mercoledì 29 luglio 2020
Archeologia della Sardegna. Il suono degli scudi oblunghi dei guerrieri-sacerdoti di Mont’e Prama. Articolo di Giovanni Ugas
Archeologia della Sardegna. Il suono degli scudi oblunghi dei guerrieri-sacerdoti di
Mont’e Prama
Articolo di Giovanni Ugas
Alla ricerca del ruolo
dei personaggi col pugno guantato
Nell’ampio panorama dell’arte scultorea sarda del I Ferro un
posto rilevante è occupato dalle immagini maschili connotate dallo scudo
oblungo, tenuto ora al fianco, ora sopra la testa. Nel suo magistrale catalogo
“Le sculture della Sardegna Nuragica del 1966, Giovanni Lilliu definiva
pugilatore l’immagine in bronzo con scudo oblungo sulla testa da Cala Gonone di
Dorgali (n. 64) che, in precedenza, Doro Levi (1949) aveva
riconosciuto in un cuoiaio per via del guanto che proteggeva la mano da una
supposta lesina. Il Lilliu, richiamando lo scudo oblungo dei gladiatori Sanniti
studiati da S. Ferri (1963) interpretava la figurina di Dorgali come un
gladiatore-pugilatore, perché sarebbe caratterizzato dal caestus, cioè il
“guantone armato da una “acuta prominenza metallica (di bronzo o di piombo)”,
correlato con una fasciatura, una sorta di manicotto a protezione
dell’avambraccio (brassard). Allo stesso tempo il Lilliu riteneva
problematicamente che fosse un sacerdote-militare la
nota figurina enea da
Vulci (n. 111,) con scudo oblungo al fianco. Più tardi, in varie
campagne di scavi condotte a partire degli anni ’70 nella necropoli di Monte
Prama di Cabras sono venute alla luce numerose grandi statue in calcarenite con
scudo oblungo, per lo più portato sopra la testa e in minor numero al
fianco.
Recentemente, come riporta
l’Unione Sarda del 3 Luglio c.a., l’amico Raimondo Zucca e Giacomo Paglietti,
includendo le immagini con scudo oblungo “tra gli inermi”, diversamente dalle
altre figure ritenute di guerrieri (arcieri e portatori di spada) di Mont’e
Prama, basandosi sui tagli con tracce di pittura rossa osservati sul petto e
sulle gambe, hanno sostenuto l’innovativa ipotesi che si trattava di giovani
aspiranti guerrieri ritratti nella prova del combattimento iniziatico con
versamento rituale del sangue, attuata col pugnale e usando lo scudo a
protezione della testa e del corpo.
Apprezzo questi nuovi tentativi per scoprire il ruolo dei
personaggi che si celano nelle statue con scudo oblungo, però spiace che sia
sfuggita una mia precedente risposta a questa problematica. Debbo dire,
infatti, che ho avuto sempre delle perplessità riguardo alla definizione di
pugilatore data al bronzetto di Dorgali, perché non mi consta che nella
tradizione letteraria e iconografica più antica (ad esempio nei dipinti
micenei) esistano pugili che combattono con lo scudo e con un solo guantone.
Già nel 2012, nel volume Giganti di pietra, ho riportato tra virgolette la
titolatura “pugilatore” e nel 2014 (Sulle radici della Sardana e del Ballu
Tundu) e poi nel 2016 (Shardana e Sardegna…) in tutte le statue con lo scudo
oblungo ho riconosciuto dei guerrieri-sacerdoti ritratti in procinto di
danzare. Ora, è necessario precisare ulteriormente le ragioni di questa
identificazione.
Le pose dei guerrieri
con lo scudo oblungo e il rango sacerdotale
Osserviamo in primo luogo che nelle figurine con scudo
oblungo alcune caratteristiche fisiche e dell’abbigliamento sono comuni a
tutte, altre sono presenti solo in parte. Tutte mostrano il gonnellino a coda
triangolare, come nel moderno frac, talora abbellita con un ricamo a W. Questo
indumento, già indossato in parata dai Sardi al seguito di Ramesse II, intorno
al 1286 a.C. e più tardi al tempo di Ramesse III (inizi XII sec. a.C.) è
presente anche in 3 arcieri, un capotribù, un probabile sacerdote, un guerriero
forse con stocco, 3 offerenti con pugnale ad elsa gammata; dunque non è
limitato a una sola categoria funzionale, ma tutti sono individui adulti e di
alto rango. Poiché tutte le citate sculture provengono dal Centro-Sud
dell’isola, in attesa di nuovi ritrovamenti, possiamo assegnare il gonnellino a
coda triangolare al popolo degli Iliesi.
