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venerdì 3 dicembre 2010

Fenici, 2° parte di 3

La civiltà Mediterranea
di Pierluigi Montalbano

Il quadro finora ricavabile dagli scavi archeologici sembrerebbe dimostrare come nel primo orizzonte cronologico delle più antiche frequentazioni levantine in occidente la cultura materiale, in specie la ceramica (quella fine da mensa denominata red-slip, ma anche le anfore o altri grandi contenitori, tripodi...), sia assolutamente speculare rispetto ai rinvenimenti orientali: è questo, ad esempio, il caso delle tombe catalogate come fenicie scoperte nel 1990 a Portoscuso in località San Giorgio, databili attorno alla metà dell'VIII a.C.

Poiché è impensabile che i mediterranei sbarcassero in una Sardegna disabitata e, anzi, è certo che alla base dei primi stanziamenti ci siano stati stretti legami con le popolazioni nuragiche locali, la cultura materiale dei periodi successivi alla strutturazione degli abitati mostra una profonda interazione con i prodotti di cultura sarda (vedasi la sopravvivenza, ancora nel VI a.C., della cosiddetta ansa a gomito rovescio). A partire dal VII a.C., dunque, le ceramiche e gli altri prodotti distribuiti nel bacino occidentale del Mediterraneo mostrano alcune (neanche troppo notevoli) differenze tra loro: questo è per l'appunto il frutto dell'elaborazione di specifiche e inevitabili esperienze locali, in Sardegna con i sardi, a Cartagine con le popolazioni numidico-berbere e con i libici, in Spagna con gli esponenti della cultura tartessica (anche se nutro forti dubbi che la mitica Tartesso che gli archeologi spagnoli cercano vicino al fiume Guadalquivir fosse proprio in quelle zone) in Andalusia o con gli iberici del levante spagnolo. A partire dalla fine del VI a.C. tuttavia, si registra un notevole mutamento della cultura materiale, che fra il V e il III a.C. appare molto simile ai prodotti di fabbrica cartaginese. Ciò è stato letto nel senso di un monopolio della produzione e nel senso di una mobilità di maestranze nord-africane che, all'indomani dell'affermazione cartaginese, raggiunsero i territori abitati precedentemente dalle comunità arcaiche. La testimonianza filistea da Tharros è invero una delle più tarde riscontrabili nel Mediterraneo centrale: si tratta di una gemma recante una divinità che godette di buona fortuna in ambito palestinese (Dagon). Tuttavia il sigillo è probabilmente del V a.C., per cui è necessario operare una distinzione tra tali testimonianze residuali e le testimonianze filistee ben più antiche (Sant'Imbenia, Neapolis).
I movimenti levantini verso ovest furono certamente appannaggio di ristrette elite, poiché è impensabile che i contadini o le fasce sociali meno privilegiate avessero i mezzi per armare le navi necessarie a tali imprese. Costituirono, viceversa, la manovalanza indispensabile alla creazione dei nuovi insediamenti. Si può discutere, invece, se tali imprese furono solo ed esclusivamente private o solo ed esclusivamente in mano al potere palaziale.
Abbiamo detto che solo fino al VII a.C. le ceramiche (peraltro oggetti di uso quotidiano, non necessariamente indicativi di un ethnos ben preciso) sono simili in tutto il Mediterraneo. Ma dopo che succede? Sono ancora simili o si diversificano? Sembrerebbe che ogni area, dopo aver ricevuto un input più o meno simile, abbia sviluppato una cultura propria, in funzione della gente trovata sul posto ma anche in funzione dei nuovi venuti, che non necessariamente appartenevano ad un’unica etnia. In effetti, se da un lato è impensabile che grandi masse si spostassero dalla costa cananea verso il Mediterraneo occidentale, dall'altro é altrettanto difficile pensare che ristrette elìtes fossero in grado di omogeneizzare culturalmente contemporaneamente il Nord Africa, la Spagna, la Sardegna, la Sicilia…
Una particolarità è costituita dai giganti di Monte Prama, recentemente rivalorizzati dal restauro ancora in corso. A leggere gli atti del Convegno "Il Mediterraneo di Herakles", a cura di Bernardini-Zucca, si resta perplessi davanti alle argomentazioni addotte dal Tronchetti sul motivo della costruzione delle statue di Monti Prama. In fondo, dice l'autore, quelle statue rappresentano una manifestazione di identità davanti ai nuovi venuti: i fenici. Personalmente non capisco questo scatto d'orgoglio "separatista" visto che le due etnie convivevano in pace e integrazione totale, soprattutto tenendo conto che non parliamo di grandi masse di popolazione ma di pochi gruppi di individui. Per come conosco i sardi, persone pratiche che badano al sodo ignorando i fronzoli, non riesco ad immaginarli mentre si lanciano in un grande sforzo economico e di tempo solo per dire ai nuovi arrivati: voi siete voi, noi siamo noi.

