Di fondamentale importanza sono alcune riflessioni sul sistema bio-geografico che legano il complesso Sardo – Corso alla Toscana marittima. Durante il Paleolitico Medio (300000-40000 BP)[20], nel complesso Sardo-Corso, si estingue la tipologia faunistica denominata “Nesogorale”, formata da un’associazione sbilanciata composta da mammiferi di piccola taglia. Fanno parte di questo complesso pochi grandi mammiferi quali il Nesogoral Melonii e il Sus Sondaari, rispettivamente un caprino e un maiale[21], che convivono con il Macaca maiori e il Prolagus Sardus. Le ridotte dimensioni di questo complesso faunistico sono dovute al fatto che esso sopravvive da parecchio tempo[22] sul complesso Sardo-Corso e ha perciò sviluppato caratteri endemici. Infatti l’unica specie indenne alla “miniaturizzazione” che non perde l’attitudine alla corsa è il Nesogoral, forse per la presenza del Chasmaporthetes melei, una iena, probabilmente l’unico predatore degno di nota[23]. Tra le cause dell’estinzione della fauna nesogorale potremmo considerare il mancato adattamento a condizioni climatiche più fredde (valido soprattutto per Macaca maiori), la competizione con i nuovi venuti e l’introduzione di un nuovo grande predatore[24]. Chi sono i nuovi venuti? Considerando l’esiguo tratto di mare da attraversare - tra Corsica e Arcipelago Toscano -, i grandi carnivori vengono esclusi dalla migrazione mentre i più indicati risultano essere gli animali da branco con una buona predilezione per il nuoto[25]: tra questi solamente gli esemplari più grossi e robusti probabilmente riescono a portare a termine la traversata[26]. Il nuovo apporto faunistico è inquadrato come “Tyrrenicola”, di cui fanno parte Tyrrenicola henseli, un piccolo topo; il Megaceros cazioti, un cervo di probabile derivazione dal Megaceros verticornis del continente; il Cynotherium sardous, uno sciacallo o un lupo; e il Mammuthus lamarmorai. Della vecchia fauna sopravvive solamente il prolago. La fauna “Tyrrenicola” manifesta, a differenza della “Nesogorale”, scarsità di forme endemiche nane insulari[27] - a parte il Mammuthus lamarmorai alto circa 150 cm -, che a differenza degli elefanti nani presenti nelle altre isole del Mediterraneo, attribuiti a paleoxodontini, è l'unico mammuth nano del bacino del Mediterraneo[28]. Come mai la fauna “Tyrrenicola” non sviluppa elementi di endemismo al contrario di quella “Nesogorale”? La mancata evoluzione della fauna “Tyrrenicola” verso forme di nanismo insulare è forse legata al contemporaneo arrivo di nuove forme di vita dal continente e di un grande predatore che per il solo fatto di cacciare e nutrirsi delle due faune insulari, ha contribuito fattivamente a determinare l’estinzione della fauna “Nesogorale” e impedire alla fauna “Tyrrenicola” di evolversi verso le forme nane[29]. Quali predatori potrebbero aver generato questa situazione? L’unico noto allo stato fossile, tra i nuovi , è il Cynotherium sardous , non idoneo però ad esercitare un tale abbattimento della fauna “Nesogorale” ed un controllo di quella “Tyrrenicola”. L’ipotesi più convincente è che tra gli elementi della nuova fauna “Tyrrenicola” si sia inserito anche l’uomo pleistocenico, dato che in termini biogeografici la Sardegna dal Pleistocene medio all’Olocene diventa una sorta di Isola oceanica che vede successivamente l’aumento dell’impatto antropico del Neolitico e post-Neolitico spazzare via tutte le originali tassonomie endemiche[30]. Gettate le basi per un’ipotesi di popolamento animale e umano nel Paleolitico, a questo punto la domanda nasce spontanea: cosa ha fatto del complesso Sardo – Corso, separato da un tratto di mare dal resto del continente, un territorio così attraente