sabato 31 maggio 2014
Porto Torres. Affreschi e mosaici nei pressi delle terme.
Porto Torres. Affreschi e mosaici scoperti dagli archeologi nei pressi delle terme Maetzke
di Emanuele Fancellu
Affreschi tanto belli e delicati da levare il fiato, un mosaico straordinario, ambienti di una struttura probabilmente residenziale. Il sottosuolo di Porto Torres regala sorprese a getto continuo e stavolta a rivelare tanta bellezza è la zona delle Terme Maetzke al confine con l'area privata di via delle Terme da cui negli anni scorsi emersero statue, mosaici, colonne, capitelli e i resti di un edificio monumentale pubblico.
I lavori, portati avanti dagli operai specializzati dell'azienda Luciano Sini Costruzioni guidati sul campo dall'archeologo dell'università di Napoli “Federico II” Vincenzo Di Giovanni, sotto la direzione scientifica di Gabriella Gasperetti, nati per soddisfare l'esigenza di sistemare l'area delle Terme Maetzke con approfondimenti in zone non indagate precedentemente, dopo un periodo iniziale nel quale si è dovuta asportare una gran quantità di terra, hanno cominciato a regalare primizie.
Ecco il video:
Da principio sono emerse le fasi tardo antiche della città che ricordano ancora l'assetto urbanistico dei primi secoli dell'impero perché i muri rispettano in gran parte l'andamento anche delle strutture più antiche, quindi altre porzioni che s'insinuano sotto la collina, per cui sarà necessario proseguire i lavori con ulteriori risorse. Nella zona orientale del settore d'intervento si è verificata la presenza di una struttura d'epoca più antica, a conferma di una serie di dati recuperata nell'area privata immediatamente adiacente.
«La conferma è stata eclatante perché sono emersi i muri delle strutture, forse abitative, ancora da interpretare, che spiccano verso il confine con l'area privata – dice Gabriella Gasperetti –. Esse hanno un assetto prospettico verso il porto e il mare perché s'appoggiano sul banco di roccia e scendono a terrazza verso la parte bassa della città. Poi, su una prima impostazione con strutture alte oltre quattro metri che però per la spinta della collina sono state rinforzate con dei grandi conci di calcare squadrati, del tutto analoghi a quelli emersi negli anni scorsi, la sorpresa più grande è stato il ritrovamento, conservati per oltre due metri d'altezza, degli affreschi in uno di questi ambienti con decorazioni geometriche, nel quale è stato scoperto un bellissimo mosaico».
Sulle pitture è più esplicito Vincenzo Di Giovanni: «Ripropongono motivi geometrici con imitazione del marmo, con uno spiccato senso di policromia. Le parti decorative hanno sfondi rosso cinabro e bianco, con fasce e rombi a tutta parete che imitano le venature del marmo. È piuttosto raro come tipo di decorazione e ha confronti con altri motivi di età medioimperiale. È impostata su muri che ne coprono altri d'età precedente con decorazione a fasce di colore grigio scuro e rosso».
Il mosaico ha invece motivo geometrico con schema a tessitura trasversale con disegni alternati a fasce con decorazioni schematizzate di rosette, croci, quadrifogli con petali lavorati a cuoricini e notevole policromia. «Potrebbe non essere molto tardo – dice Gabriella Gasperetti – forse metà del II secolo».
In questo primo ambiente emerge una fase di riutilizzo con una sorta di altarino costruito in un angolo con mattoni e tegole, e una lastra di marmo a colmare una lacuna nel pavimento «che sembra intenzionale e bisogna capire il perché» afferma l'archeologa. Accanto, sotto il muro di confine, sta venendo fuori quello che sembra un porticato prospettico alla parte bassa della città col resto di una colonna in calcare, una soglia in marmo che sta affiorando, forse un parapetto, e un grande crollo di una parte della volta. «Il dato è fondamentale perché dimostra che questo settore delle Terme Maetzke è direttamente connesso con l'area privata che merita di far parte del parco archeologico» chiosa Gabriella Gasperetti.
Fonte: La Nuova Sardegna
di Emanuele Fancellu
Affreschi tanto belli e delicati da levare il fiato, un mosaico straordinario, ambienti di una struttura probabilmente residenziale. Il sottosuolo di Porto Torres regala sorprese a getto continuo e stavolta a rivelare tanta bellezza è la zona delle Terme Maetzke al confine con l'area privata di via delle Terme da cui negli anni scorsi emersero statue, mosaici, colonne, capitelli e i resti di un edificio monumentale pubblico.
I lavori, portati avanti dagli operai specializzati dell'azienda Luciano Sini Costruzioni guidati sul campo dall'archeologo dell'università di Napoli “Federico II” Vincenzo Di Giovanni, sotto la direzione scientifica di Gabriella Gasperetti, nati per soddisfare l'esigenza di sistemare l'area delle Terme Maetzke con approfondimenti in zone non indagate precedentemente, dopo un periodo iniziale nel quale si è dovuta asportare una gran quantità di terra, hanno cominciato a regalare primizie.
Ecco il video:
Da principio sono emerse le fasi tardo antiche della città che ricordano ancora l'assetto urbanistico dei primi secoli dell'impero perché i muri rispettano in gran parte l'andamento anche delle strutture più antiche, quindi altre porzioni che s'insinuano sotto la collina, per cui sarà necessario proseguire i lavori con ulteriori risorse. Nella zona orientale del settore d'intervento si è verificata la presenza di una struttura d'epoca più antica, a conferma di una serie di dati recuperata nell'area privata immediatamente adiacente.
«La conferma è stata eclatante perché sono emersi i muri delle strutture, forse abitative, ancora da interpretare, che spiccano verso il confine con l'area privata – dice Gabriella Gasperetti –. Esse hanno un assetto prospettico verso il porto e il mare perché s'appoggiano sul banco di roccia e scendono a terrazza verso la parte bassa della città. Poi, su una prima impostazione con strutture alte oltre quattro metri che però per la spinta della collina sono state rinforzate con dei grandi conci di calcare squadrati, del tutto analoghi a quelli emersi negli anni scorsi, la sorpresa più grande è stato il ritrovamento, conservati per oltre due metri d'altezza, degli affreschi in uno di questi ambienti con decorazioni geometriche, nel quale è stato scoperto un bellissimo mosaico».
Sulle pitture è più esplicito Vincenzo Di Giovanni: «Ripropongono motivi geometrici con imitazione del marmo, con uno spiccato senso di policromia. Le parti decorative hanno sfondi rosso cinabro e bianco, con fasce e rombi a tutta parete che imitano le venature del marmo. È piuttosto raro come tipo di decorazione e ha confronti con altri motivi di età medioimperiale. È impostata su muri che ne coprono altri d'età precedente con decorazione a fasce di colore grigio scuro e rosso».
Il mosaico ha invece motivo geometrico con schema a tessitura trasversale con disegni alternati a fasce con decorazioni schematizzate di rosette, croci, quadrifogli con petali lavorati a cuoricini e notevole policromia. «Potrebbe non essere molto tardo – dice Gabriella Gasperetti – forse metà del II secolo».
In questo primo ambiente emerge una fase di riutilizzo con una sorta di altarino costruito in un angolo con mattoni e tegole, e una lastra di marmo a colmare una lacuna nel pavimento «che sembra intenzionale e bisogna capire il perché» afferma l'archeologa. Accanto, sotto il muro di confine, sta venendo fuori quello che sembra un porticato prospettico alla parte bassa della città col resto di una colonna in calcare, una soglia in marmo che sta affiorando, forse un parapetto, e un grande crollo di una parte della volta. «Il dato è fondamentale perché dimostra che questo settore delle Terme Maetzke è direttamente connesso con l'area privata che merita di far parte del parco archeologico» chiosa Gabriella Gasperetti.
Fonte: La Nuova Sardegna
venerdì 30 maggio 2014
Cartografia Nautica. Mercatore e il grande bluff
Cartografia Nautica. Mercatore e
il grande bluff
di Rolando Berretta
Qualche
Lettore avrà notato che riporto 90° di meridiano diversi dai quelli
dell’Organum Directorium. Non è una mia svista. Quella è la spiegazione del
perché la terre raffigurate negli schemi portolani sono dilatate sull’asse
est/ovest. Utilizzo, per spiegare il tutto, il solito schema RoBer a base 34
unità (quadratini), con Primario da 26 e Secondario da 13.
Gli
Schemi Portolani, come ho spiegato negli articoli precedenti, nascondono una
griglia di quadratini ( i loro gradi). Ogni settore vale 4,5° su uno sviluppo
di 80 settori sull’asse est/ovest.
Sull’asse
nord/sud dovrebbero essere 40 ma ne utilizzano solo 34 per i loro schemi. 34
settori partendo, da sud, dal Circolo Polare Antartico.
giovedì 29 maggio 2014
Gli Assiri
Gli Assiri,
di Pierluigi Montalbano
L’Assiria è un’antica regione della Mesopotamia che comprende l’alta valle del Tigri,
fino alle montagne dell’Armenia, e le valli del Grande e del Piccolo Zāb. Le
città più importanti, oltre alla capitale Assur, furono Kalkhu (oggi Nimrud), Ninive, Harran e Tirqa.
Le vicende assire vanno dal 2000 al 612 a.C. (data
della caduta di Ninive) e sono divise in tre periodi: fino al 1500 a.C. con
predominio politico babilonese e culturale sumero-accadico, uno fino al 1000
a.C. e uno fino al 612 a.C. Le fonti sono ricchissime, abbiamo liste di re,
dinastie, cronache delle campagne di guerra, iscrizioni e altri documenti,
soprattutto giuridici.
Occupata
anticamente dai Sumeri, nella seconda metà del III millennio l’Assiria fu
annessa da Sargon al suo impero, conservando tuttavia l’indipendenza da
Babilonia, che si accentuò agli inizi del II millennio a.C. con le dinastie
amorree. Successivamente compare lo Stato hurrita di Mitanni che la sottomise a partire dal 1500
a.C. Liberata da Assuruballit (1363-28) dalla soggezione a Mitanni, ebbe un
nuovo grande sovrano in Addu-Nirāri I (1305-1274), che ne ampliò i confini
verso Nord; il figlio Salmanassar I (1273-44), trasportò la capitale da Assur a
Kalkhu. Dopo di lui Tukulti-Ninurta I (1243-07) annesse Babilonia al suo
impero.
L’impero
assiro fu fondato da Tiglatpileser I (1112-1074), che spinse la sua conquista
fino al Mediterraneo a O e al Mar Nero a nord, consolidando a Sud l’occupazione
di Babilonia. Questi territori, perduti nei successivi decenni di anarchia,
furono riconquistati da Assurnasirpal II (883-59),
cui successe il figlio Salmanassar III (858-24), sotto il quale vi fu una
sollevazione dell’Assiria.; Shamshi-Adad V (823-10) riuscì a domarla solo in
parte, lasciando l’impero a Semiramide, reggente per il figlio. Tiglatpileser
III (745-27) riuscì a riportare l’Assiria a un periodo florido, seguito da
Sargon II (721-05), fondatore della dinastia dei Sargonidi, che lasciò al
figlio Sennacherib (704-681) un forte organismo statale. Le rivolte della
Palestina e dell’Elam,
sollecitate dagli Egiziani, furono domate dal sovrano che, vinta Babilonia,
fece della capitale Ninive lo splendido centro della sua potenza.
Il figlio
Asarhaddon (680-69) pacificò il paese e
iniziò la conquista del Basso Egitto, continuata dal successore Assurbanipal (668-29) che distrusse Tebe. Lo stesso
sovrano annientò la forte coalizione antiassira formatasi attorno a suo
fratello, regnante in Babilonia. Dopo la morte di Assurbanipal l’Assiria
decadde e nel 612 a.C. Ciassare occupò Ninive. Gli Assiri fuggiti a Ḥarrān
elessero re il fratello di Assurbanipal, Assuruballit II (612-10). L’Assiria,
occupata in parte dai Babilonesi e in parte dai Medi, cadde definitivamente in
mano di Ciro, alla fine della dinastia neo-babilonese. Costituì nell’Impero
persiano parte della IX satrapia e fu poi occupata da Alessandro Magno. Passata
ai Seleucidi, poi presa dai Parti, fu conquistata dall’imperatore romano
Traiano, che vi istituì l’effimera provincia di Assyria (116-17 d.C.), abbandonata già
all’inizio dell’impero di Adriano. L’Assiria tornò quindi a far parte del regno
partico, di cui seguì le sorti.
Ciò che rimane dei testi accadici in cuneiforme, su
tavolette o cilindri d’argilla o su vari oggetti di pietra o di metallo,
conferma la prevalente dipendenza culturale degli Assiri dalla cultura
sumerica: da questa comune origine traggono motivo le concordanze esistenti tra
Assiri e Babilonesi, per quel che riguarda miti religiosi o usanze culturali.
Nella biblioteca di Assurbanipal, la cui scoperta ha fornito il maggior numero
di testi assiri, si sono trovate, per esempio, redazioni assire dell’Enūma
elish, il poema della creazione, diverse solo perché al
posto di Marduk c’è Ashshū´r, e anche trascrizioni di testi già noti nella
versione babilonese, che quindi non è escluso provengano da un comune originale
sumerico. Lo stesso può dirsi per numerosi inni agli dei, per vari testi
rituali e per buona parte della letteratura augurale. Un prodotto originale
sono gli annali storici, che danno le descrizioni delle imprese dei re,
distribuendole di solito in campagne secondo i singoli anni. Di notevole
interesse sono i documenti giuridici (relativi per lo più al periodo
medio-assiro) e le lettere private o pubbliche. La religione politeistica, è
caratterizzata dalla relativa semplicità di figure mitiche: l’unica divinità ad
avere una fisionomia particolare e dominante è il dio Assur.
L’arte assira emerse negli ultimi secoli del II
millennio, accompagnando poi l’espansione politica e avendo il suo centro nelle
città di volta in volta capitali dell’impero (Assur, Kalkhu, Ninive, Dūr
Sharrukīn). Si distinguono tre periodi: il paleoassiro,
nel quale predomina l’imitazione delle opere degli artisti sumeri e accadi; il medioassiro,
che giunge al 1000 circa a.C.; il neoassiro,
fino alla caduta dell’impero. In quest’ultimo periodo, e soprattutto al tempo
di Assurbanipal, l’arte assira raggiunse l’apice della perfezione tecnica, in
particolare nei rilievi, come le lastre con scene di guerra e di caccia in
narrazione continua che ornavano le pareti dei palazzi regi. In questi,
specialmente quelli periferici (Tell Ahmar), sono state trovate tracce notevoli
anche di pittura murale, che affiancava e integrava iconograficamente il
rilievo. Per il resto gli edifici, le statue dei re e le opere dell’arte
cosiddetta minore non si distaccano in modo apprezzabile dalla tradizione
sumerica e babilonese. Aspetti autonomi significativi ha però la ricca
produzione di sigilli.
Immagini di www.images.treccani.it
mercoledì 28 maggio 2014
I Sumeri
I Sumeri
di Pierluigi Montalbano
E’ sconosciuta l’origine di questa antica popolazione della Mesopotamia meridionale che nelle iscrizioni cuneiformi sono definiti Sag-gi (teste nere). Non autoctoni, si insediano nella regione già nel V millennio a.C., originando le culture di Eridu e Obeid, caratterizzate da ceramica lavorata a tornio.
