martedì 30 aprile 2013
Gli Tsunami italiani dal Neolitico al medioevo
Gli Tsunami italiani dal Neolitico al medioevo.
Secondo il “catalogo degli tsunami italiani” e i numerosi studi eseguiti dal Prof. Stefano Tinti (tra cui “The New Catalogue of Italian Tsunamis”, redatto con A. Maramai e L. Graziani, 2004), negli ultimi duemila anni l’Italia è stata interessata da una settantina di tsunami. Considerando invece soltanto gli ultimi quattrocento anni, periodo in cui i dati sono più certi e sicuri, ogni secolo il nostro paese è stato afflitto da almeno una quindicina di maremoti, molti dei quali tuttavia di intensità labile e sconosciuti ai più, taluni ancora da verificare scientificamente. Potrà forse sorprendere che, se da un lato esistono zone in cui i fenomeni si sono sviluppati con maggiore frequenza ed intensità (su tutti la Sicilia Orientale e lo Stretto di Messina), le coste di ogni regione italiana hanno subìto tsunami, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia. Ciò anche per un motivo ben preciso: il nostro paese, oltre che “geologicamente giovane”, è al centro del Mediterraneo, bacino in cui (secondo la teoria della tettonica a zolle) si scontrano la placca africana e quella euroasiatica. Le zone di contatto tra placche (dette aree di subduzione) rappresentano le cosiddette “sorgenti tsunamigeniche” per antonomasia ovvero le aree in cui possono generarsi tsunami a seguito di violenti terremoti connessi al movimento reciproco delle placche (o zolle). In particolare, nel Mediterraneo tali sorgenti sono posizionate al largo dell’Algeria, nell’Italia Meridionale, nel Mar Egeo e nel Mar di Marmara (Tinti S., “I maremoti delle coste italiane”, Geoitalia, 2007). Molte di esse (ed in particolare le loro diramazioni secondarie, appartenenti alle microplacche) sono alla base della maggior parte degli tsunami che hanno colpito il nostro paese dove però si registra una sorta di anomalia molto particolare. Secondi i dati storici e scientifici, in Italia infatti, a conferma di quanto la nostra penisola sia molto attiva dal punto di vista geodinamico, la percentuale di tsunami dovuti a cause non sismiche (eruzioni e frane) risulta superiore, e non di poco, rispetto al resto del mondo.
Lo tsunami dimenticato.
Il primo tsunami (con riscontri oggettivi) verificatosi sulle nostre coste fu infatti generato proprio da una frana. Bisogna però viaggiare molto indietro nel tempo. All’incirca nel 6000 A.C., dunque ben 8000 anni fa, in pieno periodo neolitico, si verificò la catastrofe naturale più devastante che abbia mai interessato le coste italiane.
Secondo il “catalogo degli tsunami italiani” e i numerosi studi eseguiti dal Prof. Stefano Tinti (tra cui “The New Catalogue of Italian Tsunamis”, redatto con A. Maramai e L. Graziani, 2004), negli ultimi duemila anni l’Italia è stata interessata da una settantina di tsunami. Considerando invece soltanto gli ultimi quattrocento anni, periodo in cui i dati sono più certi e sicuri, ogni secolo il nostro paese è stato afflitto da almeno una quindicina di maremoti, molti dei quali tuttavia di intensità labile e sconosciuti ai più, taluni ancora da verificare scientificamente. Potrà forse sorprendere che, se da un lato esistono zone in cui i fenomeni si sono sviluppati con maggiore frequenza ed intensità (su tutti la Sicilia Orientale e lo Stretto di Messina), le coste di ogni regione italiana hanno subìto tsunami, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia. Ciò anche per un motivo ben preciso: il nostro paese, oltre che “geologicamente giovane”, è al centro del Mediterraneo, bacino in cui (secondo la teoria della tettonica a zolle) si scontrano la placca africana e quella euroasiatica. Le zone di contatto tra placche (dette aree di subduzione) rappresentano le cosiddette “sorgenti tsunamigeniche” per antonomasia ovvero le aree in cui possono generarsi tsunami a seguito di violenti terremoti connessi al movimento reciproco delle placche (o zolle). In particolare, nel Mediterraneo tali sorgenti sono posizionate al largo dell’Algeria, nell’Italia Meridionale, nel Mar Egeo e nel Mar di Marmara (Tinti S., “I maremoti delle coste italiane”, Geoitalia, 2007). Molte di esse (ed in particolare le loro diramazioni secondarie, appartenenti alle microplacche) sono alla base della maggior parte degli tsunami che hanno colpito il nostro paese dove però si registra una sorta di anomalia molto particolare. Secondi i dati storici e scientifici, in Italia infatti, a conferma di quanto la nostra penisola sia molto attiva dal punto di vista geodinamico, la percentuale di tsunami dovuti a cause non sismiche (eruzioni e frane) risulta superiore, e non di poco, rispetto al resto del mondo.
Lo tsunami dimenticato.
Il primo tsunami (con riscontri oggettivi) verificatosi sulle nostre coste fu infatti generato proprio da una frana. Bisogna però viaggiare molto indietro nel tempo. All’incirca nel 6000 A.C., dunque ben 8000 anni fa, in pieno periodo neolitico, si verificò la catastrofe naturale più devastante che abbia mai interessato le coste italiane.
lunedì 29 aprile 2013
La distruzione di Micene nel 1200 a.C.
La distruzione di Micene nel 1200 a.C.
di Becky Oskin
I Micenei sono considerati i primi Greci. Hanno ispirato e forse tirato le fila della leggendaria Guerra di Troia. A essi si sono ispirate opere famose nel mondo, come l'Iliade e l'Odissea.
La loro cultura si è interrotta improvvisamente intorno al 1200 a.C., una data che marca l'inizio di un'età buia in Grecia e in altre parti del Mediterraneo.
La scomparsa di Micene costituisce uno dei numerosi misteri mediterranei. Numerose ipotesi sono state costruite a spiegarla: si va dall'aggressione di invasori vari, alla rivolta di classi popolari o servili.
Alcuni ricercatori includono oggi tra le più probabili cause della distruzione e dell'abbandono della potente Città Stato uno dei frequenti terremoti che scuotono la regione, di fatto attraversata da una delle più intricate e fitte intersezioni mondiali di linee di faglia estremamente attive.
Anche le rovine del palazzo fortificato di Tirinto potrebbe avere subito la medesima sorte e i geologi sperano di trovare prove sostanziali che confermino questa ipotesi. La Tirinto Micenea era una città costruita su di una rupe calcarea, fortificata con mura possenti, definite Ciclopiche, in riferimento al mitico gigante Polifemo, l'unico in possesso della forza necessaria per portarvi e assemblare quelle enormi pietre.
Le mura di Tirinto sono alte circa 10 metri e spesse fino ad 8 metri, composte di blocchi del peso che raggiunge le 13 tonnellate. Un'opera stupefacente, ottenuta con l'ausilio della forza animale e di quella umana.
Klaus-G. Hinzen, sismologo dell'Università tedesca di Colonia e direttore della ricerca, ha presentato i risultati preliminari del lavoro della sua squadra il 19 Aprile 2013 a Salt Lake City, al meeting annuale della Seismological Society of America.
Hinzen e i suoi collaboratori hanno creato un modello 3D dell'antica città di Tirinto, basato sulle scansioni laser effettuate sulle strutture superstiti.
di Becky Oskin
I Micenei sono considerati i primi Greci. Hanno ispirato e forse tirato le fila della leggendaria Guerra di Troia. A essi si sono ispirate opere famose nel mondo, come l'Iliade e l'Odissea.
La loro cultura si è interrotta improvvisamente intorno al 1200 a.C., una data che marca l'inizio di un'età buia in Grecia e in altre parti del Mediterraneo.
La scomparsa di Micene costituisce uno dei numerosi misteri mediterranei. Numerose ipotesi sono state costruite a spiegarla: si va dall'aggressione di invasori vari, alla rivolta di classi popolari o servili.
Alcuni ricercatori includono oggi tra le più probabili cause della distruzione e dell'abbandono della potente Città Stato uno dei frequenti terremoti che scuotono la regione, di fatto attraversata da una delle più intricate e fitte intersezioni mondiali di linee di faglia estremamente attive.
Anche le rovine del palazzo fortificato di Tirinto potrebbe avere subito la medesima sorte e i geologi sperano di trovare prove sostanziali che confermino questa ipotesi. La Tirinto Micenea era una città costruita su di una rupe calcarea, fortificata con mura possenti, definite Ciclopiche, in riferimento al mitico gigante Polifemo, l'unico in possesso della forza necessaria per portarvi e assemblare quelle enormi pietre.
Le mura di Tirinto sono alte circa 10 metri e spesse fino ad 8 metri, composte di blocchi del peso che raggiunge le 13 tonnellate. Un'opera stupefacente, ottenuta con l'ausilio della forza animale e di quella umana.
Klaus-G. Hinzen, sismologo dell'Università tedesca di Colonia e direttore della ricerca, ha presentato i risultati preliminari del lavoro della sua squadra il 19 Aprile 2013 a Salt Lake City, al meeting annuale della Seismological Society of America.
Hinzen e i suoi collaboratori hanno creato un modello 3D dell'antica città di Tirinto, basato sulle scansioni laser effettuate sulle strutture superstiti.
domenica 28 aprile 2013
Eruzione sull'Etna
Eruzione sull'Etna, la 13sima dell'anno
Fontane di fuoco alte centinaia di metri
Le fontane di lava sono visibili anche da Catania e Taormina.
Una violenta eruzione è in corso sull'Etna. Dai crateri sommitali emergono fontane di fuoco alte centinaia di metri ed emergono diverse lunghe colate che si dirigono in zone desertiche del vulcano. Il fenomeno è visibile da Catania e Taormina.
L’Etna è un complesso vulcanico siciliano originatosi nel Quaternario e ancora attivo. Con le diverse eruzioni ha modificato il paesaggio, minacciando spesso le comunità che nei millenni si sono insediate intorno. E' caratterizzato da una ricca varietà di ambienti che alterna paesaggi urbani, folti boschi con diverse specie botaniche endemiche e aree desolate ricoperte da roccia vulcanica e periodicamente soggette a innevamento alle maggiori quote.
Alcune leggende accompagnano la sua storia geologica. A proposito del dio Eolo, il re dei venti, si diceva che avesse imprigionato i venti sotto le caverne dell'Etna. Secondo il poeta Eschilo, il gigante Tifone fu confinato nell'Etna e fu motivo di eruzioni. Un altro gigante, Encelado, si ribellò contro gli dei, venne ucciso e fu bruciato nell'Etna. Su Efesto o Vulcano, dio del fuoco e della metallurgia e fabbro degli dei, venne detto di aver avuto la sua fucina sotto l'Etna e di aver domato il demone del fuoco Adranos e di averlo guidato fuori dalla montagna, mentre i Ciclopi vi tenevano un'officina di forgiatura nella quale producevano le saette usate come armi da Zeus. Si supponeva che il "mondo dei morti" greco, il Tartaro, fosse situato sotto l'Etna.
Su Empedocle, un importante filosofo presocratico e uomo politico greco del V a.C., fu detto che si buttò nel cratere del vulcano, anche se in realtà sembra che sia morto in Grecia. Si dice che quando l'Etna eruttò nel 252, un anno dopo il martirio di Santa Agata, il popolo di Catania prese il velo della Santa, rimasto intatto dalle fiamme del suo martirio, e ne invocò il nome. Si dice che a seguito di ciò l'eruzione finì, mentre il velo divenne rosso sangue, e che per questo motivo i devoti invocano il suo nome contro il fuoco e fulmini.
Re Artù risiederebbe, secondo la leggenda, in un castello sull'Etna, il cui celato ingresso sarebbe una delle tante e misteriose grotte che la costellano. Il mitico re dei Sassoni appare anche in una leggenda, quella del cavallo del vescovo, narrata da Gervasio di Tilbury. Secondo una leggenda inglese l'anima della regina Elisabetta I d'Inghilterra ora risiede nell'Etna, a causa di un patto che lei fece col diavolo in cambio del suo aiuto per governare il regno.
L'eruzione più lunga a memoria storica è quella del luglio 1614. Il fenomeno durò ben dieci anni ed emise oltre un miliardo di metri cubi di lava, coprendo 21 chilometri quadrati di superficie sul versante settentrionale del vulcano. Le colate ebbero origine a quota 2550 e presentarono la caratteristica particolare di ingrottarsi ed emergere poi molto più a valle fino alla quota di 975 m s.l.m., al di sopra comunque dei centri abitati. Lo svuotamento dei condotti di ingrottamento originò tutta una serie di grotte laviche, oggi visitabili, come la Grotta del Gelo e la Grotta dei Lamponi.
Nel 1669 avvenne l'eruzione più conosciuta e distruttiva, che raggiunse e superò, dal lato occidentale, la città di Catania; ne distrusse la parte esterna fino alle mura, circondando il Castello Ursino e superandolo creò oltre un chilometro di nuova terraferma. L'eruzione fu annunciata da un fortissimo boato e da un terremoto che distrusse il paese di Nicolosi e danneggiò Trecastagni, Pedara, Mascalucia e Gravina. Poi si aprì una enorme fenditura a partire dalla zona sommitale e, sopra Nicolosi, si iniziò l'emissione di un'enorme quantità di lava. Il gigantesco fronte lavico avanzò inesorabilmente seppellendo Malpasso, Mompilieri, Camporotondo, San Pietro Clarenza, San Giovanni Galermo (oggi frazione di Catania) e Misterbianco oltre a villaggi minori dirigendosi verso il mare. Si formarono i due coni piroclastici che oggi sono denominati Monti Rossi, a Nord di Nicolosi. L'eruzione durò 122 giorni ed emise un volume di lava di circa 950 milioni di metri cubi.
