giovedì 19 maggio 2016
Video delle conferenze di archeologia di Pierluigi Montalbano.
Cliccare sull'argomento per aprire i video.
Video 2° lezione Metodologia della ricerca archeologica
Video 3° lezione Le prime civiltà
Video 4° lezione Dal Neolitico all'età del Rame
Video 5° lezione Domus de janas
mercoledì 18 maggio 2016
Violante Carroz, la contessa sarda nata nel Castello di San Michele e morta a San Francesco di Stampace, di Alessandra Raspino
Violante Carroz, la contessa sarda nata nel Castello di San Michele e morta a San Francesco di Stampace.
di Alessandra Raspino
Nacque nel 1456 dal conte Giacomo e Violante Centelles nel Castello di S.Michele residenza del conte, definita di grande lusso con almeno 20 letti e più di 60 materassi, coperte in cotonina gialla e rossa, più di 40 paia di lenzuola di tela fine d'Olanda. Gli abiti del conte Giacomo erano in seta, velluto e pelli, conservati in casse con incise le armi araldiche. Una stanza era destinata alle armi, ma vi era anche un libro di preghiere istoriato e con la copertina in oro e inciso lo scudo di Don Giacomo. Era amante della musica e possedeva 2 flauti, 1 viola ed un organo a tre mantici. Possedeva
martedì 17 maggio 2016
Archeologia. Civiltà Nuragica e Nuraghi. Quando nascono e qual è la loro evoluzione. Video della conferenza di Pierluigi Montalbano a Portotorres realizzata da Sassari tv.
Archeologia. Civiltà Nuragica e Nuraghi. Quando nascono e qual è la loro evoluzione. Video della conferenza di Pierluigi Montalbano a Portotorres realizzata da Sassari tv.
Sono lieto di condividere con tutti voi le mie riflessioni sulla Civiltà Nuragica e sulle maestose costruzioni realizzate 3500 anni fa. Grazie alla disponibilità della redazione di Sassari tv ho l'opportunità di mantenere la memoria di questa conferenza fatta a Portotorres.
Si tratta di due video di 47 e 28 minuti in cui si condensano tutti i miei studi sulla materia, esposti con sile divulgativo, adatto a tutti.
Ringrazio di cuore Giuseppe Bazzoni. Buona visione
Cliccare sui link sotto per aprire i video.
Prima parte.
http://sassari.tv/video.php?id=406&cat=11
Seconda parte
http://sassari.tv/video.php?id=407&cat=11
Sono lieto di condividere con tutti voi le mie riflessioni sulla Civiltà Nuragica e sulle maestose costruzioni realizzate 3500 anni fa. Grazie alla disponibilità della redazione di Sassari tv ho l'opportunità di mantenere la memoria di questa conferenza fatta a Portotorres.
Si tratta di due video di 47 e 28 minuti in cui si condensano tutti i miei studi sulla materia, esposti con sile divulgativo, adatto a tutti.
Ringrazio di cuore Giuseppe Bazzoni. Buona visione
Cliccare sui link sotto per aprire i video.
Prima parte.
http://sassari.tv/video.php?id=406&cat=11
Seconda parte
http://sassari.tv/video.php?id=407&cat=11
lunedì 16 maggio 2016
Archeologia. Rituali funerari nel mondo punico: incinerazione, inumazione e tophet, i cimiteri per bambini.
Archeologia. Rituali funerari nel mondo punico: incinerazione, inumazione e tophet, i cimiteri dei bambini.
di Pierluigi Montalbano
I riti funerari sono di differenti tipologie. La pratica dell’incinerazione, caratteristica delle popolazioni nomadi, giunse nell’area siro-palestinese al seguito delle invasioni dei Popoli del Mare. Un mito di Ugarit, il porto siriano ambito da tutti i grandi imperi del passato perché crocevia degli scambi fra Asia e Mediterraneo, suggerisce la posizione dell’uomo di fronte alla morte nel Vicino Oriente. Questo mito racconta le vicende del principe Aqhat e della dea Anat, una dea cacciatrice che voleva entrare in possesso dell’arco magico del principe. La Dea offrì oro e argento all’uomo, e poi l’immortalità. Lui rifiutò e rispose: “Non mentirmi vergine, per un eroe le tue menzogne sono chiacchiere. Quale sorte può avere un mortale? Una coppa sarà posta vicino al mio capo, un’offerta funebre vicino al mio cranio. Giacchè sono mortale, anch’io dovrò morire”.
Dunque, tutti devono morire, perfino i re, così simili agli dei. Questo mito testimonia il motivo della
di Pierluigi Montalbano
I riti funerari sono di differenti tipologie. La pratica dell’incinerazione, caratteristica delle popolazioni nomadi, giunse nell’area siro-palestinese al seguito delle invasioni dei Popoli del Mare. Un mito di Ugarit, il porto siriano ambito da tutti i grandi imperi del passato perché crocevia degli scambi fra Asia e Mediterraneo, suggerisce la posizione dell’uomo di fronte alla morte nel Vicino Oriente. Questo mito racconta le vicende del principe Aqhat e della dea Anat, una dea cacciatrice che voleva entrare in possesso dell’arco magico del principe. La Dea offrì oro e argento all’uomo, e poi l’immortalità. Lui rifiutò e rispose: “Non mentirmi vergine, per un eroe le tue menzogne sono chiacchiere. Quale sorte può avere un mortale? Una coppa sarà posta vicino al mio capo, un’offerta funebre vicino al mio cranio. Giacchè sono mortale, anch’io dovrò morire”.
Dunque, tutti devono morire, perfino i re, così simili agli dei. Questo mito testimonia il motivo della
domenica 15 maggio 2016
Al Museo di Cambridge la mummia più giovane mai ritrovata, risalente a 2600 anni fa.
Al Museo di Cambridge la
mummia più giovane mai ritrovata, risalente a 2600 anni fa.
È quella di un feto alla
18esima settimana di gestazione: è stata rinvenuta in un piccolo sarcofago
dell'Antico Egitto che si pensava contenesse soltanto organi. Un mini-sarcofago
lungo 44 cm e databile al 600 a.C. contiene i resti del più giovane corpo
dell'Antico Egitto consegnato all'aldilà: un feto di 18 settimane,
dolorosamente sepolto con tutti gli onori dopo essere stato abortito. La
scoperta ha lasciato di stucco gli archeologi, che pensavano che la bara
conservasse gli organi di un individuo adulto, secondo un'usanza diffusa ai
tempi dei faraoni. Il sarcofago in legno di cedro, piuttosto
sabato 14 maggio 2016
Archeologia. La collana apotropaica della Signora Punica di Olbia conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Dove è finito il ciondolo? di Sergio Murli
Archeologia. La collana apotropaica della Signora Punica di Olbia conservata al Museo Archeologico di Cagliari. Dove è finito il ciondolo?
di Sergio Murli
(Ricevo e volentieri pubblico, l'articolo del 9 Maggio 2016 pubblicato nel mensile di cultura "Città Mese" il tabloid nato a Roma nel 1991 e diretto da Sergio Murli. L'oggetto della trentesima "archeochicca" del giornale riguarda la Sardegna, precisamente la collana punica trovata da Doro Levi nella necropoli di Funtana Noa a Olbia)
Seconda avventura in Sardegna,
questa volta nasce tutto nei pressi di Olbia, precisamente nella località di Funtana
Noa, sito tribolato e massacrato per esigenze militari, in un periodo nel quale
la ragion di Stato non teneva conto minimamente delle radici – certe radici –
della nostra Storia; base di ogni desiderio ed empito che poi porta
inevitabilmente a capire noi stessi, attraverso le vicende di chi ci ha
preceduto. I tempi non erano maturi.