La loro presenza è più documentata nel periodo storico di Uruk con la comparsa delle prime città, di un nucleo statale e della scrittura cuneiforme, che li pone come artefici della rivoluzione urbana. Erano organizzati in città-Stato, governate da un principe con poteri assoluti. Le più importanti furono Uruk, Lagash, Kish, Nippur, Isin e Larsa. I rinvenimenti epigrafici raccontano la struttura statale, le istituzioni, il mondo intellettuale e la diffusione della loro cultura in tutto il Vicino Oriente.
Il più importante sovrano fu Sargon il Grande, con il quale si affermò la dinastia semitica. Dopo il crollo e la cacciata di questa dinastia a opera dei Gutei, iniziò la seconda fase della storia sumerica (2050 a.C.), un rinascimento operato dalla III dinastia di Ur. Dai testi emerge la figura di Gudea, principe pacificatore e costruttore di templi. Nell’ultima fase della storia sumerica, che inizia dal 1950 a.C., presero definitivamente il potere in tutta la Mesopotamia le dinastie degli Amorrei.
La religione dei Sumeri è caratterizzata da un politeismo legato alla natura: dei immortali che riflettono forze naturali. Ogni città ha una divinità principale. Tra queste emergono una triade di dei cosmici: il dio del cielo (An), dell’aria (Enlil), dell’acqua (Enki); e la triade astrale: Nanna, Utu, Inanna, personificazioni della Luna, del Sole e della stella Venere, la Terra Madre. Sotto agli dei, i demoni sono spiriti negativi, contro i quali un sacerdozio specializzato pratica arti magiche. Scopo di base del culto è il benessere nella vita terrena.
Il sumerico è una complessa lingua di tipo agglutinante, diversa da ogni altra dell’Oriente anteriore antico. Vi si distinguono due fasi, corrispondenti a due periodi storici, e due principali dialetti, l’eme-ku e l’eme-sal espressi con una scrittura eseguita con stili di canna su tavolette di argilla. È la scrittura più antica conosciuta, in origine di carattere pittografico, poi ideografica (schematizzazione dei disegni), e in seguito fonetica, che ha valori sillabici e non alfabetici.
L’arte è di tipo ufficiale, volta alla celebrazione della religione e del potere. Già in età preistorica l’architettura si esprime in grandi templi urbani e mura costruite con mattoni di argilla. Il tempio, inizialmente costituito da un solo vano, si allarga in seguito con un sistema di stanze e cortili circondato da un recinto sacro. A fronte delle statue di piccole dimensioni, soprattutto ex voto, quelle dei principi e degli dei sono più grandi, in atteggiamento ieratico e solenne. Il rilievo è molto diffuso: i visi sono raffigurati di profilo, con gli occhi e il corpo di fronte.
Nelle immagini:
in alto, statuette sumere
in basso, lo stendardo di Ur
martedì 27 maggio 2014
Archeologia. Le mura dei Pelasgi, una tecnica architettonica millenaria.
Archeologia. Le
mura dei Pelasgi, una tecnica architettonica millenaria.
di
Roberto Mortari
Esaminando
le mura difensive poligonali di Cosa, Alatri, Segni, Cori, Alba Fucens, si è
osservato che le lunghezze dei lati dei poligoni sono multiple di un valore
comune, pari a 1,536 cm, mentre le ampiezze degli angoli sono multiple di 1,5°.
Stessi valori sono stati riscontrati ad Atene e,nel Mare Egeo, sull'isola di
Milo. Da altre osservazioni a Pyrgi e Orbetello sono emerse due date entro le
quali questa tecnica costruttiva veniva applicata. Tutte le mura poligonali mostrano,
nella faccia a vista, blocchi di pietra con un numero di lati che può variare
da tre a più di dieci e con angoli che possono essere anche concavi.
Le
mura di difesa di molte città sono chiamate anche ciclopiche, a indicare le grandi
dimensioni, ma possono essere chiamate anche megalitiche e pelasgiche. Giuseppe
Lugli nel 1946 scriveva a questo proposito: “Ė dimostrato ormai che i Pelasgi
non hanno nulla a che vedere con le grandi fortificazioni poligonali e che esse
non sono così antiche come si credeva un tempo. Il raffronto con le mura di
Tirinto e Micene è puramente tecnico e non presenta alcun legame storico ed
etnico; le mura più rozze risalgono sul nostro territorio al VI a.C., mentre
quelle più accuratamente tagliate si possono datare alla metà e fine del IV
a.C.
Bisogna
precisare che non tutte le mura megalitiche sono poligonali, mentre non tutte
le mura poligonali sono megalitiche. Giuseppe Lugli nel 1967 ha distinto in cinque
classi le tecniche costruttive: opus siliceum, quadratum, caementicium,
incertum e reticulatum. Nell’ambito dell’opus siliceum riconosce quattro
maniere:
1) blocchi grezzi, accatastati così come vengono dalla cava (esempi
sono Atina e Amelia).
2) blocchi
sgrossati, con zeppe negli interstizi. La faccia a vista viene resa il più
possibile piana (esempi a Roselle e Norba).
3) sgrossatura
raffinata sulla faccia esterna, fino a raggiungere una superficie piana, e
spianatura delle superfici a contatto con gli altri blocchi. Il lavoro era
svolto sul posto con scalpello e squadra per misurare gli angoli (esempi a
Cosa, Orbetello, Pyrgi, Alatri, Alba Fucens, Norba e molti altri siti).
4) imitazione
dell’opera quadrata, senza raggiungere la perfezione per risparmiare lavoro.
Nell’ambito dell’opera quadrata abbiamo tre maniere: etrusca, greca e romana,
secondo unità di misura differenti. perfettamente orizzontali ma di altezza
diversa e con una alternanza di posizioni fra pietre, ad esempio alternati di
testa e di taglio.
lunedì 26 maggio 2014
Lo scavo archeologico. Tecniche, leggi e metodo scientifico
Lo scavo archeologico. Tecniche, leggi e metodo scientifico
di Pierluigi Montalbano
Uno scavo
archeologico mira a porre in luce monumenti e documenti delle civiltà passate
con metodi diversi a seconda del carattere delle ricerche, della natura del
terreno da esplorare, del vario tipo delle città o dei monumenti da mettere in
luce.
Il rilievo topografico di un territorio dove ci siano ruderi
emergenti o sepolti, anche attraverso la fotografia aerea, può giovarsi dello
scavo per saggiare il terreno nei punti in cui la sua superficie mostri la
presenza di vestigia archeologiche.
I saggi di scavo, ossia aprire un terreno con trincee,
gallerie o pozzi, mostrano i confini di una zona monumentale, città o
necropoli; rilevano la pianta di un edificio; individuano gli strati e
materiali archeologici del sottosuolo. Il taglio verticale dovrà essere fatto
in modo che consenta agevolmente sia l'asportazione della terra sia la
possibilità di fotografare le pareti della trincea per documentarne gli strati.
Le pareti del taglio dovranno avere l'inclinazione sufficiente per non causare
franamenti. Le terre di risulta vanno sempre gettate lontano per permettere un
eventuale ampliamento. Quando il taglio del terreno ha come scopo di
riconoscere il carattere delle fondazioni di un edificio, basterà che il cavo,
fatto a ridosso della costruzione, ne consenta la visione.
domenica 25 maggio 2014
Cibi, sapori e odori dei cibi degli antichi egizi e fenici.
Che sapore aveva il cibo degli egizi? Quali erano gli odori di un antico mercato fenicio?
Quelle che, a prima vista, potrebbero sembrare banali curiosità rientrano, in realtà, in un orizzonte di ricerca ben preciso. Si tratta della cosiddetta antropologia dei sensi, disciplina avviata a fine anni ottanta da un gruppo di studiosi canadesi con a capo David Howes. Gli odori e i sapori, ben lungi dall’essere solo un’esperienza psicologica rappresentano un fenomeno piuttosto complesso: contrariamente a quel che si potrebbe credere l’elaborazione sensoriale non costituisce un processo meccanico unicamente determinato dalla fisiologia umana, ma un fenomeno nel quale codici culturalmente determinati giocano un ruolo di primo piano.
sabato 24 maggio 2014
Scritte numerali sui nuraghi, di Massimo Pittau
Scritte numerali sui nuraghi
di Massimo Pittau
Per quanto mi risulta, è stato Ettore Pais - però su indicazione di Filippo Nissardi - il primo studioso a segnalare, nel suo saggio Sulla civiltà dei Nuraghi e lo sviluppo sociologico della Sardegna (1909- 1911), l'esistenza di segni grafici nel nuraghe Losa di Abbasanta e precisamente in un masso orizzontale, sistemato all'inizio e a sinistra della scala circolare.
Ed egli scrisse di ritenere che quei segni grafici fossero contemporanei alla costruzione proprio del grandioso nuraghe e che inoltre appartenessero a una scrittura primitiva degli antichi Sardi o Protosardi.
Di recente si sono fatti avanti alcuni dilettanti, i quali hanno ritenuto anch'essi che si tratti di segni grafici di una supposta “scrittura nuragica”. Essi hanno riempito numerosi siti internet con una serie enorme di considerazioni pseudolinguistiche e pseudoarcheologiche, le quali in realtà sono del tutto prive di valore scientifico.Si sono anche contraddetti vistosamente, dato che all'inizio avevano parlato di “scrittura nuragica” totalmente ed esclusivamente tale, dopo hanno finito col compararla e connetterla con quasi tutte le scritture degli antichi popoli del Vicino Oriente. Io mi sono interessato a lungo del problema della conoscenza e dell'uso da parte dei Nuragici della scrittura, dato che ho sempre considerato una autentica sciocchezza la tesi messa in giro e spesso ripetuta della “civiltà illetterata” dei Nuragici. E in vista di questo mio interesse al problema ho fatto anche una ricca raccolta di segni che nei nuraghi, nelle tombe di gigante e nel vasellame nuragico potessero risalire proprio ai Nuragici. Alla fine però ho concluso la mia ricerca, quando mi sono sentito in grado di affermare che:
I) Non è mai esistita una scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica;
II) I Nuragici hanno effettivamente conosciuto e adoperato la scrittura, ma facendo uso prima dell'alfabeto fenicio, poi di quello greco e infine quello latino (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Selargius, 2007, § 24; M.Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama I appendice, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES).
Venendo ai segni incisi nel masso della scala interna del nuraghe Losa di Abbasanta, io escludo che si tratti di segni grafici, cioè di lettere di una scrittura, e dico invece, oggi per la prima volta, che si tratta di “segni numerali” incisi dai costruttori del nuraghe, a mano a mano che lo costruivano.
La costruzione del più semplice dei nuraghi richiedeva molto tempo, mesi, anni e perfino decenni.
Sono pertanto dell'avviso che ciascuna delle aste verticali della scritta del nuraghe Losa indichi un anno intero, mentre i più corti segni diagonali, che si congiungono ai primi, indichino i mesi.
La costruzione del nuraghe Losa dunque ha richiesto probabilmente 23 o 24 anni (tale sembra il numero delle aste, più alcune frazioni di mesi), che è una somma di anni che ben si adatta alla costruzione del grandioso edificio.
È appena il caso di ricordare che anche numerose chiese cristiane, soprattutto in epoca medioevale, hanno richiesto anni, decenni e perfino secoli per essere portate a termine.
Si comprende abbastanza facilmente il motivo della incisione della “scritta numerale” nel masso di inizio della scala interna del nuraghe: la scritta fu iniziata all'atto della prima costruzione del nuraghe e fu di anno in anno accresciuta e aggiornata a mano a mano che la costrizione andava avanti.
I segni numerali sono abbastanza differenti l'uno dall'altro per il motivo che col passare degli anni cambiavano i costruttori dell'edificio e cambiavano i trascrittori dei segni++.&
Si comprende pure la ragione per la quale i costruttori scelsero quel posto nascosto dell'edificio: si trattava di evitare che la scritta fosse guastata dai numerosi visitatori del grande edificio di culto.
Sempre nel nuraghe Losa, in un masso esterno del muraglione di settentrione, a livello di fondazione, il Pais ha segnalato anche l'esistenza di segni simili a quelli visti.
In più egli ha visto il disegno di un fallo, che però io non ho mai riscontrato.
Non mi sento di dire nulla su questa serie di segni: dico solamente che la prima scritta molto verosimilmente risale all'epoca della fondazione del grande nuraghe, mentre questa seconda potrebbe essere successiva anche di parecchio tempo.
Sempre su indicazione di Filippo Nissardi il Pais ha segnalato pure l'esistenza di una scritta similare in un masso di destra dell'ingresso del nuraghe Bara o Succoronis, fra Macomer e Sindia. Eccone la fotografia, non chiara sia per il muschio della roccia, sia per la sua posizione quasi orizzontale. Ed accanto il probabile disegno:
A mio avviso anche questa è un “scritta numerale”, che segna gli anni occorsi per costruire il nuraghe.Per concludere ricordo che fino a un cinquantennio fa, quando molti pastori non sapevano leggere né scrivere, erano soliti segnare la quantità di latte che versavano al caseificio facendo particolari tacche su un piccolo ramo d'albero fatto a bastone.
di Massimo Pittau
Per quanto mi risulta, è stato Ettore Pais - però su indicazione di Filippo Nissardi - il primo studioso a segnalare, nel suo saggio Sulla civiltà dei Nuraghi e lo sviluppo sociologico della Sardegna (1909- 1911), l'esistenza di segni grafici nel nuraghe Losa di Abbasanta e precisamente in un masso orizzontale, sistemato all'inizio e a sinistra della scala circolare.
Ed egli scrisse di ritenere che quei segni grafici fossero contemporanei alla costruzione proprio del grandioso nuraghe e che inoltre appartenessero a una scrittura primitiva degli antichi Sardi o Protosardi.
Di recente si sono fatti avanti alcuni dilettanti, i quali hanno ritenuto anch'essi che si tratti di segni grafici di una supposta “scrittura nuragica”. Essi hanno riempito numerosi siti internet con una serie enorme di considerazioni pseudolinguistiche e pseudoarcheologiche, le quali in realtà sono del tutto prive di valore scientifico.Si sono anche contraddetti vistosamente, dato che all'inizio avevano parlato di “scrittura nuragica” totalmente ed esclusivamente tale, dopo hanno finito col compararla e connetterla con quasi tutte le scritture degli antichi popoli del Vicino Oriente. Io mi sono interessato a lungo del problema della conoscenza e dell'uso da parte dei Nuragici della scrittura, dato che ho sempre considerato una autentica sciocchezza la tesi messa in giro e spesso ripetuta della “civiltà illetterata” dei Nuragici. E in vista di questo mio interesse al problema ho fatto anche una ricca raccolta di segni che nei nuraghi, nelle tombe di gigante e nel vasellame nuragico potessero risalire proprio ai Nuragici. Alla fine però ho concluso la mia ricerca, quando mi sono sentito in grado di affermare che:
I) Non è mai esistita una scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica;
II) I Nuragici hanno effettivamente conosciuto e adoperato la scrittura, ma facendo uso prima dell'alfabeto fenicio, poi di quello greco e infine quello latino (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Selargius, 2007, § 24; M.Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama I appendice, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES).
Venendo ai segni incisi nel masso della scala interna del nuraghe Losa di Abbasanta, io escludo che si tratti di segni grafici, cioè di lettere di una scrittura, e dico invece, oggi per la prima volta, che si tratta di “segni numerali” incisi dai costruttori del nuraghe, a mano a mano che lo costruivano.
La costruzione del più semplice dei nuraghi richiedeva molto tempo, mesi, anni e perfino decenni.