Nel 1892 un'altra eruzione portò alla formazione, a circa 1800 m di quota, del complesso dei Monti Silvestri. Nel 1928, ai primi di novembre, iniziò l'eruzione più distruttiva del XX secolo. Essa portò, in pochi giorni, alla distruzione della cittadina di Mascali. La colata fuoriuscì da diverse bocche laterali sul versante orientale del vulcano e minacciò anche Sant'Alfio e Nunziata.
L'eruzione del 5 aprile del 1971 ebbe inizio a quota 3050 da una voragine dalla quale l'emissione di prodotti piroclastici formò l'attuale cono sub-terminale di Sud-est. Vennero distrutti l'Osservatorio Vulcanologico e la Funivia dell'Etna. Ai primi di maggio si aprì una lunga fenditura a quota 1800 m s.l.m. che raggiunse Fornazzo e minacciò Milo. La lava emessa fu di 75 milioni di metri cubi. L'eruzione del 1981 ebbe inizio il 17 marzo e si rivelò abbastanza minacciosa: in appena poche ore si aprirono fenditure da quota 2550 via via fino a 1140. Le lave emesse, molto fluide, raggiunsero e tagliarono la Ferrovia Circumetnea; un braccio si arrestò appena 200 metri prima di Randazzo. Il fronte lavico tagliò la strada provinciale e la Ferrovia Taormina-Alcantara-Randazzo delle Ferrovie dello Stato, proseguendo fino alle sponde del fiume Alcantara. Si temette la distruzione della pittoresca e fertile vallata, ma la furia del vulcano si arrestò alla quota di 600 m.
Il 1983 è da ricordare oltre che per la durata dell'eruzione, 131 giorni, con 100 milioni di metri cubi di lava emessi (che distrussero impianti sportivi e nuovamente la funivia dell'Etna), anche per il primo tentativo al mondo di deviazione per mezzo di esplosivo della colata lavica. L'eruzione si presentava abbastanza imprevedibile, con numerosi ingrottamenti ed emersioni di lava fluida a valle, che fecero temere per i centri abitati di Ragalna, Belpasso e Nicolosi. Pur tra molte polemiche, e divergenze tra gli studiosi, vennero praticati, con notevole difficoltà, date le altissime temperature che arrivavano a rovinare le punte da foratura, decine e decine di fornelli per consentire agli artificieri di immettere le cariche esplosive. La colata venne parzialmente deviata; l'eruzione ebbe comunque termine di lì a poco.
Il 14 dicembre del 1991 ebbe inizio la più lunga eruzione del XX secolo (durata 473 giorni), con l'apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di Sud-est, alle quote da 3100 m a 2400 m s.l.m. in direzione della Valle del Bove. L'esteso campo lavico ricoprì la zona detta del Trifoglietto e si diresse verso il Salto della Giumenta, che superò il 25 dicembre 1991 dirigendosi verso la Val Calanna. La situazione fu giudicata pericolosa per la città di Zafferana Etnea e venne messa in opera, una strategia di contenimento concertata tra la Protezione civile e il Genio dell'Esercito. In venti giorni venne eretto un argine di venti metri d'altezza che, per due mesi, resse alla spinta del fronte lavico. La tecnica dell'erezione di barriere in terra per mezzo di lavoro ininterrotto di grandi ruspe ed escavatori a cucchiaio, Questa tecnica in seguito si rivelò efficace nel tentativo di salvataggio del rifugio Sapienza nel corso dell'eruzione 2001, ed è stata oggetto di studio da parte di équipes internazionali, tra cui tecnici giapponesi. Tutto si rivelò efficace nel rallentare il flusso lavico guadagnando tempo ma ancora una volta non risolutivo in caso di persistenza dell'evento eruttivo. Furono chiamati gli incursori della Marina che operarono nel canale principale, a quota 2200 m, con cariche esplosive al plastico (C4) e speciali cariche esplosive cave per deviare il flusso di lava ed inviarla così nel canale d'invito nella valle del Bove, riportando indietro di circa sei mesi la posizione del fronte lavico. L'operazione riuscì perfettamente, utilizzando una carica di C4 pari a 7 tonnellate e 30 cariche cave, il tutto fatto esplodere in rapidissima successione facendo crollare il diaframma che separava il magma dal canale d'invito e successivamente ostruire con grandi macigni di pietra lavica il canale principale che scendeva pericolosamente verso Zafferana Etnea.
Fontane di fuoco alte centinaia di metri
Le fontane di lava sono visibili anche da Catania e Taormina.
Una violenta eruzione è in corso sull'Etna. Dai crateri sommitali emergono fontane di fuoco alte centinaia di metri ed emergono diverse lunghe colate che si dirigono in zone desertiche del vulcano. Il fenomeno è visibile da Catania e Taormina.
L’Etna è un complesso vulcanico siciliano originatosi nel Quaternario e ancora attivo. Con le diverse eruzioni ha modificato il paesaggio, minacciando spesso le comunità che nei millenni si sono insediate intorno. E' caratterizzato da una ricca varietà di ambienti che alterna paesaggi urbani, folti boschi con diverse specie botaniche endemiche e aree desolate ricoperte da roccia vulcanica e periodicamente soggette a innevamento alle maggiori quote.
Alcune leggende accompagnano la sua storia geologica. A proposito del dio Eolo, il re dei venti, si diceva che avesse imprigionato i venti sotto le caverne dell'Etna. Secondo il poeta Eschilo, il gigante Tifone fu confinato nell'Etna e fu motivo di eruzioni. Un altro gigante, Encelado, si ribellò contro gli dei, venne ucciso e fu bruciato nell'Etna. Su Efesto o Vulcano, dio del fuoco e della metallurgia e fabbro degli dei, venne detto di aver avuto la sua fucina sotto l'Etna e di aver domato il demone del fuoco Adranos e di averlo guidato fuori dalla montagna, mentre i Ciclopi vi tenevano un'officina di forgiatura nella quale producevano le saette usate come armi da Zeus. Si supponeva che il "mondo dei morti" greco, il Tartaro, fosse situato sotto l'Etna.
Su Empedocle, un importante filosofo presocratico e uomo politico greco del V a.C., fu detto che si buttò nel cratere del vulcano, anche se in realtà sembra che sia morto in Grecia. Si dice che quando l'Etna eruttò nel 252, un anno dopo il martirio di Santa Agata, il popolo di Catania prese il velo della Santa, rimasto intatto dalle fiamme del suo martirio, e ne invocò il nome. Si dice che a seguito di ciò l'eruzione finì, mentre il velo divenne rosso sangue, e che per questo motivo i devoti invocano il suo nome contro il fuoco e fulmini.
Re Artù risiederebbe, secondo la leggenda, in un castello sull'Etna, il cui celato ingresso sarebbe una delle tante e misteriose grotte che la costellano. Il mitico re dei Sassoni appare anche in una leggenda, quella del cavallo del vescovo, narrata da Gervasio di Tilbury. Secondo una leggenda inglese l'anima della regina Elisabetta I d'Inghilterra ora risiede nell'Etna, a causa di un patto che lei fece col diavolo in cambio del suo aiuto per governare il regno.
L'eruzione più lunga a memoria storica è quella del luglio 1614. Il fenomeno durò ben dieci anni ed emise oltre un miliardo di metri cubi di lava, coprendo 21 chilometri quadrati di superficie sul versante settentrionale del vulcano. Le colate ebbero origine a quota 2550 e presentarono la caratteristica particolare di ingrottarsi ed emergere poi molto più a valle fino alla quota di 975 m s.l.m., al di sopra comunque dei centri abitati. Lo svuotamento dei condotti di ingrottamento originò tutta una serie di grotte laviche, oggi visitabili, come la Grotta del Gelo e la Grotta dei Lamponi.
Nel 1669 avvenne l'eruzione più conosciuta e distruttiva, che raggiunse e superò, dal lato occidentale, la città di Catania; ne distrusse la parte esterna fino alle mura, circondando il Castello Ursino e superandolo creò oltre un chilometro di nuova terraferma. L'eruzione fu annunciata da un fortissimo boato e da un terremoto che distrusse il paese di Nicolosi e danneggiò Trecastagni, Pedara, Mascalucia e Gravina. Poi si aprì una enorme fenditura a partire dalla zona sommitale e, sopra Nicolosi, si iniziò l'emissione di un'enorme quantità di lava. Il gigantesco fronte lavico avanzò inesorabilmente seppellendo Malpasso, Mompilieri, Camporotondo, San Pietro Clarenza, San Giovanni Galermo (oggi frazione di Catania) e Misterbianco oltre a villaggi minori dirigendosi verso il mare. Si formarono i due coni piroclastici che oggi sono denominati Monti Rossi, a Nord di Nicolosi. L'eruzione durò 122 giorni ed emise un volume di lava di circa 950 milioni di metri cubi.
Nel 1892 un'altra eruzione portò alla formazione, a circa 1800 m di quota, del complesso dei Monti Silvestri. Nel 1928, ai primi di novembre, iniziò l'eruzione più distruttiva del XX secolo. Essa portò, in pochi giorni, alla distruzione della cittadina di Mascali. La colata fuoriuscì da diverse bocche laterali sul versante orientale del vulcano e minacciò anche Sant'Alfio e Nunziata.
L'eruzione del 5 aprile del 1971 ebbe inizio a quota 3050 da una voragine dalla quale l'emissione di prodotti piroclastici formò l'attuale cono sub-terminale di Sud-est. Vennero distrutti l'Osservatorio Vulcanologico e la Funivia dell'Etna. Ai primi di maggio si aprì una lunga fenditura a quota 1800 m s.l.m. che raggiunse Fornazzo e minacciò Milo. La lava emessa fu di 75 milioni di metri cubi. L'eruzione del 1981 ebbe inizio il 17 marzo e si rivelò abbastanza minacciosa: in appena poche ore si aprirono fenditure da quota 2550 via via fino a 1140. Le lave emesse, molto fluide, raggiunsero e tagliarono la Ferrovia Circumetnea; un braccio si arrestò appena 200 metri prima di Randazzo. Il fronte lavico tagliò la strada provinciale e la Ferrovia Taormina-Alcantara-Randazzo delle Ferrovie dello Stato, proseguendo fino alle sponde del fiume Alcantara. Si temette la distruzione della pittoresca e fertile vallata, ma la furia del vulcano si arrestò alla quota di 600 m.
Il 1983 è da ricordare oltre che per la durata dell'eruzione, 131 giorni, con 100 milioni di metri cubi di lava emessi (che distrussero impianti sportivi e nuovamente la funivia dell'Etna), anche per il primo tentativo al mondo di deviazione per mezzo di esplosivo della colata lavica. L'eruzione si presentava abbastanza imprevedibile, con numerosi ingrottamenti ed emersioni di lava fluida a valle, che fecero temere per i centri abitati di Ragalna, Belpasso e Nicolosi. Pur tra molte polemiche, e divergenze tra gli studiosi, vennero praticati, con notevole difficoltà, date le altissime temperature che arrivavano a rovinare le punte da foratura, decine e decine di fornelli per consentire agli artificieri di immettere le cariche esplosive. La colata venne parzialmente deviata; l'eruzione ebbe comunque termine di lì a poco.
Il 14 dicembre del 1991 ebbe inizio la più lunga eruzione del XX secolo (durata 473 giorni), con l'apertura di una frattura eruttiva alla base del cratere di Sud-est, alle quote da 3100 m a 2400 m s.l.m. in direzione della Valle del Bove. L'esteso campo lavico ricoprì la zona detta del Trifoglietto e si diresse verso il Salto della Giumenta, che superò il 25 dicembre 1991 dirigendosi verso la Val Calanna. La situazione fu giudicata pericolosa per la città di Zafferana Etnea e venne messa in opera, una strategia di contenimento concertata tra la Protezione civile e il Genio dell'Esercito. In venti giorni venne eretto un argine di venti metri d'altezza che, per due mesi, resse alla spinta del fronte lavico. La tecnica dell'erezione di barriere in terra per mezzo di lavoro ininterrotto di grandi ruspe ed escavatori a cucchiaio, Questa tecnica in seguito si rivelò efficace nel tentativo di salvataggio del rifugio Sapienza nel corso dell'eruzione 2001, ed è stata oggetto di studio da parte di équipes internazionali, tra cui tecnici giapponesi. Tutto si rivelò efficace nel rallentare il flusso lavico guadagnando tempo ma ancora una volta non risolutivo in caso di persistenza dell'evento eruttivo. Furono chiamati gli incursori della Marina che operarono nel canale principale, a quota 2200 m, con cariche esplosive al plastico (C4) e speciali cariche esplosive cave per deviare il flusso di lava ed inviarla così nel canale d'invito nella valle del Bove, riportando indietro di circa sei mesi la posizione del fronte lavico. L'operazione riuscì perfettamente, utilizzando una carica di C4 pari a 7 tonnellate e 30 cariche cave, il tutto fatto esplodere in rapidissima successione facendo crollare il diaframma che separava il magma dal canale d'invito e successivamente ostruire con grandi macigni di pietra lavica il canale principale che scendeva pericolosamente verso Zafferana Etnea.
sabato 27 aprile 2013
La città di Roma fondata dagli Etruschi? di Massimo Pittau
La città di Roma fondata dagli Etruschi?
di Massimo Pittau
Molti autori greci, ormai soggiogati anche sul piano psicologico e su quello culturale, dalla potenza dei dominatori Romani, fecero a gara per dimostrare che in effetti Roma era una “fondazione greca”. Uno dei più importanti di questi autori, Dionigi di Alicarnasso, si lasciò sfuggire a denti stretti la frase secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca). Ebbene, numerose e consistenti prove linguistiche sono in grado di dimostrare che effettivamente Roma come città fu fondata, non dai Latini o dai Sabini, bensì dagli Etruschi.
