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martedì 29 giugno 2021

Donna e società in Sardegna. Dalla civiltà nuragica al medioevo e all’età moderna. Articolo di Gianfranco Nuvoli.

 Donna e società in Sardegna. Dalla civiltà nuragica al medioevo e all’età moderna.

Articolo di Gianfranco Nuvoli.

 


1. La civiltà nuragica

La civiltà nuragica ha lasciato millenari monumenti di pietra, ma scarsi e contradditori elementi per delineare ruoli e caratteri socioeconomici della società in Sardegna nell’età pre-nuragica e nuragica. Per tali periodi storici non disponiamo di prove o documenti che aiutino alla definizione di questa cultura, per cui si possono solo trarre ipotesi di lavoro, e tentare di individuare possibili prove che possano confermarle o confutarle.

L’analisi stratigrafica degli scavi, la tipologia e collocazione dei reperti, l’esame dei resti vegetali con il C14 fa ritenere che l’organizzazione socio-economica della società sarda avesse un carattere sia pastorale (ovini e caprini) e venatorio (resti di daini, suini, ecc.) sia agricolo per “coltivazioni specializzate – l’olivo e la vite, ma anche le colture orticole- (…) e cerealicole” (Perra, 2014, 37). Alcuni autori ipotizzano che i lavori agricoli fossero di competenza del ruolo femminile, e quindi richiedessero “un maggiore impegno delle donne”, mentre gli uomini erano impegnati nelle attività pastorali, venatorie e architettoniche (Melis M.G., 2014, pag.48). Non mancano indizi su attività diversificate fin dal periodo Neolitico, quali la lavorazione dell’argilla, l’artigianato tessile, l’estrazione e la lavorazione di metalli. In genere si ritiene che i sardi già da allora non avessero una vocazione marinara, ma conchiglie e resti di frutti di mare trovate a Monte d’Accoddi e in qualche nuraghe provano che si cibassero anche dei prodotti raccolti dal mare. Inoltre l’ossidiana del monte Arci ritrovata in molti siti del Mediterraneo rivela scambi commerciali, pur se non sappiamo se gestiti direttamente dai sardi oppure frutto di scambi con altri popoli che commerciavano via mare. Analoghi scambi commerciali sono attestati per i metalli (stagno e bronzo). Lilliu (2000, 122) nella riedizione di

Pallotino (1950) da lui curata ipotizzava una possibile prova di attività marinara “di cui potrebbe cogliersi un riflesso nella produzione di figurine di bronzo in forma di imbarcazioni”. I bronzetti nuragici che raffigurano barche confermano almeno “la diffusione della pratica della navigazione e, comunque, una ‘confidenza’ con un mare animato dagli intensi rapporti con i popoli del Mediterraneo” (Moravetti, 2006, 19). Tali navicelle rappresenterebbero quindi ex voto relativi ai pericoli dei tragitti via mare. Sulla loro funzione si prestano però altre ipotesi, tra cui: 1) l’uso come lucerne; 2) rappresentazione del tragitto verso l’aldilà (che richiama il mito greco di Caronte che traghetta il defunto verso il mondo degli inferi).

Anche sull’organizzazione sociale sappiamo ben poco e le teorie sono tra loro contradditorie (Tedde, 1978; Cámara Serrano e Spanedda, 2014). Infatti, mentre Ercole Contu (1998) la riteneva di tipo paritario in quanto non parevano individuabili differenziazioni sociali né di genere né di ruolo, Ugas (2014, 24-25) propone una differente interpretazione quando la definisce una “solidissima società a successione ‘matrilineare’, fondata sul vincolo del sangue, come dimostrano il persistere del rito funerario collettivo, il culto dominante della Dea Madre”. Lilliu invece aveva ipotizzato differenti modelli della società e del ruolo della donna nelle varie epoche: nella cultura di Ozieri del Neolitico “la struttura contadina esprime un contenuto etico-sociologico-religioso a sfondo ‘materno’, per cui la figura della madre, appunto perché identificata con la vegetazione fertile, acquista forma e forza caratterizzanti e dominanti” (Lilliu 1967, 16). Nell’età del Bronzo riteneva invece che si fosse verificata una ‘conversione’ verso una “società pastorale e guerriera” (pag. 19), e in particolare il passaggio da una società matriarcale a quella tribale patriarcale basata su clan a carattere familiare in cui le “resistenze matriarcali della più antica civiltà contadina sono diminuite al livello del governo familiare (specie là dove i pastori erano costretti alla mobilità della transumanza)” (pag. 27).

