Libri e letture.
Martina Cossu dialoga con Roberto Brughitta sul suo ultimo romanzo: i rintocchi di Galusè
Un paese incastonato nel cuore profondo della Sardegna; un artigiano depositario di un sapere antico; una famiglia divisa a causa di un oscuro accadimento. Sono questi gli elementi da cui prende le mosse “I Rintocchi di Galusé” l’ultimo romanzo di Roberto Brughitta, pubblicato in questi giorni dalle edizioni AmicoLibro.Siamo a Tonara nei primi anni Ottanta; la placida esistenza di Giacu il "sonaggiargiu" (creatore di campanacci) è turbata dall'inaspettato ritorno in paese di Atalaia, la sorella un tempo tanto amata, con cui i rapporti si sono bruscamente interrotti anni prima. L'arrivo della donna, che porta con sé il figlio Luciano, sarà destinato a cambiare il corso della vita di Giacu e lo costringerà a fare i conti con un
passato del quale è fin lì stato all'oscuro. Accompagnano la storia i rintocchi cadenzati dei campanacci di Giacu, che Roberto descrive con la sensibilità e l'efficacia che gli sono proprie. Vero e proprio linguaggio ancestrale dalle misteriose inflessioni che avvicinerà Luciano a uno zio all'apparenza così diverso da lui.Roberto, come è
nato “I Rintocchi di Galusé”?
È accaduto quello che era successo per “Genna di
Taquisara”. L’idea è nata ascoltando musica. Io non ascolto un genere
specifico, vado a periodi. Quel giorno mi ricordo che sotto consiglio di un
amico, cercai “Nanneddu meu” cantata dal coro Peppino Mereu di Tonara insieme a
Fred Johnson. Subito dopo partì la canzone successiva che era infatti “Galusè”,
eseguita con maestria sempre dal coro che prende il nome dal tonarese Peppino
Mereu, autore della poesia Galusè. Ero al corrente della breve vita di questo
grande e prolifico poeta vissuto alla fine dell’ottocento e conoscevo anche
alcune sue opere, ma sentire la canzone mi ha fatto capire che io alla fonte di
Galusè non mi ero mai recato. In quel preciso momento sentii l’impulso di recarmi al più presto a Tonara
per capire perché una semplice fontana potesse aver ispirato versi così
suggestivi.
Da cosa nasce
l’idea di dedicare un romanzo alle vicende di un “sonaggiargiu”?
Avevamo appena terminato il primo “lockdown” quando mi
recai a Tonara. Avevo precedentemente contattato la sindaca parlandole delle
mie intenzioni di ambientare un romanzo nel suo Comune. Mi rispose e mi fece da
cicerone per due giorni interi. Fu mentre girovagavo alla ricerca delle varie
fontane (Galusè non è che una delle tante) e esploravo i numerosi rioni che
puntualmente mi arrivavano all’orecchio i tintinnii dei sonaggiargius che nelle
varie botteghe artigianali accordavano i loro campanacci.
Ero sicuro che i suoni arrivassero dai sonaggiargius in
quanto mi avevano spiegato che a Tonara da tempo non esistevano, o quasi,
greggi. L’abbinamento dei campanacci con
Galusè arrivò in modo del tutto casuale, ma non voglio raccontare oltre. I
libro è appena arrivato in libreria e dunque saranno pochi quelli che lo
avranno già letto, non vorrei rovinare la lettura.
Quello del
campanaccio può essere al contempo un semplice suono e l’eco di un’identità
millenaria. Come ti sei avvicinato a quest’arte magica e misteriosa?
Il suono del campanaccio, che definisci giustamente
semplice è esattamente l’eco di
quell’identità agropastorale che identifica la nostra terra. Al pari di uno
strumento musicale lui nasce solo, le tonalità possono essere molteplici ma
sempre di un’unica nota si tratta. Il bello arriva quando si attiva
l’orchestra, il gregge. In quel momento ci arriva alle orecchie una melodia che
se millenni fa fossero stati in grado di registrare, noi non avremmo potuta distinguerla
da una odierna. Penso che in pochissimi casi si possa affermare una cosa del
genere. Ho sempre amato il suono di campane e campanacci, ma soggiornare a
Tonara per qualche giorno, mi ha permesso di assaporare la vera magia di quella
che forse è tra le più antiche forme d’arte musicali. La Sardegna è l’unica
regione d’Italia che non ha una maschera regionale tradizionale, anche se
paradossalmente ne ha quasi una per ogni paese. Bene, quasi ognuna di queste,
che quasi sempre deriva da vecchi riti arcaici propiziatori agropastorali,
indossa dei campanacci di medie ma anche di grandissime dimensioni.
Il romanzo è
ambientato negli anni 80. Perché proprio in quegli anni?