Detto ciò, si può constatare che la figurina da Vulci,
connotata da trecce e sandali, mostra il copricapo conico a punta (apex o
pileus) ricurvo all’indietro. In ambito nuragico, come ha ben chiarito Giovanni
Lilliu, l’apex è tipico della classe sacerdotale maschile e femminile e dunque
ci troviamo di fronte all’immagine di un sacerdote e poiché porta uno scudo,
cioè un’arma sia pure di difesa, questo personaggio è anche un guerriero,
dunque un guerriero pervenuto alla carica sacerdotale. Come la figurina
vulcente, sono guerrieri -sacerdoti anche le due immagini scultoree da Mont’e
Prama con gonnellino a coda triangolare e scudo oblungo al fianco, reperite
nelle ricerche di Raimondo Zucca del 2014. Infatti, queste statue connotate
dalle trecce, sono state giustamente ricostruite con il pileo (Francesca
Caputo, M.P. I, 2015, fig. 9, p. 209-211) anche grazie a un elemento litico
conico ritrovato in vicinanza, incavato alla base e pienamente sovrapponibile
alla testa di una di queste due statue. Come ha messo in evidenza Luciana Tocco
(M.P.I, 2015, p. 227) a queste immagini da Mont’e Prama del 2014 appartengono
anche alcuni frammenti di piedi che calzano sandali trovati in prossimità. È
ovvio che i sandali contribuiscono a far ritenere che i personaggi
rappresentati fossero guerrieri pervenuti a un ruolo di alto rango, benché
altri personaggi di alto lignaggio, con bastone e mantello, come il c.d.
Capotribù di Monti Arcosu di Uta, non calzino sandali. La ragione dell’uso o
del mancato uso dei calzari può essere ricercata nel ruolo e nella funzione dei
personaggi, specie nell’ambito della ritualità sacra che in certi casi impone i
piedi scalzi, in altri la calzatura, ma può dipendere anche da altre
circostanze: ad esempio gli Shardana, cioè i Sardi, che combattono a Kadesh,
appaiono scalzi in battaglia, ma con i sandali nella sfilata dopo la battaglia,
rappresentando le guardie del re Ramesse II. In ogni caso, le immagini
scultoree che hanno le trecce e portano lo scudo oblungo, il pileo e i sandali
celebrano personaggi d’alto rango e vanno identificate in guerrieri di rango
sacerdotale. I guerrieri-sacerdoti, guardie sacre di re e di dei, sono ben noti
nell’Egitto dei faraoni e, come si dirà, nella Roma regia, ma possiamo
ricordare anche, per alcuni aspetti, i mitici Coribanti, Cureti e Cabiri.
A questo punto, bisogna chiedersi se tra i portatori dello
scudo oblungo rivestivano lo stesso ruolo sacerdotale dei personaggi tipo Vulci
anche i guerrieri tipo Cala Gonone che non portano il pileo. Bisogna
considerare che, necessariamente, chi ha lo scudo sopra la testa non può
portarlo insieme all’invadente copricapo conico a punta e, pertanto, o era a
testa scoperta o aveva un copricapo non invasivo come la calotta semplice che
vediamo in varie figurine bronzee nuragiche anche di grande rilievo, ad esempio
il capo tribù di Uta, il giovane dio che muore in grembo alla dea da Urzulei e
gli arcieri di Sa Costa in Sardara. Che abbiano la stessa funzione, di
guerrieri-sacerdoti, è indicato dal fatto che tutti i portatori di scudo
oblungo, sia tenuto sulla testa sia tenuto al fianco, hanno gli stessi
elementi: non solo le trecce e il gonnellino a coda ma anche, e ciò è
particolarmente importante, il brassard e l’oggetto tenuto nel pugno guantato.