Sono pertanto dell'avviso che ciascuna delle aste verticali della scritta del nuraghe Losa indichi un anno intero, mentre i più corti segni diagonali, che si congiungono ai primi, indichino i mesi.
La costruzione del nuraghe Losa dunque ha richiesto probabilmente 23 o 24 anni (tale sembra il numero delle aste, più alcune frazioni di mesi), che è una somma di anni che ben si adatta alla costruzione del grandioso edificio.
È appena il caso di ricordare che anche numerose chiese cristiane, soprattutto in epoca medioevale, hanno richiesto anni, decenni e perfino secoli per essere portate a termine.
Si comprende abbastanza facilmente il motivo della incisione della “scritta numerale” nel masso di inizio della scala interna del nuraghe: la scritta fu iniziata all'atto della prima costruzione del nuraghe e fu di anno in anno accresciuta e aggiornata a mano a mano che la costrizione andava avanti.
I segni numerali sono abbastanza differenti l'uno dall'altro per il motivo che col passare degli anni cambiavano i costruttori dell'edificio e cambiavano i trascrittori dei segni++.&
Si comprende pure la ragione per la quale i costruttori scelsero quel posto nascosto dell'edificio: si trattava di evitare che la scritta fosse guastata dai numerosi visitatori del grande edificio di culto.
Sempre nel nuraghe Losa, in un masso esterno del muraglione di settentrione, a livello di fondazione, il Pais ha segnalato anche l'esistenza di segni simili a quelli visti.
In più egli ha visto il disegno di un fallo, che però io non ho mai riscontrato.
Non mi sento di dire nulla su questa serie di segni: dico solamente che la prima scritta molto verosimilmente risale all'epoca della fondazione del grande nuraghe, mentre questa seconda potrebbe essere successiva anche di parecchio tempo.
Sempre su indicazione di Filippo Nissardi il Pais ha segnalato pure l'esistenza di una scritta similare in un masso di destra dell'ingresso del nuraghe Bara o Succoronis, fra Macomer e Sindia. Eccone la fotografia, non chiara sia per il muschio della roccia, sia per la sua posizione quasi orizzontale. Ed accanto il probabile disegno:
A mio avviso anche questa è un “scritta numerale”, che segna gli anni occorsi per costruire il nuraghe.Per concludere ricordo che fino a un cinquantennio fa, quando molti pastori non sapevano leggere né scrivere, erano soliti segnare la quantità di latte che versavano al caseificio facendo particolari tacche su un piccolo ramo d'albero fatto a bastone.
venerdì 23 maggio 2014
Rinvenuta statua di un sacerdote fenicio a Sidone
Rinvenuta statua di un sacerdote fenicio a Sidone
La missione archeologica guidata da Claude Doumet Serhal ha rinvenuto l’antica statua di un sacerdote di età fenicia a Sidone, nel Sud del Libano.
La scultura di 115 cm, purtroppo priva della parte superiore, riproduce le fattezze di un uomo a torso nudo con indosso il tipico gonnellino di foggia egittizzante con lembo centrale (shendyt).
Il reperto, sebbene ad occhi inesperti possa sembrare poco notevole, soprattutto se confrontato con la statuaria colossale dei più importanti regni del Vicino Oriente antico, costituisce in realtà un pezzo piuttosto raro; come ha affermato la stessa Serhal, infatti, fino ad oggi, i siti libanesi hanno restituito solo tre sculture simili, attualmente conservate presso il Beirut National Museum.
Oltre alla statua del sacerdote, la missione ha rinvenuto diversi oggetti votivi, tra i quali si distingue un amuleto in bronzo della dea Tanit.
Sidone è una città del Libano situata sulla costa del Mar Mediterraneo, circa 40 km a Sud Ovest di Beirut. Ebbe alla fine del II millennio a.C. la supremazia sulle altre città della costa. Fiorente al tempo di Alessandro Magno, passò in seguito ai Tolomei e ai Seleucidi e, nel 64 a.C., ai Romani. Fiorì ancora in età imperiale e nella prima età cristiana, finché nel 501 un terremoto la distrusse quasi completamente. Fu uno dei porti militari di Damasco sotto i califfi omayyadi. Presa una prima volta dai crociati nel 1110, fu feudo del regno di Gerusalemme. Caduta in mano a Saladino nel 1187, fu ripresa dai crociati nel 1228 e nuovamente fortificata da Luigi IX re di Francia (1253). Distrutta dai Mongoli nel 1260, lo stesso anno passò ai Templari, finché nel 1291 ritornò definitivamente ai musulmani, che ne distrussero le fortificazioni. Nell’agosto 1920 fu staccata dalla Siria e annessa al Libano.
Fonte del testo e delle immagini: http://orientalisticamente.wordpress.com
La missione archeologica guidata da Claude Doumet Serhal ha rinvenuto l’antica statua di un sacerdote di età fenicia a Sidone, nel Sud del Libano.
La scultura di 115 cm, purtroppo priva della parte superiore, riproduce le fattezze di un uomo a torso nudo con indosso il tipico gonnellino di foggia egittizzante con lembo centrale (shendyt).
Il reperto, sebbene ad occhi inesperti possa sembrare poco notevole, soprattutto se confrontato con la statuaria colossale dei più importanti regni del Vicino Oriente antico, costituisce in realtà un pezzo piuttosto raro; come ha affermato la stessa Serhal, infatti, fino ad oggi, i siti libanesi hanno restituito solo tre sculture simili, attualmente conservate presso il Beirut National Museum.
Oltre alla statua del sacerdote, la missione ha rinvenuto diversi oggetti votivi, tra i quali si distingue un amuleto in bronzo della dea Tanit.
Sidone è una città del Libano situata sulla costa del Mar Mediterraneo, circa 40 km a Sud Ovest di Beirut. Ebbe alla fine del II millennio a.C. la supremazia sulle altre città della costa. Fiorente al tempo di Alessandro Magno, passò in seguito ai Tolomei e ai Seleucidi e, nel 64 a.C., ai Romani. Fiorì ancora in età imperiale e nella prima età cristiana, finché nel 501 un terremoto la distrusse quasi completamente. Fu uno dei porti militari di Damasco sotto i califfi omayyadi. Presa una prima volta dai crociati nel 1110, fu feudo del regno di Gerusalemme. Caduta in mano a Saladino nel 1187, fu ripresa dai crociati nel 1228 e nuovamente fortificata da Luigi IX re di Francia (1253). Distrutta dai Mongoli nel 1260, lo stesso anno passò ai Templari, finché nel 1291 ritornò definitivamente ai musulmani, che ne distrussero le fortificazioni. Nell’agosto 1920 fu staccata dalla Siria e annessa al Libano.
Fonte del testo e delle immagini: http://orientalisticamente.wordpress.com
giovedì 22 maggio 2014
Archeologia della Sardegna. Scoperto a Tortolì il tesoretto di un mercato nuragico
Scoperto a Tortolì il tesoretto di un mercato nuragico
di Pierluigi Montalbano
Uno staff di archeologi della soprintendenza di Nuoro ha anticipato i tombaroli mettendo in salvo ben 19 asce in bronzo a margini rialzati, risalenti a 3500 anni fa e affidandole in custodia alla Guardia di Finanza.
Sono riemerse da un passato millenario per raccontare un altro capitolo della storia ogliastrina. Sono state portate alla luce nell'insediamento di San Salvatore, un sito archeologico che domina la costa di Tortolì. Le asce, un tesoretto che testimonia un florido periodo della civiltà nuragica, hanno poi preso la strada della Sovrintendenza dei beni archeologici di Nuoro. Al momento dello scavo erano disposte ordinatamente a incastro alternato.
Il clamoroso rinvenimento risale a tempo addietro ma tutto è stato accuratamente nascosto proprio per evitare che i tombaroli saccheggiassero il sito prima del completamento degli scavi. La notizia è rimasta talmente segreta che del rinvenimento dei reperti non è stata informata neanche l'amministrazione comunale della cittadina.
Il rinvenimento è stato effettuato dall'equipe che si occupa di un progetto che punta alla valorizzazione del patrimonio archeologico ogliastrino, e coinvolge i comuni di Villagrande (con S'Arcu e is Forros) e di Lanusei (con il parco Selene).
Il sito di S'ortali e su Monte comprende un nuraghe monotorre con antemurale e un villaggio. Fu frequentato fin da epoca antichissima poiché presenta nel raggio di pochi km anche tre menhir, le pietre sacre dedicate alle divinità neolitiche, e una tomba di giganti, il santuario consacrato ai defunti che anticipa di qualche secolo la costruzione dei primi nuraghi a corridoio. L’edificio tombale è formato da un’esedra in lastroni ortostatici, con al centro una stele centinata, e da una camera ancora integra edificata con grossi blocchi granitici. La tomba di giganti si protende verso il mare in una posizione rilevata che ne accentua la monumentalità e ne esalta la valenza sacra.
In passato questo sito ha riservato altre, interessanti scoperte. Uno scavo dei primi anni Novanta ha permesso di riportare alla luce numerose capanne all'esterno dell'antemurale e alcune strutture che si addossano alla cinta muraria. Fra queste c’è un granaio, costituito da un piano rettangolare sopraelevato in cui furono sistemati una serie di silos. Negli spazi adiacenti, attorno alla torre Nord, è attestata la pratica della conservazione, lavorazione e stoccaggio del grano e dei cereali anche dopo la lavorazione. Furono portati alla luce, infatti, numerosi ziri frammentati, macine, pestelli e trituratori in pietra. Lo scavo ha consentito di evidenziare diverse fasi edilizie, a partire dal Bronzo Medio (XVI a.C.) e fino al Primo Ferro (IX a.C.). Alle due fasi iniziali risalgono il nuraghe e il primo impianto del villaggio, mentre nella terza fase, che vide anche la modifica dell’assetto globale dell’insediamento, fu costruito il granaio e furono
ristrutturati diversi vani in funzione del mercato che ospitava gli addetti all’intermediazione delle merci. Dovrebbe trattarsi di proprio di un emporio in quanto nelle due capanne circolari, con al centro i consueti focolari, è stata riscontrata la presenza di utensili per la lavorazione e conservazione di granaglie, e sempre nell'area sono stati riportati alla luce nove silos per la conservazione di derrate alimentari. Un vero e proprio mercato destinato alla redistribuzione del surplus e agli scambi fra comunità nuragiche visto che il rinvenimento dei numerosi resti di granaglie testimonia un accumulo di risorse tipico degli snodi commerciali. Questo importante ritrovamento costituisce una prova inequivocabile che il bronzo era tesaurizzato allo scopo di fungere da moneta di scambio, pur se poteva essere utilizzato anche come utensile e arma. D’altro canto i mercati dovevano pur essere protetti in qualche modo, e il complesso che si trova a due passi dalla spiaggia di Orrì era certamente frequentato, oltre che dai ricchi mercanti mediterranei, anche da gente senza scrupoli che metteva in difficoltà le attività tradizionali con azioni piratesche o bardane che richiedevano, da parte dei locali, una difesa armata delle risorse.
In questi giorni alcuni reperti trovati nel sito sono in mostra a Cagliari nell’ambito della mostra l’Isola delle Torri dedicata a Giovanni Lilliu.
di Pierluigi Montalbano
Uno staff di archeologi della soprintendenza di Nuoro ha anticipato i tombaroli mettendo in salvo ben 19 asce in bronzo a margini rialzati, risalenti a 3500 anni fa e affidandole in custodia alla Guardia di Finanza.
Sono riemerse da un passato millenario per raccontare un altro capitolo della storia ogliastrina. Sono state portate alla luce nell'insediamento di San Salvatore, un sito archeologico che domina la costa di Tortolì. Le asce, un tesoretto che testimonia un florido periodo della civiltà nuragica, hanno poi preso la strada della Sovrintendenza dei beni archeologici di Nuoro. Al momento dello scavo erano disposte ordinatamente a incastro alternato.
Il clamoroso rinvenimento risale a tempo addietro ma tutto è stato accuratamente nascosto proprio per evitare che i tombaroli saccheggiassero il sito prima del completamento degli scavi. La notizia è rimasta talmente segreta che del rinvenimento dei reperti non è stata informata neanche l'amministrazione comunale della cittadina.
Il rinvenimento è stato effettuato dall'equipe che si occupa di un progetto che punta alla valorizzazione del patrimonio archeologico ogliastrino, e coinvolge i comuni di Villagrande (con S'Arcu e is Forros) e di Lanusei (con il parco Selene).
Il sito di S'ortali e su Monte comprende un nuraghe monotorre con antemurale e un villaggio. Fu frequentato fin da epoca antichissima poiché presenta nel raggio di pochi km anche tre menhir, le pietre sacre dedicate alle divinità neolitiche, e una tomba di giganti, il santuario consacrato ai defunti che anticipa di qualche secolo la costruzione dei primi nuraghi a corridoio. L’edificio tombale è formato da un’esedra in lastroni ortostatici, con al centro una stele centinata, e da una camera ancora integra edificata con grossi blocchi granitici. La tomba di giganti si protende verso il mare in una posizione rilevata che ne accentua la monumentalità e ne esalta la valenza sacra.
In passato questo sito ha riservato altre, interessanti scoperte. Uno scavo dei primi anni Novanta ha permesso di riportare alla luce numerose capanne all'esterno dell'antemurale e alcune strutture che si addossano alla cinta muraria. Fra queste c’è un granaio, costituito da un piano rettangolare sopraelevato in cui furono sistemati una serie di silos. Negli spazi adiacenti, attorno alla torre Nord, è attestata la pratica della conservazione, lavorazione e stoccaggio del grano e dei cereali anche dopo la lavorazione. Furono portati alla luce, infatti, numerosi ziri frammentati, macine, pestelli e trituratori in pietra. Lo scavo ha consentito di evidenziare diverse fasi edilizie, a partire dal Bronzo Medio (XVI a.C.) e fino al Primo Ferro (IX a.C.). Alle due fasi iniziali risalgono il nuraghe e il primo impianto del villaggio, mentre nella terza fase, che vide anche la modifica dell’assetto globale dell’insediamento, fu costruito il granaio e furono
ristrutturati diversi vani in funzione del mercato che ospitava gli addetti all’intermediazione delle merci. Dovrebbe trattarsi di proprio di un emporio in quanto nelle due capanne circolari, con al centro i consueti focolari, è stata riscontrata la presenza di utensili per la lavorazione e conservazione di granaglie, e sempre nell'area sono stati riportati alla luce nove silos per la conservazione di derrate alimentari. Un vero e proprio mercato destinato alla redistribuzione del surplus e agli scambi fra comunità nuragiche visto che il rinvenimento dei numerosi resti di granaglie testimonia un accumulo di risorse tipico degli snodi commerciali. Questo importante ritrovamento costituisce una prova inequivocabile che il bronzo era tesaurizzato allo scopo di fungere da moneta di scambio, pur se poteva essere utilizzato anche come utensile e arma. D’altro canto i mercati dovevano pur essere protetti in qualche modo, e il complesso che si trova a due passi dalla spiaggia di Orrì era certamente frequentato, oltre che dai ricchi mercanti mediterranei, anche da gente senza scrupoli che metteva in difficoltà le attività tradizionali con azioni piratesche o bardane che richiedevano, da parte dei locali, una difesa armata delle risorse.
In questi giorni alcuni reperti trovati nel sito sono in mostra a Cagliari nell’ambito della mostra l’Isola delle Torri dedicata a Giovanni Lilliu.
mercoledì 21 maggio 2014
Israele: El-Ahwat, scoperta nel Vicino Oriente una cittadella militare costruita dai nuragici?
