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lunedì 5 ottobre 2020

La Sardegna antica consacrata alle donne. "Icnusa" significa "Is Cunnusas" (Le Veneri) e a loro era dedicata una via che attraversava il centro dell'isola. Articolo di Bartolomeo Porcheddu

La Sardegna antica consacrata alle donne. "Icnusa" significa "Is Cunnusas" (Le Veneri) e a loro era dedicata una via che attraversava il centro dell'isola. 

Articolo di Bartolomeo Porcheddu

«Come si chiama quel nuraghe» avrebbe chiesto Giorgio, appena nominato vescovo di Suelli (in carica fino al 1117), ai suoi accompagnatori che gli facevano conoscere il territorio della diocesi. «Si narat (dice) Nuraxi de su Cunnu» avrebbero risposto questi alla sua domanda. «Come!» avrebbe esclamato il prelato con tono sbalordito. «Questa è una parola impronunciabile per chi ha acquisito un’educazione cristiana!» avrebbe aggiunto. Quindi, avrebbe concluso dicendo: «Lo chiameremo da oggi “Su Nuraxi de su Nòmini Ma[l]u” (Il Nuraghe del Nome Malo = Cattivo, Brutto)».

Il Cunnu, in sardo organo genitale femminile, divenne durante il periodo Cristiano medievale una parola vietata in pubblico, soprattutto in presenza delle donne a cui il “Cunnu” apparteneva. In tempi precedenti, invece, l’espressione “Su Cunnu Doxi” (12 Cunnos) poteva rievocare le 12 divinità dei

Titani, che, come una moderna par condicio, erano composti da sei maschi e sei femmine. Oppure, tale detto poteva richiamare le 12 Pule o Stelle delle Pleiadi, ammasso stellare della costellazione del Toro/Boe, considerate Buadas, da boe, quindi Beadas (Beate) fra le Stars/Stelle.

Dodici era il numero perfetto per i Sardi. Ancora oggi si può contare a due a due fino alla dozzina (una paja/pàriga, cuartina/chemu, sestina/meza dozina, otava, deghina e dozina). Dodici erano state le fatiche di Ercole (divinità ed eroe eponimo dei Sardi), dodici le lunazioni e dodici le tavole delle leggi. Dodici erano le verghe che costituivano il fascio littorio per rappresentare le 12 città della “dodecapolis” che trasponeva le dodici “pulas” delle Pleiadi sulla terra e dodici divennero in seguito i discepoli di Cristo.

Il “Cunnu” era un dono del cielo, che i Sardi avevano visto nella costellazione oggi detta del “Cigno”, formata da alcune stelle che disegnano una “Croce”. Il Cigno era chiamato in greco antico Κύκνος (Kùknos) e in latino Cygnus. In entrambi i lemmi, la voce si leggeva “Cunnos” e “Cunnus” poiché le lettere interne /k/ greca e /g/ latina erano rafforzative della consonante successiva /n/. Pertanto, senza la desinenza sigmatica –s del nominativo, poiché il sardo non possiede i “casi”, il termine diventa “Cunnu”. In altre parole, il Cigno della famiglia dei volatili anatidi era sinonimo del Cunnu femminile.

In effetti, sia il Cigno che il Cunnu hanno le “Ali”, in quest’ultimo caso chiamate in anatomia “Grandi Labbra”, che se aperte danno proprio la percezione delle ali di un cigno. Per questo, la divinità femminile del Cunnu venne identificata in periodo romano tardo repubblicano e imperiale come la “Dea alata”, chiamata anche della “Vittoria”, raffigurata con le sue ali aperte. Questa metonimia (scambio di nome) è resa evidente in un affresco di Pompei, in cui Giove si trasforma in un Cigno per ingannare Leda e accoppiarsi con lei.

In tempi precedenti, invece, la divinità di Cunnusa era vista come una figura umana dai lineamenti bellissimi. L’artista Prassitele era riuscito a farla vivere scolpendola in un blocco di pietra. La statua, dice Callimaco, fu esposta nella città di Κνυδιος (Knydios = Cunnusu, traslitterato in sardo, poiché la d+i+vocale si leggeva come una /s/ sonora), nella regione storica della Caria anatolica e, come racconta Plinio il Vecchio, la scultura di Cnydia/Cunnusa era talmente bella che molti andarono a vederla, come fanno oggi i pellegrini in un viaggio religioso.

