece più difficile ricostruire il tracciato delle mura da Regione Mulino sino ad Isciamariana, ma il Panedda ritiene che le mura,anche nella prosecuzione del lato orientale e in quello meridionale, si accostassero sempre all’antico limite di spiaggia. Per avvalorare tale ipotesi osserva che, fino ai primi del ‘900, il mare appariva vicino ai ruderi delle due torri situate a Nord e Sud del lato occidentale della cinta muraria, cinta che impediva l’accesso al porto via terra.

Datazione della cinta muraria
In relazione alla cronologia delle mura già il Taramelli nel 1911 osservava che gli elementi architettonici dei ruderi ritrovati. erano scarsi per poter dedurne un sicuro criterio cronologico. Pur avendo trovato riscontri tra i resti murari di Olbia e quelli di città fenicie e fenicio-puniche, sosteneva la teoria dell’origine romana della cinta olbiese, soprattutto per le analogie con quelle di Aosta e Torino. Il Panedda condivide pienamente la teoria del Taramelli, avvalorandola con la citazione di ritrovamenti della necropoli di Isciamariana, del monumento funerario scoperto nel 1911, (tutti posti a poca distanza dalla cinta muraria e di epoca romana) e ancora della zona cimiteriale di Juanne Canu contigua a Isciamariana, che il Levi colloca tra la metà del III a.C. e la metà del II a.C.. In base a questi dati il Panedda sostiene che le mura furono costruite dai
Romani non appena poterono porre piede su questo tratto della Sardegna, così importante non solo come porto, ma come base per il dominio di questa isola, la quale isola nel 238 a.C., cadde in loro potere. Appare tuttavia probabile anche al Panedda che ci fosse stata una precedente cinta muraria punica, della quale però non sono state trovate tracce, nonostante le numerose indagini di scavo, soprattutto ad opera del D’Oriano e del Sanciu. Il D’Oriano sostiene la cronologia di fase punica per le mura di Olbia rispetto alla precedente datazione romana. Egli osserva che l’area dell’abitato punico coincideva con lo spazio racchiuso dalle mura ritenute romane e non essendo state rinvenute alcune tracce di un’altra cerchia muraria, appare possibile retrodatare le mura ad epoca punica e precisamente, attorno alla metà del IV a.C., al momento della nascita della città.
Non è infatti pensabile una città punica non murata dato che Olbia rappresentava un baluardo punico nel Nord Sardegna, di fronte alla crescente potenza di Roma e all’espansionismo di Siracusa. Si potrebbe ipotizzare la distruzione delle mura puniche da parte romana per poi ricostruirle; ma tutti i dati archeologici fanno ritenere che ci sia stato un passaggio indolore di potere tra Cartagine e Roma. La datazione si fonda inoltre su diversi fattori: il materiale ritrovato in prossimità delle mura (ceramica punica e Attica), le strutture abitative, i materiali scoperti nella necropoli punica e le caratteristiche strutturali ed edilizie delle mura stesse.
La tesi di D’Oriano viene contraddetta dall’Azzena, il quale sostiene che questa è basata principalmente sul confronto della tecnica edilizia e ricorda la revisione della cronologia delle mura di Sulci, di quelle settentrionali di Tharros, la diffusione dell’opera quadrata nella “romanissima” Porto Torres e il suo uso in Sardegna fino oltre il Medioevo.