Israele: El-Ahwat, scoperta nel Vicino Oriente una cittadella militare costruita dai nuragici?
In riferimento all'articolo pubblicato lunedì 19 Maggio 2014 nel quale si riportava una notizia del Corriere della Sera, oggi inserisco un approfondimento sulla questione.
In sintonia con gli studi di Giovanni Ugas, da oltre quindici anni sostenitore della tesi che vede la presenza sarda nel Vicino Oriente, le vicende riconducibili ai contatti di genti dell’isola con popoli del Vicino Oriente iniziano nel XV a.C. quando a Tebe giungono gli ambasciatori delle “Isole nel cuore del Verde Grande” per portare doni per i faraoni Ashepsuth,Tuthmosis III e Amenofi II. Sono raffigurati nelle pitture delle tombe dei visir Senmut, Useramon e Rekhmire. (Antichi Popoli del Mediterraneo – 2011 – Capone Editore). Vestiario, colorito della pelle e oggetti raffigurati non lasciano dubbi sull’identità di quei prìncipi, raffigurati anche in bassorilievi successivi scolpiti in vari templi di epoca ramesside e citati in vari documenti egiziani come le tavolette di el Amarna e di Ugarit del XIV a.C.
Alla morte di Seti I, padre di Ramesse II, i militari sardi furono assoldati dal nuovo faraone contro gli Ittiti per il loro indubbio valore in combattimento. Definiti “guerrieri dal cuore risoluto, invincibili sul mare”, formano il corpo di guardia dello stesso faraone e sono utilizzati a Dapur e a Qadesh, avamposto degli ittiti che controllava il porto siriano di Ugarit, una delle più ambite città dell’epoca perché crocevia delle merci in transito fra l’Asia, l’Europa, il Mare Mediterraneo e l’Egitto. In Egitto gruppi di sardi sono assegnatari di fertili campi in varie zone mentre altri mercenari sono stanziati nel Vicino Oriente per il controllo delle guarnigioni provinciali governate dai Visir per conto del faraone (Ugas 2011).
Nel tempio di Medinet Habu, Ramesse III scolpisce nei bassorilievi che i Popoli del Mare travolsero l’impero ittita e “tutto l’orbe terrestre”, partendo dall’Amurru. Dopo quelle guerre i Sardi si stabiliscono in vari territori. Per individuarli ci viene in l’Onomasticon di Amenope, della fine del XII a.C., che li inserisce nella regione di Dor ma altri testi egizi informano che i sardi si stanziarono anche a Nord.
Nel Vecchio Testamento (Giudici 4,1-23) relativo alla sconfitta inflitta presso il rio Qishon dagli Israeliti di Barak e Deborah al generale Sisara, che aveva la sua sede in Haroshet ha Goiym si intuisce che i sardi avessero conquistato anche la valle di Jezrael, dove si trovano le città di Iokneam, Megiddo, Taanak , Ybleam e Beth Shean. Secondo l’archeologo Giovanni Ugas, i confini raggiungevano e attraversavano la fascia pianeggiante immediatamente a est del Giordano, controllata a sud del lago Tiberiade da Beth Shean e dall’odierna Tel Sa’id’iydia, nell’importante area metallurgica presso il guado di Adam (I Re 7,46, Giosuè 3,16).
Appartenevano alla componente sarda dei popoli del mare anche i territori di Neftali, il cui capoluogo Hasor era la sede di Yabin, alleato o capo politico di Sisara (Giosuè 11,1-14), e di Zabulon. Entrambe le regioni, secondo Isaia (8, 23), facevano parte della Gelil Goiym ossia “la Galilea degli Stranieri” e dipendevano da Haroshet Goiym. Questi invasori di Gelil, come ritiene anche Zertal, possono ben essere le “genti delle Isole” note ai testi egiziani e menzionate in Genesi (10, 4-5) e controllavano anche la stessa fascia d’approdo e costiera di Asher, a Nord dei litorali di Dor.
In base al rasoio di Occam, è da escludere che, dopo aver cacciato gli Egiziani dalle loro province, i Popoli del Mare avessero trascurato proprio il fertile territorio pianeggiante che raccordava il Mediterraneo al Giordano e che controllava le vie di comunicazione tra la Mesopotamia, l’Egitto, la Siria, Cipro e l’Anatolia. Da quel momento i sardi, e le altre componenti dei popoli del mare, si fondono con le culture locali e perdono la loro originaria identità.
Nei secoli precedenti, la Sardegna strinse accordi commerciali con città dell’Egeo, testimoniati dalla presenza di manufatti cretesi e micenei, in ceramica (Nuraghe Arrubiu), pasta vitrea (San Cosimo), avorio (Mitza Purdia) e di un sigillo cilindrico proveniente da Ugarit (Su Fraigu). Inoltre, la presenza in Sardegna di lingotti in rame a forma di pelle di bue (ox-hide), provenienti da Cipro e veicolati da mercanti cretesi, dimostra inequivocabilmente che la Sardegna partecipava attivamente ai commerci, come si nota anche dalla ceramica nuragica trovata a Cannatello in Sicilia, a Tirinto e soprattutto a Kommòs porto di Festo in Creta.
I Sardi del Bronzo, mantenevano relazioni politiche e commerciali con Creta, Cipro e varie città dell’Egeo grazie, soprattutto, alla presenza di giacimenti di rame e argento. Oggi, nei musei di tutto il mondo si possono osservare i bronzetti, uno spaccato realistico di ideologia, usanze, religiosità, vestiario, oggettistica, animali, edifici e altro, che furono realizzati nel Primo Ferro e si mantennero per lungo tempo nella tradizione sarda.
Per quanto riguarda la cittadella di El-Ahwat fra il 1250/1150 a.C., periodo in cui i popoli del Mare occuparono varie provincie egizie, Ugas e Zertal segnalano che si tratta di un insediamento posto a 300 metri di quota, in posizione strategica dalla quale si potevano controllare sia la piana di Sharon, sia quella di Megiddo.
Nella Sardegna del Bronzo Finale, quindi proprio in quel secolo, le case mostrano una pianta circolare con più ambienti e muri rettilinei in mattoni di fango su zoccolo di pietre piccole, come nell’abitato di El-Ahwat, e le piccole celle coperte a tholos della cittadella israeliana sono simili alle camere nuragiche coperte a volta. Ciò suggerisce che queste costruzioni circolari fortificate derivano da un processo di adattamento alle esigenze locali, determinato soprattutto dall’impiego di massi più piccoli di quelli presenti abbondantemente in Sardegna. Si nota un’analogia tecnica e formale con gli edifici nuragici costruiti a filari con pietre di media pezzatura e provvisti di due paramenti murari.
Zertal ha ravvisato delle somiglianze anche tra un corridoio ricurvo con nicchia ellittica e i corridoi con celletta o nicchia presenti negli edifici di Cuccuruzzu e di Araghju in Corsica. Per quanto attiene i manufatti, si osservano interessanti affinità fra le coppe in ceramica grigio ardesia e gialle dell’isola e le coppe con labbro ingrossato di El Ahwat, e fra le grandi conche con orlo ingrossato e presa bilobata di el Ahwat con analoghe ceramiche sarde ritrovate ad Antigori, non a caso datate proprio con la stessa cronologia. Inoltre, alcuni vasi di el Ahwat sono decorati con fasce a zig-zag e a chevrons, impresse con un punteruolo, esattamente le stesse decorazioni geometriche nelle ceramiche del XIII a.C. (Madonna del Rimedio-Oristano, su Nuraxi di Barumini). Anche la decorazione stellare e a cerchi concentrici a punti impressi per decorare i pani, presente nei coperchi di el Ahwat, è frequente nei coevi tegami in ceramica sardi (Santu Antine).
Immagini dal web
In riferimento all'articolo pubblicato lunedì 19 Maggio 2014 nel quale si riportava una notizia del Corriere della Sera, oggi inserisco un approfondimento sulla questione.
In sintonia con gli studi di Giovanni Ugas, da oltre quindici anni sostenitore della tesi che vede la presenza sarda nel Vicino Oriente, le vicende riconducibili ai contatti di genti dell’isola con popoli del Vicino Oriente iniziano nel XV a.C. quando a Tebe giungono gli ambasciatori delle “Isole nel cuore del Verde Grande” per portare doni per i faraoni Ashepsuth,Tuthmosis III e Amenofi II. Sono raffigurati nelle pitture delle tombe dei visir Senmut, Useramon e Rekhmire. (Antichi Popoli del Mediterraneo – 2011 – Capone Editore). Vestiario, colorito della pelle e oggetti raffigurati non lasciano dubbi sull’identità di quei prìncipi, raffigurati anche in bassorilievi successivi scolpiti in vari templi di epoca ramesside e citati in vari documenti egiziani come le tavolette di el Amarna e di Ugarit del XIV a.C.
Alla morte di Seti I, padre di Ramesse II, i militari sardi furono assoldati dal nuovo faraone contro gli Ittiti per il loro indubbio valore in combattimento. Definiti “guerrieri dal cuore risoluto, invincibili sul mare”, formano il corpo di guardia dello stesso faraone e sono utilizzati a Dapur e a Qadesh, avamposto degli ittiti che controllava il porto siriano di Ugarit, una delle più ambite città dell’epoca perché crocevia delle merci in transito fra l’Asia, l’Europa, il Mare Mediterraneo e l’Egitto. In Egitto gruppi di sardi sono assegnatari di fertili campi in varie zone mentre altri mercenari sono stanziati nel Vicino Oriente per il controllo delle guarnigioni provinciali governate dai Visir per conto del faraone (Ugas 2011).
Nel tempio di Medinet Habu, Ramesse III scolpisce nei bassorilievi che i Popoli del Mare travolsero l’impero ittita e “tutto l’orbe terrestre”, partendo dall’Amurru. Dopo quelle guerre i Sardi si stabiliscono in vari territori. Per individuarli ci viene in l’Onomasticon di Amenope, della fine del XII a.C., che li inserisce nella regione di Dor ma altri testi egizi informano che i sardi si stanziarono anche a Nord.
Nel Vecchio Testamento (Giudici 4,1-23) relativo alla sconfitta inflitta presso il rio Qishon dagli Israeliti di Barak e Deborah al generale Sisara, che aveva la sua sede in Haroshet ha Goiym si intuisce che i sardi avessero conquistato anche la valle di Jezrael, dove si trovano le città di Iokneam, Megiddo, Taanak , Ybleam e Beth Shean. Secondo l’archeologo Giovanni Ugas, i confini raggiungevano e attraversavano la fascia pianeggiante immediatamente a est del Giordano, controllata a sud del lago Tiberiade da Beth Shean e dall’odierna Tel Sa’id’iydia, nell’importante area metallurgica presso il guado di Adam (I Re 7,46, Giosuè 3,16).
Appartenevano alla componente sarda dei popoli del mare anche i territori di Neftali, il cui capoluogo Hasor era la sede di Yabin, alleato o capo politico di Sisara (Giosuè 11,1-14), e di Zabulon. Entrambe le regioni, secondo Isaia (8, 23), facevano parte della Gelil Goiym ossia “la Galilea degli Stranieri” e dipendevano da Haroshet Goiym. Questi invasori di Gelil, come ritiene anche Zertal, possono ben essere le “genti delle Isole” note ai testi egiziani e menzionate in Genesi (10, 4-5) e controllavano anche la stessa fascia d’approdo e costiera di Asher, a Nord dei litorali di Dor.
In base al rasoio di Occam, è da escludere che, dopo aver cacciato gli Egiziani dalle loro province, i Popoli del Mare avessero trascurato proprio il fertile territorio pianeggiante che raccordava il Mediterraneo al Giordano e che controllava le vie di comunicazione tra la Mesopotamia, l’Egitto, la Siria, Cipro e l’Anatolia. Da quel momento i sardi, e le altre componenti dei popoli del mare, si fondono con le culture locali e perdono la loro originaria identità.
Nei secoli precedenti, la Sardegna strinse accordi commerciali con città dell’Egeo, testimoniati dalla presenza di manufatti cretesi e micenei, in ceramica (Nuraghe Arrubiu), pasta vitrea (San Cosimo), avorio (Mitza Purdia) e di un sigillo cilindrico proveniente da Ugarit (Su Fraigu). Inoltre, la presenza in Sardegna di lingotti in rame a forma di pelle di bue (ox-hide), provenienti da Cipro e veicolati da mercanti cretesi, dimostra inequivocabilmente che la Sardegna partecipava attivamente ai commerci, come si nota anche dalla ceramica nuragica trovata a Cannatello in Sicilia, a Tirinto e soprattutto a Kommòs porto di Festo in Creta.
I Sardi del Bronzo, mantenevano relazioni politiche e commerciali con Creta, Cipro e varie città dell’Egeo grazie, soprattutto, alla presenza di giacimenti di rame e argento. Oggi, nei musei di tutto il mondo si possono osservare i bronzetti, uno spaccato realistico di ideologia, usanze, religiosità, vestiario, oggettistica, animali, edifici e altro, che furono realizzati nel Primo Ferro e si mantennero per lungo tempo nella tradizione sarda.
Per quanto riguarda la cittadella di El-Ahwat fra il 1250/1150 a.C., periodo in cui i popoli del Mare occuparono varie provincie egizie, Ugas e Zertal segnalano che si tratta di un insediamento posto a 300 metri di quota, in posizione strategica dalla quale si potevano controllare sia la piana di Sharon, sia quella di Megiddo.
Nella Sardegna del Bronzo Finale, quindi proprio in quel secolo, le case mostrano una pianta circolare con più ambienti e muri rettilinei in mattoni di fango su zoccolo di pietre piccole, come nell’abitato di El-Ahwat, e le piccole celle coperte a tholos della cittadella israeliana sono simili alle camere nuragiche coperte a volta. Ciò suggerisce che queste costruzioni circolari fortificate derivano da un processo di adattamento alle esigenze locali, determinato soprattutto dall’impiego di massi più piccoli di quelli presenti abbondantemente in Sardegna. Si nota un’analogia tecnica e formale con gli edifici nuragici costruiti a filari con pietre di media pezzatura e provvisti di due paramenti murari.
Zertal ha ravvisato delle somiglianze anche tra un corridoio ricurvo con nicchia ellittica e i corridoi con celletta o nicchia presenti negli edifici di Cuccuruzzu e di Araghju in Corsica. Per quanto attiene i manufatti, si osservano interessanti affinità fra le coppe in ceramica grigio ardesia e gialle dell’isola e le coppe con labbro ingrossato di El Ahwat, e fra le grandi conche con orlo ingrossato e presa bilobata di el Ahwat con analoghe ceramiche sarde ritrovate ad Antigori, non a caso datate proprio con la stessa cronologia. Inoltre, alcuni vasi di el Ahwat sono decorati con fasce a zig-zag e a chevrons, impresse con un punteruolo, esattamente le stesse decorazioni geometriche nelle ceramiche del XIII a.C. (Madonna del Rimedio-Oristano, su Nuraxi di Barumini). Anche la decorazione stellare e a cerchi concentrici a punti impressi per decorare i pani, presente nei coperchi di el Ahwat, è frequente nei coevi tegami in ceramica sardi (Santu Antine).
Immagini dal web
martedì 20 maggio 2014
Cartografia: L'Organum Directorium di Gerardo Mercatore. Fu farina del suo sacco?
L'Organum Directorium di Gerardo Mercatore, fu farina del suo sacco?
di Rolando Berretta
Molti studiosi del 1500, iniziarono a studiare quel groviglio di linee che sono parte integrale degli Schemi Portolani. Arrivarono le spiegazioni e il metodo per realizzare tali schemi. Peccato che erano passati quasi tre (3) secoli dalla loro comparsa.