Many Greek authors, at that time also psychologically and culturally captivated by the power of the Roman rulers, competed in demonstrating that in reality Rome was a "Greek foundation". One of the most important of these authors, Dionysius of Halicarnassus, let out reluctantly the sentence: "several writers told that Rome itself was a Tyrrhenian city"(that is, Etruscan). Well, much consistent linguistic evidence does demonstrate that in fact Rome was founded by Etruscans and not by Latins or Sabines.
È cosa abbastanza nota che dopo la conquista della Grecia da parte dei Romani, molti autori greci, ormai soggiogati non soltanto sul piano militare e politico ma anche su quello psicologico dalla potenza dei dominatori, fecero a gara per dimostrare che in effetti Roma era una “fondazione greca” (κτίσις ελληνική). E ciò fecero anche fondandosi sulla paretimologia del nome di Roma, fatto derivare abusivamente dall’appellativo greco ρώμη (rhōmē) «forza». Era questa indubbiamente una etimologia del tutto campata in aria, anche perché è illogico ritenere che all’inizio, quando Roma non era altro che un piccolissimo centro abitato, coloro che le diedero il nome potessero prevedere l’incredibile sviluppo futuro, militare politico e culturale, di Roma, che sarebbe finita con l’essere considerata il caput mundi.
In uno dei più importanti scrittori greci che intrapresero a trattare la storia di Roma, Dionigi di Alicarnasso (circa 60 a. C.- 7 d. C) si trova una frase assai importante, che suona testualmente: τήν τε Ρώμην αυτήν πολλόι τών συγγραφέων Τυρρηνίδα πόλιν είναι υπέλαβον «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca) (I, 29, 2).
A questa affermazione di Dionigi noi moderni dobbiamo attribuire la massima importanza, per la ragione che si presenta come uscita dalla sua bocca a “denti stetti”, dato che anche lui tendeva a dimostrare che Roma non era affatto una «fondazione etrusca», come molti scrittori avevano detto, bensì era una «fondazione greca».
Che cosa esattamente Dionigi avrà voluto indicare con la sua citata frase e precisamente “quanti” saranno stati gli scrittori da lui semplicemente accennati? A me sembra ovvio e anche prudente interpretare nel seguente modo: se egli avesse detto «alcuni (ένιοι) degli scrittori» noi avremmo adesso interpretato che questi fossero quattro o cinque; ma, dato che ha detto «molti (πολλόι) degli scrittori» noi adesso dobbiamo interpretare che fossero almeno una decina. Il quale pertanto è un bel numero di scrittori antichi che sostenevano appunto essere «Roma una città Etrusca».
Oltre ed a prescindere da ciò, a mio giudizio esistono numerose e consistenti prove che dimostrano che effettivamente «Roma era una fondazione etrusca»; e queste sono prove di carattere storico, religioso, culturale e anche e soprattutto di carattere linguistico, come io mi accingo a dimostrare minutamente.
Le prove linguistiche.
Sono di quasi certa origine etrusca il toponimo Roma ed altri che riguardano da vicino la città e i suoi stretti dintorni:
Roma molto probabilmente è da riportare all’appellativo, che Plutarco (Romolo 4.1) presenta come “antico latino”, ruma «mammella». Questo appellativo però trova riscontro in alcuni vocaboli etruschi documentati in un periodo precedente: etnico RUMATE, RUMATHE e RUMAX = «Romano», RUMITRINE(-THI) = «nel(lo Stato) Romano», gentilizio RUMILNA, RUMLNA = latini Romatius, Romilius e Romulius (DICLE 147, 148). L’appellativo ruma «mammella» molto probabilmente faceva riferimento a quella specie di prominenza o di promontorio a forma di “mammella” femminile appunto, che si è formata nella riva destra del Tevere (cioè in quella Veientana, ossia etrusca), di fronte all'isola Tiberina e all'odierno ponte Palatino (per la trattazione più ampia si veda LEGL 2ª Appendice; TIOE capo 4).
Tiberis, Thybris, Thebris «Tevere». C’è innanzi tutto da precisare che in origine il Tevere non scorreva al centro del Lazio, bensì segnava il confine del Latium vetus a meridione e dell’Etruria a settentrione e inoltre giocava un ruolo molto importante nella vita dei Romani e degli Etruschi, sia per l’abbeveraggio degli uomini e delle loro bestie, sia per l’innaffiamento degli orti, sia infine come via di trasporto per gli uomini, le bestie e le merci, in primo luogo il sale. E per queste importanti ragioni il fiume era stato anche divinizzato col nome di Tiberinus (Ennio, Ann. 54 V; Virgilio, Geor. 4.369, Aen. VIII 72; Livio, 2.10.11). Tanto è vero che il collegio dei Pontifices, oltre che avere la cura tecnica del ponte Sublicio, effettuava funzioni sacre nelle sue due testate (Varrone, Lat. 5.83). Per effetto di questa divinizzazione si comprende il fatto che ne fossero derivati alcuni antroponimi, latini ed etruschi, aventi un valore teoforico o sacrale: lat. Tiberinius, Tiberinus da confrontare con quelli etr. THEPRINA, [TH]EPRINIE, THEFRINA; lat. Tiberius da confrontare con quelli etr. THEPRI(E), THEFRI(E), THEFARIE, TEPERI; lat. Tiberio,-onis da confrontare con quello etr. THEPRIU (DETR s. vv.). Ciò detto, c’è da dare una risposta alla questione di fondo: questo antico nome del fiume era latino oppure era etrusco? Sull’argomento in primo luogo a me sembra che si debba dare credito a un poeta latino, il quale era di origine etrusca e quasi certamente parlava o almeno comprendeva l’etrusco, Virgilio. Ebbene Virgilio nell’Eneide (VII 242; VIII 473; X 199; XI 316) definisce il Tevere Tyrrhenus Thybris e per ben 3 volte Tuscus amnis «fiume Etrusco». Espressione nella quale è notevole pure il fatto che molto probabilmente l’appellativo amnis (di etimo incerto; DELL) è quasi certamente di origine etrusca, dato che corrisponde esattamente al gentilizio etr. AMNI (DETR). Oltre a ciò, l’altro poeta latino Orazio chiama il fiume Tuscus amnis e Tuscus alveus e rivolgendosi all’amico Gaio Cilnio Mecenate, noto personaggio appartenente a una potente famiglia etrusca, gli parla delle rive del fiume dei suoi padri: paterni fluminis ripae (Serm. II 2, 33; Carm. I 20, 5; III 7, 28). In terzo luogo è da precisare che nelle citate corrispondenze antroponimiche etrusco-latine, quasi tutte le forme etrusche sono piuttosto recenti, ma alcune sono precedenti anche di alcuni secoli a quelle latine: [TH]EPRINIE (ET, Ve 3.41, sec. VI a. C.), THEFARIE (ET, Cr 4.4 inizio sec. V), THEFRI(-SA) (ET, Pe 1.307, sec. II:3), THEFRINA (ET, Ta 7.60, sec. IV:3). Infine una conferma della matrice etrusca dell’idronimo sta nel fatto che il lat. Tiberis ha l’accusativo -im e l’ablativo -i, esattamente come altri vocaboli latini derivati dall’etrusco: amnis, amussis, axis, cratis, curis, glanis, rumis, turris, tussis, ecc. (LIOE, Avvertenze 19 e s. vv.).
di Massimo Pittau
Molti autori greci, ormai soggiogati anche sul piano psicologico e su quello culturale, dalla potenza dei dominatori Romani, fecero a gara per dimostrare che in effetti Roma era una “fondazione greca”. Uno dei più importanti di questi autori, Dionigi di Alicarnasso, si lasciò sfuggire a denti stretti la frase secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca). Ebbene, numerose e consistenti prove linguistiche sono in grado di dimostrare che effettivamente Roma come città fu fondata, non dai Latini o dai Sabini, bensì dagli Etruschi.
Many Greek authors, at that time also psychologically and culturally captivated by the power of the Roman rulers, competed in demonstrating that in reality Rome was a "Greek foundation". One of the most important of these authors, Dionysius of Halicarnassus, let out reluctantly the sentence: "several writers told that Rome itself was a Tyrrhenian city"(that is, Etruscan). Well, much consistent linguistic evidence does demonstrate that in fact Rome was founded by Etruscans and not by Latins or Sabines.
È cosa abbastanza nota che dopo la conquista della Grecia da parte dei Romani, molti autori greci, ormai soggiogati non soltanto sul piano militare e politico ma anche su quello psicologico dalla potenza dei dominatori, fecero a gara per dimostrare che in effetti Roma era una “fondazione greca” (κτίσις ελληνική). E ciò fecero anche fondandosi sulla paretimologia del nome di Roma, fatto derivare abusivamente dall’appellativo greco ρώμη (rhōmē) «forza». Era questa indubbiamente una etimologia del tutto campata in aria, anche perché è illogico ritenere che all’inizio, quando Roma non era altro che un piccolissimo centro abitato, coloro che le diedero il nome potessero prevedere l’incredibile sviluppo futuro, militare politico e culturale, di Roma, che sarebbe finita con l’essere considerata il caput mundi.
In uno dei più importanti scrittori greci che intrapresero a trattare la storia di Roma, Dionigi di Alicarnasso (circa 60 a. C.- 7 d. C) si trova una frase assai importante, che suona testualmente: τήν τε Ρώμην αυτήν πολλόι τών συγγραφέων Τυρρηνίδα πόλιν είναι υπέλαβον «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca) (I, 29, 2).
A questa affermazione di Dionigi noi moderni dobbiamo attribuire la massima importanza, per la ragione che si presenta come uscita dalla sua bocca a “denti stetti”, dato che anche lui tendeva a dimostrare che Roma non era affatto una «fondazione etrusca», come molti scrittori avevano detto, bensì era una «fondazione greca».
Che cosa esattamente Dionigi avrà voluto indicare con la sua citata frase e precisamente “quanti” saranno stati gli scrittori da lui semplicemente accennati? A me sembra ovvio e anche prudente interpretare nel seguente modo: se egli avesse detto «alcuni (ένιοι) degli scrittori» noi avremmo adesso interpretato che questi fossero quattro o cinque; ma, dato che ha detto «molti (πολλόι) degli scrittori» noi adesso dobbiamo interpretare che fossero almeno una decina. Il quale pertanto è un bel numero di scrittori antichi che sostenevano appunto essere «Roma una città Etrusca».
Oltre ed a prescindere da ciò, a mio giudizio esistono numerose e consistenti prove che dimostrano che effettivamente «Roma era una fondazione etrusca»; e queste sono prove di carattere storico, religioso, culturale e anche e soprattutto di carattere linguistico, come io mi accingo a dimostrare minutamente.
Le prove linguistiche.
Sono di quasi certa origine etrusca il toponimo Roma ed altri che riguardano da vicino la città e i suoi stretti dintorni:
Roma molto probabilmente è da riportare all’appellativo, che Plutarco (Romolo 4.1) presenta come “antico latino”, ruma «mammella». Questo appellativo però trova riscontro in alcuni vocaboli etruschi documentati in un periodo precedente: etnico RUMATE, RUMATHE e RUMAX = «Romano», RUMITRINE(-THI) = «nel(lo Stato) Romano», gentilizio RUMILNA, RUMLNA = latini Romatius, Romilius e Romulius (DICLE 147, 148). L’appellativo ruma «mammella» molto probabilmente faceva riferimento a quella specie di prominenza o di promontorio a forma di “mammella” femminile appunto, che si è formata nella riva destra del Tevere (cioè in quella Veientana, ossia etrusca), di fronte all'isola Tiberina e all'odierno ponte Palatino (per la trattazione più ampia si veda LEGL 2ª Appendice; TIOE capo 4).
Tiberis, Thybris, Thebris «Tevere». C’è innanzi tutto da precisare che in origine il Tevere non scorreva al centro del Lazio, bensì segnava il confine del Latium vetus a meridione e dell’Etruria a settentrione e inoltre giocava un ruolo molto importante nella vita dei Romani e degli Etruschi, sia per l’abbeveraggio degli uomini e delle loro bestie, sia per l’innaffiamento degli orti, sia infine come via di trasporto per gli uomini, le bestie e le merci, in primo luogo il sale. E per queste importanti ragioni il fiume era stato anche divinizzato col nome di Tiberinus (Ennio, Ann. 54 V; Virgilio, Geor. 4.369, Aen. VIII 72; Livio, 2.10.11). Tanto è vero che il collegio dei Pontifices, oltre che avere la cura tecnica del ponte Sublicio, effettuava funzioni sacre nelle sue due testate (Varrone, Lat. 5.83). Per effetto di questa divinizzazione si comprende il fatto che ne fossero derivati alcuni antroponimi, latini ed etruschi, aventi un valore teoforico o sacrale: lat. Tiberinius, Tiberinus da confrontare con quelli etr. THEPRINA, [TH]EPRINIE, THEFRINA; lat. Tiberius da confrontare con quelli etr. THEPRI(E), THEFRI(E), THEFARIE, TEPERI; lat. Tiberio,-onis da confrontare con quello etr. THEPRIU (DETR s. vv.). Ciò detto, c’è da dare una risposta alla questione di fondo: questo antico nome del fiume era latino oppure era etrusco? Sull’argomento in primo luogo a me sembra che si debba dare credito a un poeta latino, il quale era di origine etrusca e quasi certamente parlava o almeno comprendeva l’etrusco, Virgilio. Ebbene Virgilio nell’Eneide (VII 242; VIII 473; X 199; XI 316) definisce il Tevere Tyrrhenus Thybris e per ben 3 volte Tuscus amnis «fiume Etrusco». Espressione nella quale è notevole pure il fatto che molto probabilmente l’appellativo amnis (di etimo incerto; DELL) è quasi certamente di origine etrusca, dato che corrisponde esattamente al gentilizio etr. AMNI (DETR). Oltre a ciò, l’altro poeta latino Orazio chiama il fiume Tuscus amnis e Tuscus alveus e rivolgendosi all’amico Gaio Cilnio Mecenate, noto personaggio appartenente a una potente famiglia etrusca, gli parla delle rive del fiume dei suoi padri: paterni fluminis ripae (Serm. II 2, 33; Carm. I 20, 5; III 7, 28). In terzo luogo è da precisare che nelle citate corrispondenze antroponimiche etrusco-latine, quasi tutte le forme etrusche sono piuttosto recenti, ma alcune sono precedenti anche di alcuni secoli a quelle latine: [TH]EPRINIE (ET, Ve 3.41, sec. VI a. C.), THEFARIE (ET, Cr 4.4 inizio sec. V), THEFRI(-SA) (ET, Pe 1.307, sec. II:3), THEFRINA (ET, Ta 7.60, sec. IV:3). Infine una conferma della matrice etrusca dell’idronimo sta nel fatto che il lat. Tiberis ha l’accusativo -im e l’ablativo -i, esattamente come altri vocaboli latini derivati dall’etrusco: amnis, amussis, axis, cratis, curis, glanis, rumis, turris, tussis, ecc. (LIOE, Avvertenze 19 e s. vv.).
venerdì 26 aprile 2013
Il popolo di bronzo, di Angela Demontis
Il popolo di bronzo
Potrebbe capitarvi, in giro per la Sardegna, di imbattervi in una mostra itinerante presso i musei nella quale un’artista sarda, Angela Demontis, ha riprodotto l’abbigliamento dei bronzetti nuragici, dando ai modelli proporzioni umane, così da offrire ai visitatori le meraviglie e i segreti rimasti per secoli nello scrigno delle nostre nonne. I personaggi prendono vita e nella ricomposizione della società antica, uomini e donne di diverso ceto e mestiere, si offrono in visione, costituendo uno spaccato di vita vissuta dell’età del Ferro, strizzando l’occhio ai leggendari guerrieri dell’epoca del Bronzo, quando i temibili spadaccini shardana costituivano la guardia reale del faraone Ramesse.