Ora, andando ad analizzare il frammento di figurina in
bronzo di Serri edito dal Taramelli,
osserviamo all’interno del guanto la punta di un manufatto in bronzo,
una lancia o un pugnale, rinforzata da una nervatura mediana che dava spessore
e robustezza all’oggetto, non però la lama intera, tanto meno col manico se si
trattava di un pugnale; è troppo corto ed è palesemente una “prominenza sul
pugno” per dirla con G. Lilliu. In ogni caso, se come è stato supposto, il
grande scudo serve per proteggersi dai colpi della lama di un ideale avversario
perché non usare altre protezioni? E se l’intento era quello di provocare le
ferite in un rituale d’offerta del sangue perché usare lo scudo? La stessa protezione del brassard al braccio
e la fasciatura alla mano non avrebbero senso. Inoltre, se anche collegassimo
le tracce di pittura rossa e i tagli notati in alcune statue col versamento
rituale del sangue alla divinità, occorre ricordare che tale sacrificio non era
correlato solo con i riti di passaggio
giovanili ma anche con altre forme cerimoniali cruente in relazione con
l’intero ciclo umano.
Indubbiamente, l’ipotesi che l’oggetto tenuto nel pugno
guantato nel reperto di Serri fosse usato al solo scopo di procurare ferite
contrasta con l’intera gamma delle forme di questo oggetto prominente: nel manufatto di Serri è l’estremità acuta di una lancia o di un pugnale; nelle
statue di Mont’e Prama è ampia e spessa come l’estremità di un’accetta metallica o litica; risulta tripartita con risalto centrale nel bronzetto di Cala Gonone
di Dorgali. In questo variegato contesto formale doveva
avere una funzionalità in sintonia con gli altri anche l’oggetto che pende
dall’avambraccio del guerriero-sacerdote di Vulci. Nella figurina bronzea vulcente, che tiene
con la mano sinistra lo scudo oblungo al fianco, la mano destra non ha il
guanto perché rappresentata nell’atto del saluto, ma dal polso pende un piccolo
oggetto globulare appiattito a un’estremità circondata, pare, da un anello
metallico. Il rango sacerdotale del personaggio può far considerare l’ipotesi
che siamo di fronte a un contenitore connesso con una pratica rituale, ma il
fatto che questo personaggio avesse il
braccio rinforzato da un brassard, come nelle altre immagini con scudo oblungo,
porta a ritenere che il manufatto pendente dall’avambraccio avesse una
funzionalità analoga o prossima a quella dell’oggetto con prominenza
contundente tenuto col pugno guantato dalle altre statue con scudo oblungo,
manufatto che perciò non può essere
ritenuto il caestus di un pugile, per altro proporzionalmente troppo
piccolo per essere tale.
Nelle statue qui considerate la posizione dello scudo sopra
la testa è palesemente celebrativa, ma non è da credere che quest’arma di
difesa fosse utilizzata per riparar la testa dai colpi di un piccolo oggetto
senza manico o da altre armi da combattimento viso a viso come il pugnale o la
spada; piuttosto, come ha rilevato Marco Rendeli (2008, 2014) e come si evince
da tante iconografie di assedi, ad esempio quello sostenuto dagli Shardana a Dapur intorno al 1287 a.C. poco prima della
battaglia di Kadesh, lo scudo tondo era tenuto sopra la testa per ripararsi dai
proiettili che piovevano dall’alto delle torri o nelle fasi iniziali del
combattimento con i frombolieri e gli arcieri. Occorre dedurne che le due
posizioni dello scudo oblungo dei guerrieri, ora sulla testa ora al fianco,
sono connesse con due differenti azioni celebrative, sceniche. Ciò emerge anche
nelle immagini di altri guerrieri della bronzistica, come gli arcieri dallo
scudo tondo; questi tengono lo scudo ora imbracciato, frontalmente o al fianco,
ora sospeso sulle spalle per indicare rispettivamente l’azione del
combattimento o la posizione del riposo o della marcia o anche l’uso di
un’altra arma come la spada nel combattimento ravvicinato. Lo scudo oblungo
sopra la testa, invadente e fastidioso da tenere con le braccia sollevate, non poteva
segnalare la sosta o la marcia del guerriero, ma piuttosto una situazione
imposta dalle esigenze del combattimento, ma in una scena celebrativa militare
non avrebbe senso la presenza di un oggetto tenuto nel pugno di una mano, salvo
che non fosse un proiettile da fionda (e non è il caso). Ne consegue che
quest’oggetto non è uno strumento di guerra, ma ha un’altra funzione. Ma come
spiegare il brassard?