Io, con l’aiuto di una griglia di quadratini che corrisponderebbero ai loro gradi, ho messo a punto lo schema RoBer a base 34 con giro di compasso Primario da 26 unità e Secondario da 13 unità partendo dal quadrato esterno b.
I nostri “fraticelli” avevano, di contro, un metodo più pratico. Bisognava disegnare il quadrato a.
Per ricavare il giro di compasso C, bastava avere a disposizione un goniometro e una funicella sporcata con polvere colorata. Oggi si direbbe “uno spago da muratore”. Un pizzico, secco, alla funicella e la linea veniva tracciata.
Usare direttamente il compasso avrebbe originato dei fori poco estetici.
I valori da riportare, in gradi, sono questi: 11°15’ – 22°30’ – 33°45’ – 45°- 56°15’ – 67°30’ – 78°45’ – 90°. Per chi divide il grado in centesimi 11,25° - 22,50° - 33,75° - 45° etc etc.
Metodo semplice e veloce.
Presento il materiale necessario e il suo impiego.
Riassumendo. Con un quadrato (disegnato) e un semplice goniometro si dava origine alla ragnatela di linee presente negli schemi portolani.
Presento, adesso, l’ORGANUM DIRECTORIUM presente nella Proiezione del famoso cartografo Gerard Mercator.
Se cercate su Google troverete varie spiegazioni, ma sono spiegazioni che non mi convincono sia per le conoscenze matematiche che implicano sia, purtroppo per costoro, perché sono descritte da personaggi che ignorano completamente l'uso degli schemi portolani. Stessa cosa vale per Gerardo Mercatore. Dal mio punto di vista posso dire che chi utilizzava uno strumento simile conosceva, bene, sia gli schemi portolani sia il metodo per utilizzare le varie scale.
Per capire lo schema presentato da Mercatore bisogna conoscere bene sia il giro di compasso da 34 unità, sia il primario da 26 unità e, fondamentale, bisogna conoscere il secondario da 13 unità da cui si ricavano direttamente il 50° nord, il 60°, il Circolo Polare Artico, il 70°. Equatore. Tropici, parallelo di Alessandria e 75° nord sono presi direttamente dallo schema generale.
Dopo aver incrociato schemi di Portolani per 15 anni credo di aver perfezionato un certo occhio per quelle linee. Chi spiega Mercatore dovrebbe, come minimo, iniziare a dare uno sguardo alla cartografia Portolana. Lo stesso Mercatore la ignorava.
In conclusione, quello sviluppo non è farina del sacco di Mercatore.
E aggiungo: Mercatore ignora quali terre sono attraversate dal 40° parallelo nord.
Per me resta un grande incisore e un grande tipografo. Solo questo.
di Rolando Berretta
Molti studiosi del 1500, iniziarono a studiare quel groviglio di linee che sono parte integrale degli Schemi Portolani. Arrivarono le spiegazioni e il metodo per realizzare tali schemi. Peccato che erano passati quasi tre (3) secoli dalla loro comparsa.
Io, con l’aiuto di una griglia di quadratini che corrisponderebbero ai loro gradi, ho messo a punto lo schema RoBer a base 34 con giro di compasso Primario da 26 unità e Secondario da 13 unità partendo dal quadrato esterno b.
I nostri “fraticelli” avevano, di contro, un metodo più pratico. Bisognava disegnare il quadrato a.
Per ricavare il giro di compasso C, bastava avere a disposizione un goniometro e una funicella sporcata con polvere colorata. Oggi si direbbe “uno spago da muratore”. Un pizzico, secco, alla funicella e la linea veniva tracciata.
Usare direttamente il compasso avrebbe originato dei fori poco estetici.
I valori da riportare, in gradi, sono questi: 11°15’ – 22°30’ – 33°45’ – 45°- 56°15’ – 67°30’ – 78°45’ – 90°. Per chi divide il grado in centesimi 11,25° - 22,50° - 33,75° - 45° etc etc.
Metodo semplice e veloce.
Presento il materiale necessario e il suo impiego.
Riassumendo. Con un quadrato (disegnato) e un semplice goniometro si dava origine alla ragnatela di linee presente negli schemi portolani.
Presento, adesso, l’ORGANUM DIRECTORIUM presente nella Proiezione del famoso cartografo Gerard Mercator.
Se cercate su Google troverete varie spiegazioni, ma sono spiegazioni che non mi convincono sia per le conoscenze matematiche che implicano sia, purtroppo per costoro, perché sono descritte da personaggi che ignorano completamente l'uso degli schemi portolani. Stessa cosa vale per Gerardo Mercatore. Dal mio punto di vista posso dire che chi utilizzava uno strumento simile conosceva, bene, sia gli schemi portolani sia il metodo per utilizzare le varie scale.
Per capire lo schema presentato da Mercatore bisogna conoscere bene sia il giro di compasso da 34 unità, sia il primario da 26 unità e, fondamentale, bisogna conoscere il secondario da 13 unità da cui si ricavano direttamente il 50° nord, il 60°, il Circolo Polare Artico, il 70°. Equatore. Tropici, parallelo di Alessandria e 75° nord sono presi direttamente dallo schema generale.
Dopo aver incrociato schemi di Portolani per 15 anni credo di aver perfezionato un certo occhio per quelle linee. Chi spiega Mercatore dovrebbe, come minimo, iniziare a dare uno sguardo alla cartografia Portolana. Lo stesso Mercatore la ignorava.
In conclusione, quello sviluppo non è farina del sacco di Mercatore.
E aggiungo: Mercatore ignora quali terre sono attraversate dal 40° parallelo nord.
Per me resta un grande incisore e un grande tipografo. Solo questo.
lunedì 19 maggio 2014
Archeologia. Israele: scoperta una cittadella fortificata nei pressi di Haifa costruita con strutture simili ai nuraghi.
Archeologia. Israele: scoperta una cittadella fortificata nei pressi di Haifa costruita con strutture simili ai nuraghi.
di Lorenzo Cremonesi
A distanza di 17 anni, l'articolo che segue, pubblicato sul Corriere della sera nel 1997, è più che mai attuale. Gli archeologi Ugas e Zertal, delle Università di Cagliari e Haifa, aprirono una strada innovativa nell'interpretazione della storia della Sardegna nuragica. I due studiosi notarono per la prima volta che la cultura sarda si sarebbe sviluppata in modo indipendente sull'isola sin dal neolitico e l'età del Rame, per poi espandersi verso le coste orientali del Mediterraneo. (Nota di Pierluigi Montalbano)
Occorre andare in Israele per scoprire qualche tassello sulla storia della Sardegna antica. Perchè sulle colline del Carmelo e lungo i fianchi della vallata di Wadi Ara, la via di comunicazione tra la piana costiera presso Haifa e la depressione del lago di Tiberiade, è stata trovata una città fatta di strutture simili ai nuraghi. Grandi muraglioni spessi e rotondi, con stretti corridoi interni e i soffitti a volta: torri a igloo, li definiscono gli studiosi israeliani. Inoltre terracotta uguale a quella rinvenuta a Nuoro o Sassari e due concezioni identiche dei sistemi di difesa militare per il periodo che va dal XIV al XII a.C. I più ben conservati sono gli edifici di El-Ahwat, che non a caso in arabo significa muro. Il sito è stato scoperto e valorizzato grazie alla collaborazione di Giovanni Ugas, docente di archeologia all'Università di Cagliari, e Adam Zertal, suo collega a quella di Haifa.
"Per vie completamente diverse e senza sapere delle ricerche uno dell'altro circa due anni fa abbiamo scoperto di essere giunti alle stesse conclusioni, cioè che gli antichi sardi erano una delle componenti dei "popoli del mare", precisamente gli Shardana, una popolazione di guerrieri citata con rispetto dai geroglifici egiziani del periodo faraonico di cui si sa tuttora molto poco", spiega Zertal.
In agosto si è svolta un’approfondita campagna di scavi a El - Ahwat con la partecipazione di una quarantina di archeologi e studenti sardi. E proprio in questi giorni è stato organizzato un convegno ad Haifa per esporre i risultati. Titolo dell'incontro: "I legami tra Mediterraneo occidentale e orientale alla fine dell'età del Bronzo e l'inizio di quella del Ferro".
Sembrerebbe il classico simposio tra specialisti su di un tema ultra - specifico. Ma lo guida una tesi estremamente interessante anche per i non addetti ai lavori: quello sardo è un raro caso di civiltà preromana che non si espande dall'est verso ovest, bensì in senso opposto. Zertal parla di "rivoluzione copernicana della cultura nuragica". A detta di Ugas si tratta di un fenomeno "estremamente atipico per quel periodo, destinato a rafforzare l'ipotesi delle origini antichissime e autoctone della civilizzazione sarda".
Dunque gli architetti dei nuraghi non avrebbero copiato da nessuno. La loro cultura si sarebbe invece sviluppata in modo indipendente sull'isola sin dal neolitico e l'età del Rame, per poi espandersi verso le coste orientali del Mediterraneo.
"Troviamo esempi di terracotta nuragica in Sicilia, Creta, lungo il Peloponneso, a Micene e in Anatolia. Ma questo in Israele è probabilmente il sito più ricco e meglio preservato", aggiunge Ugas. I sardi ci arrivarono via mare e a piedi dalla Turchia. Decisero di insediarsi a pochi chilometri dalla costa. Li accompagnava la fama di ottimi guerrieri. "Gli egiziani li temevano e ammiravano allo stesso tempo. Sono loro gli unici a darci delle testimonianze scritte. Perchè la civiltà dei nuraghi non conosceva l'alfabeto. I faraoni li impiegavano come guardie del corpo. Ma erano bravissimi soprattutto nel costruire cittadelle fortificate", spiega Zertal.
Un geroglifico conservato al Cairo racconta che avevano un tipico elmo con due corna quando furono mercenari di Rib - Adi, principe di Biblos, e poi servirono tra le truppe scelte del faraone Ramesse II durante la battaglia di Kadesh. Ma in seguito alcuni di loro passarono al nemico e si allearono alla coalizione antiegiziana che sconfisse Ramesse III. In quello stesso periodo si insediano per circa sessant'anni in terra di Cana. Quanti furono a El - Ahwat? "Pochi, non più di un migliaio", rispondono gli archeologi. Ma abbastanza per costruire una cittadella difficile da assediare. "E' il periodo dei Giudici raccontato nella Bibbia, della storia di Mosè con la fuga degli ebrei dall'Egitto. Sono convinto che le tribù di Israele si scontrarono con i nuovi arrivati dalla Sardegna", dice Zertal. Non è invece chiaro cosa li indusse ad abbandonare il posto: non ci sono segni di incendio o distruzioni causate da una battaglia. Una risposta arriverà forse dalla campagna di scavi dell'anno prossimo.
Fonte: Corriere della Sera dell’ 11 dicembre 1997
Immagini da wikipedia
di Lorenzo Cremonesi
A distanza di 17 anni, l'articolo che segue, pubblicato sul Corriere della sera nel 1997, è più che mai attuale. Gli archeologi Ugas e Zertal, delle Università di Cagliari e Haifa, aprirono una strada innovativa nell'interpretazione della storia della Sardegna nuragica. I due studiosi notarono per la prima volta che la cultura sarda si sarebbe sviluppata in modo indipendente sull'isola sin dal neolitico e l'età del Rame, per poi espandersi verso le coste orientali del Mediterraneo. (Nota di Pierluigi Montalbano)
Occorre andare in Israele per scoprire qualche tassello sulla storia della Sardegna antica. Perchè sulle colline del Carmelo e lungo i fianchi della vallata di Wadi Ara, la via di comunicazione tra la piana costiera presso Haifa e la depressione del lago di Tiberiade, è stata trovata una città fatta di strutture simili ai nuraghi. Grandi muraglioni spessi e rotondi, con stretti corridoi interni e i soffitti a volta: torri a igloo, li definiscono gli studiosi israeliani. Inoltre terracotta uguale a quella rinvenuta a Nuoro o Sassari e due concezioni identiche dei sistemi di difesa militare per il periodo che va dal XIV al XII a.C. I più ben conservati sono gli edifici di El-Ahwat, che non a caso in arabo significa muro. Il sito è stato scoperto e valorizzato grazie alla collaborazione di Giovanni Ugas, docente di archeologia all'Università di Cagliari, e Adam Zertal, suo collega a quella di Haifa.
"Per vie completamente diverse e senza sapere delle ricerche uno dell'altro circa due anni fa abbiamo scoperto di essere giunti alle stesse conclusioni, cioè che gli antichi sardi erano una delle componenti dei "popoli del mare", precisamente gli Shardana, una popolazione di guerrieri citata con rispetto dai geroglifici egiziani del periodo faraonico di cui si sa tuttora molto poco", spiega Zertal.
In agosto si è svolta un’approfondita campagna di scavi a El - Ahwat con la partecipazione di una quarantina di archeologi e studenti sardi. E proprio in questi giorni è stato organizzato un convegno ad Haifa per esporre i risultati. Titolo dell'incontro: "I legami tra Mediterraneo occidentale e orientale alla fine dell'età del Bronzo e l'inizio di quella del Ferro".
Sembrerebbe il classico simposio tra specialisti su di un tema ultra - specifico. Ma lo guida una tesi estremamente interessante anche per i non addetti ai lavori: quello sardo è un raro caso di civiltà preromana che non si espande dall'est verso ovest, bensì in senso opposto. Zertal parla di "rivoluzione copernicana della cultura nuragica". A detta di Ugas si tratta di un fenomeno "estremamente atipico per quel periodo, destinato a rafforzare l'ipotesi delle origini antichissime e autoctone della civilizzazione sarda".
Dunque gli architetti dei nuraghi non avrebbero copiato da nessuno. La loro cultura si sarebbe invece sviluppata in modo indipendente sull'isola sin dal neolitico e l'età del Rame, per poi espandersi verso le coste orientali del Mediterraneo.
"Troviamo esempi di terracotta nuragica in Sicilia, Creta, lungo il Peloponneso, a Micene e in Anatolia. Ma questo in Israele è probabilmente il sito più ricco e meglio preservato", aggiunge Ugas. I sardi ci arrivarono via mare e a piedi dalla Turchia. Decisero di insediarsi a pochi chilometri dalla costa. Li accompagnava la fama di ottimi guerrieri. "Gli egiziani li temevano e ammiravano allo stesso tempo. Sono loro gli unici a darci delle testimonianze scritte. Perchè la civiltà dei nuraghi non conosceva l'alfabeto. I faraoni li impiegavano come guardie del corpo. Ma erano bravissimi soprattutto nel costruire cittadelle fortificate", spiega Zertal.
Un geroglifico conservato al Cairo racconta che avevano un tipico elmo con due corna quando furono mercenari di Rib - Adi, principe di Biblos, e poi servirono tra le truppe scelte del faraone Ramesse II durante la battaglia di Kadesh. Ma in seguito alcuni di loro passarono al nemico e si allearono alla coalizione antiegiziana che sconfisse Ramesse III. In quello stesso periodo si insediano per circa sessant'anni in terra di Cana. Quanti furono a El - Ahwat? "Pochi, non più di un migliaio", rispondono gli archeologi. Ma abbastanza per costruire una cittadella difficile da assediare. "E' il periodo dei Giudici raccontato nella Bibbia, della storia di Mosè con la fuga degli ebrei dall'Egitto. Sono convinto che le tribù di Israele si scontrarono con i nuovi arrivati dalla Sardegna", dice Zertal. Non è invece chiaro cosa li indusse ad abbandonare il posto: non ci sono segni di incendio o distruzioni causate da una battaglia. Una risposta arriverà forse dalla campagna di scavi dell'anno prossimo.