rispetto al Sud della Penisola più facilmente raggiungibile? Credo che innanzitutto si debba tener conto delle condizioni climatiche e in particolar modo delle temperature marine reali ma soprattutto percepite in prossimità delle coste[31], cariche di umidità. Uno studio relativo all’Ultimo Massimo Glaciale (circa 18000 BP) ci mostra come gran parte della penisola, se non tutta, in tale periodo risenta ancora di una temperatura non piacevole delle acque (7-9°C), mentre il complesso Sardo-Corso veda delle condizioni più miti nella stagione invernale (9-11°C) e abbastanza tiepide (17°C) nella stagione estiva[32]. In secondo luogo credo si debba considerare che parte della Sardegna, durante il II pleniglaciale wurmiano, sia stata una sorta di rifugio glaciale, una di quelle zone cioè dove la vegetazione ha potuto persistere durante le fasi più secche dell’ultima glaciazione e dalla quale poi si è irradiata nelle fasi postglaciali[33]. Si suppone che lo sviluppo di ricche foreste miste negli Appennini, in sostituzione delle aride steppe, sia avvenuto circa 14.000 anni fa (circa 12000 a.C), mentre nella Sicilia si elabora che questa transizione sia avvenuta verso il 9700 a.C[34]. Il Mediterraneo della fine del Paleolitico era caratterizzato da condizioni di generale umidità ma la successive condizioni di aridità[35] fecero sì che il consolidamento della vegetazione mediterranea avvenisse molto lentamente, soprattutto a latitudini inferiori. Nel Mediterraneo occidentale è stato analizzato che la vegetazione mediterranea diventa dominante: prima del 9000 a.C, ad una latitudine di 36°-39° N; al 5600 a.C. per la latitudine di 39°-40° N; intorno al 3700 a.C. a 41°N; e solamente intorno al 900 a.C. si consolida tra i 42°-44° N[36]. Questo dato[37], sicuramente da non trascurare in quanto di fondamentale importanza per l’alimentazione e l’attrazione dei branchi di animali, è correlato al fatto che nel meridione della penisola avvenga, tra l’Ultimo Massimo Glaciale e la fine della Glaciazione, una dispersione di mammiferi continentali grandi e piccoli, attraverso una sorta di barriera filtrante, come potrebbe essere una parziale emersione del fondale o un sistema di lagune. Nel meridione - Sicilia compresa -, scompaiono i grandi predatori, gli elefanti, i daini e le piccole tassonomie endemiche, forse per via del deterioramento climatico[38] e per l’arrivo di piccoli predatori quali la volpe e la mustela[39], mentre il tavoliere delle Puglie si può includere tra le regioni più aride della penisola, dove non si registrano mai condizioni pienamente forestali[40]. Si può considerare, con un buon margine di sicurezza, che il complesso Sardo – Corso fosse attraente grazie a svariati elementi di fondamentale importanza per le popolazioni preistoriche quali: la cacciagione, l’ossidiana, la selce, la nefrite, la steatite e il sale[41]. Tuttavia, a causa di carenze nelle ricerca che, colmate, potrebbero rivelare ben altri orizzonti, siamo portati a considerare che, nell’area del Mediterraneo centro–occidentale, l’uso dell’ossidiana si sia diffuso durante il Neolitico Antico[42], sebbene risultino dei singoli manufatti rinvenuti in contesti Epigravettiani[43]e di fine Paleolitico. Mentre per il settore orientale dell’Europa il prodotto vulcanico, proveniente dai Carpazi, risulta attestato sin dall’Aurignaziano (35000 BP circa), addirittura nell’area del Caucaso i rinvenimenti potrebbero essere riconducibili all’industria Acheuleana[44]. A questo punto è d’obbligo evidenziare che, attraverso lo studio dei modelli distributivi del Mediterraneo Occidentale, in un contesto di studi e analisi che vede la distribuzione dell’ossidiana sarda prevalentemente per