Archeologia. La collana apotropaica della Signora Punica di Olbia conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Dove è finito il ciondolo?
di Sergio Murli
(Ricevo e volentieri pubblico, l'articolo del 9 Maggio 2016 pubblicato nel mensile di cultura "Città Mese" il tabloid nato a Roma nel 1991 e diretto da Sergio Murli. L'oggetto della trentesima "archeochicca" del giornale riguarda la Sardegna, precisamente la collana punica trovata da Doro Levi nella necropoli di Funtana Noa a Olbia)
Seconda avventura in Sardegna,
questa volta nasce tutto nei pressi di Olbia, precisamente nella località di Funtana
Noa, sito tribolato e massacrato per esigenze militari, in un periodo nel quale
la ragion di Stato non teneva conto minimamente delle radici – certe radici –
della nostra Storia; base di ogni desiderio ed empito che poi porta
inevitabilmente a capire noi stessi, attraverso le vicende di chi ci ha
preceduto. I tempi non erano maturi.
Dunque, anni Trenta del secolo
scorso: in quella zona, scarsamente se non addirittura priva di popolazione, i
Comandi militari intrapresero la costruzione di strutture aeroportuali per
esigenze strategiche, fornite dalle caratteristiche del luogo, particolarmente
vicino al mare e, ripetiamo, con scarsa densità abitativa.
Il grande guaio era che ad
essere fittamente occupata risultava la… necropoli punica, e non soltanto, della
antica città di Olbia.
Dopo anni di devastazioni e spoliazioni – pensate che vennero asportati anche i
blocchi di roccia di alcuni edifici funerari per mettere su certe strutture
degli aeroporti – la Soprintendenza alle Antichità della Sardegna intorno al
1937, poté intraprendere una campagna che tentava di mettere al riparo ciò che
restava delle necropoli puniche, con una stagione di scavo che continuò l’anno
successivo; poi “sospesa” per l’allontanamento del soprintendente Doro Levi,
artefice dell’azione di salvaguardia e
recupero del sito. Levi era ebreo e le
leggi razziali vigenti allora privarono la ricerca del suo maggiore
tutore.
Vogliamo qui ricordare la
vita, abbastanza movimentata di Doro Levi. Intanto un episodio forse determinante
nell’orientare verso il suo allontanamento come ebreo e guarda caso che si lega
alla nostra chicca. Era allora in visita alla Sardegna Hermann Goering, secondo
solo a Hitler; a Goering, conosciuto come collezionista di capolavori
dell’antichità, fu, con gesto adulatorio discutibile, offerta in dono la nostra
collana; ma, incontrò l’opposizione decisa, irremovibile del Soprintendente che
evitò la perdita di questo prezioso reperto. Poi la fine del rapporto con
l’Isola, suo malgrado.
Emigrato negli USA, rientrò in Italia nel ’46 e continuò ad operare nel suo
campo in Europa, ad Atene, in Turchia. Infine, tornato in patria, continuò ad
esercitare nel nome della salvaguardia dei monumenti. Va ricordato che nel
periodo bellico, pur in America, perorò e raccomandò di garantire per quanto
possibile le vestigia antiche dai bombardamenti, spesso indiscriminati sul
suolo italiano.
Si spense a Roma nel 1991,
ultranovantenne; era nato a Trieste nel 1898.
Tornando al periodo sardo,
qualcosa comunque era stato fatto; intanto l’indagine su ben 47 tombe puniche e
romane scavate aveva portato al recupero di reperti atti al studio della zona:
accertata la datazione la datazione che inizia nel IV sec. a. C. si sono
individuate tombe a fossa, alcune con rivestimento sulle pareti di pietre;
sembra che il defunto fosse ricoperto e avvolto in un lenzuolo ed anche
adagiato in una cassa di legno; nel caso della nostra Signora, raccolti 5
chiodi con resti del legno.
Non mancavano le tombe a pozzo
con ingresso che portava alla camera sepolcrale. Il rito è risultato per tutti
quello dell’inumazione.
Già, direte, ma che c’entra
con la Chicca? Un po’ di pazienza, sta arrivando. Detto che sono state scavate
47 sepolture, quella più ricca di reperti e notizie è la numero 24 scoperta
durante l’estate del 1937; è datata a cavallo tra il IV e il III secolo,
era occupata da una sola persona di sesso femminile che doveva essere una gran
dama: si deduce dalla ricchezza e dal pregio del corredo, per fortuna giunto
fino a noi.
Erano presenti sette vasi e, come recita l’elenco della pubblicazione
dell’archeologo e Soprintendente Doro Levi, due di tipo A, una oinochoe
mancante del collo e del labbro, e l’altra spezzata in due; due altre intere e
una mancante del fondo tipo B. Le altre in frammenti. Un boccale in frammenti.
Di alcune forniamo le immagini fotografiche, molto rovinate, e in bianco e
nero, credeteci è già un prodigio essere riusciti – sbattendo sugli ostacoli,
spesso ciechi e sordi, della burocrazia – a reperirle, attraverso la cortesia
squisita, del Dott. Pierluigi Montalbano di Cagliari, autentico faro di una
certa cultura, quella che nulla chiede e molto dà; non ci stancheremo mai di
essergli grati.