Fonte: Corriere della Sera dell’ 11 dicembre 1997
Immagini da wikipedia
sabato 17 maggio 2014
Le piramidi
Le piramidi
di Pierluigi Montalbano
Le piramidi sono monumenti sepolcrali dell’antico Egitto, per lo più riservate ai faraoni. La forma della costruzione è quella del solido geometrico che da essa ha preso il nome. Le prime piramidi egiziane risalgono agli inizi della IV dinastia (2700 a.C.), e sorgono a Sud di Menfi, ma le più note e grandiose sono quelle, di poco posteriori, elevate a Giza (una grande città compresa nell’agglomerato urbano del Cairo) dai faraoni Cheope (2600-2480 a. C. circa, figlio di Snefru), Chefren (faraone della 4a dinastia, 2600-2480 a. C.; figlio di Cheope e padre di Micerino edificò anche la grande sfinge della necropoli di Menfi) e Micerino.
La maggiore è quella di Cheope, nella quale la camera del sarcofago è ricavata nel corpo della costruzione. Corridoi interni portavano all’apertura, il rivestimento era di calcare e talvolta parzialmente di granito. Connessi con la piramide erano due templi. Precedentemente vi furono alcuni esperimenti, ad esempio quella a gradoni di Saqqara, 2650 a.C., con celle e corridoi scavati nella roccia viva sottostante.
E’ Imothep, l’architetto del faraone Zoser (circa 2650 – 2600 a. C.), l’artefice principale di queste costruzioni, tra cui quella di Saqqāra. Divinizzato nel periodo persiano, acquistò fama di medico e di saggio, e fu assimilato al greco Asclepio. A Menfi era considerato figlio del dio Ptah.
Dopo la IV dinastia, le piramidi diventano più piccole e nelle camere sepolcrali appaiono, per la prima volta, le iscrizioni.
Il Medio Regno (dal 2200 a.C.) ha lasciato piramidi a Dahshur e al-Fayyum, che comunque non raggiungono l’interesse di quelle del Regno Antico. Col Regno Nuovo (dal 1600 a.C.) la tomba regale tipica è costituita dall’ipogeo, e la piramide resta confinata alla tomba privata. Da questi tipi si sviluppa, in età assai più tarda, l’uso delle tombe regali a piramide delle dinastie etiopiche a Napata e aMeroe (dall’800 a.C.).
Monumenti a forma piramidale, di dimensioni anche maggiori di quelli egizi, sono noti nei centri precolombiani dell’America Centrale e Meridionale: aztechi e maya costruirono piramidi a gradini, con sulla cima una piattaforma su cui sorgeva il tempio, come si vede dai resti colossali di Cholula, una cittadina precolombiana del Messico, situata sull’altopiano di Puebla a 2150 m s.l.m. La sua piramide è alta 62 m, ed è costruita con mattoni di argilla cotti al sole, su una superficie di 18 ettari. Altre piramidi a terrazze sovrapposte si trovano a Teotihuacán. Terrazzamenti a forma di piramide, costruiti per usi agricoli, erano largamente diffusi nella civiltà inca, dove invece mancano resti di monumenti a forma di piramide.
Immagini da Wikipedia
di Pierluigi Montalbano
Le piramidi sono monumenti sepolcrali dell’antico Egitto, per lo più riservate ai faraoni. La forma della costruzione è quella del solido geometrico che da essa ha preso il nome. Le prime piramidi egiziane risalgono agli inizi della IV dinastia (2700 a.C.), e sorgono a Sud di Menfi, ma le più note e grandiose sono quelle, di poco posteriori, elevate a Giza (una grande città compresa nell’agglomerato urbano del Cairo) dai faraoni Cheope (2600-2480 a. C. circa, figlio di Snefru), Chefren (faraone della 4a dinastia, 2600-2480 a. C.; figlio di Cheope e padre di Micerino edificò anche la grande sfinge della necropoli di Menfi) e Micerino.
La maggiore è quella di Cheope, nella quale la camera del sarcofago è ricavata nel corpo della costruzione. Corridoi interni portavano all’apertura, il rivestimento era di calcare e talvolta parzialmente di granito. Connessi con la piramide erano due templi. Precedentemente vi furono alcuni esperimenti, ad esempio quella a gradoni di Saqqara, 2650 a.C., con celle e corridoi scavati nella roccia viva sottostante.
E’ Imothep, l’architetto del faraone Zoser (circa 2650 – 2600 a. C.), l’artefice principale di queste costruzioni, tra cui quella di Saqqāra. Divinizzato nel periodo persiano, acquistò fama di medico e di saggio, e fu assimilato al greco Asclepio. A Menfi era considerato figlio del dio Ptah.
Dopo la IV dinastia, le piramidi diventano più piccole e nelle camere sepolcrali appaiono, per la prima volta, le iscrizioni.
Il Medio Regno (dal 2200 a.C.) ha lasciato piramidi a Dahshur e al-Fayyum, che comunque non raggiungono l’interesse di quelle del Regno Antico. Col Regno Nuovo (dal 1600 a.C.) la tomba regale tipica è costituita dall’ipogeo, e la piramide resta confinata alla tomba privata. Da questi tipi si sviluppa, in età assai più tarda, l’uso delle tombe regali a piramide delle dinastie etiopiche a Napata e aMeroe (dall’800 a.C.).
Monumenti a forma piramidale, di dimensioni anche maggiori di quelli egizi, sono noti nei centri precolombiani dell’America Centrale e Meridionale: aztechi e maya costruirono piramidi a gradini, con sulla cima una piattaforma su cui sorgeva il tempio, come si vede dai resti colossali di Cholula, una cittadina precolombiana del Messico, situata sull’altopiano di Puebla a 2150 m s.l.m. La sua piramide è alta 62 m, ed è costruita con mattoni di argilla cotti al sole, su una superficie di 18 ettari. Altre piramidi a terrazze sovrapposte si trovano a Teotihuacán. Terrazzamenti a forma di piramide, costruiti per usi agricoli, erano largamente diffusi nella civiltà inca, dove invece mancano resti di monumenti a forma di piramide.
Immagini da Wikipedia
venerdì 16 maggio 2014
I guerrieri di Monte Prama, nuova scoperta che però non lo è del tutto, di Massimo Pittau
I guerrieri di Monte Prama, nuova scoperta che però non lo è del tutto
di Massimo Pittau
Nei due quotidiani della Sardegna, il 14 maggio 2014, è stata pubblicata la notizia di una nuova scoperta a Monti Prama di Cabras: il ritrovamento di due blocchi scolpiti di arenaria, i quali escludono che le statue dei Guerrieri fossero in un cimitero.
Io, in un libretto del 2009, avevo già scritto e dimostrato che nel sito c'era un tempio, quello del Sardus Pater, già segnalato dal geografo greco-alessandrino Claudio Tolomeo e del quale ho perfino presentato una ricostruzione verosimile. Quel mio libretto andò esaurito in soli 6 mesi, tanto che subito dopo la Editrice Democratica di Sassari (EDES) pubblicò una seconda edizione ampliata e migliorata.
In questa II edizione, a pag. 53, ho perfino pubblicato l'ombra satellitare di una probabile grande tomba di giganti esistente nel sito.
Rispetto a quanto ho scritto in quel mio libretto intendo fare oggi queste precisazioni:
1. La pianta ricostruita del tempio arieggia chiaramente il “tempio etrusco” (si veda quello ricostruito a Villa Giulia di Roma).
2. L’interpretazione delle statue come quelle di altrettanti “guerrieri-pugilatori” è una “baggianata” che offende l'intelligenza di noi Sardi, dato che in nessun luogo e in nessun tempo i guerrieri hanno fatto la guerra coi “guantoni da pugili”. Il bronzetto di Dorgali che aveva dato lo spunto a questa baggianata non è quello di un “guerriero-pugilatore”, bensì è quello di un “cuoiaio” che muove sul capo un cuoio che ha lavorato, come giustamente aveva scritto l'acuto e autorevole archeologo Doro Levi.
3. La ricostruzione che è stata fatta di recente di un “guerriero-pugilatore”, che avrebbe sul capo lo scudo per parare i pugni dell'avversario - ricostruzione che fa bella mostra di sé nel Museo e in tutte le raffigurazioni pubblicitarie - è un'altra “baggianata”, questa costruttiva: lo scudo posto sopra il capo, come una specie di “parapioggia”, risulta adesso fatto col cemento armato, fornito della relativa “struttura metallica”: ma – obietto io - non sono tutte le statue dei guerrieri di Monti Prama fatte esclusivamente di pietra arenaria, la quale mai avrebbe consentito quella specie di parapioggia?
di Massimo Pittau
Nei due quotidiani della Sardegna, il 14 maggio 2014, è stata pubblicata la notizia di una nuova scoperta a Monti Prama di Cabras: il ritrovamento di due blocchi scolpiti di arenaria, i quali escludono che le statue dei Guerrieri fossero in un cimitero.
Io, in un libretto del 2009, avevo già scritto e dimostrato che nel sito c'era un tempio, quello del Sardus Pater, già segnalato dal geografo greco-alessandrino Claudio Tolomeo e del quale ho perfino presentato una ricostruzione verosimile. Quel mio libretto andò esaurito in soli 6 mesi, tanto che subito dopo la Editrice Democratica di Sassari (EDES) pubblicò una seconda edizione ampliata e migliorata.
In questa II edizione, a pag. 53, ho perfino pubblicato l'ombra satellitare di una probabile grande tomba di giganti esistente nel sito.
Rispetto a quanto ho scritto in quel mio libretto intendo fare oggi queste precisazioni:
1. La pianta ricostruita del tempio arieggia chiaramente il “tempio etrusco” (si veda quello ricostruito a Villa Giulia di Roma).
2. L’interpretazione delle statue come quelle di altrettanti “guerrieri-pugilatori” è una “baggianata” che offende l'intelligenza di noi Sardi, dato che in nessun luogo e in nessun tempo i guerrieri hanno fatto la guerra coi “guantoni da pugili”. Il bronzetto di Dorgali che aveva dato lo spunto a questa baggianata non è quello di un “guerriero-pugilatore”, bensì è quello di un “cuoiaio” che muove sul capo un cuoio che ha lavorato, come giustamente aveva scritto l'acuto e autorevole archeologo Doro Levi.
3. La ricostruzione che è stata fatta di recente di un “guerriero-pugilatore”, che avrebbe sul capo lo scudo per parare i pugni dell'avversario - ricostruzione che fa bella mostra di sé nel Museo e in tutte le raffigurazioni pubblicitarie - è un'altra “baggianata”, questa costruttiva: lo scudo posto sopra il capo, come una specie di “parapioggia”, risulta adesso fatto col cemento armato, fornito della relativa “struttura metallica”: ma – obietto io - non sono tutte le statue dei guerrieri di Monti Prama fatte esclusivamente di pietra arenaria, la quale mai avrebbe consentito quella specie di parapioggia?
giovedì 15 maggio 2014
Nuova scoperta archeologica: il Neanderthal bolliva il cibo
Nuova scoperta archeologica: il Neanderthal bolliva il cibo
Si credeva che neanderthal fosse inferiore all’uomo moderno e che per questo si fosse estinto. Uno dei numerosi motivi addotti era la sua presunta ignoranza dei metodi di cottura dei cibi. Ebbene, si sono trovate prove di cucina Neanderthaliana, pertanto, il motivo dell'estinzione resta difficile da stabilire con certezza. Le ultime osservazioni indicano che il Neanderthal bollisse il proprio cibo. Si sa che il Neanderthal era bravo con il fuoco, perché:
1) Sono stati ritrovati numerosi forni Neanderthal, risalenti a 300.000 anni fa.
2) Fino da 200.000 anni fa, Neanderthal usava la pece estratta dalla corteccia delle betulle per fissare le punte delle proprie lance. Si tratta di una tecnica difficile da attuare, perché deve avvenire in ambiente privo di aria (altrimenti la pece esplode), per cui si deve avere molta dimestichezza ed esperienza con il fuoco.
3) Alcuni semi - rinvenuti tra i denti di un Neanderthal della grotta di Shanidar in Irak - sono cotti.
4) Il 98% delle ossa animali rinvenute nei siti Neanderthal non presenta segni di animali spazzini (scavengers). Questo significa che il grasso del midollo era stato estratto con la cottura.
5) Unico fattore negativo: la mancanza di recipienti per la cottura. Il Neanderthal si estinse circa 26.000 anni fa: troppo presto per la prima comparsa dei recipienti di argilla, che è di 20.000 anni fa. Ma l'acqua ha la proprietà fisica di permettere di mantenere qualsiasi recipiente al di sotto della temperatura di combustione (purché la si tolga dal fuoco rapidamente, all'ebollizione). L'ipotesi probabile è che il Neanderthal usasse recipienti di pelle animale, oppure di corteccia (che sapeva lavorare bene).
6) Non provata è l'ipotesi speculativa che il Neaderthal bollisse i cibi nell'acqua per i propri figli. Si basa sul fatto che i figli Neanderthal erano svezzati a un'età molto più precoce di quelli umani moderni e che potesse quindi essere ritenuto necessario rendere più tenero il cibo per loro.
Fonte: http://pasuco.blogspot.it/
Si credeva che neanderthal fosse inferiore all’uomo moderno e che per questo si fosse estinto. Uno dei numerosi motivi addotti era la sua presunta ignoranza dei metodi di cottura dei cibi. Ebbene, si sono trovate prove di cucina Neanderthaliana, pertanto, il motivo dell'estinzione resta difficile da stabilire con certezza. Le ultime osservazioni indicano che il Neanderthal bollisse il proprio cibo. Si sa che il Neanderthal era bravo con il fuoco, perché:
1) Sono stati ritrovati numerosi forni Neanderthal, risalenti a 300.000 anni fa.
2) Fino da 200.000 anni fa, Neanderthal usava la pece estratta dalla corteccia delle betulle per fissare le punte delle proprie lance. Si tratta di una tecnica difficile da attuare, perché deve avvenire in ambiente privo di aria (altrimenti la pece esplode), per cui si deve avere molta dimestichezza ed esperienza con il fuoco.
3) Alcuni semi - rinvenuti tra i denti di un Neanderthal della grotta di Shanidar in Irak - sono cotti.
4) Il 98% delle ossa animali rinvenute nei siti Neanderthal non presenta segni di animali spazzini (scavengers). Questo significa che il grasso del midollo era stato estratto con la cottura.
5) Unico fattore negativo: la mancanza di recipienti per la cottura. Il Neanderthal si estinse circa 26.000 anni fa: troppo presto per la prima comparsa dei recipienti di argilla, che è di 20.000 anni fa. Ma l'acqua ha la proprietà fisica di permettere di mantenere qualsiasi recipiente al di sotto della temperatura di combustione (purché la si tolga dal fuoco rapidamente, all'ebollizione). L'ipotesi probabile è che il Neanderthal usasse recipienti di pelle animale, oppure di corteccia (che sapeva lavorare bene).
6) Non provata è l'ipotesi speculativa che il Neaderthal bollisse i cibi nell'acqua per i propri figli. Si basa sul fatto che i figli Neanderthal erano svezzati a un'età molto più precoce di quelli umani moderni e che potesse quindi essere ritenuto necessario rendere più tenero il cibo per loro.