vie terrestri seguendo l’arcipelago toscano, si è individuata un’esportazione del prodotto sardo sin nel Sud della Francia[45]. E’ doveroso inoltre sottolineare questo elemento sia per il fatto che il prodotto potesse arrivare nell’arco Franco – Iberico via terra, toccando i medesimi siti co-relazionati per arte rupestre con la Sardegna Paleolitica, sia per il fatto che potesse giungervi via mare aperto (circa 150 km tra la Corsica e la Costa Azzurra), sottintendendo quindi una capacità marinaresca di gran lunga superiore di quanto la maggior parte degli studiosi sia disposta ad attribuire ai marinai neolitici. Come è altrettanto doveroso sottolineare la presenza di giacimenti di selce[46] nel Sud della Francia, indizio che alimenta le riflessioni legate allo stanziamento mirato dei gruppi umani paleolitici in particolari contesti, in cui il relativo home range era in grado di fornire diverse risorse. Non a caso in questo studio come nel precedente lavoro[47]si è sottolineato come le medesime famiglie genetiche, affacciandosi al Mediterraneo, calchino i medesimi siti tra il Sud della Francia, la Liguria, la Toscana e, attraverso il ponte pelagico toscano, il complesso Sardo – Corso, lasciando le medesime tracce antropiche probabilmente in una continua ricerca delle medesime risorse: cacciagione, selce, ossidiana. Nonostante la distribuzione del prodotto di Monte Arci avvenga nell’Italia settentrionale, lo stesso non si può dire per la penisola balcanica, dove la supposta distribuzione in Bosnia[48] - non suffragata da prove distribuzionali - è stata avanzata a seguito di una confusione nell’analisi dovuta ad una marcata somiglianza con il prodotto proveniente dall’Anatolia[49]. Tutte queste elaborazioni e relazioni, proposte da vari studiosi, sottostanno comunque ad una regola ferrea a cui non si poteva ovviare: nel Paleolitico Superiore e nel Neolitico Antico non esisteva ancora la ruota[50], tantomeno si impiegavano animali da carico[51], perciò la distribuzione dei materiali avveniva unicamente tramite trasporti umani. In virtù di ciò le quantità distribuite volta per volta dovevano essere sicuramente esigue e proporzionate a quanto i trasportatori - forse per diverse centinaia di chilometri[52] - potevano sopportare, il che ovviamente era ancora subordinato alla quantità di materiale estratto. Ecco forse la chiave di volta che spiega lo spostamento di masse umane, e quindi di famiglie genetiche, verso il complesso Sardo – Corso: la necessità di approvvigionare il materiale, di cui si faceva più uso in epoca arcaica, direttamente alle fonti. Necessità nata magari per sopperire alla carenza del prodotto e, date le caratteristiche e il comune impiego dei taglienti, al relativo calo delle prede cacciate: calo avvenuto in conseguenza della riduzione sia degli strumenti ricavati con le ossidiane sia delle prede, in virtù, quest’ultima, degli spostamenti verso climi più favorevoli dei branchi di animali. In un’Europa continentale in cui i rigori dell’Ultimo Pleniglaciale fecero variare i complessi faunistici, gli uomini non potevano permettersi di rimanere senza armi per cacciare il poco sostentamento rinvenibile: ecco perciò che probabilmente decisero di spostarsi più a Sud per trovare condizioni migliori, maggior numero di prede e possibilità di accedere alle fonti di selci e ossidiane. Tale elaborazione infatti correla l’uso e la distribuzione dell’ossidiana dei Carpazi sin dal Paleolitico Superiore e successivamente, alla luce degli attuali studi che propendono per spostamenti umani verso il meridione, l’impiego del prodotto proveniente dalle isole. Alcuni studi legano ciò alla considerazione che avrebbe più senso, per i siti