Nell’estrema alternanza tra odio e amore, tra vita e morte, l’altra faccia della medaglia opposta alla Testa è la Croce. In sardo “arru[gh]inare” vuol dire “mettere in croce”, mentre espressioni quali “Cravarinci in su cunnu” (chiuditi nella vagina) o “Torradinci in su cunnu” (ritornatene nella vagina) prefigurano un ritorno nell’utero materno della persona a cui è rivolta la bestemmia. Idealmente, la crocifissione rappresentava per il condannato un rientro nel luogo da cui era nato. Tale pena era riservata a chi aveva commesso reati gravi. Nel 403 a.C., come racconta Plutarco, il comandante cartaginese Magone per paura di affrontare il nemico si suicidò. Ma, per punire la sua codardia, fu crocifisso cadavere.

Conquistare il Cunnu era per l’uomo, e lo è ancora, una sfida per ottenere la “Vittoria alata”. Uno dei più grandi condottieri della storia, Costantino il Grande, prima della fatidica battaglia del 312 contro Massenzio a Roma nei pressi di Ponte Milvio, fu illuminato dalla Croce che gli apparve di notte. La visione di Costantino non era dovuta alla Croce di Cristo, poiché egli era un pagano convertitosi al cristianesimo solo in punto di morte, ma a quella della costellazione del Cigno o del Cunnu. Con tale simbolo impresso nelle armature, Costantino conquistò la sua importante Vittoria alata.

L’ultimo grande personaggio che subì l’umiliazione della crocifissione fu Cristo, a cui fu associata la Croce come simbolo del Cristianesimo. Tale emblema era stato utilizzato in precedenza dagli Egiziani con la “Croce Ansata” e prima ancora di questi dai Sardi attraverso la costellazione del Cunnu. Quasi riproponendo l’architettura ad imitazione della Croce del Cunnu, i Sardi antichi costruirono centinaia di Pozzi sacri che nella loro idealizzazione rappresentavano il ventre della Terra, dalla cui natura, attraverso l’acqua che ne sgorgava, la Dea Madre donava la vita.

Per questo la Sardegna venne chiamata in antichità Ichnusa, ovverosia Terra de Is Cunnusas. La dea sarda della bellezza e dell’amore, Cunnusa, fu chiamata dai Greci Ἀφροδίτη (Afrodite), che significa letteralmente “schiuma”, epiteto riportato dai Romani con il calco di Venere (ablativo singolare), che traduce il verbo “Vènnere” nell’atto conclusivo dell’amore, ossia nel “venire”. I Romani dedicarono a Venere anche la giornata del Venerdì, ma i Sardi non accettarono mai questa imposizione e continuarono a chiamare tale giornata Chenàpura, Chenàbura o Cenàbara.

Con la sovrapposizione cultuale del Cristianesimo al Paganesimo, quasi tutti i monumenti megalitici dedicati alla dea Cunnusa furono man mano rinominati dai sacerdoti della nuova Chiesa. Non essendoci però una figura femminile di rilievo nell’organigramma ecclesiastico cristiano che potesse reggere il confronto, i Santuari dell’antichità furono ribattezzati generalmente con l’appellativo di “Costantino”, quindi in sardo Antine, Gantine o Bantine, ovverosia con il nome di colui che aveva vinto la battaglia con la Croce, simbolo del Cunnu. In altri contesti Cunnusa poteva essere sostituita da Vittoria, la dea alata come le labbra del Cunnu.

La strada che da Olbia andava a Cagliari attraversando la Sardegna centrale, chiamata nell’Itinerario Antonino (Itinerarium provinciarum Antonini Augusti) Ab Ulbia Caralis (Da Olbia a Cagliari), è denominata nella Tabula Peutingeriana (III-IV secolo dopo Cristo) con l’appellativo di Crucis, che significa “Della Croce”. In altre parole, quella strada segnava un’antica “Via Crucis”, la cui denominazione fu ripresa nel Medioevo dai Cattolici per esternare la “Passione di Cristo”. Quando il Cunnu divenne una parola impronunciabile, il “Cunnu doxi” fu trasformato in “Santu doxi”. È molto probabile quindi che “Dodici” fossero le soste lungo il tragitto della Via Cunnusa o Della Croce.