Lo studio dell’esercito di bronzo ci mostra come dovevano essere abbigliate le persone in epoca nuragica, come una sorta di scatti fotografici dell’epoca. Attraverso l’analisi delle incantevoli statuette esposte nei musei si acquisiscono informazioni sul gusto estetico e sull’articolazione della società.
Il costume doveva essere identificabile da lontano e caratterizzava un gruppo etnico, lo stato sociale o il mestiere praticato. In alcuni casi è possibile notare analogie in abiti, armi o accessori, che testimoniano uno scambio culturale fra popoli diversi. Già Lilliu, nel 1966 nella sua opera “Sculture della Sardegna Nuragica” evidenziava le diverse influenze culturali e le specificità delle tribù.
Le statuette femminili raffigurano donne coperte dalla testa ai piedi con lunghe tuniche e mantelli, mentre gli uomini vestono abiti corti e indossano spesso bandoliere che sostengono pugnaletti ad elsa gammata. Lo studio delle armi acquisisce importanza per capire il ruolo dei personaggi. Allo stesso modo, il cromatismo simbolico ancora persistente nelle produzioni artigianali della tradizione sarda e gli affreschi che rappresentano personaggi dell’Etruria (in particolare a Tarquinia) mostrano le strette relazioni fra antichi sardi ed etruschi.
Altro elemento caratteristico della mostra è costituito dai copricapo maschili e femminili, di varie fogge e colori, nonché le acconciature che fuoriescono e mostrano una cura nei dettagli che suggerisce una maestria tecnica difficilmente raggiungibile anche ai nostri giorni.
Fra le rappresentazioni a grandezza naturale confezionate dalla Demontis, sono rimasto affascinato da tre personaggi: l’arciere che presenta l’arco di tipo piatto come nelle statue in arenaria e la placca pettorale di protezione, il “guerriero di Uta” e, pur non essendo rappresentato fra i modelli della mostra, il “pugilatore di Dorgali” (visibile nell'immagine), ambedue rappresentati anche nella grande statuaria in pietra di Monte Prama, pur se il primo è di difficile interpretazione in quanto l’armatura è priva di spada (si notano solo i decori incisi nel corpo a evidenziare le protezioni) ma gli elementi che sono inequivocabilmente attribuibili all’oplita sono lo scudo piatto, come i 4 da assemblare trovati a Monte Prama, e l’elmo con la cresta fornito di corna brevi rivolte in avanti, anch’esso fra i reperti di Monte Prama.
Per questo guerriero la Demontis riporta un passo descritto da Omero nell’Iliade che parla dell’imbottitura dell’elmo di Ulisse: “Merione…in capo gli pose un casco fatto di cuoio…di fuori denti bianchi di verro…lo coprivano…in mezzo era aggiustato del feltro”. La lana di pecora compressa e infeltrita era dunque d’uso in antichità per il rivestimento interno e, in alcuni casi, all’esterno vi erano denti di cinghiale, come nella testina in avorio esposta al museo di Cagliari.
Il pugilatore-corridore, come si nota nell’immagine, era armato di maglio metallico, un’arma micidiale sul campo di battaglia, particolarmente utile nel corpo a corpo.
Fra gli altri personaggi, spicca un guerriero che utilizza uno strano bastone angolato, realizzato in legno di castagno. L’arma, chiamata amat, quando veniva lanciata compiva una traiettoria parabolica, ma non tornava indietro come invece fa il boomerang. Queste armi sono ritratte in affreschi tombali egizi risalenti al 1930 a.C. (tomba di Amenemath della XII dinastia) e sono state ritrovate nel corredo funerario di Tutankamon (XIII dinastia) datate al 1340 a.C. Data la sua angolatura, l’arma poteva essere utilizzata anche nel corpo a corpo come mazza, per aggirare le protezioni dell’avversario oppure colpirlo alle gambe per farlo cadere. Questa mazza è citata in alcuni testi antichi, come la Metamorfosi di Ovidio: “Insegue il bersaglio in una corsa che non è guidata dal caso, e a volte torna indietro, insanguinata, da sola”, e Virgilio nell’Eneide ne attribuisce l’uso a popolazioni germaniche: “sono abituati a lanciare la cateia, alla maniera dei Teutoni”.
La concia e la lavorazione delle pelli era una delle attività principali delle popolazioni nuragiche. Pelle, tendini, corna, zoccoli venivano trasformati in manufatti di grande utilità. A queste lavorazioni era collegata la preparazione di sostanze collanti, a partire dagli scarti di macellazione e di scuoiatura dell’animale. C’erano anche collanti di origine vegetale, soprattutto le resine delle conifere, usate pure miscelate alla cenere per diventare pece. I collanti erano indispensabili per il fissaggio delle lame e per l’assemblaggio di utensili.
La filatura, la tessitura e la colorazione dei tessuti erano svolti dalle donne. Per confezionare mantelli, gonne e corpetti si usavano tessuti di fibra vegetale come il lino, l’ortica e la ginestra odorosa. Si maceravano le fibre per eliminare le impurità, si lasciavano essiccare e poi si spazzolavano con un cardo selvatico (cardatura) molto pungente per eliminare i grovigli. Pronte per essere filate, le fibre venivano attorcigliate e, con l’ausilio del fuso, trasformate in un filo ininterrotto che si usava direttamente per la tessitura o veniva colorato con sostanze vegetali ricavate da corteccia, radici o foglie. Il colore veniva fissato con mordenti, ossia urina, tannini, argilla o allume di rocca (solfato di potassio e alluminio). Quindi veniva tinto macerandolo in acqua calda o fredda insieme alla pianta sminuzzata. Dopo accurata asciugatura il filato era pronto per essere lavorato al telaio.
Il lavoro della Demontis è arricchito di un capitolo dedicato al legno, una delle materie prime più utilizzate dai popoli della preistoria, per la facilità di reperimento e la versatilità della sua lavorazione, che forniva manufatti per ogni attività della vita quotidiana. Dalle navi alle coperture delle capanne nuragiche, dai carri ai gioghi per buoi e ai traini, dalle armi (archi e frecce) ai manici delle zappe, asce e contenitori di varia natura, dai mobili alle cassapanche, dai telai agli oggetti di uso domestico, come mestoli, pale da forno e taglieri. Allo stesso modo i manufatti ad intreccio mostrano sapienza nella scelta delle fibre vegetali e maestria nella lavorazione. Raccolte, scorticate, essiccate e tagliate a strisce, queste fibre venivano intrecciate per fabbricare cordame e cesteria, una tecnica rimasta immutata nel tempo e usata ancora oggi dai nostri artigiani.
Nell'immagine un disegno di Angela Demontis: Il cosiddetto pugilatore.
giovedì 25 aprile 2013
Civiltà nuragica a Cagliari
Civiltà nuragica a Cagliari
Domenica 28 Aprile dalle 17:30, a Cagliari in Via Dei Pisani 22, lo scrittore Pierluigi Montalbano incontrerà gli amici del centro culturale Nai per parlare della nascita delle prime civiltà e dei nuragici, gli antichi abitanti della Sardegna che diedero vita alla più importante civiltà occidentale dell'età del Bronzo. L'Associazione Nai nasce dall’esigenza di unire le forze di chi vede la cultura come una delle risorse primarie per la crescita della società.
“CENTU CONCAS E CENTU BERRITAS”, ossia il nostro modo di vivere quotidiano, è visto in maniera propositiva, come potenziale fonte di ricchezza e non come fattore di cesura e di isolamento. Star bene assieme conoscendo le differenze culturali, integrando le conoscenze personali, interagendo con il prossimo e miscelando le esperienze individuali, arricchisce e forma la personalità.
Giuseppe Carta, deus ex machina del centro culturale Nai, dice: “Scrutando dentro le emozioni trovo chiavi che aprono scrigni perduti nel tempo, scrivo per ricordarne i passaggi più ingarbugliati e gioco a farli diventare universalmente comprensibili”.
Pittura-Scultura-Scrittura-Fotografia-Parole-Messaggi-Musica-Civiltà-Cibo-Vino e acqua.
Associazione culturale “Meris in Domu”, Via dei Pisani 22, Cagliari
Domenica 28 Aprile dalle 17:30, a Cagliari in Via Dei Pisani 22, lo scrittore Pierluigi Montalbano incontrerà gli amici del centro culturale Nai per parlare della nascita delle prime civiltà e dei nuragici, gli antichi abitanti della Sardegna che diedero vita alla più importante civiltà occidentale dell'età del Bronzo. L'Associazione Nai nasce dall’esigenza di unire le forze di chi vede la cultura come una delle risorse primarie per la crescita della società.
“CENTU CONCAS E CENTU BERRITAS”, ossia il nostro modo di vivere quotidiano, è visto in maniera propositiva, come potenziale fonte di ricchezza e non come fattore di cesura e di isolamento. Star bene assieme conoscendo le differenze culturali, integrando le conoscenze personali, interagendo con il prossimo e miscelando le esperienze individuali, arricchisce e forma la personalità.
Giuseppe Carta, deus ex machina del centro culturale Nai, dice: “Scrutando dentro le emozioni trovo chiavi che aprono scrigni perduti nel tempo, scrivo per ricordarne i passaggi più ingarbugliati e gioco a farli diventare universalmente comprensibili”.
Pittura-Scultura-Scrittura-Fotografia-Parole-Messaggi-Musica-Civiltà-Cibo-Vino e acqua.
Associazione culturale “Meris in Domu”, Via dei Pisani 22, Cagliari
mercoledì 24 aprile 2013
Libro pdf scaricabile gratuitamente: Le Navicelle Bronzee Nuragiche
Le Navicelle Bronzee Nuragiche
di Pierluigi Montalbano
I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico, e perciò è arduo interpretare il significato più profondo di queste opere artistiche. Inoltre il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano incapace di navigare, di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini e di produrre cultura. Invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Vi offro, quindi, il libro sulle navicelle bronzee, frutto della mia tesi di laurea, per fornire un punto di vista differente a chi avesse voglia e tempo per approfondire, affidando al filtro dei lettori ogni conclusione sui temi affrontati.
Per scaricare il libro in formato pdf cliccare quì
di Pierluigi Montalbano
I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico, e perciò è arduo interpretare il significato più profondo di queste opere artistiche. Inoltre il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano incapace di navigare, di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini e di produrre cultura. Invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Vi offro, quindi, il libro sulle navicelle bronzee, frutto della mia tesi di laurea, per fornire un punto di vista differente a chi avesse voglia e tempo per approfondire, affidando al filtro dei lettori ogni conclusione sui temi affrontati.
Per scaricare il libro in formato pdf cliccare quì
martedì 23 aprile 2013
La metallurgia tra il calcolitico e l’età del Ferro
La metallurgia tra il calcolitico e l’età del Ferro
di Pierluigi Montalbano
Il metallo, come ho già detto, fa la sua prima apparizione nella cultura di Ozieri: un pugnale e alcune verghe di rame dai fondi di capanna del settore F da Cuccuru Arrius di Cabras e un paio di anelli d'argento dalla tomba V della necropoli di Pranu Muttedu di Goni. La comparsa del metallo e l'inizio della metallurgia è un fatto che sembra essersi verificato contemporaneamente in Sardegna, in Corsica ed in Sicilia dove le prime scorie di rame, ancora aderenti alla parete di un crogiuolo, sono state raccolte nello strato di Diana sull'Acropoli di Lipari.
È ragionevole ritenere che anche nelle isole si sia verificato un profondo rivolgimento economico con un radicale cambiamento degli equilibri consolidati che ha ovunque segnato il passaggio dal Neolitico all’Eneolitico. La diffusione del metallo causa una diminuzione d’interesse nei confronti dello sfruttamento e della circolazione dell’ossidiana e accelera il processo di decadenza economica e la partecipazione ai fenomeni più generalmente diffusi in Italia peninsulare ed insulare, dando luogo alla formazione delle culture eneolitiche di Abealzu e Filigosa che ereditano da quella di Ozieri molte forme ceramiche.
