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venerdì 6 novembre 2020

Archeologia della Sardegna. L'altare di Monte d'Accoddi, un monumento preistorico costruito 5000 anni fa, all'inizio dell'età del Rame.

Archeologia della Sardegna.

L'altare di Monte d'Accoddi, un monumento preistorico costruito 5000 anni fa, all'inizio dell'età del Rame. 

Video e descrizione


Il tempio altare di Monte d’Accoddi è un edificio monumentale datato alla fine del IV millennio a.C. situato nella Nurra, a 11 chilometri dalla città di Sassari, in prossimità  della ‘vecchia’ 131, in direzione di Porto Torres, nel terreno in origine di proprietà della famiglia Segni. La Scoperta risale ai primi anni Cinquanta del secolo scorso e lo scavo fu voluto dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, un sardo che sarebbe divenuto poi presidente della Repubblica, il professor Antonio Segni. A causa della scarsità di archeologi fu necessario richiamare dalla Soprintendenza di Bologna, un giovane archeologo sardo, Ercole Contu, che si convinse che il tumulo altro non fosse che la rovina di uno dei tanti nuraghi, circa ottomila, che caratterizzano il paesaggio isolano. Tuttavia, gli scavi dimostrarono che la collina non nascondeva alcun nuraghe ma erano rovine di un eccezionale monumento preistorico, molto più antico dei primi nuraghi. Il complesso comprende un altare, un villaggio e una necropoli ipogeica.  L'altare è

unico nel suo genere nel Mediterraneo occidentale e si compone di grande terrazza tronco-piramidale e di una lunga rampa d'accesso trapezoidale. La muratura esterna è costituita da grandi blocchi calcarei sbozzati. L'edificio si sovrappone ad un altare precedente formato da una terrazza quadrangolare di minori dimensioni e da una rampa. Sulla sommità della terrazza era situato il sacello rettangolare intonacato di ocra (il tempio rosso), del quale si conservano il pavimento e, in parte, il muro perimetrale. Per la sua somiglianza con le strutture mesopotamiche, il tempio è considerato l’unica ziqqurat del Mediterraneo. Accanto all’altare si trovano un menhir a forma allungata (alto quattro metri e mezzo), un’enorme lastra con sette fori (forse per legare degli animali, vittime sacrificali) e massi di pietra sferoidali, uno di cinque metri di circonferenza.  La struttura originaria, denominata "Tempio Rosso", fu edificata in una fase avanzata della cultura di Ozieri (3000 a.C.), nella stessa area dove nel IV millennio, si era sviluppato un villaggio connesso ad un'area sacra megalitica. Dopo essere stata abbandonata da circa due secoli, l’area fu ricoperta da terra e pietre ma intorno al 2800 a.C. sorse una nuova struttura, quella che oggi vediamo, caratterizzata da una grande piattaforma piramidale a gradoni, con lati più lunghi della precedente e accessibile da una rampa, lunga quaranta metri e larga da tredici a sette.

La funzione dell'Altare di Monte d'Accoddi è quella di "luogo alto" dove probabilmente si riunivano le comunità per compiere riti legati alla fertilità. L’edificio conservò la funzione religiosa per un millennio: ai suoi piedi sono stati trovati resti di pasti sacri e oggetti usati nei riti propiziatori. Il sito fu abbandonato a inizio del Bronzo antico (1800 a.C.) e riusato saltuariamente per sepolture.

Il professor Antonio Segni, insigne studioso di diritto e appassionato di archeologia, si era persuaso che quella misteriosa collinetta che sorgeva in un terreno adiacente a una sua proprietà, a una decina di chilometri da Sassari, altro non fosse che un tumulo etrusco o qualcosa di simile, e per questo ne aveva caldeggiato lo scavo e facilitato il finanziamento. Ercole Contu, incaricato per gli scavi dal 1952 al 1958, era convinto che il “tumulo” altro non fosse che la rovina di uno dei tanti nuraghi che caratterizzano il paesaggio isolano ma gli scavi rivelarono che la collina non solo non nascondeva alcun nuraghe ma era stata prodotta dalle rovine di un eccezionale e finora unico monumento preistorico, molto più antico dei nuraghi. Per la sua posizione dominante in un territorio pianeggiante, l’altura fu scelta durante l’ultima guerra per impiantare delle batterie contraeree e ciò ha gravemente danneggiato gli strati superiori del monumento.

Durante gli scavi furono individuate numerose domus de janas e alcuni villaggi disposti intorno al santuario preistorico a indicare un territorio fittamente abitato. Dopo circa vent’anni, dal 1979 al 1989, i lavori furono ripresi da Santo Tinè, dell’Università di Genova, che pensò a un tumulo realizzato sopra una tomba megalitica e decise di affrontare lo scavo del riempimento della terrazza fino a raggiungere la base della costruzione, a una profondità di circa 8 metri. L’altare non custodiva alcuna tomba, ma l’intervento rivelò interessanti elementi architettonici e culturali. Si scoprì che l’altare messo in luce da Ercole Contu era stato preceduto da un altro edificio simile nella forma ma di minori dimensioni, e successivamente inglobato in quello che ora possiamo ammirare. Inoltre, sul piano di svettamento di questo edificio più antico vennero alla luce i resti di una struttura rettangolare, punto di arrivo della rampa e sacello del tempio. Pertanto, l’altare a terrazza più antico è stato rifasciato e ingrandito nelle forme attuali. L’altare a terrazza più recente presenta una base di 37,50 x 30,50 metri, mentre la rampa ha una lunghezza di 41,50 metri ed è larga da un minimo di 7 metri nella parte iniziale sino a un massimo di 13,50 nel punto di raccordo con il lato sud della terrazza. Le murature del monumento, che si conservano ancora a sud-est per un’altezza di 5,4 metri, sono costituite da grossi blocchi poliedrici di calcare, appena sbozzati e disposti in filari irregolari. Queste murature, fortemente inclinate per ragioni di statica, erano costituite dalle sole pietre a vista e avevano la funzione di sostenere un ammasso stratificato di terra e pietrame. La rampa, costruita con la stessa tecnica, fu aggiunta alla struttura tronco-piramidale poco dopo il primo filare e per questo motivo aveva anche esercitato funzione di piano inclinato per edificare il resto dell’edificio principale. La costruzione occupa una superficie di 2500 metri quadri, mentre il suo volume risulta di 7600 metri cubi.