Dunque, anni Trenta del secolo
scorso: in quella zona, scarsamente se non addirittura priva di popolazione, i
Comandi militari intrapresero la costruzione di strutture aeroportuali per
esigenze strategiche, fornite dalle caratteristiche del luogo, particolarmente
vicino al mare e, ripetiamo, con scarsa densità abitativa.
Il grande guaio era che ad
essere fittamente occupata risultava la… necropoli punica, e non soltanto, della
antica città di Olbia.
Dopo anni di devastazioni e spoliazioni – pensate che vennero asportati anche i blocchi di roccia di alcuni edifici funerari per mettere su certe strutture degli aeroporti – la Soprintendenza alle Antichità della Sardegna intorno al 1937, poté intraprendere una campagna che tentava di mettere al riparo ciò che restava delle necropoli puniche, con una stagione di scavo che continuò l’anno successivo; poi “sospesa” per l’allontanamento del soprintendente Doro Levi, artefice dell’azione di salvaguardia e
Dopo anni di devastazioni e spoliazioni – pensate che vennero asportati anche i blocchi di roccia di alcuni edifici funerari per mettere su certe strutture degli aeroporti – la Soprintendenza alle Antichità della Sardegna intorno al 1937, poté intraprendere una campagna che tentava di mettere al riparo ciò che restava delle necropoli puniche, con una stagione di scavo che continuò l’anno successivo; poi “sospesa” per l’allontanamento del soprintendente Doro Levi, artefice dell’azione di salvaguardia e
venerdì 13 maggio 2016
Archeologia. Monumenti Aperti a Padria. Visita guidata al Nuraghe Longu e fusione di un bronzetto dal vivo.
Archeologia. Monumenti Aperti a Padria. Visita guidata al Nuraghe Longu e fusione di un bronzetto dal vivo.
Domenica 15 Maggio, nell’ambito
della manifestazione Monumenti Aperti, si svolgeranno a Padria una serie di
eventi dedicati all’archeologia.
Alle ore 17.30 ci sarà la
visita guidata dello spettacolare Nuraghe Longu, a 2 km dall’abitato, con
servizio navetta per raggiungere il sito. La descrizione sarà curata da
Pierluigi Montalbano.
Alle 19, in Aula
Consiliare, con l’ausilio di immagini proiettate, sarà raccontata: “I Fenici, la
storia degli antichi navigatori del Mediterraneo”. Relatore Pierluigi
Montalbano
Alle 20, il maestro
fonditore Andrea Loddo illustrerà l’armatura del guerriero nuragico di Padria.
Alle 20.30, nel muro
megalitico sarà allestita una dimostrazione di archeologia sperimentale con la
realizzazione di un bronzetto con il procedimento della fusione a cera persa a
cura di Andrea Loddo. Saranno utilizzati attrezzi identici a quelli degli
artigiani nuragici di 3000 anni fa.
Tutti gli eventi avranno
ingresso gratuito.
Il Nuraghe Longu,
interamente realizzato in blocchi di basalto, mostra una torre principale alla
quale, in momenti successivi, furono addossate due torri raccordate da un muro
rettilineo. L'ingresso, sopraelevato sul piano della campagna circostante, è
orientato a nord-est e sormontato da un architrave con finestrella per
consentire alla luce e all’aria di penetrare nella struttura. Il corridoio è
lungo 4 metri e conduce alla camera circolare coperta a tholos e alta 7 metri.
Nella parete a destra dell'ingresso si apre una nicchia, mentre a sinistra c’è
una scala con 22 gradini che porta al primo piano, oggi ingombro di crollo. Anche
le due torri secondarie sono oggi invase dal crollo. Attorno all’edificio sono
visibili le tracce delle capanne di un ampio abitato.
giovedì 12 maggio 2016
Storie, miti e leggende. I Templari: Monaci e Guerrieri
Storie, miti e leggende. I Templari: Monaci e Guerrieri
di Fabrizio e Giovanna
Nel 1129, a circa dieci anni dalla loro fondazione, le unità combattenti templari erano ancora poche decine e la prima esperienza di combattimento fu sostenuta contro l’atabeg di Damasco Tai Mulk-Buri quale rappresaglia per le razzie e i saccheggi che attuarono per conto di Guglielmo di Bures. Tale battesimo delle armi, che vide i Templari uscirne piuttosto malconci e disonorati per non aver rispettato sia gli ordini del re che i loro principi, insegnò loro che l’indisciplina e la disobbedienza erano un facile strumento di vittoria per il nemico. Lo schieramento franco in Terrasanta, fatta eccezione per le truppe reali, era più simile ad un’orda disorganizzata che ad un vero e proprio esercito, quindi la presenza degli Ordini militari (Templari, Ospitalieri e più tardi Teutonici) rappresentò un’innovazione nella maggior parte dei casi fondamentale per il buon esito delle battaglie.
I Templari erano superiori al resto dell’esercito crociato per la disciplina e l’esperienza, che li distingueva a tal punto da farli divenire l’ossatura degli eserciti cristiani in Terrasanta. La disciplina era ferrea, il Cavaliere Templare non era un combattente singolo, ma un combattente di massa, i vari
di Fabrizio e Giovanna
Nel 1129, a circa dieci anni dalla loro fondazione, le unità combattenti templari erano ancora poche decine e la prima esperienza di combattimento fu sostenuta contro l’atabeg di Damasco Tai Mulk-Buri quale rappresaglia per le razzie e i saccheggi che attuarono per conto di Guglielmo di Bures. Tale battesimo delle armi, che vide i Templari uscirne piuttosto malconci e disonorati per non aver rispettato sia gli ordini del re che i loro principi, insegnò loro che l’indisciplina e la disobbedienza erano un facile strumento di vittoria per il nemico. Lo schieramento franco in Terrasanta, fatta eccezione per le truppe reali, era più simile ad un’orda disorganizzata che ad un vero e proprio esercito, quindi la presenza degli Ordini militari (Templari, Ospitalieri e più tardi Teutonici) rappresentò un’innovazione nella maggior parte dei casi fondamentale per il buon esito delle battaglie.
I Templari erano superiori al resto dell’esercito crociato per la disciplina e l’esperienza, che li distingueva a tal punto da farli divenire l’ossatura degli eserciti cristiani in Terrasanta. La disciplina era ferrea, il Cavaliere Templare non era un combattente singolo, ma un combattente di massa, i vari
mercoledì 11 maggio 2016
Il Codice Barbaricino, uno strumento che tratta e definisce le offese subite e le relative sanzioni.
Il Codice Barbaricino, uno strumento che tratta e definisce le offese subite e le relative sanzioni.
Il Codice barbaricino è un regolamento comportamentale non
scritto utilizzato nella Barbagia, regione cui fa riferimento, e in altri
comuni della provincia di Nuoro e dell’Ogliastra, in quelli del Goceano
(provincia di Sassari) e in alcuni dell’alto Oristanese. L’ambito
socio-economico è quello agro-pastorale, lo scopo è quello della tutela
dell’onore e della dignità del singolo individuo.
Si tratta di un codice
d’onore, una sorta di una giustizia parallela, che a volte sostituiva gli
organi giuridici del territorio. Alla base della sua creazione c’è la
scarsa tutela dell’individuo da parte dello Stato, una situazione che ha
motivato cruente azioni individuali e organizzate, come quella dell’Anonima sarda
mezzo secolo fa. Buona parte del codice tratta e definisce le offese subite, dall’insulto personale
al furto e all’omicidio, e le relative sanzioni.