L’Itinerario Antonino mostra solo tre stazioni di sosta intermedie da Olbia a Cagliari. La prima località è indicata con il toponimo di Caput Tyrsi (Capo del Tirso), posto non sull’Altipiano di Buddusò, dove nascono le sorgenti del Tirso, ma nel punto in cui il Rio che scende da Osidda si incontra con Il Riu Mannu di Benetutti. In quella biforcazione sono presenti le ancestrali terme di acqua calda dove i Nuragici vi costruirono sulla collina che domina la vallata il loro santuario. Sopra quei resti megalitici è stata edificata nel Medioevo, ed è ancora oggi presente, la chiesa di San Saturnino.

L’idronimo “Tirso” era denominato in greco Tursos e in latino Tyrsus. Poiché in entrambi i lessemi il grafema /s/ è rafforzativo della consonante precedente /r/, senza la desinenza sigmativa –s del nominativo, il termine si legge “Turru”. San Saturnino, pertanto, non è stato messo lì a caso, in quanto il suo nome è ricordato in sardo con Santu Saturru, il cui suffisso –turru riporta esattamente il nome antico del Tirso. Saturru, sonorizzato in Sadurru, nell’antichità precristiana, era la divinità che deteneva il bastone di comando, il Tirso, che Ercole gli aveva prestato, detto in sardo Turru.

La seconda fermata indicata nell’Itinerario Antonino è Sorabile, che gli storici hanno individuato nei pressi della cittadina di Fonni, nel luogo chiamato Soravile. È improbabile che una delle principali strade dell’Isola passasse sulle montagne del Gennargentu, in passi che sfiorano in media quote vicine ai mille metri e che durante il periodo invernale, soprattutto in antichità, risultavano impraticabili a causa del gelo. Inoltre, le miglia indicate nell’Itinerario non corrispondono alla realtà, poiché la distanza tra Soravile/Fonni e Biora/Serri, la successiva fermata, è di XLV miglia (66,6 km), mentre attualmente da Fonni a Serri intercorrono 93 km.

Un altro motivo per cui la Via Cunnusa non poteva passare per Soravile è dettato dal fatto che il percorso era segnato dai più importanti santuari dell’epoca. Per cui, Sorabile dell’Itinerario non è il sito di Soravile a Fonni ma il centro di Sorradile posto nella regione del Barigadu. Questo territorio deve il suo coronimo proprio al transito quasi obbligato da una sponda all’altra del Tirso, che in sardo viene detto per l’appunto “Barigadu”, vale a dire “Varcato”. A Sorradile, toponimo costituito da “Sorra”, divinità precristiana, e “Idile”, da Idas (luce lunare), è ancora presente il santuario nuragico dedicato a tale divinità.

Terza tappa intermedia prima di giungere a Cagliari era quella di Biora, centro individuato tra Isili e Serri, posto ai piedi del famoso santuario nuragico di Santa Vittoria. L’importanza del territorio circostante è anche citata da Claudio Tolomeo nella sua “Geografia” con l’indicazione della città di Valenza situata nei pressi del paese di Nuragus. Nel toponimo Biora, in effetti, sono riportate le lettere di Bi[t]ora o Bi[t]or[i]a, il nome della Dea alata. Poiché nella scrittura antica sillabica non esistevano i dittonghi, la vocale /o/ di Biora doveva essere accompagnata da una consonante, nel nostro caso la /t/, per costituire la Bitora o Bitòria.

Sebbene i Cristiani abbiano cercato di bonificare i nomi dei più importanti luoghi pagani, la memoria storica dei Sardi non è stata del tutto cancellata. Percorrendo a ritroso nel tempo e nello spazio l’antica Via Crucis, Via della Croce o Caminu de su Cunnu, è possibile ancora oggi individuare nomi e luoghi legati alla divinità della bellezza femminile sarda, ovverosia alla dea Cunnusa. Partendo da Olbia il viaggiatore incontrava il paese di Loiri, poi Padru e quindi Alà dei Sardi, il cui toponimo riporta la “Ala” o “Alas” della Croce. In questo luogo sono ancora presenti tracce della strada romana.