Nella bronzistica
nuragica il brassard sull’avambraccio è la protezione tipica degli arcieri e
non è da escludere che, raffigurandolo, lo scultore intendesse rivelare che il
guerriero rappresentato era per l’appunto un arciere. E infatti gli
arcieri per difesa portano lo scudo e, come si è accennato, lo usano anche come
testudo sopra la testa per proteggerla dai proiettili, pietre e frecce che
possono piovere dall’alto nel combattimento a distanza o nell’assedio a una
fortezza. Contro questa ipotesi andrebbe il fatto che a Mont’e Prama gli
arcieri sono già rappresentati da altre statue, ma d’altra parte si potrebbe
ritenere che questi guerrieri con lo scudo lungo non erano arcieri semplici ma
arcieri graduati o di rango, dunque guerrieri-sacerdoti. Se invece la statua
non rappresentasse un arciere, resta il fatto che il brassard aveva comunque un
uso protettivo e poiché non è da credere che, per legare il guanto della mano all’oggetto
da essa trattenuto nel pugno, fosse impegnato l’intero avambraccio anziché il
solo polso e occorrerebbe ancora valutarne la funzione insieme a quella
dell’oggetto tenuto nel pugno guantato.
Il suono degli scudi e
la danza dei guerrieri-sacerdoti
A questo punto non si può fare a meno di osservare che il
pugno guantato dei guerrieri di Mont’e Prama, come di tutti i portatori di
scudo oblungo, è sempre portato nella direzione dello scudo oblungo, dunque è
in simbiosi con esso, sia quando lo scudo è sulla testa, sia quando è a fianco.
È palese, a questo punto, che l’oggetto prominente tenuto nel pugno guantato,
di varia forma ma sempre di limitata altezza, aveva la specifica funzione di
percuotere lo scudo. Nei due guerrieri da Mont’e Prama messi in luce da
Raimondo Zucca si osserva con chiarezza la parte ritorta dello scudo oblungo, a
piastra piatta e rialzata al margine, che viene colpita dal percussore tenuto
nella mano guantata. Dunque, possiamo definire questo oggetto nel pugno più
precisamente un percussore, o meglio uno strumento fonico, poiché se il
percussore metallico (o anche litico) andava a battere contro lo scudo è perché
doveva farlo risuonare. Il percussore battuto più volte sulla rigida piastra
metallica dello scudo doveva produrre un suono ritmato che accompagnava le due
rappresentazioni sceniche marziali: lo scontro ravvicinato con lo scudo tenuto
al fianco; l’assedio con lo scudo a riparare la testa. Il suono ritmato, doveva
accompagnare soprattutto, nell’ambito di un cerimonia corale, una danza di guerra. Nella danza, l’arma
d’offesa dei guerrieri (arco, spada o giavellotto) non compariva perché la mano
destra, quella che avrebbe dovuto impugnarla, era impegnata a creare il ritmo
musicale, ma i movimenti del braccio e dello scudo dovevano mimarne l’uso,
accompagnando l’azione coreutica generata dai movimenti delle gambe e dei
piedi. Il brassard si rivela
indispensabile per proteggere l’avambraccio che nel movimento della percussione
toccava l’orlo rialzato della piastra dello scudo in cui batteva il percussore,
che come detto appare rigida e metallica
diversamente da altre parti in cuoio,
duttili e ritorte. È anzi possibile che
il suono ritmato che chiamava alla danza i guerrieri fosse scandito anche dai
colpi sullo scudo dell’avambraccio col brassard, oltre che del percussore. Pertanto il brassard poteva anche non richiamare la figura
dell’arciere.
A questo punto, si può ben ritenere che fungesse da
strumento fonico anche l’oggetto sferico schiacciato che pende dall’avambraccio
della figurina sacerdotale di Vulci ed è rivolto anch’esso verso lo scudo. Mi
verrebbe da definirlo un sonaglio o tintinnabolo. Poiché il segno del saluto
con la mano rivela il rango superiore di
questo personaggio rispetto agli altri
sacerdoti-guerrieri che battono il tempo sullo scudo, è presumibile che
egli dettasse l’inizio e i tempi del ritmo musicale e dei movimenti della danza
e dunque fosse a capo dell’intero complesso di guerrieri-sacerdoti.