Un
esempio della sua applicazione può essere quello in cui un individuo subisce un furto di bestiame. Non è il
furto in sé a costituire danno, ma la perdita dell’autosufficienza della
famiglia offesa. Questa avrà
il diritto di vendetta, proporzionata al danno subito. L’individuo offeso
commetterà a sua volta un furto di bestiame per tornare a una situazione di parità.
I
principi generali
1) L’offesa deve essere
vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo
nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria
virilità, vi rinuncia per un superiore motivo morale.
2) La legge della vendetta
obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano
nell’ambito della comunità.
3) Titolare del dovere della
vendetta è il soggetto offeso, come singolo o come gruppo, a seconda che
l’offesa è stata intenzionalmente recata ad un singolo individuo in quanto tale
o al gruppo sociale, nel suo complesso organico, sia immediatamente sia
mediatamente.
4) Nessuno che vive e opera
nell’ambito della comunità può essere colpito dalla vendetta per un fatto non
previsto come offensivo. Nessuno può essere altresì tenuto responsabile di un’offesa
se al
martedì 10 maggio 2016
Archeologia della Sardegna nell'arte di una pittrice di Sanluri: "Retablo - Luce e Rinascita". La mostra di Mariarosaria Spina.
Archeologia della Sardegna nell'arte di una pittrice
di Sanluri: "Retablo - Luce e Rinascita". La mostra di Mariarosaria
Spina.
E' iniziata da Sanluri la catalogazione nel Sistema
Opac della Regione Sardegna del Catalogo della Mostra "RETABLO - Luce e
Rinascita" di Mariarosaria Spina a cura di Rossana Corti con il corredo
fotografico di Vincenzo Mascia e gli interventi critici di Alberto Severino,
Pierluigi Montalbano e Marcello Polastri .
Dalla prossima settimana inizieranno ad apparire in Rete le catalogazioni dalle Biblioteche di Cagliari all'interno del Sistema Opac della Regione Sardegna.
Dalla prossima settimana inizieranno ad apparire in Rete le catalogazioni dalle Biblioteche di Cagliari all'interno del Sistema Opac della Regione Sardegna.
Mariarosaria
Spina è nata e cresciuta a Sanluri, e di questo luogo racconta la storia
attraverso la sua arte. In un’intervista rilasciata al giornalista Marcello
Polastri così si racconta: "Dall'archeologia nuragica e dal culto della
Dea Madre, traggo ispirazione per far nascere le mie opere. Parlo di radici
degli antichi Sardi, della forza della Fede e della salvezza che viene da Dio,
che da sempre e comunque supera il Male. Il culto pagano della Dea Madre non
era un culto malvagio, la terra era amata e protetta e tutti credevano che la
vita continuava nell’Aldilà. Poi giunse il Cristianesimo e si
lunedì 9 maggio 2016
Archeologia. La circolazione del rame in Sardegna nell'Età del Bronzo: i lingotti ox-hide
Archeologia. La circolazione del rame in Sardegna nell'Età del Bronzo: i lingotti ox-hide
di Fabio Serchisu
I primi lingotti a pelle di bue furono scoperti da G.Spano nel 1857 a Serra Ilixi–Nuragus (NU), in Sardegna. La ricerca su questi manufatti si è concentrata soprattutto sull’origine, sui luoghi e sui metodi di produzione, sulla loro diffusione nel tempo e nello spazio. Per ottenere tali risposte ci si è adoperati, soprattutto negli ultimi decenni, con le analisi chimico fisiche e agli isotopi sul metallo. In particolare,queste ultime possono definire la miniera di provenienza del metallo usato. Tuttavia una serie di dati di diversa natura forniscono un panorama più ampio, le cui risposte possono risultare tutt’altro che scontate.
La categoria dei reperti noti come lingotti a pelle di bue, ormai può vantare una lunga tradizione di studi. Nel 1857 avvenne la prima scoperta, ad opera di G. Spano, nel territorio comunale di Nuragus, in località di Serra Ilixi (Spano 1857, p. 94; 1858, p. 12). Quel ritrovamento constava di ben 5 lingotti, dei quali solo tre si salvarono grazie all’intervento dello studioso. Nel corso del tempo i
di Fabio Serchisu
I primi lingotti a pelle di bue furono scoperti da G.Spano nel 1857 a Serra Ilixi–Nuragus (NU), in Sardegna. La ricerca su questi manufatti si è concentrata soprattutto sull’origine, sui luoghi e sui metodi di produzione, sulla loro diffusione nel tempo e nello spazio. Per ottenere tali risposte ci si è adoperati, soprattutto negli ultimi decenni, con le analisi chimico fisiche e agli isotopi sul metallo. In particolare,queste ultime possono definire la miniera di provenienza del metallo usato. Tuttavia una serie di dati di diversa natura forniscono un panorama più ampio, le cui risposte possono risultare tutt’altro che scontate.
La categoria dei reperti noti come lingotti a pelle di bue, ormai può vantare una lunga tradizione di studi. Nel 1857 avvenne la prima scoperta, ad opera di G. Spano, nel territorio comunale di Nuragus, in località di Serra Ilixi (Spano 1857, p. 94; 1858, p. 12). Quel ritrovamento constava di ben 5 lingotti, dei quali solo tre si salvarono grazie all’intervento dello studioso. Nel corso del tempo i
sabato 7 maggio 2016
Monumenti aperti a Padria, con manifestazione di archeologia sperimentale.
Monumenti aperti a Padria, con manifestazione di archeologia sperimentale.
Padria. Domenica 15 Maggio 2016, in occasione di Monumenti Aperti, si svolgerà una manifestazione di Archeologia Sperimentale con 3 appuntamenti dedicati all'antica Civiltà dei sardi nuragici.
Alle ore 17.30, visita guidata al Nuraghe Longu con Pierluigi Montalbano
Alle ore 19, nell'Aula Consiliare del Comune, Pierluigi Montalbano, con l'ausilio di immagini proiettate, illustrerà il tema: "La Navigazione Preistorica, la storia dei Fenici". Saranno raccontate le fasi di passaggio dall'epoca dei grandi imperi, Egizi e Ittiti, alle nuove dinastie di sovrani che avviarono i traffici commerciali nel Mediterraneo e diedero vita a quella florida epoca di intrecci culturali che prende il nome di Età dei Fenici.
A seguire, Andrea Loddo presenterà l'armatura riprodotta nel bronzetto di Padria, utilizzata per il Trailer del film "Nuraghes" dotata di schinieri, parabracci, corsetto, scudo, armamenti e il particolare elmo con lunghe corna pomellate, di cui tanto si è discusso.
Al termine, al tramonto, presso il muro megalitico a pochi passi dalla Piazza del Comune, inizierà la fusione del bronzetto di Padria con il metodo della cera persa, una tecnologia metallurgica che i sardi nuragici utilizzavano 3000 anni fa. Saranno utilizzati materiali e attrezzi con caratteristiche simili a quelle originali.
Padria. Domenica 15 Maggio 2016, in occasione di Monumenti Aperti, si svolgerà una manifestazione di Archeologia Sperimentale con 3 appuntamenti dedicati all'antica Civiltà dei sardi nuragici.
Alle ore 17.30, visita guidata al Nuraghe Longu con Pierluigi Montalbano
Alle ore 19, nell'Aula Consiliare del Comune, Pierluigi Montalbano, con l'ausilio di immagini proiettate, illustrerà il tema: "La Navigazione Preistorica, la storia dei Fenici". Saranno raccontate le fasi di passaggio dall'epoca dei grandi imperi, Egizi e Ittiti, alle nuove dinastie di sovrani che avviarono i traffici commerciali nel Mediterraneo e diedero vita a quella florida epoca di intrecci culturali che prende il nome di Età dei Fenici.