Nello stesso volume ho notato che a Neapolis é stato rinvenuto un frammento di sarcofago filisteo. Credo che un reperto del genere sia più importante delle ceramiche d'uso quotidiano, in quanto sottintende riti e credenze religioso-funerarie, tipiche di un determinato popolo e che non passano di mano in mano. In sostanza, se nel 4000 d.C. da uno scavo dovesse sbucare una Toyota, non significa che gli abitanti erano giapponesi, ma se dallo scavo appare un crocifisso quelli erano sicuramente cristiani.
Le statue di Monte Prama, a mio parere, rappresentano forti simboli dell'aristocrazia del periodo e sono state concepite da una comunità locale col duplice scopo di autorappresentarsi (potente e maestosa) e comunicare a chi si fosse avventurato in quelle zone che il territorio era controllato da un clan prestigioso. Non dimentichiamo che la datazione delle statue si pone a cavallo del X a.C., proprio nel periodo in cui si ipotizza il cambio sociale in Sardegna. D'accordo con Ugas ritengo che i nuraghe in questo periodo non sono più costruiti, i principali sono trasformati in templi e la presenza di camere circolari esterne ai bastioni adibite a sale per riunioni (ne sono testimoni le sedute e la forma) sono manifestazione di una società che è diventata aristocratica, al pari delle grandi aristocrazie d'oltre Tirreno sorte anch'esse in quel periodo. Si iniziò a preferire l'assemblea degli anziani alla sovranità regale (che tanti problemi di "classe" pone certamente). Nei quasi 5000 frammenti di arenaria ci sono anche modellini di nuraghe (di varie tipologie), segno inequivocabile che la civiltà in questione è quella sarda. Inoltre il materiale è arenaria prelevata dalle cave di Oristano. Inoltre l’abito con chiusura a V dei corridori, così come quello degli arcieri, è osservabile nei Giganti e nei bronzetti. È indossato anche dagli Shardana nei bassorilievi egizi. Vorrei anche segnalare un piede in calcare rinvenuto a Barumini (e definito burlescamente formascarpa da un archeologo isolano) e frettolosamente dimenticato. Infine come definire le protomi bovine rinvenute per esempio ad Abini e perfettamente scolpite? Si può ancora dire che i Sardi non scolpivano "autonomamente" e aspettarono che altri importassero quest'arte?
Altra considerazione: qualcuno ipotizza fossero telamoni…ma i telamoni, non rappresentavano guerrieri sconfitti? In questo caso sarebbero stati rappresentati inginocchiati, e anche disarmati e nudi. Essendo guerrieri sconfitti, questi telamoni, non dovrebbero essere scolpiti nello stile dei vincitori? E se lo stile dei vincitori è quello, che stile è? Abbiamo altri esempi del medesimo da altre parti? Chi sarebbero i vincitori? Greci? ma non è il loro stile scultoreo. Cartaginesi? Come mai questi vincitori hanno usato uno stile che riprende quello di certi bronzetti? Non ne avevano uno proprio? Erano copisti? Anche i bronzetti sono stati fatti dai vincitori? Vincitori e vinti sono le stessa gente? Tribù diverse? Quali tribù?
Ribadisco che per fenici non intendo un popolo in particolare ma un "modo di vivere", quindi statue, stele, bronzetti, navicelle, architetture…sono traccia indelebile di una grande civiltà, quella sarda, e che questa civiltà si fuse con quella proveniente da oriente pur mantenendo intatti molti usi e tradizioni, e diede vita alla civiltà mediterranea.

...domani la 3° e ultima parte.

L'immagine della stele di Nora è stata fatta al Museo Archeologico di Cagliari

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