padani, un approvvigionamento dai trasporti, tramite cabotaggio, lungo le linee di costa tirreniche anziché dal trasporto attraverso le aree montuose dell’interno[53]. Ricordiamo tuttavia che per l’approvvigionamento di selce e di pietra verde fu data preferenza all’attraversamento alpino. Ed ecco che alcuni studi introducono e cercano di tenere conto, nel mantenimento e nell’instaurazione dei rapporti di scambio, il rispetto dell’etnicità e il mantenimento dei legami di sangue come fattori significativi nella creazione di partners preferenziali[54]. La considerazione dell’identità dei gruppi, e la supposizione di sforzi al fine di mantenere delle relazioni di parentela tra partners di scambio[55], potrebbe essere una chiave per capire le motivazioni di un’integrazione tra componenti di diverse “famiglie genetiche” congiuntesi sulle sponde del Mediterraneo[56]. Ecco perché ora si vanno a considerare le culture mesolitiche e neolitiche in rapporto ad alcune “famiglie genetiche”. Le regioni occidentali – atlantiche, del Mediterraneo nord-occidentale, l’area padana e la penisola in generale mostrano nel Mesolitico una certa omogeneità culturale che gli studi inquadrano come caratterizzata da un’entità tassonomica detta Sauvetterriana o anche Tardenoisiana[57]. Altri studi invece smembrano questo insieme dividendolo in culture diverse, caratterizzate ciascuna da famiglie genetiche ben precise e talvolta coincidenti[58]. La cultura Tardenoisiana viene individuata in un’area che comprende attualmente i Pirenei, la Francia, la Germania e parte dell’Europa Centrale ed è caratterizzata da gruppi umani appartenenti all’aplogruppo I, subclade I2 e I2a. La penisola italiana e il complesso Sardo – Corso invece vengono descritti come caratterizzati dalla Cultura della Ceramica cardiale imputabile a gruppi umani contraddistinti geneticamente dagli aplogruppi G, subclade G2a, e I, subclade I2a e E-V13. Chiaramente le aree di contatto tra le culture, quali l’arco franco-iberico, mostrano un amalgama verosimilmente sia genetico che tassonomico che, in seguito, sfocerà nella cultura megalitica. Questo fattore ci supporta nel considerare, almeno a grandi linee, un patrimonio di conoscenze e culturale quasi unico per tutta questa area geografica, consolidato dai legami di sangue (I2a) originatisi nel Paleolitico Superiore[59]. L’aplogruppo I2a rappresenta infatti la diretta discendenza patrilineare degli uomini vissuti nell’Occidente Europeo durante il Paleolitico Superiore[60], accostando le popolazioni dell’Europa occidentale con quelle Balcaniche e delle Alpi Dinariche, e i Sardi con le popolazioni Iberiche e delle isole Britanniche. Quando nasce la Cultura della Ceramica Cardiale? Secondo la genetica questo avviene quando le popolazioni della vecchia Europa vengono a contatto con agricoltori e pastori mediorientali, caratterizzati da un Y-DNA dei gruppi G2 ed E-V13. Questo dato è suffragato da uno studio basato sulla discendenza matrilineare[61], in cui - individuato nell’ambito del mtDNA - l’aplogruppo H viene inquadrato come giunto in Europa attorno al 22000 BP e limitato ad alcuni rifugi glaciali del Sud-Ovest europeo. Considerato che l’aplogruppo H pare virtualmente assente tra i cacciatori – raccoglitori del Mesolitico, lo si inquadra cronologicamente come poco comune, nell’Europa Occidentale, attorno al 5450 BC. La sua successiva diffusione, che lo vedrà diventare l’aplogruppo predominante tra gli europei[62], sarà dovuta all’arrivo, all’ibridazione e all’acculturazione degli agricoltori di lingua indoeuropea[63], provenienti da Creta[64] e dal Medio Oriente direttamente nei siti occidentali[65]. A cosa è dovuto lo spostamento di masse umane