A seguire, Andrea Loddo presenterà l'armatura riprodotta nel bronzetto di Padria, utilizzata per il Trailer del film "Nuraghes" dotata di schinieri, parabracci, corsetto, scudo, armamenti e il particolare elmo con lunghe corna pomellate, di cui tanto si è discusso.
Al termine, al tramonto, presso il muro megalitico a pochi passi dalla Piazza del Comune, inizierà la fusione del bronzetto di Padria con il metodo della cera persa, una tecnologia metallurgica che i sardi nuragici utilizzavano 3000 anni fa. Saranno utilizzati materiali e attrezzi con caratteristiche simili a quelle originali.
venerdì 6 maggio 2016
Archeologia. L’archivio delle tombe impossibili, testimoni dell'esistenza di una cultura nuragica vitale e propulsiva nei primi secoli dell’Età del Ferro
Archeologia. L’archivio delle tombe impossibili, testimoni dell'esistenza di una cultura nuragica vitale e propulsiva nei primi secoli dell’Età del Ferro
di Paolo Bernardini
La letteratura archeologica sarda, da Giovanni Spano a Giovanni Lilliu, conserva un importante nucleo di notizie che fanno riferimento all’esistenza di tombe individuali, a pozzetto, a fossa e a fossa costruita, così come a oggetti particolarmente significativi, come i bronzi figurati, provenienti da sepolcri di questo genere. Intendo valorizzare, in questo paragrafo, una ricerca lucidamente avviata da Raimondo Zucca in anni lontani (1981), a corollario di uno studio sulla statuaria nuragica a Narbolia, purtroppo mai edito e che l’autore, generosamente, mi ha esortato a riprendere. È significativo che nessuno dei luoghi che citerò siano stati interessati da ricerche ulteriori e da critici approfondimenti; giacimenti fondamentali come quelli di Antas, di Is Aruttas e di Monte Prama sono anch’essi indagati in modo parziale e preliminare. Mi pare estremamente pericoloso, partendo da una situazione obiettiva di generale “disattenzione” su queste tematiche, trasformare la lacuna della documentazione sulle necropoli del Ferro in Sardegna in un assunto storico netto e categorico: l’inesistenza di una cultura indigena viva e vitale in queste fasi storiche. L’assenza complessiva di un
di Paolo Bernardini
La letteratura archeologica sarda, da Giovanni Spano a Giovanni Lilliu, conserva un importante nucleo di notizie che fanno riferimento all’esistenza di tombe individuali, a pozzetto, a fossa e a fossa costruita, così come a oggetti particolarmente significativi, come i bronzi figurati, provenienti da sepolcri di questo genere. Intendo valorizzare, in questo paragrafo, una ricerca lucidamente avviata da Raimondo Zucca in anni lontani (1981), a corollario di uno studio sulla statuaria nuragica a Narbolia, purtroppo mai edito e che l’autore, generosamente, mi ha esortato a riprendere. È significativo che nessuno dei luoghi che citerò siano stati interessati da ricerche ulteriori e da critici approfondimenti; giacimenti fondamentali come quelli di Antas, di Is Aruttas e di Monte Prama sono anch’essi indagati in modo parziale e preliminare. Mi pare estremamente pericoloso, partendo da una situazione obiettiva di generale “disattenzione” su queste tematiche, trasformare la lacuna della documentazione sulle necropoli del Ferro in Sardegna in un assunto storico netto e categorico: l’inesistenza di una cultura indigena viva e vitale in queste fasi storiche. L’assenza complessiva di un
giovedì 5 maggio 2016
Archeologia. L'Età del ferro nel Sulcis
Archeologia. L'età del Ferro nel Sulcis
di Paolo Bernardini
La vasta concentrazione di insediamenti che distingue il territorio sulcitano nel Bronzo è il necessario palcoscenico sul quale introdurre un nuovo protagonista: il paesaggio della successiva Età del Ferro nella regione del Sulcis. Per quanto i processi interni di organizzazione del territorio e di gerarchizzazione degli insediamenti siano ancora privi di approfondimenti di tipo cronologico e diacronico, la distribuzione del popolamento, preso nel suo aspetto generale, indica immediatamente un fervido dinamismo e un sofisticato livello di appropriazione e di gestione del territorio e delle sue risorse da parte di quelle comunità di cultura nuragica che vivono, secondo la felice espressione di Giovanni Lilliu, nella «bella età dei nuraghi». Il medesimo studioso, dopo aver presentato, in un dettagliato studio del 1995, i quadri nuragici del Sulcis nel Bronzo, si scusava con i lettori per non aver potuto dare conto con altrettanta dovizia di dati della successiva Età del Ferro, per la quale venivano indicate linee estremamente generali di sviluppo culturale in linea con il divenire di quella “età delle aristocrazie” propugnata altrove dallo stesso autore. Oggi la situazione non è cambiata di molto; la comprensione dei quadri culturali e organizzativi dell’età nuragica è stata limitata in modo
di Paolo Bernardini
La vasta concentrazione di insediamenti che distingue il territorio sulcitano nel Bronzo è il necessario palcoscenico sul quale introdurre un nuovo protagonista: il paesaggio della successiva Età del Ferro nella regione del Sulcis. Per quanto i processi interni di organizzazione del territorio e di gerarchizzazione degli insediamenti siano ancora privi di approfondimenti di tipo cronologico e diacronico, la distribuzione del popolamento, preso nel suo aspetto generale, indica immediatamente un fervido dinamismo e un sofisticato livello di appropriazione e di gestione del territorio e delle sue risorse da parte di quelle comunità di cultura nuragica che vivono, secondo la felice espressione di Giovanni Lilliu, nella «bella età dei nuraghi». Il medesimo studioso, dopo aver presentato, in un dettagliato studio del 1995, i quadri nuragici del Sulcis nel Bronzo, si scusava con i lettori per non aver potuto dare conto con altrettanta dovizia di dati della successiva Età del Ferro, per la quale venivano indicate linee estremamente generali di sviluppo culturale in linea con il divenire di quella “età delle aristocrazie” propugnata altrove dallo stesso autore. Oggi la situazione non è cambiata di molto; la comprensione dei quadri culturali e organizzativi dell’età nuragica è stata limitata in modo
mercoledì 4 maggio 2016
Archeologia. Una bottega stilistica per i bronzetti della civiltà nuragica, di Marcello Cabriolu
Archeologia. Una bottega stilistica per i bronzetti della civiltà nuragica.
di Marcello Cabriolu
La foto sopra è di un'opera descritta sul Web come appartenuta a Wladimir Rosenbaum (1894-1984), vissuto ad Ascona, Switzerland e acquistata dalla R.G. collection, Calodyne, Mauritius, nel 1977-85.
Il pezzo battuto come n.173 sigla GR0805 venduto per una non bene precisata somma consiste in una statuetta figurativa in bronzo di un arciere di 11,5 cm. Il guerriero riprodotto, per equipaggiamento e uniforme, appare inquadrabile nella tipologia di guerrieri pesanti, soldati cioè con ridotte possibilità di movimento causate dall’armatura. Il milite stante, analizzato stilisticamente, sembra appartenere al gruppo figurato relativo alla produzione di Teti, raggruppamento già conosciuto e descritto sin dagli anni ’60 da Giovanni Lilliu. Le caratteristiche principali che identificano tale “corrente stilistica” sono individuabili nel viso di forma semiconica dove un copricapo fornito di un vistoso paranaso interviene a formare il tipico schema a T rinvenuto in pezzi provenienti da diverse località quali ad esempio Urzulei oppure Alà dei Sardi.