Le analogie con i
Salii della Roma regia
Ritroviamo gli scudi oblunghi nelle tombe villanoviane in Toscana e in ambito laziale: si tratta
degli ancili, cronologicamente vicini a quelli di Monte Prama. Gli ancili
accompagnavano le danze dei Salii, i guerrieri-sacerdoti col pileus che stando
a Tito Livio formavano la guardia regia istituita nell’anno 8° (707 a.C.) da
Numa Pompilio, secondo re di Roma (Ugas 2014). I Salii prendevano nome dal
fatto che danzavano saltando, battendo il ritmo con bastoncelli sui loro scudi
piegati ad angolo, secondo qualche altra tradizione con i giavellotti. La forma
degli ancili richiama palesemente quella degli scudi oblunghi dei sacerdoti
guerrieri sardi con il pileo. Inizialmente il collegio sacerdotale dei Salii
era composto da 12 membri ma poi il loro numero fu portato a 24. Stando a
Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane II), i Salii oltre all'apex (dotato di
una punta di legno d'ulivo all'apice) come gli antichi guerrieri, cioè seguendo
un’antica tradizione, vestivano una tunica bordata di rosso con intorno una cintura
di bronzo a cui era agganciata una spada. Inoltre, sopra la tunica indossavano
una pettorina corazzata in bronzo ed un mantello.
La relazione tra gli
ancili laziali e gli scudi oblunghi sardi è transitata attraverso l’Etruria. A
quanto riferisce Ovidio gli ancilia per Numa furono fabbricati dal fabbro
Mamurius o Mamurrius Veturius. Anzi,
secondo Servio, gli stessi Salii sarebbero stati istituiti e dunque derivati da Morrius re di Veio (“dicunt Salios a
Morrio, rege Veientanorum, institutos”). Ora è pressoché certo un legame
tra Mamurius o Mamurrius Veturius e Morrius, vecchio re dei Veienti,
poiché questo gentilizio è già attestato
come Murrius in ambito etrusco. Lasciamo ai linguisti il compito di chiarire se
vi è un nesso linguistico tra il nome (anche personale) sardo murru
significante “canuto, vecchio” (diverso da murru “labbro” derivato dal lat.
morsus), e il nome personale Murrius/Mamurrius (il cui appellativo Veturius,
derivato da vetus “vecchio”, poteva essere un sinonimo). Inoltre, è palese
l’analogia tra la festa di fine anno dei Mur(r)alia (termine derivato da
Murrius), connotata dal sacrificio rituale dei vecchi mascherati con pelli da parte dei membri del collegio sacerdotale dei
Salii che impersonavano gli antenati comites-cureti di Mars, e l’analogo
sacrificio di fine anno, praticato nei paesi della Barbagia, dei 13 (o 12)
mammuthones vestiti con pelli da parte dei Merdules o degli Issokadores.
Una variante della festa dei Mamuralia vedeva per protagonista un
vecchio vestito di pelli chiamato Mamurius Veturius che, agli inizi di marzo,
impersonava l’anno ormai trascorso e veniva cacciato dalla folla a colpi di
bastone per far posto all’anno nuovo. Come capro espiatorio, Mamurius Veturius
doveva essere uno straniero, confermando la sua origine non romana. Al di là
degli aspetti linguistici ed etnografici, ancora da approfondire, considerato
che sul piano culturale e forse politico, allora la giovane città di Roma doveva dipendere
dalla vicina città etrusca di Veio, il cui re, stando a Festo era sardo, si può
supporre, anche per ragioni cronologiche e per la presenza a Vulci della statua
di guerriero sacerdote con scudo oblungo, un’origine sarda degli ancili
laziali, attraverso l’Etruria meridionale.
Suoni e danze al tempo
degli aristoi
Finora nella necropoli di Mont’e Prama sono state
individuate 16 statue con scudo oblungo, circa 2/3 del totale, e questo dato
induce a pensare a una composizione collegiale di guerrieri-sacerdoti e a una
pluralità di famiglie che celebravano il rango sociale di un loro membro.
Considerate le grandi quantità di armi trovate nei contesti del I Ferro, in
particolare nei templi, senza escludere altre ipotesi, è possibile che in
questo periodo un collegio sacerdotale avesse il compito di fungere da scorta
armata (i comites) di un‘importante carica politica, verosimilmente il
magistrato eletto dai dikasteria, i consigli degli anziani di cui scrive
Diodoro Siculo,.