provenienti da una regione come quella Mediorientale e Anatolica dove si sviluppò la prima forma di agricoltura? Credo che la causa di ciò sia da individuare nei cambiamenti climatici dovuti al termine della Glaciazione di Wurm e alla crisi climatico-ambientale che colpì il Medioriente attorno all’8000 BP e provocò un radicale cambiamento nell’uso del territorio[66]. L’aplogruppo G, che accomuna Inghilterra, Mediterraneo occidentale e orientale, manifesta tuttora, nella popolazione sarda, un’incidenza che va dal 20-40%, forse tra le percentuali più alte del Mediterraneo[67]. Questo dato risulta importantissimo, in quanto per i ricercatori pone un preciso riferimento negli eventi preistorici dell’Europa occidentale. Con un buon margine di sicurezza si può dichiarare che i gruppi umani sardi del Neolitico Antico (6300-5800 a.C), forse attraverso gli scambi di selce, nefrite, ossidiana e sale, furono i primi agricoltori[68] dell’Europa occidentale o, comunque, concorsero per primi a diffondere l’agricoltura nell’Europa occidentale[69]. I primi ricettori della rivoluzione neolitica, di conseguenza, sono parsi infatti tutti quei contesti terrieri che contornano il complesso Sardo-Corso: l’arco iberico-franco-ligure-toscano e l’immediato Nord Africa del Tell Atlas e delle Aures Mountains[70], aprendo una porta culturale[71] che in seguito lascerà spazi a scambi commerciali e culturali. Curiosamente la diffusione del mtDNA aplogruppo H è considerata una reminescenza[72] del YDNA aplogruppo G subclade G2a tanto che si mostra, nelle sue varianti, distribuito nelle medesime zone[73], tra le quali la Sardegna[74], inquadrate come prime ricettrici dell’agricoltura[75]. Gli studi di settore individuano persino due percorsi di diffusione dell’agricoltura all’interno dell’Europa, contemporanei[76] all’arrivo della rivoluzione neolitica nelle coste continentali: il primo segue il bacino fluviale del Rodano, la regione di Glozel e parte del bacino fluviale del Reno; il secondo si snoda lungo il bacino dei fiumi Garonna e Dordogna e giunge addirittura alle propaggini meridionali della Bretagna seguendo il bacino della Loira[77]. E’ doveroso segnalare che questo movimento è compatibile con il ripopolamento dell’Europa post glaciale e con la conseguente diffusione del mtDNA aplogruppo H. Il movimento di diffusione verso l’Europa centrale e settentrionale di questo aplogruppo si può individuare come avente origine nei rifugi dell’Europa Sud-occidentale[78]. E’ proprio lungo questi percorsi che verosimilmente si può credere che i Sardi, oltre alla distribuzione dell’ossidiana, allo scambio di selce e all’approvvigionamento di altri prodotti, abbiano diffuso l’agricoltura nell’Europa occidentale[79] attraverso una serie di migrazioni verso la Penisola o a svariate tratte inserite nelle reti dei traffici. A questa conclusione ci portano i recenti studi proposti a seguito delle analisi condotte sulla Mummia di Similaun, i cui risultati sulle componenti genetiche rivelano una stretta parentela con le genti sarde stanziate sulla penisola (non giunte attraverso “recenti” migrazioni dalla Sardegna), inserite e “molto vicine” geneticamente alle popolazioni poste nella regione Alpina meridionale di 5000 anni fa[80]. Mentre un altro studio[81] evidenzia il ruolo delle pratiche agricole e lo correla con il ripopolamento post glaciale dell’Europa Occidentale ponendo serie fondamenta all’ipotesi che vede un ripopolamento operato da Sardi o comunque da Europei Occidentali. Cosa accadde geneticamente nell’Europa Occidentale contemporaneamente all’introduzione dell’agricoltura, probabilmente operata dai Sardi? Si può osservare che le regioni indicate precedentemente