L’analisi dei corredi funerari, delle offerte votive, dei resti ossei e dei materiali rinvenuti nelle domus e nei luoghi di culto per tentare di delineare una eventuale stratificazione sociale della popolazione nuragica per altri autori denota “una continuità” del quadro sociale tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, ma anche “sembra evidenziare l’esistenza di un ceto ‘aristocratico’, legato ideologicamente ad attività militari e sacre ed esaltato nel vestiario e negli oggetti personali (ornamenti e armi)” (Cámara Serrano e Spanedda, 2014, 153). E tuttavia, pur se alcuni bronzetti rappresentano “personaggi con vesti ricche e atteggiamento solenne e ieratico, nei quali si è soliti riconoscere dei capi-tribù “ (Melis P. 2003, 67), al momento non pare confermabile una stratificazione né in possidenti e dipendenti, né in padroni, servi e schiavi.

Altra definizione corrente è che quella sarda fosse una popolazione pacifica. Anche in questo caso possiamo solo fare ipotesi, ma anche porci alcune domande. Se si trattava di una popolazione ‘pacifica’, come mai tanti bronzetti e le stesse statue di Giganti di Mont’e Prama (che costituiscono i documenti preziosi della civiltà nuragica) rappresentano guerrieri, arcieri, pugilatori? Mentre appare improbabile che si tratti di atleti che partecipavano a giochi sportivi (tipo olimpiadi, come nell’antica Atene), le ipotesi più plausibili è che rappresentassero i loro dei, oppure i loro eroi, oppure guerrieri che si erano distinti nella difesa del clan e del territorio, se non vittoriosi nella guerra. Viene allora da chiedersi se le faide, le lotte tra centri vicini per i beni del territorio, l’abigeato di bestiame, la ‘balentia’ e la vendetta non esistessero ancora, o siano un frutto della società sarda più recente. Per un clan il furto del proprio bestiame o sconfinamento di animali sulle terre coltivate rappresentava sicuramente la fame per l’intera annata… e quindi non pare un’usanza recente da parte degli altri allevatori della comunità quella di donare al malcapitato un capo del proprio gregge, così che potesse ricostituirlo e garantirsi la sopravvivenza. E questa difesa del territorio potrebbe avvalorare l’ipotesi che una delle motivazioni per l’edificazione di tanti nuraghi fosse quella di presidio e di difesa dei beni del clan.

 

2. Il ruolo della donna

Come per la civiltà nuragica, anche per il ruolo della donna al suo interno non possediamo documenti che consentano un’analisi definitiva, ma solo ipotesi interpretative che difficilmente trovano prove a conferma o a disconferma. Un dato di fatto è però quello che la donna è presente in tale società e pare svolgervi un ruolo di rilievo. Questo ad iniziare dalla stessa divinità da essi adottata: la dea Madre. Raffigurata dapprima con seni e natiche prominenti ad evocare la fertilità femminile, e poi magistralmente stilizzata in una forma triangolare in cui spuntano il volto ed i seni, la figura della dea Madre scolpita in pietra è stata ritrovata in tanti sepolcri, stretta tra le mani del defunto, quasi a propiziarne il ritorno nella terra dei morti.

Sono ancora i bronzetti a permettere di immaginare il ruolo femminile nella società nuragica, ruolo che secondo Paolo Melis (2003, 68) “non doveva essere di scarso rilievo”. Infatti un piccolo gruppo di bronzetti definito delle ‘sacerdotesse’ rappresenta figure femminili ‘di prestigio’ che indossano un mantello ed un alto cappello, portano un’offerta al santuario con la mano sinistra e con la destra alzata rivolgono un saluto, forse propiziatorio alla divinità. Che si tratti delle rappresentazioni di una sacerdotessa, o solo di una donna che porta un’offerta, l’autore sottolinea come anche la donna sembra godere di “pari dignità e diritti” rispetto agli uomini nel venir rappresentata in un bronzetto, che “doveva costituire per le famiglie un onere economico notevole” e può quindi assumere un ruolo, forse paritario con l’uomo, nel culto religioso di tale società.