Poi una monetina punica di bronzo, molto consumata e con un foro, e che
presenta al rovescio il consueto cavallo davanti a una palma.
Un magnifico specchio
purtroppo molto rovinato e, per quel che ne sappiamo, non ricomposto – perciò
contentatevi del disegno del titolo – liscio da un lato e dall’altro
decorato con cerchi concentrici incisi; con impugnatura lavorata finemente a
volute attorcigliate e con una deliziosa testina nel mezzo, anche questa di
bronzo. Le misure sono, altezza totale circa cm 29, il diametro del disco circa
cm 19. Particolare commovente, lo specchio era delicatamente deposto sul corpo
della defunta; si pensa che questo manufatto fosse opera di un ottimo
laboratorio da individuare nella Magna Grecia, così feconda ed attiva sui
mercati dell’area tirrenica se non mediterranea.
Per ciò che concerne il corpo,
pochi resti; dello scheletro è stato possibile individuare parte delle costole
e delle ossa del torace.
Ma la chicca è senz’altro la importante collana con pendagli e cilindretti,
tutti di pasta vitrea, così affermata e alla moda, all’epoca; era al collo
della Signora, anche se un po’ scomposta, avendo perso da tempo il laccio che
teneva uniti gli elementi.
Era composta da 18 (?) pezzi;
presenti 5 testine umane barbute, meno una dichiaratamente femminile e
spezzata, una testina di ariete ed una di gallo; presenti 2 cilindri con occhioni,
da ascrivere alla funzione apotropaica, due sfere verdi, due piccole sfere con
strisce dipinte, 4 tubuli con decorazione ondulata; ma, a proposito del ruolo
di salvaguardia della salute della proprietaria – ecco la chicca nella chicca –
nella prima immagine fotografica in bianco e nero pubblicata da Doro Levi
appare al posto riservato al pendaglio o comunque al posto più importante del
monile, un amuleto con l’occhio di Iside o forse, più probabile, con quello di
Horus: era traforato a fermaglio, di colore verde. Lo abbiamo un po’…
imbellettato per renderlo ancor più visibile nel particolare che pubblichiamo.
La provenienza del c.d.
ciondolo è stata individuata dal Levi nell’area di Alessandria d’Egitto, così
simile ad un precedente oggetto di una collana affine, proveniente da
Cartagine, bene.
Bene un accidente, perché
vedete, cortesi Lettori, il guaio è che la nostra Chicca nella chicca non
è più presente, già, non si dice che è sparita, è stata trafugata, si è
disintegrata con uno sciagurato restauro, è scomparsa in una notte di tempesta
o durante un trasferimento: no, semplicemente non più presente…
Il problema consiste nel
valore simbolico oltre che storico dell’amuleto, nel valore che veniva
attribuito dalla proprietaria a questo oggetto così potente da tenere lontano i
nemici di qualsivoglia natura, resi dunque innocui. Sarà bene qui chiarire che
gli oggetti preposti a questa funzione erano usati solo dai viventi e contro le
avversità della vita; dopo, con la morte del corpo ben altre entità si sarebbero
prese cura del defunto; la presenza della collana sulla morta va letta come
qualcosa di familiare, sempre indossato in vita e dunque lasciatole per sempre.
Chiarita la probabile provenienza dell’occhio… perduto, si è provato ad
individuare il sito di produzione per gli altri ciondoletti e tubicini di pasta
vitrea. Compito molto difficile in quanto all’epoca, praticamente ogni città
fenicia aveva centri di produzione che lavoravano il vetro; considerate che il
processo che ha portato alla fusione, era noto fin da millenni prima
nell’Egitto faraonico e nella cosiddetta Mezzaluna fertile.
Come nasce la pasta vitrea, è
presto detto per i pochi pigroni che non si sono a suo tempo documentati: è un
composto di sabbia quarzifera, niente paura, più o meno la comune sabbia delle
spiagge, unita ad una sostanza alcalina, il natrum (o natron) che aveva lo
scopo di facilitare la fusione a temperature più basse; ma dire che il natrum
serviva a questo è profondamente riduttivo: Wadi al Natrun, località del basso
Egitto, era famosa e conosciuta fin dalle prime dinastie faraoniche per lo
sfruttamento di questa sostanza salina (minerale carbonato idrato di sodio)
utilizzato niente di meno che per la mummificazione.
Intanto due parole su questo gruppo di laghi occupante una depressione lunga
decine di chilometri e che si abbassa fino a 8 metri sotto il livello del mare
– siamo ad ovest del delta noltico – sono alimentati dalla falda freatica del
fiume e dalla falda artesiana del deserto Libico; il fondo è ricoperto da depositi
salini, tra i quali, appunto, il natrum.