si ritrovano omogenee dal punto di vista “sanguineo” mostrando infatti, dalla Bretagna fino al Reno, dalla Loira sino all’Atlante orientale, passando per le Baleari e il complesso Sardo-Corso, la presenza dei gruppi umani distinguibili in aplogruppi I2, I2a, I2b G2a, E1b, E-V13[82]. Proprio in questo momento è corretto considerare l’identità dei gruppi e i loro sforzi finalizzati al mantenimento delle relazioni di parentela tra partners di scambio[83] quale chiave di lettura per capire le motivazioni di integrazione tra componenti di diverse “famiglie genetiche” distribuitesi sulle sponde del Mediterraneo. Dal bacino della Loira (in generale viene considerato così il Nord-ovest della Francia) si osserva la nascita della Cultura Megalitica (V millen. a.C.) e della copertura a corbellatura[84], con successivo irradiamento culturale alle regioni correlate da scambi commerciali. Questa considerazione meriterebbe un’ampia revisione che spieghi come mai l’agricoltura si propaghi dalla Sardegna alla Bretagna in circa 500 anni e il Megalitismo e la corbellatura si irradino, seguendo il percorso inverso, in 2000 anni[85] (III millen. a.C.), anziché considerare un eventuale contatto preferenziale dato dai legami di sangue tra le rispettive popolazioni[86]. Si è evidenziata questa considerazione per ribadire che per alcuni studiosi la comparsa e la diffusione dei megaliti, in qualche modo legata all’elemento marino[87], segna l’inizio dell’agricoltura[88], ed è in virtù di ciò che ci si chiede dove, e per opera di chi, sia effettivamente nato il Megalitismo. Ed è proprio in base ai legami di sangue[89], alle affinità linguistiche e alle predisposizioni culturali che, andando ad analizzare le evidenze rinvenute, si cerca di sviluppare lo studio relativo all’arte parietale e mobile che compare nel Mediterraneo Occidentale. Innanzitutto preme sottolineare che dal punto di vista culturale l’arte del Paleolitico Superiore debba essere considerata come un’unità omogenea, non subordinata a luoghi ben precisi o tempi particolari, ma di certo palesemente elaborata rispettando gli stessi canoni ovunque: scelta di contesti molto simili, medesime tecniche di produzione di immagini, medesimi temi riprodotti quali grandi animali, pochissimi esseri umani e segni geometrici[90]. In secondo luogo, secondo studi antropologici autorevoli[91], i simboli non figurativi mostrano chiaramente un’intenzionalità di realizzazione da parte degli ideatori stessi, oltre a manifestare un significato intrinseco purtroppo per noi ancora incompreso, probabilmente ben più importante dell’intenzionalità nel realizzare le figure riconoscibili[92]. Per via della carenza di cronologie assolute, relative alle manifestazioni di arte rupestre, l’analisi finalizzata a datare delle figure deve obbligatoriamente operare nella ricerca di confronti e comparazioni, sia delle forme che degli elementi impiegati, con altri contesti corrispondenti per manifestazioni artistiche. L’assenza quindi di materiali archeologici associabili (nei casi peninsulari portati a paragone) ha permesso unicamente un confronto iconografico. Questa considerazione, generalmente applicata nella ricerca in campo europeo, non trova applicazione conseguente in Sardegna dove purtroppo ancora oggi, nonostante si attendano i risultati di analisi sui pigmenti delle pitture rupestri, si ritiene che i sicuri elementi di cronologia relativa consentano di stabilire che le incisioni siano più recenti della pittura e della scultura[93], nonostante i criteri usati nella penisola[94] e i principi dettati dall’Università - appresi nei testi consigliati[95] - recitino l’opposto.
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