Riguardo alla danza dei sacerdoti-guerrieri nuragici, si
potrebbe obiettare che le immagini in bronzo e in pietra non rivelano
palesemente atteggiamenti coreutici, ma è da credere che nelle sculture i movimenti della danza non potevano essere
evidenziati dalla postura delle gambe per ragioni statiche. Ricordo però che
nel bassorilievo del modello di nuraghe di Cannevadosu (o forse di Mont’e
Prama) di Cabras il personaggio raffigurato con le braccia tese verso l’alto
tiene una gamba sollevata, tanto che c’è
chi ha pensato alla scalata, all’assalto del nuraghe, mentre è da credere che
nel manufatto fosse scolpito un guerriero-sacerdote nell’atto della danza, sia
perché indossa la calotta semplice e il gonnellino a coda triangolare, sia
perché tiene le braccia sollevate verso
l’alto e mostra il pugno chiuso e un avambraccio ingrossato come se avesse il
brassard. Alla danza fanno pensare anche le gambe divaricate e le braccia
sollevate oltre la testa del guerriero in rilievo sull’elsa di una spada da
Abini-Teti (Lilliu n. 343). D’altra parte, un poco divaricate appaiono anche le
gambe del citato guerriero con scudo oblungo da Dorgali e del guerriero analogo
da grotta Carmelo (C. Zervos 1956).
Nella benestante società “aristocratica” nuragica dalle
tradizioni guerriere non dovrebbero sorprendere le rappresentazioni coreutiche
di guerrieri-sacerdoti atte a richiamare gli antenati, a celebrare eventi
bellici di eroi del passato o a portare sulla scena (reale più che teatrale)
cerimonie sacre con sacrifici cruenti. Non si può non tener conto di altri
richiami della pratica della danza in ambito protosardo. Se l’espressività del
suonatore bronzeo di launeddas di Ittiri appare in sintonia con le danze
nuziali erotiche delle coppie in giro tondo (Lilliu, 1966), anche la lira del
musico di Monte Sirai (F. Barreca, 1986, p. 147 fig. 105) e il cantore ritratto
nel bronzetto di Santa Lulla di Orune (M.A. Fadda, 2006) potevano ben
accompagnare danze celebrative e cerimonie gioiose (Ugas 2014). Tra queste
citerei, anche se più recente, la danza delle tre figure femminili (ninfe?),
scolpite in rilevo attorno al simbolo fallico nel cippo in arenaria proveniente
dai dintorni di Tharros (edito in Barreca 1985), che fa coppia con il cippo che
mostra l’eroe (Perseo?) con la ”berrita” del costume sardo, più che con l’elmo
a pennacchio, mentre uccide il mostro marino, cippo dello stesso stile
arcaistico del precedente (sec. VI a.C.).
In conclusione, accertato che le immagini scultoree
nuragiche con lo scudo oblungo sono guerrieri-sacerdoti e non adolescenti
aspiranti guerrieri, occorre definire meglio la ragione della loro danza e gli
aspetti dell’atto coreutico. L’indiscutibile parentela formale e
ideologica con i guerrieri-sacerdoti
Salii induce a supporre che anche i guerrieri danzatori nuragici fossero
coinvolti in cerimonie sacrificali cruente come quella detta murralia praticata
a Roma, il cui nome riporta ad ambito etrusco e forse a un’origine sarda, che
come già riferito trova riscontro nell’etnografia sarda. Nelle comunità “aristocratiche” nuragiche non
mancavano gli edifici destinati agli spettacoli, come gli anfiteatri (gymnasia
in Diodoro Siculo) costruiti con
giri di sedili a gradoni di
Funtana Sansa di Bonorva, Su Romanzesu di Bitti, e Forraxi Nioi di
Nuragus, ma non è da escludere che i guerrieri con lo scudo oblungo isolani
celebrassero i loro riti danzando all’aperto in mezzo alla gente, come i Salii
romani e soprattutto come i 12 o 13 issocadores, merdules e altri collegi
sacerdotali dell’etnografia sarda (barbaricina e non solo). Questi ultimi praticavano i riti cruenti di fine anno
per ingraziarsi la divinità del Tempo e
dell’Acqua che feconda la natura (forse Maimone, che appare con le
caratteristiche di Crono e Poseidon dei Greci e di Giano e Saturno dei Romani;
essi in origine sacrificavano altrettanti uomini in veste di animali
(mamuthones), boes e altri rappresentanti dell’economia agricola, pastorale,
venatoria etc., delle loro comunità, utilizzando oramai simbolicamente, come
strumento rituale, il pungolo o altri mezzi
d’offesa. Il ritmo della danza dei merdules e degli altri sacrificuli
del carnevale sardo è ottenuto, diversamente, col risuonare dei sonagli
(campanelle) in sintonia con il movimento ritmato di tutto il corpo, spalle
comprese, non diversamente dalle loro vittime mamuthones che fanno risuonare
all’unisono i campanacci e altri strumenti di un rituale amaro come gli ossi.