Considerazioni finali sulla cinta muraria
Il poligono che si veniva a creare, secondo il Panedda, aveva una superficie di ettari 23,7. I recenti studi compiuti in primis dal D’Oriano hanno dato una ampiezza ancora maggiore rispetto alle idee del Panedda, per un totale di ettari 36. La città si presentava con un tessuto urbano ortogonale, orientato nord-sud, est-ovest; il lato occidentale appare l’unico non condizionato dalla linea di costa.
Per quanto riguarda la tecnica edilizia della cinta, possiamo notare che il circuito delle mura non ha la tipica forma a quadrilatero del Castrum, nel quale veniva racchiusa la città romana. Secondo quanto riportato dagli studi sui primi ritrovamenti, non erano presenti torri lungo i tre lati che davano sul mare e non risultava nessuna doppia cortina, ma una sola, che andava da un massimo di m. 3,50 a un minimo di m. 2,30. Invece, nella parte occidentale la situazione era totalmente diversa, in quanto erano presenti torri equidistanti tra loro m. 58 l’una dall’altra e due cortine che superavano i cm. 65 di profondità, costituendo un solo insieme dello spessore di m. 5,50.
Quale poteva essere il motivo di una così diversa tecnica edilizia nel costruire le mura di una stessa città? Il fatto che il fronte occidentale fosse totalmente diverso dagli altri per la presenza delle torri quadrangolari, nonché la realizzazione della duplice cortina di cui abbiamo ancora oggi i resti, evidenziano la volontà di difendersi più che dal mare dall’entroterra, dove sicuramente si trovavano gruppi di indigeni non ancora riusciti ad integrarsi con i nuovi conquistatori, che presentavano una costante minaccia per la città.
Il Tamponi sottolinea la differente tecnica costruttiva ed edilizia degli altri fronti dove esisteva un semplice paramento, ( minimo m. 2,30 massimo m. 3,50) con blocchi di medie dimensioni (cm 50 x cm 25 ) e una lavorazione poco curata. La totale mancanza di tracce di torri, nei lati confinanti col mare (escluso il lato settentrionale come abbiamo visto prima) fece supporre che da questi lati non si temessero attacchi, anche perché le manovre militari dovevano svolgersi in uno spazio abbastanza ristretto (che Panedda riporta a m. 1035) che rendeva impossibili manovre di sbarco.


(Ricostruzione di Olbia antica secondo R. D’ Oriano )


CAPITOLO II

L’Acquedotto romano


Secondo gli studi effettuati dal Panedda la prima citazione sull’acquedotto è stata trovata nell’opera De Choreographia Sardiniae di Fara del XVI d.C.; una successiva menzione è stata rinvenuta un secolo più tardi in una petizione del sindaco di Tempio al viceré spagnolo. Soltanto nel XIX secolo Angius descrive in modo particolareggiato l’acquedotto, quando ancora i resti del monumento certamente apparivano in uno stato di buona conservazione. E’ possibile trovare altre notizie negli scritti del canonico Giovanni Spano, del Tamponi e del Taramelli. Il maggiore contributo per lo studio dell’acquedotto è stato fornito dal Panedda e in epoca molto più recente dagli studi effettuati da D’Oriano e Sanciu. L’acquedotto di Olbia è il monumento meglio conservato del periodo romano, tanto che ancora oggi possiamo ammirarne numerosi resti e ricostruirne il tragitto e l’intera struttura. Intorno al II d.C., quando la città e il suo agro si andavano popolando notevolmente, venne realizzata questa opera che, attraverso un percorso di circa Km 3.5, raccoglieva e incanalava fino alla città antica le acque delle sorgenti di Cabu Abbas, altura granitica ricca di falde acquifere. Si consentiva così l’approvvigionamento idrico sia per le terme che per tutte le altre necessità della popolazione.
Il toponimo CABU ABBAS, di evidente derivazione latina, corrisponde alla traduzione in lingua sarda di Caput Aquarum, cioè capo delle acque (cabu = logudorese e campidanese significa principio e corrisponde in latino a caput, mentre abba = logudorese corrisponde in latino ad aqua).
I resti più evidenti dell’acquedotto si trovano in località Sa Rughitta, dove è possibile vedere la piscina limaria, le arcate, un breve tratto di muratura che si interrompe in prossimità della linea ferroviaria Olbia - Golfo Aranci per poi ricomparire in Via Canova e Viale Aldo Moro. In località Porto Romano e precisamente in Via Nanni si può vedere il tratto finale, dove sono stati rinvenuti 9 piedritti, sui quali poggiavano le arcate; infine procedendo verso la ferrovia, sempre in Via Nanni, sulla sinistra si notano dei ruderi che testimoniano l’ultimo tratto dell’acquedotto, in prossimità del sito dove si trovavano le terme. Inoltre, sempre in località Sa Rughitta, è visibile una delle 4 cisterne prima esistenti, per la raccolta delle acque.