Un’altra serie di piccoli bronzetti che riporta la figura di una donna è quella chiamata ‘madri col bambino’. Si tratta di bronzetti che raffigurano una donna seduta su uno sgabello-scranno che in grembo tiene un bambino semisdraiato. Per alcuni questi è sottoposto ad un rito di iniziazione (Montalbano, 2017), per altri è invece deceduto e la madre ne propizia il passaggio nel regno dei morti, oppure ne chiede vendetta. In ogni caso, come rileva Paolo Melis (2003, 66), appare significativo che sia “la madre – e non il padre, come ci si aspetterebbe in una società patriarcale – che domanda vendetta alla divinità”. Anche Lilliu (1967, 28) aveva annotato che “gli odi feroci della società pastorale rimbalzavano di necessità nel cuore delle madri, private così spesso dei loro figli, di rado morti sulla ‘cenere del focolare’, per lo più uccisi dalla religione della vendetta”, vendetta che Antonio Pigliaru (1959) delineò come “ordinamento giuridico” barbaricino.

In particolare quella che Lilliu definì ‘La madre dell’ucciso’ tiene sdraiato sulle sue ginocchia un giovane (forse ucciso o ferito) che porta sul petto un pugnale ad elsa gammata, interpretato come simbolo di prestigio o di iniziazione. Il particolare interessante sottolineato da Montalbano in un video del blog ‘Honebu’ (2021) è che la madre siede su uno sgabello in legno identico a quello in pietra ritenuto il ‘trono’ del capo clan e trovato nelle cosiddette ‘sale delle riunioni’ intorno al nuraghe Palmavera e ad altre regie nuragiche. Un’interpretazione plausibile è che si tratti della moglie del capo-clan per cui può sedere sul trono piangendo la morte del figlio, ma è allettante anche l’ipotesi più estrema, quella che sia lei stessa al vertice del clan: una prova di società matriarcale in età nuragica?

 

3. Ruolo femminile nelle epoche storiche

Dal confronto tra lo sgabello della ‘sale delle riunioni’ e il trono in pietra su cui siede ‘la madre dell’ucciso’ sembrano nascere nuove prospettive per l’analisi dell’antica società nuragica, ed in particolare sul ruolo ‘forte’ della donna (e della madre) in tale civiltà. Certo mancano documenti scritti e prove inoppugnabili sulla figura femminile in tale contesto, ma non sarà forse casuale se ancor oggi si ritrova il ruolo forte della donna sarda in famiglia, dove alcuni sottolineavano come il marito detenga “l’autorità formale massima” ma la moglie abbia nelle decisioni “un'autorità di intervento molto forte, se non determinante" … (Pinna, 1971).

Mentre non disponiamo di elementi certi relativi al ruolo della donna nel periodo romano e  bizantino, dobbiamo arrivare al medioevo per trovare fonti che permettano di superare le ipotesi interpretative e attestino un rapporto paritario nella società (e nella famiglia) in Sardegna. Sul piano storico appaiono aspetti contrastanti tra i tratti dell'uomo sardo, per tradizione definito 'forte', rispetto alla analoga definizione per la donna sarda, unita a connotazioni sociali di uguaglianza in termini ereditari e patrimoniali (Aimo, 1971). Sappiamo infatti che nel medioevo e fino al XVII sec. la donna sarda sul piano giuridico godeva del regime “a sa sardisca” della comunione dei beni e della parità tra i sessi (Tedde, 1978), un regime contrapposto a quello basato sulla dote e denominato ‘a sa pisanisca’ che invece era “ritenuto estraneo alle antiche consuetudini isolane” (Satta, 1989, 70). Questo ruolo paritario che consentiva alla donna di stipulare contratti e accedere anche alle alte cariche pubbliche trova una conferma nel XI sec., quando a capo di una delle quattro entità politico-amministrative autonome chiamate ‘Giudicati’ che governavano l’isola troviamo appunto una donna, Eleonora, che diviene ‘Giudice’ nel Giudicato di Arborea. Un’altra prova di uguaglianza tra i sessi che si esplica anche ai ceti inferiori lo rivela il condaghe di San Pietro di Silki (1180 ca), in cui il valore dei vari servi scambiati non presenta “distinzione tra il valore di individui di sesso maschile e femminile” (Meloni, 2020, 120). Una parità tra i sessi che diviene ancor più sorprendente considerando che nel mondo occidentale contemporaneo la donna dovrà aspettare la metà del secolo scorso per godere del diritto di voto!