Essi non portano gli scudi e non sembrano guerrieri, ma non è detto che il
Cristianesimo non abbia cambiato profondamente alcuni aspetti delle loro
cerimonie.
Ora, proprio le analogie
notate in precedenza tra i Salii
e i guerrieri-sacerdoti sardi con scudo
oblungo, portano a non escludere che le tracce di pittura rossa e i tagli
osservati in alcune delle statue di Mont’e Prama fossero in rapporto con
sacrifici cruenti legati alle cerimonie di fine anno, come quelli documentati
dall’etnografia e dal rito dei Murralia in Roma, e ciò spiegherebbe perché talora i guerrieri-sacerdoti nuragici abbiano
nel pugno, come nel caso del citato frammento bronzeo di Serri, un oggetto che
può essere usato anche per pungere e ferire, oltre che per battere su uno
scudo, ma si tratta di ipotesi ancora da approfondire, insieme ad altre che
possano spiegare le tracce di pittura rossa e i tagli riscontrati su queste
statue.
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Non conosco i cippi citati e mi piacerebbe indagare su questo passo al termine dell'articolo:
RispondiElimina""Tra queste citerei, anche se più recente, la danza delle tre figure femminili (ninfe?), scolpite in rilevo attorno al simbolo fallico nel cippo in arenaria proveniente dai dintorni di Tharros (edito in Barreca 1985), che fa coppia con il cippo che mostra l’eroe (Perseo?) con la ”berrita” del costume sardo, più che con l’elmo a pennacchio, mentre uccide il mostro marino, cippo dello stesso stile arcaistico del precedente (sec. VI a.C.). ""
Potrebbe fornire indicazioni se non una bibliografia (possibilmente digitale? )
Ringrazio per la cortesia della sua risposta.
Antonio Multineddu
amultin@gmail.com
Risponde Giovanni Ugas
RispondiEliminaGent.mo Dr. Multineddu,
i cippi, in arenaria, sono stati generalmente attribuiti a una produzione punica del V-III secolo a.C. , ma con influsso indigeno. Oltre che nel citato articolo di F. Barreca, Sardegna nuragica e mondo fenicio-punico, in AAVV, La Sardegna preistorica, Nuraghi a Milano, Electa Milano,1985, pp 324-326, figg. 11f-11g (poi La Sardegna nuragica), si trovano in F. Barreca, La Civiltà fenicio punica in Sardegna , Delfino, Sassari, 1986, pag 156,s, figg. 120-121. Non si sa con esattezza la provenienza di questi manufatti, quasi certamente però dal Sinis. A mio avviso, per gli aspetti stilistici, che richiamano i rilievi scultorei del periodo arcaico greco, i cippi vanno attribuiti al VI secolo a C. e riportati ad ambiente sardo del tardo I Ferro piuttosto che ad ambiente sardo-fenicio. Il copricapo dell'eroe che uccide il mostro marino con un robusto stocco richiama il copricapo del costume etnografico sardo e può apparire come l'evoluzione dei precedenti copricapi con pennacchio della bronzistica nuragica. Molto interessante la danza, ma per l'identificazione delle immagini femminili scolpite nel cippo occorre uno studio accurato, che ancora manca. Bisognerebbe capire anche da quale contesto provengono questi cippi: probabilmente funerario piuttosto che templare e ciò pone interrogativi sulla continutià della scultura nuragica dopo le statue di Monte Prama.
salve, cito "città etrusca di Veio, il cui re, stando a Festo era sardo": potrei avere cortesemente il riferimento del passo di Festo? Vorrei approfondire. Grazie
RispondiEliminaFesto, autore latino del II secolo d.C.scrive:“ Reges soliti sunt esse Etruscorum, qui Sardi appellantur. Quia Gens etrusca, Horta est Sardibus", la cui traduzione è: Sono soliti essere re degli Etruschi coloro che si chiamano Sardi. Quindi la gente etrusca origina dai Sardi
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