Analisi dei resti sopra citati: SA RUGHITTA

Questa area archeologica, situata a Km 1.5 dalla città, è stata recintata e dotata di pannelli esplicativi, tra la fine del 1989 e i primi mesi del 1990, in occasione della prima campagna di scavo e restauro presso l’acquedotto romano, intervento motivato dal notevole degrado del sito.
L’acqua arrivava attraverso condutture sotterranee, oggi non visibili, dalle falde del monte Cabu Abbas in direzione Sa Rughitta, dove iniziava il percorso vero e proprio dell’acquedotto e dove potevano vedersi due canali collettori su muro pieno, attualmente appena intuibili per la vegetazione e l’interro, ma che il Panedda descrive in maniera precisa. Tali collettori di ampia luce (cm 22 di larghezza per almeno cm 15 di altezza) presentavano una struttura tecnica complessa: nel fondo una colata a secco, nelle spallette strati alterni di mattoni triangolari e di calce, nello specus un fine intonaco in opus signinum.


Durante i lavori effettuati nell’1989-1990, sono emersi i resti di due condutture, una delle quali, mediante uno specus su muro pieno, raggiungeva una vasca (oggi sotterrata) per la decantazione dell’acqua, che affluiva all’interno di una grande cisterna ( m. 13,75 x m. 9 x m. 9 ) con volta a botte, oggi sostenuta da puntelli in ferro, divisa in due parti da un tratto divisorio con 4 aperture arcuate; sulla volta risultavano inizialmente 6 fori circolari (attualmente ne risultano 5 per il crollo di una parte della volta) per l’aerazione e la manutenzione dell’ ambiente. Tale cisterna era stata realizzata in opus cementicium ricoperto da opus signinum, per renderla impermeabile; anche alla base di tutte le pareti, compresi i pilastri delle aperture, è stata realizzata la cordonatura per isolare ancora meglio le basi della struttura da infiltrazioni e impedire l’accumulo di depositi, per evitare questo inoltre tutti gli angoli erano stati resi tondeggianti, sempre mediante il ricorso alla tecnica dell’opus signinum. L’opera non appariva collegata al successivo percorso dell’acquedotto e pertanto è da ipotizzarsi l’uso locale, forse per scopi agricoli. Secondo il Sanciu:
“l’opera fu probabilmente realizzata per le necessità di una villa rustica forse appartenente ad un latifondo imperiale, che doveva sorgere nelle vicinanze”. La seconda conduttura è stata evidenziata per un tratto di m 30 attualmente rinterrati, realizzato con mattoni triangolari in 4 strati legati con malta, di cm 26 di luce; questo canale trasportava l’acqua alla piscina limaria, una vasca di decantazione ( di m. 3,60 x m. 3,50 x m. 0,60 ), le cui pareti sono state edificate nella parte inferiore in opera cementizia, con pietre di medie dimensioni legate tra loro con malta e pietre di piccole dimensioni, ricoperta in opus signinum; la parte finale sovrastante, invece era stata realizzata con due file di mattoni ( bipedales ), internamente rivestita con cocciopesto (opus signinum), più duro, più compatto e di colore più scuro rispetto all’esterno, onde garantire una più efficiente impermeabilizzazione.
In prossimità della vasca sono stati recuperati numerosi frammenti di anforette, databili tra il I e il II d.C. , ritrovamento che pare plausibile con l’utilizzo del sito per attingere l’acqua. Sul lato meridionale della piscina sono visibili ancora i resti del muro che metteva in connessione la piscina con la struttura arcuata, sulla quale era collocato lo specus e della quale ancora oggi si conservano due archi interi e due integrati con una struttura in ferro, l’altezza massima della struttura meglio conservata è di circa m. 2,20.