Anche in età contemporanea le interpretazione sul ruolo dell’uomo e della donna in famiglia rimangono contrastanti e contradditorie. Mentre il libro autobiografico "Padre padrone" di Gavino Ledda (1975) si basa su un modello patriarcale in cui il padre riveste un ruolo emotivamente freddo ed autoritario e la madre spicca per la sua assenza, l’opera "In nome della madre" (1978) di Maria Pitzalis Acciaro propone già nel sotto-titolo la tesi del matriarcato quale modello delle famiglie barbaricine. Anche la stessa tradizione popolare vuole che dietro ogni ‘balente’ ed ogni latitante ci sia una madre… Un aneddoto riporta che all’annuncio dell’arresto del figlio da parte della ‘justitzia’ una madre rispondesse “Pisti si lu cokene!!!” (traduzione libera: “Già non se lo cucinano!”).

Altri ipotizzano invece una connotazione patri-matriarcale della famiglia sarda nel momento in cui il ruolo autoritario del padre veniva a confrontarsi con quello di colei che attuava un’autonoma gestione decisionale (Pigliaru D., 1974) nel lungo tempo in cui il coniuge era lontano per lavoro, appresso alle greggi e durante la transumanza. Una parità tra uomo e donna determinata sul piano storico da esigenze pratiche per le quali “anche la donna doveva avere fermezza ed essere giuridicamente in grado di occuparsi da sola dell'educazione dei figli e dell'amministrazione della casa, delle mansioni economiche, di quelle sociali” (Nuvoli, 1989). Ma è lo stesso Diodato Pigliaru (1974, 30) che ipotizzava che quello della madre sarda fosse “un matriarcato temporaneo, in attesa che il vero capo torni a casa”…

Le contraddizioni sul ruolo della figura femminile rispetto a quella maschile si ritrovano quindi evidenti anche nella società contemporanea, che è stata interessata da fenomeni sociali quali l’emancipazione delle donne, il loro lavoro extra-domestico, le leggi sul divorzio e sull’aborto, il ruolo del maschio ed il suo ridimensionamento, anche in famiglia. Pur se improntato su quella nucleare americana, un modello sociologico ormai classico per lo studio della famiglia è quello di Parsons (Parsons, Bales, 1955), secondo cui la trasformazione strutturale delle dinamiche familiari ha portato differenziazioni nei ruoli della coppia genitoriale basate sul sesso dei due partner e sulla dimensione interna o esterna del sistema famiglia. L'area ‘strumentale’ rientra nel ruolo del padre in quanto basata sulla dimensione ‘esterna’ alla famiglia e sulla funzione economica del lavoro dell'uomo, mentre la madre è leader nell'area espressivo-emotiva in quanto orientata alle relazioni familiari ‘interne’, quali l’allevamento dei figli, la cura della casa, il supporto emotivo a tutti i membri (Parsons, 1955, 19).

Tenendo in considerazione le osservazioni critiche mosse ad modello parsoniano, alcune ricerche hanno verificato le differenziazioni nel ruolo parentale in un ampio campione di preadolescenti della Nurra (Nuvoli, 1983) e della Sardegna Centro Settentrionale (Nuvoli, 1989) in funzione del livello infantile o generale del problema che investe chi fruisce in prima persona della famiglia: i figli. I risultati indicano che nella percezione di coloro che 'vivono' i rapporti intra-familiari il padre detiene un ridotto peso decisionale nell'area Infantile (15 %) e solo in quella Generale (30 %) sembra raggiungere l'influenza materna. Pertanto nella famiglia del Centro Nord della Sardegna non si rileva un prevalere del ruolo patriarcale, mentre emerge l'ampio spazio percepito dai figli per la sfera decisionale assunta ‘Insieme’ dai coniugi, dato che sembra indicare un modello della vita familiare basato sulla “complementarietà dei ruoli” (Nuvoli, 1989).

I risultati suggeriscono una dinamica fondamentalmente 'patri-matriarcale' della famiglia sarda contemporanea, in cui sia il padre e sia la madre sono responsabilmente coinvolti, o si lasciano coinvolgere, nelle problematiche familiari. Rimane invece ardua da confermare l’ipotesi che questa parità tra i coniugi sia un’acquisizione recente, legata all’emancipazione della donna e alle trasformazioni sociali dell’era contemporanea, oppure sia un’eredità storicamente derivata da una condizione di parità uomo-donna che potrebbe aver caratterizzato la società e la famiglia sarda fin dall’età nuragica.

 

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