La ziggurat più antica scoperta da Santo Tinè all’interno della costruzione portata alla luce da Ercole Contu, si distingueva per una particolare cura e raffinatezza, con pareti intonacate e dipinte di rosso. Anche il pavimento e le pareti del sacello erano intonacate e affrescate con colore rosso ocra, da qui la denominazione di tempio rosso. L’ingresso al vano era segnato ai lati da due buche di palo riferibili a un piccolo portico: altre buche per contenere i portanti del tetto a doppio spiovente erano presenti nel pavimento. Il villaggio-santuario circostante è ricco di  ritrovamenti di cultura materiale. In prossimità della rampa c’è un lastrone trapezoidale in calcare che poggia su tre supporti irregolari, ricco di coppelle. I bordi presentano sette fori passanti, forse creati per legarvi degli animali per sacrifici. Sotto la lastra c’è un inghiottitoio naturale, probabilmente legato a culti del mondo sotterraneo. Un menhir in calcare giaceva rovesciato sul lato opposto della rampa. Vicino al grande lastrone, ma fuori posto perché proveniente da oltre il muro orientale di recinzione della zona archeologica, si trova una pietra sferoidale, in arenaria grigiastra, rifinita accuratamente e con la superficie punteggiata di piccole coppelle.

Non lontano dal luogo di provenienza dell’omphalos, sono stati rinvenuti due menhir rovesciati sul terreno. Uno è di arenaria, mentre l’altro è di calcare: di colore bruno-rossastro il primo e bianco il secondo, forse a voler distinguere rispettivamente l’uomo e la donna, corrispondenti forse a principi divini o antenati «eroizzati» oppure ancora alla forza generativa della natura. Forse, come avveniva nelle ziggurat  mesopotamiche, anche la piramide tronca di Monte d’Accoddi era destinata alle feste sacre legate al ciclo agrario, alla feracità dei campi, ai riti propiziatori della fertilità per uomini e animali. Adiacenti l’edificio c’erano due stele: la prima, in pietra calcarea e frammentaria, presenta un disegno con losanga e spirali e fu recuperata entro la grande rampa; la seconda, in granito e di forma rettangolare, è decorata in entrambe le facce e presenta una figura femminile stilizzata in rilievo: fu trovata nei pressi della parete settentrionale della terrazza più antica. Sia negli scavi Contu sia in quelli successivi si rinvennero fondi di capanna e materiali riferibili alla cultura di S. Ciriaco, circa 4000 a.C.  che ha preceduto la costruzione del monumento. Si è stimato che l’area abitativa si estendesse per circa 2 ettari. Tinè ha ipotizzato un villaggio di 150 capanne, abitate ciascuna da 5 unità. Per la costruzione si utilizzarono mattoni crudi, canne, frasche e intonaco di fango, e si sono trovate varie impronte su argilla bruciata. Anche i tetti, a uno o due spioventi, dovevano avere un telaio realizzato con legni e copertura straminea. Il pavimento di queste capanne era fatto con brecciame fino di calcare. In una capanna posta tra le due tavole di offerta, era ancora conservato il focolare rettangolare in argilla con bordo in rilievo. In tutta l’area intorno al grande altare sono stati rinvenuti mucchi di conchiglie, forse resti di pasti sacri, accanto a ceneri e carboni; ma erano abbondanti anche i resti di pasto di animali attuali, domestici e selvatici, lumache, ricci di mare, cozze, orate e grandi bocconi di mare, usati anche come strumento per suono a fiato. Si è recuperato, inoltre, un numero insolito di punte di freccia e lame in selce e ossidiana, e di accette in pietra levigata. All’interno di un vaso si trovarono otto pesi riferibili a un primitivo telaio verticale. Vicino all’altare, come statuette in pietra femminili, di tipo cicladico, e forse anche il frammento di un ciotolone emisferico con incisa una scena di danza. Solo di recente si è potuto accertare che il nome più antico documentato nelle carte catastali è «Monte de Code», che significava «Monte, collina delle pietre». Il riferimento alla pietra si ritrova anche nella traduzione spagnola, risalente al ‘600, del condaghe medievale di San Michele di Salvennor, nel quale la collina viene chiamata «Monton de la Piedra».


Immagini di: LaPArS - Laboratorio di Preistoria e Archeologia Sperimentale, Dipartimento di Storia, scienze dell'uomo e della formazione Università di Sassari

http://www.lapars.it/it/le-ricerche/contesti/monte-daccoddi

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