Il restante tratto è segnato dall’allineamento dei piedritti, regolarmente distanti l’uno dall’altro reggenti la struttura arcuata, la quale consentiva il superamento del dislivello del terreno degradante da Nord verso Sud.
A partire dal tratto in cui il terreno superato il dislivello assumeva un andamento non più degradante, è possibile notare i resti di un muro pieno di circa m 100 con un’altezza massima di m 1,80 sul quale poggiava lo specus dell’acqua, realizzato in opera cementizia come la struttura arcuata, dove però sono stati utilizzati anche mattoni sia nei pilastri che negli estradossi. Dopo il tratto su muro pieno la struttura è stata interrotta per la realizzazione della linea ferroviaria Olbia - Golfo Aranci, negli anni 1860-70, sotto la direzione dell’ing. inglese Piercy.


Via Canova angolo Viale Aldo Moro (già Solladas)


Oltrepassata la linea ferroviaria, l’acquedotto si presentava di nuovo con la struttura arcuata a causa del dislivello del terreno che riprendeva a degradare (tale situazione di degradamento ci viene confermata dagli scavi effettuati nel 1990 in Via Bernini per la costruzione di una casa privata, dove sono stati messi in luce quattro basi di piedritti che dovevano sostenevano l’opera arcuata. Nel tratto scavato non è stato possibile rinvenire elementi utili per la datazione).
Attualmente soltanto parte dei basamenti della struttura sono visibili, mentre altri risultano interrati, fino alla periferia del centro urbano. In prossimità del vecchio Ospedale S. Giovanni di Dio, tra Via Canova e Viale Aldo Moro, riappaiono in luce alcuni piedritti come alcuni tronconi della massa muraria in opera listata, in situazione di crollo. Su qualche tratto murario possono rilevarsi i resti di due condotte, una delle quali obliterata dall’altra. La parte dell’acquedotto di cui si parla era statadescritta dal Panedda. Nel corso degli scavi effettuati nel 2003 sotto la direzione del Sanciu nel cortile interno dell’Ospedale, sono stati rinvenuti quattro piedritti inseriti nella roccia opportunamente scavata, a testimonianza di una modifica del tracciato dell’acquedotto, dovuta evidentemente ad errori di calcolo della prima progettazione, modifica da porre in relazione alla obliterazione e successiva ricostruzione dello specus, già notate in Via Canova. Tutta la zona attraversata dal suddetto tratto di acquedotto era un’area non ancora urbanizzata ai margini della zona palustre attorno alla città.

Via Nanni (già Via Circonvallazione)

L’acquedotto, superata l’area palustre, proseguiva all’interno dell’antica cinta muraria, in loc. Porto Romano. Qui troviamo oggi l’ultimo tratto visibile della struttura, messo in luce dal Sanciu con la campagna di scavi del 2000. Sono stati evidenziati nove basamenti di piedritti, che in media misurano m. 1,50 per lato, distanti tra loro circa m. 2,70-2,90, realizzati in opera cementizia, mentre per il parametro esterno erano stati utilizzati massi granitici, molto probabilmente prelevati da costruzioni più antiche preesistenti nell’area, nella quale sono stati trovati ruderi di strutture puniche e tardo-repubblicane.
Nel corso degli scavi, protrattisi per individuare esattamente la datazione della struttura, al di sotto di uno strato di formazione recente, sono stati rinvenuti resti di massa cementizia, con pietrame e pochi frammenti laterizi, materiale riconducibile al crollo della struttura arcuata e utilizzato anche per la realizzazione di una massicciata quale base di un viottolo che correva lungo l’antica struttura e di cui si ha notizia fino al 1950.
In base agli studi effettuati sui ritrovamenti, il Sanciu sostiene, come già il Panedda, (al quale egli rimanda anche per la descrizione della tecnica costruttiva) che l’intera costruzione sia stata realizzata tra gli anni successivi al 125 e l’inizio del 200 d.C. e che gli stessi lavori di rettifica del tracciato siano stati eseguiti subito dopo il primo collaudo dell’opera. Sempre in quest’area, sul lato opposto della stessa Via Nanni, sono visibili i resti dell’ultimo tratto in luce dell’acquedotto; originariamente dovevano raggiungere un’altezza di m 5 e che oggi, causa interri, sono visibili per un’altezza di m 2,50.
Tali ruderi sono ritenuti resti di un serbatoio per l‟acqua o anche di una torre per regolarne la pressione.
Da qui l’acquedotto doveva continuare per circa m 200 sino alle terme, come testimonia il Panedda, il quale scrive che nel 1889 il Tamponi segnalava un tratto di ben m. 135 di rovine della struttura, facenti capo alle terme, situate nell’area oggi delimitata da Via S. Croce, Via delle Terme e Corso Umberto I. Confermano tale percorso dell’acquedotto i ritrovamenti effettuati nel 1980, 1981 e nel 1987. Nel 1980, all’incrocio tra Via delle Terme e Via Acquedotto romano, è stato ritrovato un troncone dell’acquedotto su muro pieno realizzato con la tecnica a sacco e canaletta in cocciopesto. Nel 1981 durante i lavori per la rete idrica e fognaria del centro storico, in Via delle Terme vicolo “F” sono stati evidenziati due tronconi dell’acquedotto, lunghi complessivamente circa m 7, realizzati con blocchi di granito legati tra loro con malta, formando cosi una struttura a muro pieno che si collegava con il troncone messo in luce l’anno precedente e con il pilastro originariamente alto m 5, già esaminato, in Via Nanni. Nel 1987 i lavori per le fondamenta di una abitazione, sempre in Via delle Terme vicolo “F”, hanno rimesso in evidenza un ulteriore tratto costituto dalla base di un pilastro di arcata in connessione con il pilastro già noto al Panedda e gli altri sopra citati.