Subito dopo, il pellegrino incontrava Buddusò e quindi Caput Tyrsi per poter fare un bagno caldo nelle terme. Da qui la strada percorreva a mezza costa la “Costera” del Goceano incontrando “Bantine Longu” tra Bottida e Illorai, “Bantine Cruo” a Bolotana e Santu Antinu a Sedilo. I betili ancor presenti nella Piazza San Giovanni del paese e quelli disposti nel Santuario di San Costantino di Nordai testimoniano la maestosità di questo luogo consacrato alla “Croce” di Costantino. Quindi il viaggiatore poteva incamminarsi in direzione di Soddi e Zuri, dove nel Medioevo è stata costruita dai regnanti di Arborea la chiesa di San Pietro con l’effige di Mariano IV.

Barigadu, varcato, il Tirso, si raggiungeva Sorradile, nel cui territorio era presente nel Medioevo il villaggio di Sorra, dedicato all’omonima divinità, e ancora oggi si può ammirare il bellissimo altare nuragico riprodotto su pietra di Su Monte, sito con vasca tipica del tempio a pozzo. Da Sorradile a Ortueri si passa per il centro di Neoneli, nel cui territorio era presente un villaggio medievale dedicato proprio a Santu Antine. Poco prima di Ortueri, il viaggiatore transitava presso la valle di Alas Ruinas, un importante centro che riporta nel toponimo proprio le Ali della Croce (Rughinas).

L’attuale strada provinciale taglia il territorio di Ortueri per giungere direttamente a Samugheo, in cui si festeggia ancora oggi San Costantino. Da qui, si raggiungono in sequenza i paesi di Asuni e Nureci per giungere a Genoni. Il Santuario di Monte Santu Antine a Genoni si poteva anche raggiungere attraverso la strada che da Allai porta a Ruinas. Questi due centri, ad alta densità di siti archeologici, portano insiti nel loro toponimo rispettivamente i nomi dalle Ali e della Croce: Alas e Rughinas.

Il Monte Santu Antine di Genoni si staglia imponente alle spalle del centro abitato e presenta ancora oggi le vestigia sovrapposte delle civiltà romana, punica e sarda. Il suo colle piramidale ha visto scalare verso il cielo migliaia di pellegrini. A distanza di qualche chilometro, il viaggiatore poteva sostare nella città di Valenza, presso il pozzo nuragico di Coni (Nuragus), o nel nuraghe complesso di Is Paras a Isili, prima di giungere a Serri, dove sotto la Giara era posta la stazione di Biora.

Il Santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri è uno dei luoghi cultuali più affascinanti della Sardegna. Immaginarlo integro così come si presentava in antichità  al visitatore fa pensare a come quell’altipiano potesse colpire l’occhio e la mente del viaggiatore, tanto da poterlo catapultare a due passi dalla Croce della costellazione del Cunnu. In questo santuario, donato ai Sardi dal cielo, nelle chiare giornate d’estate era possibile vedere o immaginare la Vittoria alata scendere sulla terra dell’Isola Sacra. Quando i Romani giunsero in Sardegna, queste strade erano già state percorse secoli e secoli prima.

Nelle poche miglia che separavano Biora/Serri da Carale/Cagliari, in antichità, il pellegrino non troppo frettoloso poteva ammirare le acque di Is Bangius a Mandas, il Nuraghe Piscu a Suelli, la Dea Madre a Senorbì, gli ex voto in terracotta di Linna Pertunta a Sant’Andrea Frius, su Cùcuru de sa Crèsia Arta a Soleminis, prima di giungere al pozzo sacro di Cùcuru Nuraxi a Settimo San Pietro, centro così chiamato perché distante sette miglia da Carale/Cagliari.

Claudio Tolomeo, nella sua Geografia, aveva trascritto per la Sardegna il popolo Cun[n]usitani, etnico chiaramente riferito al Cunnu. È difficile individuare la collocazione areale di questa popolazione, semplicemente perché esistevano tantissimi centri devoti alla divinità di Cunnusa, come la Regia Nuragica di Santu Antine. Un altro esempio era costituito dal promontorio costiero posto poco prima di Cagliari in direzione di Pula e chiamato da Tolomeo Cuniucharium. Tale toponimo riporta il coronimo della Caria sarda, terra madre di quella anatolica, con la località di Cunnu, simile alla città caria di Cunnusa.