In seguito si arriva alla cultura di Monte Claro che si articola in facies locali: meridionale, oristanese, nuorese e settentrionale. Il patrimonio culturale è ricco ed elaborato: annovera numerosi insediamenti in grotta e all'aperto; deposizioni in tombe a fossa, sepolcri a forno, domus de janas, tombe a cista, tombe megalitiche, con rito esclusivamente inumatorio. Lo strumentario di selce e di ossidiana è scarso e, come abbiamo visto, alla cultura di Monte Claro risale il primo caso conosciuto nell'isola di riparazione antica di un vaso con grappe di piombo.
L’eccezionale fioritura di Monte Claro è forse spiegabile con un’economia agricola in ripresa, con un incremento delle attività pastorali e con l’avvio allo sfruttamento delle risorse minerarie dell'isola che inseriscono a pieno titolo la Sardegna nelle rotte di prospezione mediterranea, innescando un processo economico ed evolutivo di vasta portata. Nei pugnali raffigurati nelle statue-menhirs di Laconi e Nurallao si attestano due tipi di arma segnalando il momento del trapasso di uso dall'una, forse ormai solo cerimoniale, all'altra, certamente ancora rara e preziosa.
L'area di rinvenimento delle statue-menhirs dista meno di 8 km in linea d'aria dai giacimenti di calcopirite, galena e blenda di Funtana Raminosa, nei monti del Sarcidano, lungo il versante occidentale digradante del massiccio delle Barbagie di Belvì e Seulo. La prima età del Bronzo è segnata dalla cultura di Bonnannaro. Lo strato intatto sigilla le domus de janas, pochi oggetti d'ornamento, pochissime armi e scompare totalmente lo strumentario litico. Si potrebbe pensare al passaggio di piccoli gruppi che passando dalla Corsica sono portatori al nord degli elementi più antichi della facies A. Questo non esclude che vi siano stati anche influssi esterni che agirono insieme su di un contesto indigeno.
Giova un confronto con la Sicilia, dove all'inizio dell’età del Bronzo tutta l'isola e le Eolie vengono investite da stimoli che sfociano nelle due culture di Capo Graziano e Castelluccio, marinara l’una, agricolo-pastorale l'altra, entrambe fortemente intrise di caratteri allogeni che fanno pensare a immigrazioni. Queste due culture costituiscono una netta cesura con il passato e sovvertono completamente i valori culturali esistenti. Nella media età del Bronzo il collegamento fra la nascente civiltà micenea e il Mediterraneo occidentale pone basi stabili e si intesse una rete di rapporti organizzati che ripercorrono in parte tracciati precedenti. Un ruolo fondamentale in queste vicende è certamente svolto dalla necessità di approvvigionamento di materie prime e soprattutto di metalli.
Le analisi di archeometallurgia spiegheranno se i lingotti “ox-hide” siano stati prodotti da minerali sardi o se provengono dall’Egeo o da Cipro. Non vi è ragione plausibile per supporre che il movimento che parte dall'Egeo, diretto all'acquisizione dei metalli, escluda le zone minerarie della Sardegna. Per lo stesso motivo si ritiene che la rotta dei metalli dovesse raggiungere anche le zone minerarie della penisola iberica.
Nascono alcuni quesiti: è ancora valida, e fino a che periodo, la limitazione della navigazione da costa a costa? In caso affermativo, perché questa limitazione non si dovrebbe applicare anche ai micenei che attraversavano il Tirreno per la rotta più lunga, stabilendo una base a una delle estremità del Golfo di Cagliari? Nell'economia dell'approvvigionamento di metalli avrebbe consentito un accesso strategico alle miniere del Sulcis.
E' ipotizzabile che i traffici si svolgessero unicamente fra i micenei e le popolazioni nuragiche? Quando si può presumere che questi contatti abbiano avuto inizio?
In Sardegna questo periodo vedrebbe l’edificazione dei nuraghi, delle tombe di giganti con stele centinata e la realizzazione di ceramiche a decorazione metopale e a nervature. In quest'epoca si collocano le prime grandi asce a margini rialzati e a profilo ellitico, e alcune daghe a base semplice, simili alle forme dell’età del Bronzo Medio peninsulare nonché la produzione di forme analoghe ai pugnali di tipo Arreton Down di Wessex.
Si possono far risalire a questo periodo anche i primi lingotti che in tutto il bacino del Mediterraneo costituiscono una delle forme più antiche di accumulo di metallo sia ai fini di tesaurizzazione sia di scambio. Conseguentemente è legittimo ipotizzare che la struttura economica e sociale delle comunità che eressero i primi nuraghi, per l'evidente e ingente meccanismo di accantonamento di risorse, di organizzazione operativa e d’investimento di forza-lavoro necessario a compiere tali opere, sia stata in grado di intraprendere lo sfruttamento sistematico delle miniere.
La presenza dei marchi in scrittura egea, cretese, micenea e cipro-minoica è un indizio della complessità dei processi di produzione, circolazione e scambio che dovevano essere istituiti fra le popolazioni locali ed i mercanti dei metalli. Lo sviluppo culturale differenziato osservato nel periodo precedente prosegue con l'ampliamento dei villaggi, con l'elaborazione delle tombe di giganti e con la costruzione di tempietti detti “a megaron”.
I fatti più significativi sono l'adozione della strumentazione per la lavorazione del bronzo, l'introduzione di strumenti a doppio tagliente (doppie asce, bipenni, picconi) e il moltiplicarsi delle matrici di fusione, indizio certo di una produzione sistematica ed abbondante. Sicuramente i minerali della Sardegna hanno costituito un’attrazione per le popolazioni della Sicilia e delle Eolie, notoriamente prive di tali materie prime, ed è assai plausibile che, sulla scia dei Micenei e dei Ciprioti, siano stati istituiti rapporti regolari.
Fra la fine dell’età del Bronzo e l'inizio dell’età del Ferro, nella Sardegna nuragica si verifica una rivoluzione che vede l'emergere di una classe aristocratica con conseguente radicale mutamento delle strutture economiche e sociali, accompagnato da un nuovo sensibile sviluppo nelle condizioni generali di ricchezza. Salvo limitate eccezioni non si costruiscono più nuraghi, taluni sono ristrutturati e ampliati, altri subiscono parziali demolizioni e cambiano destinazione d’uso.
Le due espressioni più significative sono la produzione dei bronzetti e quella delle grandi statue di pietra, la prima delle quali è un fatto di portata rilevantissima che investe tutta l'isola, legata alla tecnica della cera persa e di indizio inequivocabile di una produzione metallurgica di tutto rispetto. Di certo i mutamenti di forze e di aggregazioni verificatisi nel Mediterraneo in coincidenza con l'apparizione dei Fenici e con la diffusione della metallurgia del ferro non possono essere estranei alle vicende che abbiamo descritto.
Non si può escludere che si siano ripercorse, sotto diverse bandiere, le stesse rotte Tirreniche aperte dalla navigazione per il commercio dell’ossidiana prima, e successivamente Micenea e Cipriota, sempre tenendo presente che come per i Micenei non si intende con il termine Fenici indicare un popolo specifico.
La Sardegna sembra essere il cardine intorno al quale ruota buona parte di traffici del Mediterraneo occidentale. Non è casuale la presenza di bronzetti nel famoso corredo della tomba Cavalupo di Vulci del IX a.C.: essa prova che già in quell'epoca nella quale nulla di simile esisteva in Occidente, questa produzione caratteristica nuragica era matura e fiorente.
In conclusione la Sardegna, per l'eccezionale ricchezza delle sue risorse, fu una delle più significative realtà dell'economia del mondo antico. Inoltre le culture esterne, attratte dalle fonti della materia prima, di epoca in epoca hanno fatto dell'isola un crocevia di tutti i traffici del Mediterraneo occidentale.
Testo tratto dalla mia tesi di laurea sulle Navicelle nuragiche.
Nelle immagini:
Lingotto ox-hide al British Museum di Londra
Oggetti in bronzo al Museo Archeologico di Cagliari
di Pierluigi Montalbano
Il metallo, come ho già detto, fa la sua prima apparizione nella cultura di Ozieri: un pugnale e alcune verghe di rame dai fondi di capanna del settore F da Cuccuru Arrius di Cabras e un paio di anelli d'argento dalla tomba V della necropoli di Pranu Muttedu di Goni. La comparsa del metallo e l'inizio della metallurgia è un fatto che sembra essersi verificato contemporaneamente in Sardegna, in Corsica ed in Sicilia dove le prime scorie di rame, ancora aderenti alla parete di un crogiuolo, sono state raccolte nello strato di Diana sull'Acropoli di Lipari.
È ragionevole ritenere che anche nelle isole si sia verificato un profondo rivolgimento economico con un radicale cambiamento degli equilibri consolidati che ha ovunque segnato il passaggio dal Neolitico all’Eneolitico. La diffusione del metallo causa una diminuzione d’interesse nei confronti dello sfruttamento e della circolazione dell’ossidiana e accelera il processo di decadenza economica e la partecipazione ai fenomeni più generalmente diffusi in Italia peninsulare ed insulare, dando luogo alla formazione delle culture eneolitiche di Abealzu e Filigosa che ereditano da quella di Ozieri molte forme ceramiche.
In seguito si arriva alla cultura di Monte Claro che si articola in facies locali: meridionale, oristanese, nuorese e settentrionale. Il patrimonio culturale è ricco ed elaborato: annovera numerosi insediamenti in grotta e all'aperto; deposizioni in tombe a fossa, sepolcri a forno, domus de janas, tombe a cista, tombe megalitiche, con rito esclusivamente inumatorio. Lo strumentario di selce e di ossidiana è scarso e, come abbiamo visto, alla cultura di Monte Claro risale il primo caso conosciuto nell'isola di riparazione antica di un vaso con grappe di piombo.
L’eccezionale fioritura di Monte Claro è forse spiegabile con un’economia agricola in ripresa, con un incremento delle attività pastorali e con l’avvio allo sfruttamento delle risorse minerarie dell'isola che inseriscono a pieno titolo la Sardegna nelle rotte di prospezione mediterranea, innescando un processo economico ed evolutivo di vasta portata. Nei pugnali raffigurati nelle statue-menhirs di Laconi e Nurallao si attestano due tipi di arma segnalando il momento del trapasso di uso dall'una, forse ormai solo cerimoniale, all'altra, certamente ancora rara e preziosa.
L'area di rinvenimento delle statue-menhirs dista meno di 8 km in linea d'aria dai giacimenti di calcopirite, galena e blenda di Funtana Raminosa, nei monti del Sarcidano, lungo il versante occidentale digradante del massiccio delle Barbagie di Belvì e Seulo. La prima età del Bronzo è segnata dalla cultura di Bonnannaro. Lo strato intatto sigilla le domus de janas, pochi oggetti d'ornamento, pochissime armi e scompare totalmente lo strumentario litico. Si potrebbe pensare al passaggio di piccoli gruppi che passando dalla Corsica sono portatori al nord degli elementi più antichi della facies A. Questo non esclude che vi siano stati anche influssi esterni che agirono insieme su di un contesto indigeno.
Giova un confronto con la Sicilia, dove all'inizio dell’età del Bronzo tutta l'isola e le Eolie vengono investite da stimoli che sfociano nelle due culture di Capo Graziano e Castelluccio, marinara l’una, agricolo-pastorale l'altra, entrambe fortemente intrise di caratteri allogeni che fanno pensare a immigrazioni. Queste due culture costituiscono una netta cesura con il passato e sovvertono completamente i valori culturali esistenti. Nella media età del Bronzo il collegamento fra la nascente civiltà micenea e il Mediterraneo occidentale pone basi stabili e si intesse una rete di rapporti organizzati che ripercorrono in parte tracciati precedenti. Un ruolo fondamentale in queste vicende è certamente svolto dalla necessità di approvvigionamento di materie prime e soprattutto di metalli.
Le analisi di archeometallurgia spiegheranno se i lingotti “ox-hide” siano stati prodotti da minerali sardi o se provengono dall’Egeo o da Cipro. Non vi è ragione plausibile per supporre che il movimento che parte dall'Egeo, diretto all'acquisizione dei metalli, escluda le zone minerarie della Sardegna. Per lo stesso motivo si ritiene che la rotta dei metalli dovesse raggiungere anche le zone minerarie della penisola iberica.
Nascono alcuni quesiti: è ancora valida, e fino a che periodo, la limitazione della navigazione da costa a costa? In caso affermativo, perché questa limitazione non si dovrebbe applicare anche ai micenei che attraversavano il Tirreno per la rotta più lunga, stabilendo una base a una delle estremità del Golfo di Cagliari? Nell'economia dell'approvvigionamento di metalli avrebbe consentito un accesso strategico alle miniere del Sulcis.
E' ipotizzabile che i traffici si svolgessero unicamente fra i micenei e le popolazioni nuragiche? Quando si può presumere che questi contatti abbiano avuto inizio?
In Sardegna questo periodo vedrebbe l’edificazione dei nuraghi, delle tombe di giganti con stele centinata e la realizzazione di ceramiche a decorazione metopale e a nervature. In quest'epoca si collocano le prime grandi asce a margini rialzati e a profilo ellitico, e alcune daghe a base semplice, simili alle forme dell’età del Bronzo Medio peninsulare nonché la produzione di forme analoghe ai pugnali di tipo Arreton Down di Wessex.