La riproduzione degli occhi riflette con precisione le caratteristiche del gruppo d’appartenenza mostrando una forma circolare netta e precisa. La riproduzione presenta una rigidità consueta per le figure sarde dove appunto si può notare una testa alta con una figura quasi arcuata spavaldamente all’indietro, schematica esternante fierezza e impassibilità tipiche delle varie figure di comando o militari riprodotte nella bronzistica sarda. L’individuo mostra arti inferiori ben delineati e divaricati terminanti nei piedi scalzi, segno di rispetto portato alla Divinità, mentre gli arti superiori si posizionano nella classica postura del milite a “riposo” con il braccio destro quasi a 45° mentre quello sinistro regge il lungo arco.
Il copricapo del guerriero si presenta di forma ogivale coronato da una doppia fila di borchie e contraddistinto anteriormente da una decorazione a “pennacchio” mentre posteriormente presenta le immancabili bande frangiate, ad assemblare il pesante elmetto al collo del soldato, le quali segnano il retro del capo con una profonda scriminatura a “lisca di pesce”.
Il busto del milite appare ricoperto da un corsale a costine rifinito a mezze maniche sulla cui parte anteriore trova spazio la piastra porta punte assemblata come unicum ad una faretra, collocata posteriormente alla figura, unita da bande triple di tessuto. L’addome della figura appare ricoperto dal terminale del corsale da cui si dipartono gli arti inferiori protetti superiormente da “cosciali” poi man mano che si scende verso i piedi segnati da schinieri e gambali borchiati alle caviglie.
Appare doveroso riconoscere che anche questo pezzo, un concentrato di particolari volutamente rappresentati dall’artista in undici centimetri, rappresenta un capolavoro della metallurgia. Ormai la quantità di statuette supera il mezzo migliaio di pezzi e come preannunciato precedentemente questa quantità permette confronti, paragoni e riflessioni.
Quasi a accompagnare stilisticamente questa figura appena trattata, propongo il confronto con il pezzo in bronzo, riproducente un arciere dalle lunghe corna, appena riscattato dal Nucleo TPC e rinvenuto al Cleveland Museum of Art – USA. L’arciere cornuto, forse un po’ frettolosamente, venne collocato nel Museo Archeologico di Sant’Antioco e tuttora viene lì custodito senza alcuna sorta di rivalutazione. L’accostamento dei due pezzi, anche solo istantaneamente tra le semplici immagini, genera un immagine straordinariamente speculare dove la precisa similitudine è interrotta unicamente dalla diversa tipologia di copricapo. Viso, arti, postura, armamento e uniforme: non un solo particolare differisce nel confronto frontale. L’eccezionalità della constatazione, almeno per chi scrive, rappresenta una grossa scoperta.
In un contesto - quello in cui vennero create le due opere - risalente all’Età del Bronzo e collocabile nel centro Sardegna verosimilmente agiva un fabbro, a cui vennero commissionate tutte e due le opere. Forte della tradizione metallurgica plurimillenaria, quel “frau”(fabbro) riuscì a creare le due opere ricalcando fedelmente le figure contemporanee e imprimendo il proprio stile nella resa fisica delle riproduzioni. Tale considerazione scaturisce dal fatto che i pezzi non venissero prodotti in serie, visto che la matrice probabilmente veniva distrutta per estrarre le opere, ma la capacità artistica dell’artigiano è tale e rimane riprodotta tuttora in maniera univoca da potersi considerare proveniente da un unico atelier.
di Marcello Cabriolu
La foto sopra è di un'opera descritta sul Web come appartenuta a Wladimir Rosenbaum (1894-1984), vissuto ad Ascona, Switzerland e acquistata dalla R.G. collection, Calodyne, Mauritius, nel 1977-85.
Il pezzo battuto come n.173 sigla GR0805 venduto per una non bene precisata somma consiste in una statuetta figurativa in bronzo di un arciere di 11,5 cm. Il guerriero riprodotto, per equipaggiamento e uniforme, appare inquadrabile nella tipologia di guerrieri pesanti, soldati cioè con ridotte possibilità di movimento causate dall’armatura. Il milite stante, analizzato stilisticamente, sembra appartenere al gruppo figurato relativo alla produzione di Teti, raggruppamento già conosciuto e descritto sin dagli anni ’60 da Giovanni Lilliu. Le caratteristiche principali che identificano tale “corrente stilistica” sono individuabili nel viso di forma semiconica dove un copricapo fornito di un vistoso paranaso interviene a formare il tipico schema a T rinvenuto in pezzi provenienti da diverse località quali ad esempio Urzulei oppure Alà dei Sardi.
La riproduzione degli occhi riflette con precisione le caratteristiche del gruppo d’appartenenza mostrando una forma circolare netta e precisa. La riproduzione presenta una rigidità consueta per le figure sarde dove appunto si può notare una testa alta con una figura quasi arcuata spavaldamente all’indietro, schematica esternante fierezza e impassibilità tipiche delle varie figure di comando o militari riprodotte nella bronzistica sarda. L’individuo mostra arti inferiori ben delineati e divaricati terminanti nei piedi scalzi, segno di rispetto portato alla Divinità, mentre gli arti superiori si posizionano nella classica postura del milite a “riposo” con il braccio destro quasi a 45° mentre quello sinistro regge il lungo arco.
Il copricapo del guerriero si presenta di forma ogivale coronato da una doppia fila di borchie e contraddistinto anteriormente da una decorazione a “pennacchio” mentre posteriormente presenta le immancabili bande frangiate, ad assemblare il pesante elmetto al collo del soldato, le quali segnano il retro del capo con una profonda scriminatura a “lisca di pesce”.
Il busto del milite appare ricoperto da un corsale a costine rifinito a mezze maniche sulla cui parte anteriore trova spazio la piastra porta punte assemblata come unicum ad una faretra, collocata posteriormente alla figura, unita da bande triple di tessuto. L’addome della figura appare ricoperto dal terminale del corsale da cui si dipartono gli arti inferiori protetti superiormente da “cosciali” poi man mano che si scende verso i piedi segnati da schinieri e gambali borchiati alle caviglie.
Appare doveroso riconoscere che anche questo pezzo, un concentrato di particolari volutamente rappresentati dall’artista in undici centimetri, rappresenta un capolavoro della metallurgia. Ormai la quantità di statuette supera il mezzo migliaio di pezzi e come preannunciato precedentemente questa quantità permette confronti, paragoni e riflessioni.
Quasi a accompagnare stilisticamente questa figura appena trattata, propongo il confronto con il pezzo in bronzo, riproducente un arciere dalle lunghe corna, appena riscattato dal Nucleo TPC e rinvenuto al Cleveland Museum of Art – USA. L’arciere cornuto, forse un po’ frettolosamente, venne collocato nel Museo Archeologico di Sant’Antioco e tuttora viene lì custodito senza alcuna sorta di rivalutazione. L’accostamento dei due pezzi, anche solo istantaneamente tra le semplici immagini, genera un immagine straordinariamente speculare dove la precisa similitudine è interrotta unicamente dalla diversa tipologia di copricapo. Viso, arti, postura, armamento e uniforme: non un solo particolare differisce nel confronto frontale. L’eccezionalità della constatazione, almeno per chi scrive, rappresenta una grossa scoperta.