Fonte: http://pasuco.blogspot.it/
mercoledì 14 maggio 2014
Schliemann, scopritore della città di Troia, è padre dell'archeologia, o della fantarcheologia?
Schliemann, il padre dell'archeologia, o della fantarcheologia?
di Alberto Majrani
In un precedente intervento http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2014/05/iliade-e-odissea-omero-racconto-delle.html?spref=fb abbiamo messo in dubbio la "grecità" dei poemi omerici. Qualcuno a questo punto potrebbe spazientirsi, e domandare: ma Troia, allora?
Heinrich Schliemann ha ben scoperto una città nell’Asia minore! Questo almeno è quanto viene insegnato e creduto vero tutt'ora in molte scuole e università: la bella favola dell'avventuroso pioniere che, rischiando la sua fortuna economica e combattendo contro la sorte avversa e l'ostilità dell'ottuso mondo accademico ottocentesco, riesce, confrontandole con le pagine dell'Iliade, a identificare perfettamente le rovine della città di Priamo presso le coste della Turchia, a recuperarne i favolosi tesori e a guadagnarsi meritatamente la fama imperitura di "padre dell'archeologia".
In realtà l’identificazione del sito turco di Hissarlik con la città dell’assedio ha sempre lasciato perplessi gli studiosi. Illustri archeologi tendono oggi a metterne in rilievo più le differenze che le analogie. Per esempio, gli studi geologici dimostrano che l’ampia pianura alluvionale che si trova alla base della collina su cui sarebbe sorta Troia non esisteva ancora all’epoca del XII a.C., data probabile di quella guerra. Il che significa che non c’era l’ampia spiaggia dove parcheggiare più di mille navi, non c’era la piana dove far correre i carri, e non c’era neanche il campo di battaglia.
Schliemann, inoltre, nell’ansia di cercare i tesori dell’antica Troia, combinò dei disastri notevoli, scoperchiando i vari strati archeologici e danneggiandoli irreparabilmente. Credette di trovare il “tesoro di Priamo” nel secondo strato (risalente ad almeno mille anni prima della presunta data della guerra), identificando in seguito la città dell’assedio con il sesto o il settimo strato (gli strati archeologici sono numerati in ordine progressivo dal più profondo (il più antico), al più superficiale e recente. Inoltre, lo stesso Schliemann era tutt’altro che un personaggio irreprensibile, e la sua autobiografia è ampiamente “romanzata”: parecchi episodi citati sono inventati di sana pianta, come per esempio la storia del suo incontro con il presidente degli Stati Uniti, la presenza a San Francisco durante il famoso incendio della città, la stessa smania di scoprire le vestigia di Troia fin dalla più tenera infanzia, e molto altro ancora. Rimandiamo a questo proposito al documentatissimo saggio di David A. Traill: "Schliemann e la verità perduta di Troia", dove il professore di lettere classiche alla California University mostra dell’archeologo tedesco un ritratto meno lusinghiero di quello divulgato da lui stesso e dai suoi ammiratori. Per fare poi un esempio del suo metodo di lavoro, avendo letto che a Troia c’era una sorgente calda e una fredda, egli pensò bene di misurare la temperatura dell’acqua di tutti i ruscelli della zona: corretta applicazione del metodo scientifico, dovremmo dire, ma visto che la temperatura risultava uguale dappertutto, disse che forse la sorgente calda si era esaurita. Particolarmente gravi sono poi le accuse di aver alterato i risultati dei propri scavi con oggetti trovati altrove, forse comprati o addirittura contraffatti, distorcendo molti dati archeologici e persino falsificando i propri diari per provare certe affermazioni. Si vantava della propria scorrettezza nei confronti degli altri archeologi che dovevano sovraintendere agli scavi, invadendo pesantemente le zone di loro competenza, e contrabbandava illegalmente i pezzi più preziosi, infischiandosene degli accordi sottoscritti con le autorità locali.
Anche nel caso di Micene, Schliemann ha solo scavato in una città che si chiamava così; come molti sanno, la famosa “maschera di Agamennone”, che egli fece credere di avere trovato, non ha in realtà niente a che fare con il celebre comandante degli Achei (anzi, qualcuno pensa addirittura che possa trattarsi di un clamoroso falso). Anche qui le descrizioni omeriche mal si accordano con la Grecia: Micene è “ricca d’oro”, ha “ampie vie”, ma mai una volta che racconti che ha una "porta dei leoni" così caratteristica. Secondo alcuni storici antichi Micene dovrebbe aver preso nome dai funghi (in greco mykes) che colà crescevano: ma chi ha mai visto i funghi in un posto così caldo, arido e sassoso? Da notare che città come Sparta e Micene in Omero sono delle potenze navali, mentre in Grecia si trovano decine di chilometri nell’entroterra. E 30/40 km a quell’epoca non erano certo una passeggiata per chi avesse dovuto portare armi, merci o alimenti, per non parlare di Paride che avrebbe dovuto rapire Elena per farla imbarcare sulla sua nave, assieme a ori e oggetti preziosi (visto che il buon Paride, oltre che la regina, si era pure fregato abilmente il tesoro della corona...).
Traill non sembra però sostanzialmente dubitare della realtà della scoperta delle rovine di Troia, tuttavia molti archeologi la pensano in modo diverso. Per esempio, il prof. Dieter Hertel (che insegna Archeologia Classica all’Università di Colonia e ha scavato nell’area di Hissarlik), nel suo libro Troia (Bologna 2003), dopo aver premesso che «fra i tanti strati che testimoniano le diverse ricostruzioni di Troia dopo ogni distruzione avvenuta nei secoli, le fasi Troia VI (1700-1300 a.C.) e Troia VII (XIII a.C.) non furono il teatro di famose imprese militari», sottolinea che «non è possibile parlare di una spedizione di greci micenei contro la città, fosse essa Troia VI o Troia VIIa [...] Lo studio delle fasi Troia I-VII [...] ci ha rivelato i contorni di una lunga epoca storica, dai caratteri del tutto diversi da quelli del mondo e degli eventi descritti da Omero». Inoltre, «non vi è alcun indizio che consenta di attribuire a una conquista la fine di Troia VI, VIIb1 e VIIb 2 [...] Anche nel caso in cui Troia VIIa sia stata presa con la forza, questo evento non può aver trovato riflesso nella saga greca: nemmeno il minimo indizio depone a favore di tale possibilità». Per di più, aggiunge Hertel, «nei dintorni di Troia non è stato trovato alcun segno di un assedio contemporaneo agli strati di distruzione rinvenuti nello scavo della città, portato da greci micenei o da altre popolazioni; né trincee, né accampamenti fortificati per le navi, né alcunché di simile è stato scoperto nei dintorni della città, sulla costa settentrionale o nella baia di Beşika, nonostante le numerose e alacri ricerche condotte».
Da notare che i turisti in visita agli scavi sono spesso portati a vedere resti come la cosiddetta “tomba di Aiace”, ma tali reperti risalgano all’epoca romana, circa un millennio dopo Omero, e furono costruiti per far contenti i già allora numerosi viaggiatori provenienti da Roma, compresi alcuni imperatori affascinati nello scoprire quelle che Virgilio aveva raccontato essere le “radici” degli antichi romani.
Si aggiunga poi che se si vanno a vedere le descrizioni che Omero fa di Troia, per esempio nei libri XII e XX dell’Iliade, ci si accorge che l’antica città di pietra del sito di Hissarlik, fondata 5000 anni fa sulla costa turca, ha ben poco in comune con quello che sembra un tipico villaggio fortificato dell’Europa nordica. Omero riferisce che le mura del campo degli Achei sono ancor più imponenti di quelle di Troia, ma che vengono in parte abbattute durante un attacco troiano, e poi spazzate via dalla successiva piena del fiume. La stessa Troia verrà poi completamente distrutta da un incendio: il tutto fa arguire che fosse fatta in gran parte di legno. Omero sottolinea che solo le case dei membri della famiglia reale erano di pietra.
Si consideri quanta fatica fece secoli dopo Giulio Cesare per fare capitolare Alesia, la città dei Galli, per rendersi conto di quanto i villaggi del Nord Europa fossero difficili da espugnare, pur essendo protetti solo da robuste palizzate di tronchi, talvolta rinforzate da pietre. Bisogna notare anche che i resti della città gallica non sono ancora stati identificati con certezza, nonostante le intense ricerche e benché la sua esistenza non sia mai stata messa in dubbio: potrebbe essere la stessa cosa successa alla Troia nordica, che sarebbe in ogni caso ben diversa dalle possenti fortezze di pietra immaginate da Schliemann e che siamo abituati a vedere in film e documentari storici. A questo punto si può anche pensare, riprendendo le osservazioni di alcuni storici dell’antica Grecia, che il famoso “Cavallo di Troia” fosse in realtà una specie di “macchina da guerra”, non molto dissimile da quelle architettate da Cesare per conquistare Alesia. C’è anche da considerare la propensione dei popoli nordici a bere e sbronzarsi in modo esagerato, ben testimoniato da tutte le fonti storiche: Troia fu distrutta perché i suoi abitanti, illusi che i nemici se ne fossero andati, non misero nessuno di guardia e si diedero alla pazza gioia tanto da essere tutti ubriachi fradici! L’eroe troiano Enea poi afferma (Iliade XX, 219-240) che la fondazione della sua città risale a meno di sei generazioni prima, cioè a circa 200 anni addietro; quindi se la guerra datasse al 1200 a.C., e la fondazione al 1400, ci sarebbero appena 1600 anni di differenza con la data reale di nascita della città turca, del 3000 a.C. Insomma, nonostante nell’antichità ci fossero continue guerre, e gli incendi negli abitati fossero eventi piuttosto comuni, non si riesce a trovare la cosiddetta “pistola fumante” che riesca a provare una correlazione inequivocabile tra i resti archeologici di Hissarlik e gli eventi della guerra e della distruzione di Troia così accuratamente descritti nei poemi. Non quadrano i tempi e i luoghi. In poche parole, non c’è quello che dovrebbe esserci, e c’è quello che non dovrebbe esserci! Alla fine di questo discorso, dunque, gli archeologi avrebbero tutti i motivi per tirare un bel sospiro di sollievo al pensiero che la gloriosa città cantata da Omero non sia quel cumulo di macerie devastate dal “mitico” Schliemann!
Quindi la Troia della Turchia non è altro che una delle tante città con questo nome, come ce n’è una in Puglia, una in Portogallo, una Troyes in Francia, una Troynovant nell’antica Inghilterra, per non parlare della ventina circa di Troy negli USA. Del resto questo meccanismo di chiamare luoghi diversi con lo stesso nome ha continuato a perpetuarsi dall’antichità fino ai giorni nostri: basti pensare a quanti monti Olimpo ci sono: sette tra Grecia e Turchia, alcuni altri sparsi per il mondo, tra cui uno in America, e uno persino su Marte! Perciò Schliemann non ha scoperto la Troia omerica, ma solo un’importante città dell’antichità che poi è stata chiamata così. Sarebbe ora interessante scoprire quale città fosse, magari è proprio quella che gli Ittiti chiamavano Wilusa (anche se la sua localizzazione geografica sembrerebbe diversa), che è stata in seguito confusa dagli antichi per la sua assonanza con la Ilio omerica. Quella dell’archeologo dilettante tedesco non fu un'impresa particolarmente difficile, in fondo: egli era un ricco mercante, che viaggiava molto ed era appassionato di archeologia, in un’epoca in cui i ricchi viaggiatori erano pochissimi, e gli archeologi ancora meno. Bastava solo chiedere un po’ in giro e lasciare qualche mancia, per scoprire resti interessanti. Bei tempi!
Testo tratto da "Ulisse, Nessuno, Filottete" di Alberto Majrani
Nelle immagini (dell’autore):
La cosiddetta Maschera di Agamennone
Gli scavi di “Troia”- Hissarlik, in Turchia
Villaggio rurale nel museo all’aperto di Olsztynek, Polonia. Così dovevano essere le case dei protagonisti dei poemi omerici.
Un gruppo di archeologi, tra cui Schliemann, a Micene
di Alberto Majrani
In un precedente intervento http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2014/05/iliade-e-odissea-omero-racconto-delle.html?spref=fb abbiamo messo in dubbio la "grecità" dei poemi omerici. Qualcuno a questo punto potrebbe spazientirsi, e domandare: ma Troia, allora?
Heinrich Schliemann ha ben scoperto una città nell’Asia minore! Questo almeno è quanto viene insegnato e creduto vero tutt'ora in molte scuole e università: la bella favola dell'avventuroso pioniere che, rischiando la sua fortuna economica e combattendo contro la sorte avversa e l'ostilità dell'ottuso mondo accademico ottocentesco, riesce, confrontandole con le pagine dell'Iliade, a identificare perfettamente le rovine della città di Priamo presso le coste della Turchia, a recuperarne i favolosi tesori e a guadagnarsi meritatamente la fama imperitura di "padre dell'archeologia".
In realtà l’identificazione del sito turco di Hissarlik con la città dell’assedio ha sempre lasciato perplessi gli studiosi. Illustri archeologi tendono oggi a metterne in rilievo più le differenze che le analogie. Per esempio, gli studi geologici dimostrano che l’ampia pianura alluvionale che si trova alla base della collina su cui sarebbe sorta Troia non esisteva ancora all’epoca del XII a.C., data probabile di quella guerra. Il che significa che non c’era l’ampia spiaggia dove parcheggiare più di mille navi, non c’era la piana dove far correre i carri, e non c’era neanche il campo di battaglia.
Schliemann, inoltre, nell’ansia di cercare i tesori dell’antica Troia, combinò dei disastri notevoli, scoperchiando i vari strati archeologici e danneggiandoli irreparabilmente. Credette di trovare il “tesoro di Priamo” nel secondo strato (risalente ad almeno mille anni prima della presunta data della guerra), identificando in seguito la città dell’assedio con il sesto o il settimo strato (gli strati archeologici sono numerati in ordine progressivo dal più profondo (il più antico), al più superficiale e recente. Inoltre, lo stesso Schliemann era tutt’altro che un personaggio irreprensibile, e la sua autobiografia è ampiamente “romanzata”: parecchi episodi citati sono inventati di sana pianta, come per esempio la storia del suo incontro con il presidente degli Stati Uniti, la presenza a San Francisco durante il famoso incendio della città, la stessa smania di scoprire le vestigia di Troia fin dalla più tenera infanzia, e molto altro ancora. Rimandiamo a questo proposito al documentatissimo saggio di David A. Traill: "Schliemann e la verità perduta di Troia", dove il professore di lettere classiche alla California University mostra dell’archeologo tedesco un ritratto meno lusinghiero di quello divulgato da lui stesso e dai suoi ammiratori. Per fare poi un esempio del suo metodo di lavoro, avendo letto che a Troia c’era una sorgente calda e una fredda, egli pensò bene di misurare la temperatura dell’acqua di tutti i ruscelli della zona: corretta applicazione del metodo scientifico, dovremmo dire, ma visto che la temperatura risultava uguale dappertutto, disse che forse la sorgente calda si era esaurita. Particolarmente gravi sono poi le accuse di aver alterato i risultati dei propri scavi con oggetti trovati altrove, forse comprati o addirittura contraffatti, distorcendo molti dati archeologici e persino falsificando i propri diari per provare certe affermazioni. Si vantava della propria scorrettezza nei confronti degli altri archeologi che dovevano sovraintendere agli scavi, invadendo pesantemente le zone di loro competenza, e contrabbandava illegalmente i pezzi più preziosi, infischiandosene degli accordi sottoscritti con le autorità locali.