Si possono far risalire a questo periodo anche i primi lingotti che in tutto il bacino del Mediterraneo costituiscono una delle forme più antiche di accumulo di metallo sia ai fini di tesaurizzazione sia di scambio. Conseguentemente è legittimo ipotizzare che la struttura economica e sociale delle comunità che eressero i primi nuraghi, per l'evidente e ingente meccanismo di accantonamento di risorse, di organizzazione operativa e d’investimento di forza-lavoro necessario a compiere tali opere, sia stata in grado di intraprendere lo sfruttamento sistematico delle miniere.
La presenza dei marchi in scrittura egea, cretese, micenea e cipro-minoica è un indizio della complessità dei processi di produzione, circolazione e scambio che dovevano essere istituiti fra le popolazioni locali ed i mercanti dei metalli. Lo sviluppo culturale differenziato osservato nel periodo precedente prosegue con l'ampliamento dei villaggi, con l'elaborazione delle tombe di giganti e con la costruzione di tempietti detti “a megaron”.
I fatti più significativi sono l'adozione della strumentazione per la lavorazione del bronzo, l'introduzione di strumenti a doppio tagliente (doppie asce, bipenni, picconi) e il moltiplicarsi delle matrici di fusione, indizio certo di una produzione sistematica ed abbondante. Sicuramente i minerali della Sardegna hanno costituito un’attrazione per le popolazioni della Sicilia e delle Eolie, notoriamente prive di tali materie prime, ed è assai plausibile che, sulla scia dei Micenei e dei Ciprioti, siano stati istituiti rapporti regolari.
Fra la fine dell’età del Bronzo e l'inizio dell’età del Ferro, nella Sardegna nuragica si verifica una rivoluzione che vede l'emergere di una classe aristocratica con conseguente radicale mutamento delle strutture economiche e sociali, accompagnato da un nuovo sensibile sviluppo nelle condizioni generali di ricchezza. Salvo limitate eccezioni non si costruiscono più nuraghi, taluni sono ristrutturati e ampliati, altri subiscono parziali demolizioni e cambiano destinazione d’uso.
Le due espressioni più significative sono la produzione dei bronzetti e quella delle grandi statue di pietra, la prima delle quali è un fatto di portata rilevantissima che investe tutta l'isola, legata alla tecnica della cera persa e di indizio inequivocabile di una produzione metallurgica di tutto rispetto. Di certo i mutamenti di forze e di aggregazioni verificatisi nel Mediterraneo in coincidenza con l'apparizione dei Fenici e con la diffusione della metallurgia del ferro non possono essere estranei alle vicende che abbiamo descritto.
Non si può escludere che si siano ripercorse, sotto diverse bandiere, le stesse rotte Tirreniche aperte dalla navigazione per il commercio dell’ossidiana prima, e successivamente Micenea e Cipriota, sempre tenendo presente che come per i Micenei non si intende con il termine Fenici indicare un popolo specifico.
La Sardegna sembra essere il cardine intorno al quale ruota buona parte di traffici del Mediterraneo occidentale. Non è casuale la presenza di bronzetti nel famoso corredo della tomba Cavalupo di Vulci del IX a.C.: essa prova che già in quell'epoca nella quale nulla di simile esisteva in Occidente, questa produzione caratteristica nuragica era matura e fiorente.
In conclusione la Sardegna, per l'eccezionale ricchezza delle sue risorse, fu una delle più significative realtà dell'economia del mondo antico. Inoltre le culture esterne, attratte dalle fonti della materia prima, di epoca in epoca hanno fatto dell'isola un crocevia di tutti i traffici del Mediterraneo occidentale.
Testo tratto dalla mia tesi di laurea sulle Navicelle nuragiche.
Nelle immagini:
Lingotto ox-hide al British Museum di Londra
Oggetti in bronzo al Museo Archeologico di Cagliari
lunedì 22 aprile 2013
Le risorse minerarie e la prima metallurgia in Sardegna
Le risorse minerarie e la prima metallurgia in Sardegna
di Pierluigi Montalbano
Nel processo di sviluppo delle comunità protosarde, le miniere hanno indubbiamente esercitato un ruolo determinante. Particolarmente nell'Iglesiente, sono presenti strutture geologiche classificate tra le più antiche d'Europa, sicuramente le più antiche dell'area mediterranea; per cui la Sardegna, è considerata una delle regioni più interessanti d'Europa per ricchezza e varietà di minerali.
Già dal Neolitico, le risorse minerarie della Sardegna erano oggetto di particolare interesse da parte di diversi popoli già socialmente ed economicamente evoluti che, dalle regioni orientali, avviavano le prime migrazioni e colonizzazioni commerciali nel vasto bacino mediterraneo, raggiungendo le estreme regioni occidentali e toccando anche la Sardegna.
La prima grande risorsa geomineraria a essere sfruttata in Sardegna fu certamente l’ossidiana, un composto di lava vitrea finissima di colore nero intenso e notevole durezza, presente nei vasti giacimenti del Monte Arci, presso Oristano. L'uomo del Neolitico fece uso dell'ossidiana per realizzare armi, utensili e oggetti d'uso comune, indispensabili per le esigenze della propria vita.
Nell'intero bacino mediterraneo, erano stati individuati appena cinque giacimenti di una certa rilevanza di questo prezioso materiale, tutti in isole: Melos (Egeo), Pantelleria, Lipari (Eolie), Palmarola (Ponziane) e Sardegna. Per millenni questa rara e preziosa materia prima, percorse le più disparate rotte del Mediterraneo, raggiungendo i mercati più lontani dell'Africa settentrionale, dei Balcani, della penisola Italica, dell'Iberia e della Provenza. Solo la successiva scoperta dei primi metalli, rame e stagno, indusse l'uomo ad accantonare progressivamente l'uso delle pietre dure.
Nel periodo di transizione dal Neolitico all’età del Bronzo le armi e gli utensili di rame spesso svolsero solo un ruolo subordinato in confronto a quelli di pietra. Perciò quest'epoca è chiamata età del Rame (anche Eneolitico o calcolitico). Gli inizi della metallurgia in Sardegna risalgono al periodo della cultura di Ozieri. Nel periodo delle culture di Abealzu, Filigosa e Monte Claro le tracce della lavorazione del rame diventano sempre più frequenti. Per la prima volta si producono anche pugnali che sono colati in forme e induriti in seguito a colpi di martello. Fra i corredi tombali della cultura del vaso campaniforme troviamo oggetti realizzati in una lega di rame e arsenico che presentava un maggiore grado di durezza. Il passo successivo, quello cioè di aggiungere al rame alcune parti di stagno per ottenere un bronzo di durezza notevolmente maggiore, ci è noto in Sardegna solo dalla cultura Bonnannaro.
La prova finora più antica di una lavorazione locale di minerali di piombo è fornita da una ciotola in stile Monte Claro rinvenuta presso Iglesias, aggiustata con graffe di piombo proveniente dai giacimenti di galena situati nei dintorni di Iglesias. Funtana Raminosa, la più grande miniera di rame della Sardegna, si trova invece nella valle al confine fra il Sarcidano e la Barbagia di Seulo. Sull'adiacente altopiano presso Laconi si sono trovate le prime statue-menhir della Sardegna, sulle quali sono raffigurati pugnali di metallo. Sotto la linea della cintola, spicca una specie di doppio pugnale con impugnatura centrale comune alle due lame triangolari. Il motivo sul petto dei menhir, simile a un tridente o a un candelabro, simboleggia secondo alcuni archeologi una figura umana capovolta, un morto. Secondo altri si tratta, invece, di una stilizzazione delle braccia con, all’interno, uno scettro, ossia il simbolo del potere. A mio avviso è una rappresentazione del simbolo maschile e di quello femminile che si uniscono.
Tratto da "Le Navicelle Bronzee" - tesi di laurea di Pierluigi Montalbano.
Nell'immagine: La Navicella di Costa Nighedda.
di Pierluigi Montalbano
Nel processo di sviluppo delle comunità protosarde, le miniere hanno indubbiamente esercitato un ruolo determinante. Particolarmente nell'Iglesiente, sono presenti strutture geologiche classificate tra le più antiche d'Europa, sicuramente le più antiche dell'area mediterranea; per cui la Sardegna, è considerata una delle regioni più interessanti d'Europa per ricchezza e varietà di minerali.
Già dal Neolitico, le risorse minerarie della Sardegna erano oggetto di particolare interesse da parte di diversi popoli già socialmente ed economicamente evoluti che, dalle regioni orientali, avviavano le prime migrazioni e colonizzazioni commerciali nel vasto bacino mediterraneo, raggiungendo le estreme regioni occidentali e toccando anche la Sardegna.
La prima grande risorsa geomineraria a essere sfruttata in Sardegna fu certamente l’ossidiana, un composto di lava vitrea finissima di colore nero intenso e notevole durezza, presente nei vasti giacimenti del Monte Arci, presso Oristano. L'uomo del Neolitico fece uso dell'ossidiana per realizzare armi, utensili e oggetti d'uso comune, indispensabili per le esigenze della propria vita.
Nell'intero bacino mediterraneo, erano stati individuati appena cinque giacimenti di una certa rilevanza di questo prezioso materiale, tutti in isole: Melos (Egeo), Pantelleria, Lipari (Eolie), Palmarola (Ponziane) e Sardegna. Per millenni questa rara e preziosa materia prima, percorse le più disparate rotte del Mediterraneo, raggiungendo i mercati più lontani dell'Africa settentrionale, dei Balcani, della penisola Italica, dell'Iberia e della Provenza. Solo la successiva scoperta dei primi metalli, rame e stagno, indusse l'uomo ad accantonare progressivamente l'uso delle pietre dure.
Nel periodo di transizione dal Neolitico all’età del Bronzo le armi e gli utensili di rame spesso svolsero solo un ruolo subordinato in confronto a quelli di pietra. Perciò quest'epoca è chiamata età del Rame (anche Eneolitico o calcolitico). Gli inizi della metallurgia in Sardegna risalgono al periodo della cultura di Ozieri. Nel periodo delle culture di Abealzu, Filigosa e Monte Claro le tracce della lavorazione del rame diventano sempre più frequenti. Per la prima volta si producono anche pugnali che sono colati in forme e induriti in seguito a colpi di martello. Fra i corredi tombali della cultura del vaso campaniforme troviamo oggetti realizzati in una lega di rame e arsenico che presentava un maggiore grado di durezza. Il passo successivo, quello cioè di aggiungere al rame alcune parti di stagno per ottenere un bronzo di durezza notevolmente maggiore, ci è noto in Sardegna solo dalla cultura Bonnannaro.
La prova finora più antica di una lavorazione locale di minerali di piombo è fornita da una ciotola in stile Monte Claro rinvenuta presso Iglesias, aggiustata con graffe di piombo proveniente dai giacimenti di galena situati nei dintorni di Iglesias. Funtana Raminosa, la più grande miniera di rame della Sardegna, si trova invece nella valle al confine fra il Sarcidano e la Barbagia di Seulo. Sull'adiacente altopiano presso Laconi si sono trovate le prime statue-menhir della Sardegna, sulle quali sono raffigurati pugnali di metallo. Sotto la linea della cintola, spicca una specie di doppio pugnale con impugnatura centrale comune alle due lame triangolari. Il motivo sul petto dei menhir, simile a un tridente o a un candelabro, simboleggia secondo alcuni archeologi una figura umana capovolta, un morto. Secondo altri si tratta, invece, di una stilizzazione delle braccia con, all’interno, uno scettro, ossia il simbolo del potere. A mio avviso è una rappresentazione del simbolo maschile e di quello femminile che si uniscono.
Tratto da "Le Navicelle Bronzee" - tesi di laurea di Pierluigi Montalbano.
Nell'immagine: La Navicella di Costa Nighedda.
domenica 21 aprile 2013
La luce artificiale una scoperta che cambiò le abitudini
L'illuminazione nell'antichità
di Samantha Lombardi
Perché la luce sia splendente, ci deve essere l’oscurità
F. Bacon
Nell’antica Roma, all'imbrunire, e durante la notte, erano solo le case dei ricchi a essere illuminate con numerose torce, mentre, ai meno abbienti era riservata la sola luce emanata dalla luna. Nel corso del medioevo non vi furono cambiamenti sostanziali nei sistemi di illuminazione artificiali. Le principali fonti di luce si ottenevano da lampade e torce ad olio, ma anche dalla cera. Gli edifici più illuminati erano sicuramente quelli religiosi, in particolare le chiese, mentre, le abitazioni, di solito, erano rischiarate dalla debole luce del focolare o al massimo da qualche torcia.
Agli inizi del Settecento, (definito, per ironia dei nomi, il secolo dei Lumi) la situazione non era cambiata dal momento che, l’illuminazione artificiale, non aveva subito grosse trasformazioni per cui si continuarono ad usare lumi ad olio ed il fuoco per mezzo di torce, candele, lumi, focolari ecc. Solo le zone centrali più importanti erano fornite di luci, anche se spesso, insufficienti, tanto che, per eventi di particolare rilevanza, si ricorreva a grandiose fiaccolate come avvenne, nel 1716, per la nascita del figlio di Carlo VI. La stessa cupola di San Pietro era rischiarata da una fila di grosse lanterne a candela. L’illuminazione delle strade era affidata anche ai lumi appoggiati alle pareti o agli angoli dei palazzi, posti spesso all’interno di altarini da dove le famose madonnelle* stradaiole, così erano chiamate a Roma le edicole sacre, spargevano verso il basso la loro incerta e debole luce ma che, con grande spettacolo suggestivo, rischiaravano il volto della Madonna.
di Samantha Lombardi
Perché la luce sia splendente, ci deve essere l’oscurità
F. Bacon
Nell’antica Roma, all'imbrunire, e durante la notte, erano solo le case dei ricchi a essere illuminate con numerose torce, mentre, ai meno abbienti era riservata la sola luce emanata dalla luna. Nel corso del medioevo non vi furono cambiamenti sostanziali nei sistemi di illuminazione artificiali. Le principali fonti di luce si ottenevano da lampade e torce ad olio, ma anche dalla cera. Gli edifici più illuminati erano sicuramente quelli religiosi, in particolare le chiese, mentre, le abitazioni, di solito, erano rischiarate dalla debole luce del focolare o al massimo da qualche torcia.