In un contesto - quello in cui vennero create le due opere - risalente all’Età del Bronzo e collocabile nel centro Sardegna verosimilmente agiva un fabbro, a cui vennero commissionate tutte e due le opere. Forte della tradizione metallurgica plurimillenaria, quel “frau”(fabbro) riuscì a creare le due opere ricalcando fedelmente le figure contemporanee e imprimendo il proprio stile nella resa fisica delle riproduzioni. Tale considerazione scaturisce dal fatto che i pezzi non venissero prodotti in serie, visto che la matrice probabilmente veniva distrutta per estrarre le opere, ma la capacità artistica dell’artigiano è tale e rimane riprodotta tuttora in maniera univoca da potersi considerare proveniente da un unico atelier.
martedì 3 maggio 2016
Archeologia. Il misterioso vaso di Dueno, con scrittura del 700 a.C.
Archeologia. Il misterioso vaso di Dueno, con scrittura del 700 a.C.
Il vaso di Dueno, in bucchero (ceramica nero lucida), formato da tre recipienti rotondi conglobati, custodito nel Museo di Stato di Berlino, appartiene alla categoria dei cosiddetti "oggetti parlanti" ed è al centro di studi da più di 130 anni, proprio a causa della scritta che vi è incisa. Si tratta di un'iscrizione piuttosto difficile da interpretare, ordinata da destra verso sinistra, articolata in tre frasi che non presentano spazi tra una parola e l'altra. Finora nessuno è riuscito a trovare il significato definitivo delle misteriose parole incise sul vaso.
A Roma la scrittura fece la sua comparsa nel VII secolo a.C., il periodo in cui è stato prodotto il vaso di Dueno che, pertanto, costituisce una delle attestazioni di scrittura più antica. Non solo, si tratta di un oggetto di pregevole fattura, sicuramente appartenuto ad una persona piuttosto abbiente.
Il vaso venne ritrovato in un deposito votivo sul Quirinale, nel 1880. In merito al suo utilizzo gli studiosi dell'epoca non erano concordi. Nel 1958 Peruzzi attribuì al reperto un uso in ambito sacrale. Peruzzi era un ottimo conoscitore del latino arcaico e diede anche una sua traduzione della scritta che compariva sul vaso: "chi mi rovescia scongiura gli dei affinché fanciulla non ti conceda i suoi favori se non vuoi essere soddisfatto per opera di Tuteria". Nel 1959 un'altra traduzione venne fatta da E. Gjerstad: "che la tua ragazza possa essere amabile con te, non starti vicina se tu non la conquisterai servendoti della assistenza".
Negli anni '60 e '70 Dumezil, grande cultore della religione romana, esaminò attentamente il vaso e, cercando di contestualizzarlo, fornì una nuova traduzione della scritta: "colui che mi manda giura gli dei che se succede che la ragazza non abbia nei tuoi confronti un buon carattere facili rapporti ce ne venga l'obbligo a noi di far sì che l'accordo si stabilisca per voi".
Filippo Coarelli, verso la fine degli anni '80 rifiutò completamente le traduzioni fino a quel momento proposte e ipotizzò che il vaso potesse costituire un'offerta sacra, identificando Tuteria, nome che compariva nella frase del vaso, come una delle tante personificazioni della dea Fortuna, questa volta con caratteristiche ctonie ed erotiche. Quest'ipotesi era ulteriormente confortata dal fatto che il vaso era stato ritrovato nel luogo in cui, anticamente, sorgeva un santuario che, forse, era dedicato alla Tike Euelpis. Coarelli propose che il misterioso reperto poteva essere stato dedicato alla dea Tutela, un aspetto della Fortuna. Il santuario dedicato ad una degli aspetti della Fortuna, la Tike Euelpis, è conosciuto solo attraverso le fonti letterarie, le quali ne attribuiscono la costruzione a Servio Tullio. Del resto proprio il culto in genere della dea Fortuna si collega a Servio Tullio, soprattutto per quanto riguarda la celebrazione dei Matralia, festività annuale che si celebrava nel foro Boario, nel santuario dedicato ad un altro aspetto della Fortuna, santuario che la tradizione vuole essere stato fondato dallo stesso re. Il santuario della Fortuna venerata nei Matrialia aveva il nome di Fortuna Vergine e si trovava accanto al santuario di Mater Matuta. Durante la celebrazione di questa festività, le madri romane raccomandavano a Matuta i figli delle proprie sorelle e, forse, anche i figli dei propri fratelli, celebrando un rito di appartenenza della famiglia ad una particolare gens.
Proprio per questo si pensa che il vaso del Quirinale fosse stato dedicato in ambito cultuale, in un rito connesso a quello matrimoniale poiché attinente al sistema di relazioni che si instaurava con il matrimonio tra la gens del padre e lagens del marito della donna.
Gli anni '90 portarono una nuova proposta di traduzione, da parte del Pennisi: "giura per gli dei chi mi acquista e dice a se stesso: se verso di te ridente non sia la vergine, ma tu con doni nuziali come marito vuoi pattuirla. Dueno mi fece per un degno, e da Dueno indegno non mi terrà". Quest'ultima parte di questa nuova traduzione venne, in seguito, sviluppata in un'altra proposta di interpretazione: "non sia fatto del male a me (è il vaso che parla) e a ciò che è consacrato". Gli studiosi ricordano un passo di Terenzio in cui si narrava di un giovane sposato per imposizione paterna, che si vedeva riconosciuto il diritto di ripudiare la sposa nel caso in cui ella si fosse comportata male e il matrimonio non fosse stato consumato. Qui siamo in ambito giuridico, più che religioso oppure oltre che religioso, essendo il diritto arcaico fortemente influenzato dalla sfera religiosa, alla quale chiedeva, per esempio, in prestito le formule di giuramento.
Il testo del vaso di Dueno pare un giuramento arcaico, una formula cristallizzatasi nel corso dei decenni che, probabilmente, non potrà mai essere tradotta con precisione. Il vaso resta, comunque, la più bella dimostrazione di come, già nel VII secolo a.C., i nostri antenati avevano una tradizione cultuale ben articolata, con i suoi riti sacri, i sacerdoti, le formule da mandare a memoria, i codici.
Osvaldo Sacchi ha proposto, differentemente dal Coarelli, l'ipotesi che il misterioso vaso potesse essere collocato nell'area in cui un tempo sorgeva il tempio del dio Fidius, fondato da Tito Tazio. Questo tempio si trovava, secondo la tradizione, anch'esso sul Quirinale. Fidius era la divinità chepresiedeva ai giuramenti e che in alcuni calendari, stilati nel periodo precedente ai tempi di Cesare, si celebrava il 9 di giugno. In questo caso il dio Fidius e la dea Fides non erano tanto due divinità distinte, quanto espressione dello stesso culto in epoche differenti. Fidius starebbe per filius e Dius Fidius sarebbe da ricollegarsi ad un arcaico Diovis filius(parallelo al greco Dios kouros). Il figlio al quale le fonti antiche si riferivano era Ercole, omologo del sabino Sancus.Ovidio fornisce il nome completo del Dius Fidius, che è: Semo Sancus Dius Fidius. Il suo tempio, appunto, era sul Quirinale ed era considerato antichissimo.
Anticamente, nell'area laziale, prima della diffusione delle tavole matrimoniali, le parti si scambiavano dei pegni sui quali dichiaravano, in forma di promessa, di consentire lo sposalizio individuando anche dei garanti che testimoniassero della promessa fatta. I vasi, oggetti di uso comune, dunque, potevano essere utilizzati con funzione documentale, specialmente in età arcaica.
Se, quindi, non è ancora concorde l'opinione degli studiosi sulla traduzione della scritta sul vaso di Duenos, è però certa la sua attribuzione ad un uso sacrale nell'ambito di un matrimonio tra persone di alto lignaggio e potrebbe essere stato deposto alla fine di un rito matrimoniale in qualità di documento probatoriodell'impegno del padre della sposa. E', in sostanza, una forma di promessa o obbligazione unilaterale.