Qualche cenno sulla
lavorazione della pasta vitrea per farne oggettini da indossare: la base era un
nocciolo di argilla da sola o con del metallo, su quest’anima, modellata come
si desiderava l’oggetto, era versata la materia vetrosa, calda, ruotando fino a
darle la forma e le ondulazioni volute. Qualsiasi figura era ottenuta con
piccoli apporti, fino a farne occhi, capelli, decorazioni.
Quando l’oggetto appariva
solidificato, si frantumava il nucleo di argilla e il pezzo era pronto.
È ora di ammirare questa
stupenda collana, con o senza l’Occhio, vera primadonna nelle vetrine del Museo
Archeologico Nazionale di Cagliari, famosa e conosciuta in tutto il mondo, dopo
la mostra “I Fenici” di Palazzo Grassi a Venezia del 1988 e che avrà
sempre un posto nelle pubblicazioni sulla civiltà punica della Sardegna.
Ora un po’ di… saccenza; del resto, è bene ricordare che questi articoli sono
di semplice, essenziale divulgazione, senza nulla togliere agli Studiosi.
Parliamo di Olbia – fino al
1939 Terranova Pausania – dalla cui zona arriva la nostra collana. Da “Storia
della Sardegna Antica” a cura di Attilio Mastino, 2005, Edizioni il
Maestrale, pag. 30: “… Recenti ricerche nell’area urbana di Olbia
attestano la presenza di materiali ceramici fenici e greci inquadrabili tra la
fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. da collegare alla
frequentazione fenicia della zona. Per quanto riguarda i
principali centri fenici, lungo la costa orientale divengono ormai apparentemente
stabili gli insediamenti di Olbia… Che Olbia con il suo porto naturale fosse
stato uno dei principali punti di riferimento della costa orientale è stato
recentemente dimostrato da strutture forse pertinenti ad un luogo di culto e
alcuni materiali fenici e di importazione riferibili quanto meno alla prima
metà del VI secolo a. C.. Spiccano alcuni frammenti fittili tra i quali uno di
brocca di matrice orientale non posteriore all’ VIII secolo a.C. … la città di
Olbia, che viene dotata di una poderosa cinta muraria, eretta in opera isodoma
e composta di blocchi granitici in bugnato
rustico e diviene probabilmente il fulcro della politica cartaginese proiettata
verso le coste orientali del Tirreno e il baluardo contro eventuali mire
espansionistiche di Roma. Non a caso uno dei primi fatti d’arme di ampia
rilevanza della prima guerra punica e uno dei pochi riguardanti la Sardegna
ebbe appunto luogo nel 259 a.C. nelle acque di Olbia. In ogni caso, in questo
periodo, l’intensa attività di scambio tra le due sponde è illustrata
egregiamente dai materiali di area etrusco-laziale e rinvenuti nelle
necropoli del capoluogo gallurese.”
Comunque un esempio indicativo
di ritorno, ne è la magnifica coppa fenicia d’argento della Tomba
Regoli-Galassi di Cerveteri, della quale ne mostriamo un disegno: è più che
evidente la ragione di tanto successo nelle piazze tirreniche.
La differenza tra Fenici,
Punici e Cartaginesi. In
questo caso con piglio maccheronico si può dire che i primi sono originari
della Fenicia, hanno occupato culturalmente e con i loro prodotti gran parte
dei mercati del mondo allora conosciuto e tra l’altro le coste sarde; i terzi,
pur anch’essi arrivando dalla Fenicia, hanno colonizzato l’altra parte del
Mediterraneo, le coste africane e le regioni iberiche e lusitane fino alle
Gallie, fondando Cartagine e dando questo nome ai loro possedimenti, alla loro
cultura. Inoltre, Fenici e Punici possono essere usati come sinonimi senza
pericolo. Qui come al solito la dichiarazione: non ce ne vogliano gli Esperti e
abbiano pietà di noi se abbiamo osato (e sbagliato).
Ringraziamenti. La spinta iniziale viene dalla disponibilità
della Direttrice del Museo cagliaritano, Dottoressa Donatella Mureddu e dal suo
collaboratore Mariano Zuddas, Coordinatore museale, per l’invio di materiale
utile all’impostazione. Poi, ma solo in ordine temporale, infinita gratitudine
al Dott. Pierluigi Montalbano, direttore dell’Associazione Culturale Honebu, per la parte conclusiva di definizione, sulla
vicenda del ciondolo mancante.
Il Museo Archeologico
Nazionale di Cagliari si trova in Piazza Arsenale.
Crediti. Infine, citato il testo usato nell’articolo e ora
quello per le immagini: Doro Levi, "Le necropoli puniche di Olbia",
in Studi Sardi, IX, 1950. Ricordiamo che le altre foto sono una scelta
redazionale. Il disegno del titolo è di Sergio Murli.
Conclusioni. Trovata l’immagine del pendaglio apotropaico, più
difficile, anzi impossibile, resta sapere che fine ha fatto; rimarrà un
mistero?
Arrivederci alla prossima
uscita, quella di giugno, e, come sempre, se Dio vorrà.
Fonte:
http://www.cittamese.it/cultura/968-archeochicca-xxx-necropoli-di-funtana-noa
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