Agli inizi del Settecento, (definito, per ironia dei nomi, il secolo dei Lumi) la situazione non era cambiata dal momento che, l’illuminazione artificiale, non aveva subito grosse trasformazioni per cui si continuarono ad usare lumi ad olio ed il fuoco per mezzo di torce, candele, lumi, focolari ecc. Solo le zone centrali più importanti erano fornite di luci, anche se spesso, insufficienti, tanto che, per eventi di particolare rilevanza, si ricorreva a grandiose fiaccolate come avvenne, nel 1716, per la nascita del figlio di Carlo VI. La stessa cupola di San Pietro era rischiarata da una fila di grosse lanterne a candela. L’illuminazione delle strade era affidata anche ai lumi appoggiati alle pareti o agli angoli dei palazzi, posti spesso all’interno di altarini da dove le famose madonnelle* stradaiole, così erano chiamate a Roma le edicole sacre, spargevano verso il basso la loro incerta e debole luce ma che, con grande spettacolo suggestivo, rischiaravano il volto della Madonna.
sabato 20 aprile 2013
Creta, età del Bronzo: Nuova vita per Eleutherna
Creta: Nuova vita per Eleutherna
Il museo del sito archeologico di Eleutherna, nella prefettura di Rethymno, a Creta, sarà pronto a ricevere i primi visitatori nel 2015. Si sta ultimando, infatti, la sua costruzione. A tutt'oggi sono pronti il seminterrato e il primo piano.
Con la previsione di apertura è stato anche approvato un piano di scavo (2013-2015) che vedrà impegnato il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Creta, presente sul sito dal 1985. Le indagini scientifiche coinvolgeranno il professor Nicholas Stampolidis, docente di Archeologia Classica e la dottoressa Christina Tsigonaki, che si occupa di archeologia bizantina. Gli scavi mirano a rivelare la fase ellenistica e romana della città e a individuare la reale ampiezza della necropoli geometrico-arcaica di Orthi Petra.
Gli scavi di Eleutherna hanno permesso di recuperare reperti eccellenti appartenenti a diverse fasi cronologiche, come case e strade lastricate, santuari, una grande cava di calcare, iscrizioni, sculture, oggetti e vasi in vetro e metallo, statuine e oggetti in avorio.
Il museo del sito archeologico di Eleutherna, nella prefettura di Rethymno, a Creta, sarà pronto a ricevere i primi visitatori nel 2015. Si sta ultimando, infatti, la sua costruzione. A tutt'oggi sono pronti il seminterrato e il primo piano.
Con la previsione di apertura è stato anche approvato un piano di scavo (2013-2015) che vedrà impegnato il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Creta, presente sul sito dal 1985. Le indagini scientifiche coinvolgeranno il professor Nicholas Stampolidis, docente di Archeologia Classica e la dottoressa Christina Tsigonaki, che si occupa di archeologia bizantina. Gli scavi mirano a rivelare la fase ellenistica e romana della città e a individuare la reale ampiezza della necropoli geometrico-arcaica di Orthi Petra.
Gli scavi di Eleutherna hanno permesso di recuperare reperti eccellenti appartenenti a diverse fasi cronologiche, come case e strade lastricate, santuari, una grande cava di calcare, iscrizioni, sculture, oggetti e vasi in vetro e metallo, statuine e oggetti in avorio.
venerdì 19 aprile 2013
Ritratti di Sardegna: "La tradizione classica incontra il folklore"
Ritratti di Sardegna: "La tradizione classica incontra il folklore"
Musica di Lao Silesu, Gavino Gabriel, Ennio Porrino
Musica di Lao Silesu, Gavino Gabriel, Ennio Porrino
“La luna calava nel vasto occidente, dando alla brughiera un incanto selvaggio. O pallide notti delle solitudini sarde… L’aspro odore del lentischio, il lontano mormorio dei boschi solitari, si fondono in un’armonia monotona e melanconica, che da all’animo un senso di tristezza solenne, una nostalgia di cose antiche e pure….”
Grazia Deledda
(tratto da “Elias Portolu” per la Rapsodia Sarda )
Il progetto:
Suoni dell'Isola, incantevoli melodie quasi nate dal vento e dalle pietre e ritmi di danza dal sapore antico, capaci di ammaliare i viaggiatori e riecheggianti nel cuore di chi ha lasciato la propria terra e in più il gusto di una riscoperta, la novità di una partitura ritrovata e inedita. Il fascino delle musiche di Lao Silesu, Gavino Gabriel e Ennio Porrino – tre artisti che respirarono la vive temperie europee tra Ottocento e Novecento, i primi due, anzi coetanei per nascita della generazione dell'80 foriera con Alfano e Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella di una vera rivoluzione nella scena sonora italiana, il più giovane Porrino destinato a suscitare interesse ben oltre le alpi, specie in Germania – racchiuse in un cd e fil rouge di un concerto è forse proprio nel felice equilibrio fra tradizione e innovazione.
L'eleganza e la raffinatezza formale si sposano alle metriche di un ballo e alle parole poetiche di una canzone, in un affresco variegato e prezioso delle atmosfere cittadine, dei riti e dell'allegria della festa, fino alle note tenere e magari maliziose di una serenata: un mondo palpitante di visioni e emozioni si traduce in accordi, vibra sulle corde di un violino, che raddoppia e cui fanno eco le voci più gravi del violoncello e della viola. Inaspettatamente da un quartetto d'archi, emblema della musica colta emergono sonorità squisitamente popolari, con l'effetto di una polifonia di launeddas e il timbro e le dinamiche di un organetto.
Spazio quindi a Notte di mezzo luglio a Bonaria, Osteria a mare e Cagliari, la Peripatetica di Gavino Gabriel che firma anche un Fastiggiu e Abbrìvi, mentre le Tre canzoni italiane di Ennio Porrino rispecchiano tre momenti solo apparentemente contrastanti, ma meglio complementari della realtà dell'Isola: alla Canzone religiosa per “La processione di Sant’Efisio” si giustappone una celeberrima Canzone d’amore, la “Disispirata” di Aggius mentre per la Canzone a Ballo ecco affiorare l'eco dei passi di una Danza di Desulo (anninnora). Ouverture del concerto (e del disco) accanto alla sua “Sèrènade sarde”, la “Rapsodia sarda”, dedicata a Grazia Deledda di Lao Silesu, quasi un simbolo del legame tra l'artista e la sua terra, per una squisita rielaborazione del folklore in chiave europea e già universale.
giovedì 18 aprile 2013
Età del Bronzo: reperti portati alla luce nel corso degli scavi per la TAV a Bergamo.
Scoperte nella pianura bergamasca
Testimonianze della vita di 2000 anni fa rivelate dall'Alta Velocità nella pianura bergamasca. Da un anno sono partite le indagini archeologiche lungo il percorso che vedrà posizionati i binari della Tav. Il primo bilancio non è certo di poco conto: 33 cantieri archeologici tra Treviglio e Antegnate hanno riportato alla luce reperti risalenti ad un periodo che va dalla tarda Età del Bronzo (XII secolo a.C.) fino all'Età Rinascimentale (XV secolo d.C.).
Quanto è stato scoperto finora riguarda insediamenti abitativi e necropoli, dai quali sono emersi monete emonili d'argento, punte di freccia, giavellotti in bronzo e molti oggetti in ceramica e vetro. tutto ad una profondità di appena 20-60 centimetri.
Il maggior numero di ritrovamenti sono ascrivibili all'età romana e tardo romana (I secolo a.C. - IV secolo d.C.). Particolarmente interessante è una necropoli ritrovata a Bariano, composta da 36 tombe disposte lungo una strada antica larga sei metri che faceva parte della rete viaria romana nella pianura bergamasca. Le tombe contenevano corredi funerari con piatti, coppe, olle, balsamari, il tutto piuttosto frammentato. Sono state trovate anche delle monete, il famoso "obolo di Caronte" che, come si credeva in antico, i defunti dovevano consegnare al terribile nocchiero dell'Ade per poter usufruire di un "passaggio" sull'infernale traghetto che attraversava il fiume Acheronte.
Fonte: Le nebbie del tempo.
Invito i lettori a confrontare l'immagine in alto (Reperti di Bergamo) con le due sotto (Museo di Cagliari). E' evidente che si tratta degli stessi reperti.
Testimonianze della vita di 2000 anni fa rivelate dall'Alta Velocità nella pianura bergamasca. Da un anno sono partite le indagini archeologiche lungo il percorso che vedrà posizionati i binari della Tav. Il primo bilancio non è certo di poco conto: 33 cantieri archeologici tra Treviglio e Antegnate hanno riportato alla luce reperti risalenti ad un periodo che va dalla tarda Età del Bronzo (XII secolo a.C.) fino all'Età Rinascimentale (XV secolo d.C.).
Quanto è stato scoperto finora riguarda insediamenti abitativi e necropoli, dai quali sono emersi monete emonili d'argento, punte di freccia, giavellotti in bronzo e molti oggetti in ceramica e vetro. tutto ad una profondità di appena 20-60 centimetri.
Il maggior numero di ritrovamenti sono ascrivibili all'età romana e tardo romana (I secolo a.C. - IV secolo d.C.). Particolarmente interessante è una necropoli ritrovata a Bariano, composta da 36 tombe disposte lungo una strada antica larga sei metri che faceva parte della rete viaria romana nella pianura bergamasca. Le tombe contenevano corredi funerari con piatti, coppe, olle, balsamari, il tutto piuttosto frammentato. Sono state trovate anche delle monete, il famoso "obolo di Caronte" che, come si credeva in antico, i defunti dovevano consegnare al terribile nocchiero dell'Ade per poter usufruire di un "passaggio" sull'infernale traghetto che attraversava il fiume Acheronte.
Fonte: Le nebbie del tempo.
Invito i lettori a confrontare l'immagine in alto (Reperti di Bergamo) con le due sotto (Museo di Cagliari). E' evidente che si tratta degli stessi reperti.
mercoledì 17 aprile 2013
Sardegna, per un turismo sostenibile - libro pdf scaricabile gratuitamente-
Sardegna, per un turismo sostenibile - libro pdf scaricabile gratuitamente-
Cari lettori del quotidiano di storia e archeologia,
in un momento di crisi economica e di carenza di lavoro ho pensato di regalare agli operatori turistici, e agli amici che mi seguono su queste pagine, una mia nuova fatica letteraria. Questa volta ho dedicato l'attenzione a un tema spesso dibattuto ma raramente approfondito nei suoi princìpi costitutivi: il ciclo di vita di una destinazione turistica e la sua sostenibilità. Chi volesse scaricare gratuitamente il file, ed effettuare quindi il download del libro, dovrà semplicemente provvedere alla stampa in una qualunque copisteria. Confido nella vostra riservatezza per quanto riguarda l'utilizzo del contenuto, in quanto il copyright vorrei comunque tenerlo di mia proprietà in vista di futuri aggiornamenti o per una veste editoriale dedicata alle scuole.
PER SCARICARE CLICCARE QUI
Buona lettura.
Cari lettori del quotidiano di storia e archeologia,
in un momento di crisi economica e di carenza di lavoro ho pensato di regalare agli operatori turistici, e agli amici che mi seguono su queste pagine, una mia nuova fatica letteraria. Questa volta ho dedicato l'attenzione a un tema spesso dibattuto ma raramente approfondito nei suoi princìpi costitutivi: il ciclo di vita di una destinazione turistica e la sua sostenibilità. Chi volesse scaricare gratuitamente il file, ed effettuare quindi il download del libro, dovrà semplicemente provvedere alla stampa in una qualunque copisteria. Confido nella vostra riservatezza per quanto riguarda l'utilizzo del contenuto, in quanto il copyright vorrei comunque tenerlo di mia proprietà in vista di futuri aggiornamenti o per una veste editoriale dedicata alle scuole.
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Buona lettura.
martedì 16 aprile 2013
Escursione archeologica a Olbia: Cabu Abbas, Sa Testa e Su Monte e S'Abe. 2° e ultima parte.
Escursione archeologica a Olbia: Cabu Abbas, Sa Testa e Su Monte e S'Abe. 2° e ultima parte.
di Pierluigi Montalbano
E’ mattino, e Yago mi porta il guinzaglio vicino al letto. Mi sento osservato e con la coda dell’occhio intuisco la sua figura fra me e la finestra. E’ ora di alzarsi, un nuovo giorno, questa volta dedicato alla scoperta del territorio di Olbia, ci attende. L’appuntamento con gli amici di ArcheOlbia è nella piazzola dell’Hotel Demar, sotto il nostro balcone. Mi affaccio e vedo il sole che sorge all’orizzonte. Yago inizia a brontolare, la sua passeggiata mattutina non può attendere. Rapidamente infilo la tuta e usciamo, mentre Rita prepara i bagagli. La temperatura è tiepida, temo che più tardi il sole riscalderà parecchio. Intorno all’hotel, alla periferia nord della città gallurese, noto con soddisfazione che l’indirizzo economico delle attività è legato al turismo. Caffetterie, pasticcerie, gelaterie, negozi di artigianato, hotel, dolci sardi…gli olbiensi non si fanno mancare nulla. Saldo il conto, ringrazio per l’ospitalità, e chiedo lumi alla proprietaria sul motivo di un costo così contenuto. Mi spiega che la crisi si sente anche in Gallura, e la stagionalità si è ridotta. In sostanza l’offerta turistica è concentrata nei mesi estivi, e durante l’anno si apre solo per coprire i costi.