«Cos’è nella vita più importante del Cunnu, che attraverso l’amore dona altra vita?» avrebbe sussurrato sottovoce uno degli accompagnatori del vescovo di Suelli una volta congedatisi dal prelato. «La bellezza femminile è come la giovinezza che ti sorride» avrebbe accennato un altro astante. Ed un terzo avrebbe aggiunto: «Possono anche chiamare il Cunnu con altro nome: Cigno, Croce, Costantino, Ali, Vittoria, Nòmini Malu o altro; ma sempre Cunnu rimane». L’ultimo accompagnatore che era rimasto in silenzio, alla fine, sollevando la mano in direzione del vescovo che andava via, avrebbe sbottato dicendo: «Ma poita non ti nci cravas in su cunnu?».

Nell'immagine di copertina: la roccia a forma di vagina a Santo Stefano di Oschiri.

5 commenti:

  1. Finalmente sappiamo in modo inequivocabile che su cunnu esti stettiu sempri adorau commenti a sa cosa prusu bella de su mundu.

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  2. Molto dotto, oltre che scorrevole e interessante, il saggio di Bartolomeo Porcheddu il quale non sa, o forse se ne frega, del pericolo che corre a dire certe cose perché verrà additato come un sobillatore dell’indipendentismo o del revanscismo dei Sardi che non si rassegnano a chinare la testa.
    Ha parlato dei pozzi sacri, non però delle Tombe dei Giganti, i quali si presentano come una testa del Toro rovesciata (così la descrivono gli archeologi), con le corna distese, basate sull’unica apertura che porta nell’antro interno in cui venivano riposti i corpi dei defunti. A ben vedere, anche quelle Tombe raffigurano su Cunnu, con le corna che fanno da ali all’apertura d’ingresso (di norma tenuta chiusa), e la capiente cavità che simula l’utero. I defunti vi venivano deposti perché potessero tornare a nuova vita, così si crede che credessero.
    Ecco perché quel “Torradinci in su cunnu” sicuramente non metteva in gioco i genitali della madre terrena, ma appunto quelli de su Cunnu Doxi, la Dea Madre, la Terra di cui tutti siamo figli, insomma quella Cunnusa di cui si parla, dato che Doxi significava “Santu”.
    In effetti dunque, “Torradinci in su Cunnu” è ancora oggi un modo brusco di chiudere un discorso che non approda a nulla e non un insulto (e tanto meno una bestemmia), ma un invito, seppure rude, a che l’amico tornasse a nascere così che avrebbe potuto comprendere di più della vita e del mondo.
    Quanto poi a “su Santu Doxi”, visto che abbiamo detto che Doxi appunto significava “Santu”, l’espressione sarebbe stata incoerente, come a dire “su Santu Santu”. Credo che si possa pensare che Santu Doxi alluda ai genitali maschili. Non per nulla, se Camilleri usava dire “non mi rompere i cabasisi”, Benito Urgu è solito esprimersi con “no mi seghisti is Santissimus”.
    Ma Urgu, si sa, spesso esagera.
    Ciao Benito!
    Francu Pilloni

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  3. Che dire, mi si apre un mondo a me sconosciuto, grazie Pierluigi

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  4. Avevo letto da qualche parte che il venerdì si chiama cenabara in ricordo dell'ultima cena, quella del venerdì santo

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  5. Mah. Troppa fantasia, mi stupirei se le cose giuste raggiungessero il 10%.
    Insomma, le etimologie e le forme dei simboli molto semplici sono prove deboli, ma forse se ne possono trovare di più forti.
    La Venere di Willendorf, le foto nei libri della Gimbutas, le Sheela-na-gig, gli specchi etruschi, e anche la Venere di Cannicella (non ci credo che la sua mano mancante coprisse il pube, l’ho rivista ieri, al museo civico di Bologna dove è in mostra temporanea), certe usanze riferite dal “ramo d’oro” di Frazer… quella cosa oggi sconveniente, nel passato non lo era, questo è vero, e immagino che parlare delle sue rappresentazioni antiche possa aiutare a decifrare la vita di certe popolazioni, in modo più scientifico di quanto fatto dalle scrittrici femministe.
    Ed è proprio certo che la Sardegna fosse matriarcale, come molti dicono? Tra i simboli scolpiti a Supramonte e recentemente ritrovati, come riferito da questo blog, ci sono simboli femminili? E non parlo di croci, ma di simboli più espliciti, o di quelli di “il linguaggio della dea” della Gimbutas.
    Gabriele Speranza

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