Considerazioni finali sull’ acquedotto

L’acquedotto di Olbia, monumento del periodo romano più significativo, trasportava l‟acqua dalle sorgenti delle falde granitiche di Cabu Abbas fino alle terme della città, con un percorso rettilineo di oltre Km 3, realizzato interamente tra il II e l’inizio del III d. C. , datazione confermata anche dagli scavi più recenti.

Si deve ricordare che durante il II d.C. in numerose aree della Sardegna vengono realizzati nuove opere pubbliche oppure vengono ristrutturate quelle preesistenti, come ad esempio le terme e il primo impianto dell’acquedotto a Nora, l’acquedotto di Cagliari, di Tharros, l’acquedotto e le terme di Neapolis e di Fordongianus, il restauro dell’acquedotto di Porto Torres. Pertanto è da inquadrarsi nello stesso periodo la costruzione dell’acquedotto di Olbia; datazione supportata anche dai dati evidenziati nei sondaggi stratigrafici. Si può comunque affermare con sicurezza che la storia dell’acquedotto di Olbia sia legata allo sviluppo della città in epoca imperiale, in un momento di massima espansione dell’agro e di una maggiore floridezza economica, testimoniata anche dalla costruzione nello stesso periodo delle terme. La tecnica edilizia appare omogenea nell’intero percorso (utilizzo dell’opus cementicium e dell’opus signinum); presenta una struttura a tratti in opus arcuatum, li dove necessitava seguire l’andamento degradante da N a S del terreno, a tratti in muro pieno, là dove il terreno riprendeva l’andamento non degradante. Per oltre due chilometri l’opera proseguiva con struttura arcuata, ad eccezione di un breve tratto con struttura a muro pieno, al di fuori della cinta muraria antica fino a raggiungere l’area urbana, con una leggera pendenza che garantiva l‟afflusso dell’acqua; quando questo non è avvenuto regolarmente per errori di calcolo nella progettazione, l’opera è stata opportunamente adeguata subito dopo il primo collaudo (tratto Via Canova). Il tratto urbano presenta sempre lo stesso tipo di struttura, in gran parte arcuata. Particolarmente interessanti risultano, a mio modestissimo avviso, i resti di una costruzione imponente, ritenuta oggi un torre che consentiva il regolamento della pressione dell’acqua.


Tutti i diritti sono riservati e appartengono all'autore. (Durdica Bacciu)


Foto 1: Sanciu 2004

Tutte le altre immagini sono di D'Oriano 1996


Foto 6: (Ricostruzione di Olbia antica secondo D’ Oriano)

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