Il testo dell'iscrizione è il seguente:
IOVESATDEIVOSQOIMEDMITATNEITEDENDOCOSMISVIRCOSIED
ASTEDNOISIOPETOITESIAIPAKARIVOIS
DUENOSMEDFEKEDENMANOMEINOMDUENOINEMEDMAOSTATOD
Fonte: Le Nebbie del Tempo
Il vaso di Dueno, in bucchero (ceramica nero lucida), formato da tre recipienti rotondi conglobati, custodito nel Museo di Stato di Berlino, appartiene alla categoria dei cosiddetti "oggetti parlanti" ed è al centro di studi da più di 130 anni, proprio a causa della scritta che vi è incisa. Si tratta di un'iscrizione piuttosto difficile da interpretare, ordinata da destra verso sinistra, articolata in tre frasi che non presentano spazi tra una parola e l'altra. Finora nessuno è riuscito a trovare il significato definitivo delle misteriose parole incise sul vaso.
A Roma la scrittura fece la sua comparsa nel VII secolo a.C., il periodo in cui è stato prodotto il vaso di Dueno che, pertanto, costituisce una delle attestazioni di scrittura più antica. Non solo, si tratta di un oggetto di pregevole fattura, sicuramente appartenuto ad una persona piuttosto abbiente.
Il vaso venne ritrovato in un deposito votivo sul Quirinale, nel 1880. In merito al suo utilizzo gli studiosi dell'epoca non erano concordi. Nel 1958 Peruzzi attribuì al reperto un uso in ambito sacrale. Peruzzi era un ottimo conoscitore del latino arcaico e diede anche una sua traduzione della scritta che compariva sul vaso: "chi mi rovescia scongiura gli dei affinché fanciulla non ti conceda i suoi favori se non vuoi essere soddisfatto per opera di Tuteria". Nel 1959 un'altra traduzione venne fatta da E. Gjerstad: "che la tua ragazza possa essere amabile con te, non starti vicina se tu non la conquisterai servendoti della assistenza".
Negli anni '60 e '70 Dumezil, grande cultore della religione romana, esaminò attentamente il vaso e, cercando di contestualizzarlo, fornì una nuova traduzione della scritta: "colui che mi manda giura gli dei che se succede che la ragazza non abbia nei tuoi confronti un buon carattere facili rapporti ce ne venga l'obbligo a noi di far sì che l'accordo si stabilisca per voi".
Filippo Coarelli, verso la fine degli anni '80 rifiutò completamente le traduzioni fino a quel momento proposte e ipotizzò che il vaso potesse costituire un'offerta sacra, identificando Tuteria, nome che compariva nella frase del vaso, come una delle tante personificazioni della dea Fortuna, questa volta con caratteristiche ctonie ed erotiche. Quest'ipotesi era ulteriormente confortata dal fatto che il vaso era stato ritrovato nel luogo in cui, anticamente, sorgeva un santuario che, forse, era dedicato alla Tike Euelpis. Coarelli propose che il misterioso reperto poteva essere stato dedicato alla dea Tutela, un aspetto della Fortuna. Il santuario dedicato ad una degli aspetti della Fortuna, la Tike Euelpis, è conosciuto solo attraverso le fonti letterarie, le quali ne attribuiscono la costruzione a Servio Tullio. Del resto proprio il culto in genere della dea Fortuna si collega a Servio Tullio, soprattutto per quanto riguarda la celebrazione dei Matralia, festività annuale che si celebrava nel foro Boario, nel santuario dedicato ad un altro aspetto della Fortuna, santuario che la tradizione vuole essere stato fondato dallo stesso re. Il santuario della Fortuna venerata nei Matrialia aveva il nome di Fortuna Vergine e si trovava accanto al santuario di Mater Matuta. Durante la celebrazione di questa festività, le madri romane raccomandavano a Matuta i figli delle proprie sorelle e, forse, anche i figli dei propri fratelli, celebrando un rito di appartenenza della famiglia ad una particolare gens.
Proprio per questo si pensa che il vaso del Quirinale fosse stato dedicato in ambito cultuale, in un rito connesso a quello matrimoniale poiché attinente al sistema di relazioni che si instaurava con il matrimonio tra la gens del padre e lagens del marito della donna.
Gli anni '90 portarono una nuova proposta di traduzione, da parte del Pennisi: "giura per gli dei chi mi acquista e dice a se stesso: se verso di te ridente non sia la vergine, ma tu con doni nuziali come marito vuoi pattuirla. Dueno mi fece per un degno, e da Dueno indegno non mi terrà". Quest'ultima parte di questa nuova traduzione venne, in seguito, sviluppata in un'altra proposta di interpretazione: "non sia fatto del male a me (è il vaso che parla) e a ciò che è consacrato". Gli studiosi ricordano un passo di Terenzio in cui si narrava di un giovane sposato per imposizione paterna, che si vedeva riconosciuto il diritto di ripudiare la sposa nel caso in cui ella si fosse comportata male e il matrimonio non fosse stato consumato. Qui siamo in ambito giuridico, più che religioso oppure oltre che religioso, essendo il diritto arcaico fortemente influenzato dalla sfera religiosa, alla quale chiedeva, per esempio, in prestito le formule di giuramento.
Il testo del vaso di Dueno pare un giuramento arcaico, una formula cristallizzatasi nel corso dei decenni che, probabilmente, non potrà mai essere tradotta con precisione. Il vaso resta, comunque, la più bella dimostrazione di come, già nel VII secolo a.C., i nostri antenati avevano una tradizione cultuale ben articolata, con i suoi riti sacri, i sacerdoti, le formule da mandare a memoria, i codici.
Osvaldo Sacchi ha proposto, differentemente dal Coarelli, l'ipotesi che il misterioso vaso potesse essere collocato nell'area in cui un tempo sorgeva il tempio del dio Fidius, fondato da Tito Tazio. Questo tempio si trovava, secondo la tradizione, anch'esso sul Quirinale. Fidius era la divinità chepresiedeva ai giuramenti e che in alcuni calendari, stilati nel periodo precedente ai tempi di Cesare, si celebrava il 9 di giugno. In questo caso il dio Fidius e la dea Fides non erano tanto due divinità distinte, quanto espressione dello stesso culto in epoche differenti. Fidius starebbe per filius e Dius Fidius sarebbe da ricollegarsi ad un arcaico Diovis filius(parallelo al greco Dios kouros). Il figlio al quale le fonti antiche si riferivano era Ercole, omologo del sabino Sancus.Ovidio fornisce il nome completo del Dius Fidius, che è: Semo Sancus Dius Fidius. Il suo tempio, appunto, era sul Quirinale ed era considerato antichissimo.
Anticamente, nell'area laziale, prima della diffusione delle tavole matrimoniali, le parti si scambiavano dei pegni sui quali dichiaravano, in forma di promessa, di consentire lo sposalizio individuando anche dei garanti che testimoniassero della promessa fatta. I vasi, oggetti di uso comune, dunque, potevano essere utilizzati con funzione documentale, specialmente in età arcaica.
Se, quindi, non è ancora concorde l'opinione degli studiosi sulla traduzione della scritta sul vaso di Duenos, è però certa la sua attribuzione ad un uso sacrale nell'ambito di un matrimonio tra persone di alto lignaggio e potrebbe essere stato deposto alla fine di un rito matrimoniale in qualità di documento probatoriodell'impegno del padre della sposa. E', in sostanza, una forma di promessa o obbligazione unilaterale.