Anche nel caso di Micene, Schliemann ha solo scavato in una città che si chiamava così; come molti sanno, la famosa “maschera di Agamennone”, che egli fece credere di avere trovato, non ha in realtà niente a che fare con il celebre comandante degli Achei (anzi, qualcuno pensa addirittura che possa trattarsi di un clamoroso falso). Anche qui le descrizioni omeriche mal si accordano con la Grecia: Micene è “ricca d’oro”, ha “ampie vie”, ma mai una volta che racconti che ha una "porta dei leoni" così caratteristica. Secondo alcuni storici antichi Micene dovrebbe aver preso nome dai funghi (in greco mykes) che colà crescevano: ma chi ha mai visto i funghi in un posto così caldo, arido e sassoso? Da notare che città come Sparta e Micene in Omero sono delle potenze navali, mentre in Grecia si trovano decine di chilometri nell’entroterra. E 30/40 km a quell’epoca non erano certo una passeggiata per chi avesse dovuto portare armi, merci o alimenti, per non parlare di Paride che avrebbe dovuto rapire Elena per farla imbarcare sulla sua nave, assieme a ori e oggetti preziosi (visto che il buon Paride, oltre che la regina, si era pure fregato abilmente il tesoro della corona...).
Traill non sembra però sostanzialmente dubitare della realtà della scoperta delle rovine di Troia, tuttavia molti archeologi la pensano in modo diverso. Per esempio, il prof. Dieter Hertel (che insegna Archeologia Classica all’Università di Colonia e ha scavato nell’area di Hissarlik), nel suo libro Troia (Bologna 2003), dopo aver premesso che «fra i tanti strati che testimoniano le diverse ricostruzioni di Troia dopo ogni distruzione avvenuta nei secoli, le fasi Troia VI (1700-1300 a.C.) e Troia VII (XIII a.C.) non furono il teatro di famose imprese militari», sottolinea che «non è possibile parlare di una spedizione di greci micenei contro la città, fosse essa Troia VI o Troia VIIa [...] Lo studio delle fasi Troia I-VII [...] ci ha rivelato i contorni di una lunga epoca storica, dai caratteri del tutto diversi da quelli del mondo e degli eventi descritti da Omero». Inoltre, «non vi è alcun indizio che consenta di attribuire a una conquista la fine di Troia VI, VIIb1 e VIIb 2 [...] Anche nel caso in cui Troia VIIa sia stata presa con la forza, questo evento non può aver trovato riflesso nella saga greca: nemmeno il minimo indizio depone a favore di tale possibilità». Per di più, aggiunge Hertel, «nei dintorni di Troia non è stato trovato alcun segno di un assedio contemporaneo agli strati di distruzione rinvenuti nello scavo della città, portato da greci micenei o da altre popolazioni; né trincee, né accampamenti fortificati per le navi, né alcunché di simile è stato scoperto nei dintorni della città, sulla costa settentrionale o nella baia di Beşika, nonostante le numerose e alacri ricerche condotte».
Da notare che i turisti in visita agli scavi sono spesso portati a vedere resti come la cosiddetta “tomba di Aiace”, ma tali reperti risalgano all’epoca romana, circa un millennio dopo Omero, e furono costruiti per far contenti i già allora numerosi viaggiatori provenienti da Roma, compresi alcuni imperatori affascinati nello scoprire quelle che Virgilio aveva raccontato essere le “radici” degli antichi romani.
Si aggiunga poi che se si vanno a vedere le descrizioni che Omero fa di Troia, per esempio nei libri XII e XX dell’Iliade, ci si accorge che l’antica città di pietra del sito di Hissarlik, fondata 5000 anni fa sulla costa turca, ha ben poco in comune con quello che sembra un tipico villaggio fortificato dell’Europa nordica. Omero riferisce che le mura del campo degli Achei sono ancor più imponenti di quelle di Troia, ma che vengono in parte abbattute durante un attacco troiano, e poi spazzate via dalla successiva piena del fiume. La stessa Troia verrà poi completamente distrutta da un incendio: il tutto fa arguire che fosse fatta in gran parte di legno. Omero sottolinea che solo le case dei membri della famiglia reale erano di pietra.
Si consideri quanta fatica fece secoli dopo Giulio Cesare per fare capitolare Alesia, la città dei Galli, per rendersi conto di quanto i villaggi del Nord Europa fossero difficili da espugnare, pur essendo protetti solo da robuste palizzate di tronchi, talvolta rinforzate da pietre. Bisogna notare anche che i resti della città gallica non sono ancora stati identificati con certezza, nonostante le intense ricerche e benché la sua esistenza non sia mai stata messa in dubbio: potrebbe essere la stessa cosa successa alla Troia nordica, che sarebbe in ogni caso ben diversa dalle possenti fortezze di pietra immaginate da Schliemann e che siamo abituati a vedere in film e documentari storici. A questo punto si può anche pensare, riprendendo le osservazioni di alcuni storici dell’antica Grecia, che il famoso “Cavallo di Troia” fosse in realtà una specie di “macchina da guerra”, non molto dissimile da quelle architettate da Cesare per conquistare Alesia. C’è anche da considerare la propensione dei popoli nordici a bere e sbronzarsi in modo esagerato, ben testimoniato da tutte le fonti storiche: Troia fu distrutta perché i suoi abitanti, illusi che i nemici se ne fossero andati, non misero nessuno di guardia e si diedero alla pazza gioia tanto da essere tutti ubriachi fradici! L’eroe troiano Enea poi afferma (Iliade XX, 219-240) che la fondazione della sua città risale a meno di sei generazioni prima, cioè a circa 200 anni addietro; quindi se la guerra datasse al 1200 a.C., e la fondazione al 1400, ci sarebbero appena 1600 anni di differenza con la data reale di nascita della città turca, del 3000 a.C. Insomma, nonostante nell’antichità ci fossero continue guerre, e gli incendi negli abitati fossero eventi piuttosto comuni, non si riesce a trovare la cosiddetta “pistola fumante” che riesca a provare una correlazione inequivocabile tra i resti archeologici di Hissarlik e gli eventi della guerra e della distruzione di Troia così accuratamente descritti nei poemi. Non quadrano i tempi e i luoghi. In poche parole, non c’è quello che dovrebbe esserci, e c’è quello che non dovrebbe esserci! Alla fine di questo discorso, dunque, gli archeologi avrebbero tutti i motivi per tirare un bel sospiro di sollievo al pensiero che la gloriosa città cantata da Omero non sia quel cumulo di macerie devastate dal “mitico” Schliemann!
Quindi la Troia della Turchia non è altro che una delle tante città con questo nome, come ce n’è una in Puglia, una in Portogallo, una Troyes in Francia, una Troynovant nell’antica Inghilterra, per non parlare della ventina circa di Troy negli USA. Del resto questo meccanismo di chiamare luoghi diversi con lo stesso nome ha continuato a perpetuarsi dall’antichità fino ai giorni nostri: basti pensare a quanti monti Olimpo ci sono: sette tra Grecia e Turchia, alcuni altri sparsi per il mondo, tra cui uno in America, e uno persino su Marte! Perciò Schliemann non ha scoperto la Troia omerica, ma solo un’importante città dell’antichità che poi è stata chiamata così. Sarebbe ora interessante scoprire quale città fosse, magari è proprio quella che gli Ittiti chiamavano Wilusa (anche se la sua localizzazione geografica sembrerebbe diversa), che è stata in seguito confusa dagli antichi per la sua assonanza con la Ilio omerica. Quella dell’archeologo dilettante tedesco non fu un'impresa particolarmente difficile, in fondo: egli era un ricco mercante, che viaggiava molto ed era appassionato di archeologia, in un’epoca in cui i ricchi viaggiatori erano pochissimi, e gli archeologi ancora meno. Bastava solo chiedere un po’ in giro e lasciare qualche mancia, per scoprire resti interessanti. Bei tempi!
Testo tratto da "Ulisse, Nessuno, Filottete" di Alberto Majrani
Nelle immagini (dell’autore):
La cosiddetta Maschera di Agamennone
Gli scavi di “Troia”- Hissarlik, in Turchia
Villaggio rurale nel museo all’aperto di Olsztynek, Polonia. Così dovevano essere le case dei protagonisti dei poemi omerici.
Un gruppo di archeologi, tra cui Schliemann, a Micene
martedì 13 maggio 2014
Archeologia della Sardegna: nuovi reperti scavati a Monte Prama e alcuni scheletri nuragici trovati a Perdasdefogu.
Archeologia: nuovi reperti scavati a Monte Prama e alcuni scheletri nuragici trovati a Perdasdefogu.
Mont'e Prama, nuovi scavi portano alla luce altri reperti.
Si aprono nuovi scenari a Mont’e Prama, nel sito dei giganti di pietra. Gli scavi, appena ripresi nel Sinis, hanno portato al ritrovamento di due grossi blocchi di arenaria, forse parte di un santuario.
Le indagini col georadar suggeriscono la presenza nel sito di una struttura monumentale complessa, probabilmente un santuario. Dai primi risultati della campagna di scavi spuntano due blocchi di arenaria, la cui conformazione fa pensare che fossero parte di una struttura complessa, adiacente la necropoli. Da dove arrivino i manufatti e cosa fosse questa struttura resta per ora un punto interrogativo. La prima tornata di scavi andrà avanti due mesi.
Ossa umane di epoca nuragica ritrovate nella grotta di Tueri
I segreti dei nuragici ritrovati nella grotta di Tueri a Perdasdefogu, saranno svelati presto dagli esperti che hanno partecipato alla catalogazione dei reperti. Quello che può essere definito un singolare tempio dei morti per numero (in principio erano 40 scheletri), si trova a pochi chilometri dal paese, proprio sotto il nuraghe omonimo che domina la vallata di Tremini con il suo inconfondibile “tacco”. Lo staff di archeologi e antropologi, e gli specialisti del gruppo grotte Ogliastra, cerca di far luce sul popolo che di certo visse in questo territorio, riaffiorato insieme ai suoi millenni di storia. Il primo ritrovamento risale agli anni ‘60, ma le ossa in buono stato di conservazione sono state purtroppo cancellate dall'arrivo di tombaroli. Gli esperti chiedono la possibilità di fare uno scavo per salvare definitivamente il sito.
Fonte: L’Unione Sarda
Immagini dal tg di Videolina
I Giganti di Monte Prama: antichi eroi divinizzati?
di Pierluigi Montalbano
Nel 1974 un agricoltore che spietrava il suo terreno in località Monte Prama, nei pressi di Cabras, si accorse che alcuni sassi avevano forme particolari: dita, orecchie, teste e altri dettagli realizzati dalle abili mani di un artigiano della pietra. Avvisò le autorità competenti e gli archeologi avviarono una serie di campagne di scavo che portarono alla luce una necropoli antica quasi 3000 anni sulla quale c’erano 5300 frammenti lavorati di arenaria proveniente dalle vicine cave di Oristano.
Il materiale, una sorta di immenso puzzle in pietra, è stato assemblato nel centro di restauro di Li Punti, a Sassari, evidenziando una serie di statue di guerrieri e alcuni nuraghi in miniatura, a una o più torri, risalenti all’800 a.C. circa. Lo studio dei reperti ha testimoniato una civiltà capace di organizzare tecnicamente e ideologicamente la rappresentazione del proprio modo di onorare i defunti e gli antichi eroi. È chiaro l’intento di autocelebrarsi da parte di una o più comunità nuragiche, e i guerrieri in pietra raffigurati sono identici ai personaggi rappresentati nei bronzetti, le piccole sculture realizzate con il metodo della fusione a cera persa nella prima età del Ferro.
Poiché nessun ricercatore registra per quel periodo tracce di guerra, si tratta dunque della rappresentazione di eroi di battaglie del passato, scolpiti in posa da parata. Le statue rappresentano personaggi mitici, entrati nella tradizione dei sardi nuragici, ed essendo in pietra sono frutto della volontà, da parte dei committenti, di immortalare questi miti in maniera durevole.
I frammenti furono distrutti intenzionalmente, forse durante le guerre puniche contro Roma, e si trovavano sulle lastre di copertura di una serie di 34 tombe a pozzetto allineate a formare un viale funerario. Ciò suggerisce che in ognuna delle sepolture riposasse il corpo di un discendente dei guerrieri rappresentati.
I giganti sono divisi in tre tipologie: arcieri, spadaccini con scudo rotondo e soldati armati di maglio nella mano destra, mentre nella mano sinistra, tenuta sopra la testa, stringono uno scudo flessibile rettangolare , a mio parere realizzato con strati di lino sovrapposti e incollati con resina, rinforzato con stecche longitudinali. Si tratta delle più antiche statue a tutto tondo del Mediterraneo Occidentale, e precedono di vari secoli quelle greche (i kuroi) e i famosi bronzi di Riace.
In quel periodo la Sardegna fu interessata a una serie di fenomeni sociali rilevanti: non si costruivano più nuraghi e quelli ancora integri furono adibiti a templi. Inoltre, si costruirono delle grandi capanne dotate di sedili per le assemblee delle comunità e iniziò la fase dei bronzetti, ossia piccole sculture di bronzo in figura di sacerdoti, animali, oggetti, guerrieri e navi. Al centro di queste capanne si collocavano piccoli nuraghi di pietra, una sorta di totem della comunità. Era un momento florido per i commerci e l’isola era frequentata da commercianti iberici e del Vicino Oriente (i fenici) che mediavano soprattutto il rame e l’argento, abbondanti nelle miniere sarde. I prodotti di pregio giungevano da Cipro e dall’egeo, viaggiando insieme a uomini e tecnologie. In questa koinè mediterranea di 3000 anni fa la Sardegna era protagonista grazie alla sua posizione strategica al centro delle rotte navali.
Il materiale delle statue e le botteghe artigiane erano locali, e fra i giganti si nota uno spadaccino che presenta un rilievo bassissimo nella parte frontale, una sorta di stola con frangia posta verticalmente lungo il busto e fino al ventre. A mio avviso è da attribuire a un maestro scultore proveniente dal Vicino Oriente, forse dalla Siria, poiché i dettagli calligrafici e l'eleganza nelle incisioni erano praticati solo nelle botteghe di corte dei regni settentrionali del Vicino Oriente. C'è da rilevare, inoltre, che un arciere stringe nelle mani l'arco e piega il pollice a 90°, un dettaglio di scuola siriana dell'epoca. Tutto ciò suggerisce che qualche potente clan nuragico convinse un maestro siriano ad aprire bottega nell'oristanese per insegnare ai sardi la lavorazione a tutto tondo della pietra. Il luogo di ritrovamento è in prossimità della costa, e dunque del mare, perché i sardi in quel periodo partecipavano alle rotte commerciali nel Mediterraneo, veicolando merci, tecnologie e uomini.
Anche le piccole barche bronzee suggeriscono questa ideologia e furono concepite proprio per unire un nuovo elemento, la marineria, al possesso della terra rappresentato dai nuraghi. I giganti di Monte Prama furono rappresentati da una potente civiltà che accolse favorevolmente gruppi di commercianti provenienti da Cipro, Tiro, Sidone, Biblos, Creta e altre città stato fenicie del Vicino Oriente. Mantenne l’identità nuragica e si arricchì delle esperienze dei navigatori che frequentavano i porti mediterranei. Le società che si affacciano sul mare sono da sempre pronte a cogliere ogni innovazione che giunge dall’esterno e la Sardegna, essendo un’isola con posizione strategica impareggiabile e risorse minerarie abbondanti, fu il centro di raccolta e smistamento di tutto ciò che transitava fra le sponde del Mediterraneo.
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