Non avevo nessuna idea della storia che avrei scritto,
anzi non ero affatto sicuro che una storia sarebbe scaturita dal mio soggiorno
a Tonara, perciò cominciai a girovagare e a chiedere notizie sui vari luoghi
che visitavo. Mi imbattei in un gentilissimo abitante del posto che mi raccontò
le varie leggende che aleggiavano intorno alla fontana di Morù. Oltre a quella
che narra che alle donne che si abbeveravano alla sua fonte, veniva il gozzo
grosso ( fu accertato che l’acqua creava problemi alla tiroide), c’era anche la
leggenda che chi beveva l’acqua di “Morù”, chiamata anche “abba ‘e Toni”,
diventasse matto. Questo solo perché i tonaresi per carattere sono scanzonati e
allegri. La follia mi fece venire in mente Nunzio Ciraldo, quello che veniva
definito lo scemo del villaggio a cui
nell’eccidio della rivolta di Bronte nessuno dei fucilieri ebbe il
coraggio di sparare, anche se poi… Quella sera poi mi imbattei in un articolo
che narrava di un pompiere che morì durante lo spegnimento di un incendio
boschivo, il 2 gennaio del 1981. L’intervento iniziò la notte di capodanno.
L’uomo, che si chiamava Luciano, lascò la moglie e un ragazzino. In un attimo
mi erano arrivati due nomi e il periodo d’ambientazione.
I tuoi romanzi
paiono riflettere la tua natura portata all’esplorazione e all’avventura.
Quanto di realmente vissuto vi è in questo romanzo?
Di vissuto c’è tutto il territorio, perché grazie alla
sindaca di allora, Flavia Loche, ho potuto visitare tutti i luoghi descritti
nel romanzo, compresa l’antica casa Porru. Ho potuto dissetarmi alla fonte di
Galusè e dalle altre numerose fontane. Ho incontrato realmente una famiglia di
sonaggiargius, i Floris che hanno messo a mia disposizione la loro esperienza.
Inoltre ho frequentato realmente l’Insolito Bar citato più volte. Ho gustato il
vero torrone di Tonara e alla locanda del Muggianeddu ho gustato le
prelibatezze di zona, compreso il “cocoi de casu”.
Il tuo rapporto con
la storia sarda è intenso e vibrante? In che misura la nostra identità è fonte
di ispirazione per te?
Chi mi conosce sa che mi piace percorrere la Sardegna in
lungo e in largo, per mare, per terra e perfino sotto terra. A breve andrò
anche per aria. La storia è sempre stata la mia materia preferita, purtroppo
tutto ciò che i testi scolastici dei miei tempi citavano sulla civiltà
nuragica, era racchiuso in due o tre pagine.
Tutto il resto l’ho scoperto da solo grazie alle guide
trekking e al web. Ho scoperto un mondo che a scuola non ti insegnano di pozzi
sacri, bronzetti , navicelle e tanto altro. Ma soprattutto ho scoperto che la
civiltà nuragica era qualcosa di stupefacente. Di questo devo ringraziare
sicuramente Pierluigi Montalbano dell’associazione Honebu , che con un
linguaggio semplice mi ha fatto appassionare al genere. Ora sappiamo per certo
che i nostri antenati non erano semplici pastori e agricoltori che vivevano
all’interno di torri di pietra, ma eravamo soprattutto guerrieri, ingegneri,
astronomi, abili costruttori, ottimi artigiani e navigatori. Come potrebbe
tutto questo non essere fonte d’ispirazione?
Oltre che a Tonara,
hai dedicato pagine bellissima a Elmas e Siliqua. Ci sarà un mai un romanzo
ambientato nel quartiere di Sant’Avendrace in cui sei nato e con il quale hai
mantenuto un forte legame?
Non solo Elmas e Siliqua ma anche Lunamatrona e Bosa,
tutti posti a me cari. In “Baci di laguna”, che è ambientato sia a Simblia,
(villaggio che anticipava Elmas) che nell’antica Karalis, ho citato Tuvixeddu e la grotta della vipera,
ma con pochissime righe. Questo proprio perché sono in attesa di un raggio di
sole che mi illumini. Mi piace attendere le storie così, senza forzare la mano.
Probabilmente un giorno arriverà e credo, in quanto essendo nato e cresciuto
fina alla maggiore età in quel quartiere, sarò sicuramente in grado di descrivere
perfettamente il territorio. La maggior parte delle persone conosce la
necropoli di Tuvixeddu così come giustamente la fanno visitare, ma io da
ragazzino e spesso anche da adulto ho potuto percorrere i due diversi
acquedotti esistenti, entrare in tutte le tombe, vedere le varie sculture su
alcune di esse. I papiri, il toro, la luna, l’edera, la maschera tonda, le
varie linee in ocra non sono che alcune delle meraviglie che ho potuto
osservare. Inoltre ho visto corredi interi in ceramica, monete, monili in
avorio, rame e anche oro, oltre che a scarabei di ogni dimensione. Insomma, i
cassettini della memoria sono stracolmi di ricordi, non resta che attendere che un evento
particolare mi spinga ad aprirli.
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