Il testo dell'iscrizione è il seguente:
IOVESATDEIVOSQOIMEDMITATNEITEDENDOCOSMISVIRCOSIED
ASTEDNOISIOPETOITESIAIPAKARIVOIS
DUENOSMEDFEKEDENMANOMEINOMDUENOINEMEDMAOSTATOD
Fonte: Le Nebbie del Tempo
lunedì 2 maggio 2016
Honebu. Settimana della letteratura a Cagliari: presentazione di 4 autori e 4 libri.
Honebu. Settimana della letteratura a Cagliari: presentazione di 4 autori e 4 libri.
L'Associazione Culturale Honebu ha organizzato due incontri
letterari concentrati in questa settimana. Domani, Martedì 3 Maggio, alle ore
19, nella sala conferenze in Via Fratelli Bandiera 100 Cagliari/Pirri, si
svolgerà l'incontro con Simonetta Delussu che racconterà il suo: "Delitto
d'Onore, la storia di Irene Biolchini".
La
vicenda di Irene Biolchini è quella di una giovane donna abbandonata incinta
dal padre del suo bambino, dall’uomo che ama e che ha creduto di sposare; una
donna lasciata e derisa, al quinto mese di gravidanza, a cui il padre dice: “O
lo uccidi o ti uccido”. È qui nasce la necessità della vendetta. Ma la storia
di Irene Biolchini è anche quella dell'amore per un uomo, l’amore disperato per
un figlio in arrivo, l’amore feroce per la vita. Nella Sardegna degli anni
Venti del Novecento, l’onta subìta da Irene dovrebbe essere lavata col suo
sangue: le donne abbandonate, in genere, si uccidono per la vergogna e per il
disonore che da loro ricade anche sull’intero gruppo familiare. Ma Irene sa
che, uccidendosi, toglierebbe la vita anche al bambino che porta in grembo e
così, con lucida disperazione, decide che a pagare quell’affronto debba essere
colui che l’ha procurato: Domenichino, il suo ex fidanzato, il padre del figlio
che aspetta. Quella dell’autrice è una narrazione che allarga i confini
della cronaca e si estende fino a dare la descrizione precisa e puntuale di uno
spaccato di realtà della Sardegna di quegli anni, dove “leggi arcane e feroci”
regolano ancora i rapporti tra le persone.
A seguire ci
sarà la presentazione del nuovo libro "Il violinista del diavolo e altre
storie" dello scrittore quartese Marco Conti, una raccolta di racconti di vita
reale, drammi vissuti da persone come noi, gente comune spesso passata da una
vita dignitosa a un baratro senza uscita.
L’autore, Marco Conti, ci
accompagna nel mondo dei personaggi che ha creato. Uomini e donne che soffrono,
per malattia o solitudine, per scelta o per la crudeltà di qualcuno. Persone
alla ricerca di una soluzione, non sempre a lieto fine. Individui che fuggono
dalla propria immagine riflessa allo specchio o dalla rete internet, che li
intrappola nella vergogna. Sono vittime di se stesse o della violenza.
Subiscono giudizi legati all’apparenza e sono costretti a fare i conti con la
vita vissuta e presente, in attesa di una telefonata. Hanno perso tutto, ma non
la dignità
Venerdì 6
Maggio, sempre alle 19 nella sala conferenze Honebu, la serata sarà introdotta
da Riccardo Laria, medico cagliaritano, attore, drammaturgo. Presenterà un
libro che, con una conversazione immaginaria con i suoi due figli, attraversa
tutto ciò che un genitore può aver desiderio di consegnare nelle mani di chi
non avrà molto altro da ereditare oltre l’esperienza e il sapere. Dialoghi con
i figli è un viaggio leggero e potente su temi fondanti che, tra riflessioni su
economia, finanza e capitalismo, passa per liberalismo e neoliberismo per poi
attraversare la visione sociale della Chiesa, bioetica, decrescita felice,
lavoro, sanità e pensioni. Perché scrivere immaginando un dialogo con i
propri figli e non riportarne uno vero? "Perché è difficile
incontrali", afferma Riccardo Laria. "Per fare la foto di copertina
tutti e tre assieme c’è voluto più tempo che per scrivere il testo». Nelle pagine è evidente la
reale volontà dell'autore: soddisfare, sia pur virtualmente, un’esigenza di
incontro, infatti, il saggio si rivela il delicato tentativo di un uomo di
creare un dialogo con i propri figli.
Concluderà la serata il giornalista Tonino Oppes con il suo ultimo libro: "Il ballo con le janas", un racconto arricchito con i disegni di Daniele Conti. E' un viaggio tra i
miti dell’infanzia, tra le tante storie che, un tempo, gli anziani raccontavano
ai bambini che ascoltavano incantati. Racconti e rapporti che creavano un filo
invisibile che univa i grandi ai più piccoli e ora rischia di spezzarsi perché
nessuno racconta più. Le leggende che
animavano le sere d’estate o le fredde notti d’inverno, davanti al caminetto,
sono riportate a galla e con esse risale anche un pizzico di nostalgia. Il
libro ci riporta alle Janas, (“sas fadas”) che abitavano l’isola in case
bellissime, scavate nel calcare o nella roccia granitica. Lavoravano tutto il
giorno su comodi telai, e cantavano. Nei giorni di festa si recavano nelle
piazze dei paesi a ballare per tutta la notte. Qualche volta s’intrattenevano
con gli uomini, ma non potevano innamorarsi. “Il ballo con le janas” ci guida
verso vecchie istantanee di 40, 50 anni fa, quando, anche nel villaggio più
sperduto, si formava la comunità del racconto, formata da intere famiglie del
rione che si radunavano intorno al vecchio novelliere per “Scoprire che… un
tempo la biscia camminava dritta finché la sua superbia è stata punita, che
Rebeccu era un grosso centro del Meilogu-Costaval che ha improvvisamente
rischiato di scomparire, qualcuno dice per colpa della maledizione di Donoria,
figlia ribelle del feudatario”.
domenica 1 maggio 2016
Archeologia. Sunghir, un sito che ospita la sepoltura di uno degli uomini più antichi del mondo.
Archeologia. Sunghir, un sito che ospita la sepoltura di uno degli uomini più antichi del mondo.
di Diana Civitillo
Sunghir (o Sungir) è un
sito molto grande del Paleolitico Superiore che si
trova nella periferia della città di Vladimir, a 192
km da Mosca. Il sito appartiene al periodo Gravettiano medio e mostra un accumulo di reperti sulla riva
sinistra del fiume Kliazma, che venne
esplorato e scavato in più stagioni di scavo, fra il 1957 e il 1964.
La prima sepoltura (Sungir 1) fu portata alla luce nel 1964 e vi venne
ritrovato il corpo di un uomo adulto in posizione supina, con la testa
orientata a nord-est e le mani
posizionate sulla zona pubica.
Le analisi al carbonio 14 propongono una datazione compresa fra i 20.000 e i 29.000 anni
fa. Gli archeologi credono che si tratti di un
sito visitato regolarmente dalle genti preistoriche per due-trecento
anni.
L’area insediata comprendeva cinque sepolture:
uomo adulto di circa 60 anni
di età; un ragazzo di 13 anni; una bambina dai 7 ai 9 anni; uno scheletro senza
testa, forse maschile; un cranio femminile adulto.
Le sepolture 1 e 2 vengono
descritte come le più spettacolari del periodo Gravettiano in Europa.
Tutte le persone sepolte a Sunghir erano adorne di oggetti rituali che comprendevano gioielli in
Tutte le persone sepolte a Sunghir erano adorne di oggetti rituali che comprendevano gioielli in
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