Suggerirò questa struttura agli amici del capo di sotto che intendono trascorrere una vacanza destagionalizzata in questa zona. Imma e Pietro, i nostri amici di Olbia, sono pronti per l’escursione, e ci avviamo verso la zona sud della città. Dopo pochi minuti siamo bloccati, lungo il percorso si svolge una maratona dilettantistica e siamo costretti ad attendere il passaggio di tutti i concorrenti. Sbuffano, pestano le scarpette sull’asfalto e, ansimanti, tentano di mantenere il passo con il gruppetto dei primi, speranza vana a giudicare dal loro aspetto. E’ ora di ripartire, gli addetti al traffico fanno un cenno con la paletta e siamo nuovamente in marcia. Una rotonda dietro l’altra giungiamo in periferia, mi chiedo se gli amministratori abbiano ottenuto una fornitura conveniente di cemento e l’abbiano destinata alla realizzazione delle decine di rotatorie che affollano questa località. Imma, la nostra amica e guida, suggerisce di iniziare l’itinerario dal nuraghe Cabu Abbas, una struttura abbarbicata sulla cima di una montagna dalla quale si domina il Golfo di Olbia. Accettiamo di buon grado, mai contraddire i locali, e parcheggiamo l’auto nei pressi di una fontana alla base del colle. L’acqua è purissima, fresca e abbondante, non mi sorprende che i nuragici decisero di antropizzare questo sito. Inizia la salita a piedi, un faticoso sentiero granitico ben curato che mette a dura prova le nostre articolazioni. Il panorama migliora con l’altezza e ci fermiamo per tirare il fiato. Tafoni e granito sono a portata di mano, rifletto sul fatto che la pietra non manca in questo sito. Giunti alla sommità siamo avvolti da una serie di poderosi muri a secco, spessi circa 4 metri, che circondano la vetta. Un ingresso a corridoio ricavato nello spessore murario conduce verso il nuraghe, somiglia alla muraglia di Monte Baranta, ma in questo caso è circolare e i sassi non sono ciclopici. Da lassù si gode di una vista pazzesca! Il porto, la baia, i verdi terreni a valle, e il silenzio è rotto solo da qualche uccello che richiama i suoi piccoli. Il profumo della natura è forte, e si miscela piacevolmente con il paesaggio.
Proseguiamo la salita per qualche metro, non senza qualche difficoltà, è giungiamo sulla vetta. Apriti cielo, entriamo in un nuraghe realizzato sfruttando parzialmente lo sperone roccioso. Si notano le camere, la scala e le nicchie, e si intuisce la planimetria, con almeno due tholos sovrapposte, oggi presenti solo in pochi filari, che fanno di questo sito uno dei più suggestivi presenti nell’isola. La vista a 360° ci fa capire che i nuragici si trattavano bene, e sapevano dove, come e perché costruire. Realizzato con massi di granito sbozzati e disposti su file regolari, il nuraghe presenta un ingresso architravato rivolto a Sud che introduce in un corridoio di 3 metri sulle pareti del quale si aprono a destra una piccola nicchia e a sinistra una scala di cui rimangono 9 gradini che portava al piano superiore, ora scomparso.
La camera quasi circolare, oggi svettata, presenta due nicchie e nella parete di fondo è realizzato un piccolo pozzo, probabilmente utilizzato per le derrate alimentari. Yago gironzola felice per il sito, entrando nelle nicchie per cercare un po’ d’ombra. Avere un doppio manto peloso nero è certamente utile in inverno, ma con queste temperature costringe a evitare i raggi solari. La scoperta nel 1936 di un bronzetto raffigurante una donna con anfora sulla testa, e la presenza della sorgente a valle, testimoniano una funzione rituale, legata al culto delle acque. La cortina muraria lunga oltre 200 metri, cinge il sito ed è alta circa 5 metri. Ingloba numerosi affioramenti rocciosi ed è costruita nella parte inferiore con grandi blocchi di granito ai quali si sovrappongono nei livelli superiori massi più piccoli. Dopo le consuete foto ricordo, scendiamo a valle per ristorarci alla sorgente del parcheggio. La seconda tappa è il pozzo sacro Sa Testa, a Pittulongu, un borgo costiero alla periferia di Olbia.
Imma ci precede e saluta i ragazzi che gestiscono le visite al sito. Francesco, l’archeologo che ci guiderà alla scoperta del monumento è preparato, sono felice che il livello delle guide turistiche sia all’altezza dei nostri beni culturali. Il tempio è costituito da un ampio cortile circolare, un atrio, una scala e una camera con volta a tholos che capta la vena sorgiva. Il cortile lastricato è attraversato da una canaletta per il deflusso dell'acqua e presenta lungo l'intero sviluppo un bancone-sedile. Il tempio a pozzo, realizzato con blocchi di scisto, granito e trachite, leggermente sbozzati, conserva in parte l’ingresso, realizzato a un livello inferiore rispetto al cortile. L'ambiente trapezoidale presenta sedili lungo le pareti e il pavimento lastricato è attraversato da una canaletta.
La scala ha 17 gradini, e presenta una copertura costituita da lastre di granito che riproducono una sorta di scala rovesciata. La camera del pozzo è realizzata con massi disposti su 28 filari regolari. Sopra l’ipogeo si conserva per un’altezza residua di circa un metro e mezzo, una camera a tholos. Il tempio, come di consueto, è databile tra la fine del Bronzo e il Primo Ferro. I ragazzi dell'associazione ArcheOlbia, ci raccontano che la notte di San Lorenzo organizzarono un evento notturno allestendo il sito con lumicini e torce, dando vita a un evento che piacque parecchio ai visitatori.
E’ un suggerimento che girerò ad altri gestori, invitandoli a copiare questa bella iniziativa. E’ quasi ora di pranzo, ma l’escursione non è ancora completa, Imma ci convince ad andare verso Loiri, nei pressi dell’Aeroporto Costa Smeralda, alla Tomba di Giganti Su Monte e S’Abe. Lungo la strada, superate un centinaio di rotatorie tanto grandi quanto inutili, notiamo due siti interessanti: la fattoria romana di S’imbalconadu, nota per il rinvenimento di una stele in granito con il simbolo della dea fenicia Tanit, e il Castello di Pedres, un complesso del XII d.C. commissionato dai Visconti, una potente famiglia pisana che resse il Giudicato di Gallura fino al XIII secolo. Edificato su una ripida roccia alta quasi 100 metri, sovrasta la parte meridionale della conca di Olbia. A pochi metri dalla rupe troviamo ad aspettarci gli amici della cooperativa che presidia la Tomba di Giganti. Il sepolcro di Su monte e s'abe è considerato il più grande della Sardegna con i suoi 28,5 metri di lunghezza dall’ingresso all’abside, nonostante sull'altopiano di Goronna, a Paulilatino, si conservi un corridoio funerario di 24,5 metri, poco più lungo dell’interno di quello che vediamo oggi. La sepoltura a corridoio, di derivazione dolmenica, è costituita da un esedra composta da lastroni verticali, con bancone-sedile alla base, e da un corridoio a ortostati con copertura a piattabanda.
La camera sepolcrale deriva da una sepoltura più arcaica, un alleè cuverte, che in un secondo momento è stata rifasciata e trasformata in tomba dei giganti. La grande stele centinata, della quale si conserva solo il lato sinistro fino all'altezza della sommità del portello, è assente, ma secondo la nostra guida doveva essere bilitica, alta circa quattro metri. Al termine del corridoio funerario è infissa una lastra, perpendicolarmente all'asse, e dietro essa ci sono alcuni metri di tumulo fino all'abside, incredibilmente non ancora oggetto di scavo. Incuriosisce lo spazio fra la lastra e l’abside, e a mio avviso potrebbe celare un’arcaica cista litica, simile a ciò che si nota a Lunamatrona nella Tomba di Giganti denominata Cuaddu de Nixas. Il nostro fidato amico Yago è l’unico ad avere il privilegio di infilarsi nel corridoio funerario, e ci osserva compiaciuto scodinzolando animatamente. Pietro, uno degli amici che ci accompagna nell’escursione, fortunatamente scatta una serie di foto che utilizzerò per l’articolo, in quanto la mia macchina fotografica ha esaurito la carica energetica e inesorabilmente mi avvisa di sostituire la batteria. La giornata volge al termine, rientriamo verso l’auto vinti dalla bellezza dei siti visitati.
Olbia merita tutta l’attenzione dell’archeologia internazionale, peccato che si continui a investire esclusivamente per cercare materiali greci e punici, un dispendio di risorse che non illumina le nostre origini e non aggiunge nulla a ciò che già conosciamo della breve frequentazione greca nella cittadina gallurese. Forse in futuro qualche soprintendente illuminato capirà che la civiltà nuragica è il biglietto da visita esclusivo della storia antica della nostra isola, la bandiera della nostra identità storica dell’età d’oro, e inizierà a mirare verso ciò che i turisti culturali cercano in Sardegna: scoprire un’antica civiltà che realizzò nuraghi, tombe di giganti, pozzi sacri e bronzetti. Oggi i finanziamenti per gli scavi e la ricerca a Olbia sono accentrati verso il segmento greco perché l’attuale responsabile degli scavi si occupa solo del periodo greco e romano.
Ma quell’epoca non mostra le nostre vere radici storiche, non ci identifica. Si parla tanto di incrementare il turismo offrendo identità e tradizioni, ossia cultura, e poi s’investe in rotatorie superflue e scavi mirati a ricostruire la storia di altri popoli. Rientriamo verso Cagliari, la strada concilia il sonno, ma a breve incontrerò gli amici del Nuraghe Losa, il miglior caffè delle S.S. 131 sorseggiato all'ombra del maestoso gigante bruno che domina sul territorio di Abbasanta. Si tratta di una delle espressioni più alte dell'architettura nuragica, per il disegno organico e la raffinatezza delle tecniche murarie. Edificato con blocchi di basalto, con il suo bastione trilobato che contiene il mastio, e un poderoso antemurale circondato da un'ulteriore cinta muraria. All'interno i nuragici realizzarono una serie di capanne circolari e una tomba di Giganti edificata con conci isodomi, ossia blocchi regolari parallelepipedi elegantemente rifiniti. Il complesso fu costruito in più fasi: fra il XV e gli inizi del XIII a.C. con la costruzione del mastio, dalla metà del XIII alla fine del XII a.C. con la costruzione del bastione, dell'antemurale e della cinta esterna, infine dal XII agli inizi del IX a.C. con la costruzione della capanna 1. Il sito fu abitato ancora nella prima età del Ferro e nelle epoche successive, anche a scopo funerario, fino al VII-VIII d.C.
Bene…il mio racconto è giunto al termine, vi ringrazio per essere giunti fino all’ultima riga e, insieme a Rita e Yago, ringrazio Imma, Durdica e Pietro per avermi regalato tante emozioni, e vi saluto con affetto.
di Pierluigi Montalbano
E’ mattino, e Yago mi porta il guinzaglio vicino al letto. Mi sento osservato e con la coda dell’occhio intuisco la sua figura fra me e la finestra. E’ ora di alzarsi, un nuovo giorno, questa volta dedicato alla scoperta del territorio di Olbia, ci attende. L’appuntamento con gli amici di ArcheOlbia è nella piazzola dell’Hotel Demar, sotto il nostro balcone. Mi affaccio e vedo il sole che sorge all’orizzonte. Yago inizia a brontolare, la sua passeggiata mattutina non può attendere. Rapidamente infilo la tuta e usciamo, mentre Rita prepara i bagagli. La temperatura è tiepida, temo che più tardi il sole riscalderà parecchio. Intorno all’hotel, alla periferia nord della città gallurese, noto con soddisfazione che l’indirizzo economico delle attività è legato al turismo. Caffetterie, pasticcerie, gelaterie, negozi di artigianato, hotel, dolci sardi…gli olbiensi non si fanno mancare nulla. Saldo il conto, ringrazio per l’ospitalità, e chiedo lumi alla proprietaria sul motivo di un costo così contenuto. Mi spiega che la crisi si sente anche in Gallura, e la stagionalità si è ridotta. In sostanza l’offerta turistica è concentrata nei mesi estivi, e durante l’anno si apre solo per coprire i costi.
Suggerirò questa struttura agli amici del capo di sotto che intendono trascorrere una vacanza destagionalizzata in questa zona. Imma e Pietro, i nostri amici di Olbia, sono pronti per l’escursione, e ci avviamo verso la zona sud della città. Dopo pochi minuti siamo bloccati, lungo il percorso si svolge una maratona dilettantistica e siamo costretti ad attendere il passaggio di tutti i concorrenti. Sbuffano, pestano le scarpette sull’asfalto e, ansimanti, tentano di mantenere il passo con il gruppetto dei primi, speranza vana a giudicare dal loro aspetto. E’ ora di ripartire, gli addetti al traffico fanno un cenno con la paletta e siamo nuovamente in marcia. Una rotonda dietro l’altra giungiamo in periferia, mi chiedo se gli amministratori abbiano ottenuto una fornitura conveniente di cemento e l’abbiano destinata alla realizzazione delle decine di rotatorie che affollano questa località. Imma, la nostra amica e guida, suggerisce di iniziare l’itinerario dal nuraghe Cabu Abbas, una struttura abbarbicata sulla cima di una montagna dalla quale si domina il Golfo di Olbia. Accettiamo di buon grado, mai contraddire i locali, e parcheggiamo l’auto nei pressi di una fontana alla base del colle. L’acqua è purissima, fresca e abbondante, non mi sorprende che i nuragici decisero di antropizzare questo sito. Inizia la salita a piedi, un faticoso sentiero granitico ben curato che mette a dura prova le nostre articolazioni. Il panorama migliora con l’altezza e ci fermiamo per tirare il fiato. Tafoni e granito sono a portata di mano, rifletto sul fatto che la pietra non manca in questo sito. Giunti alla sommità siamo avvolti da una serie di poderosi muri a secco, spessi circa 4 metri, che circondano la vetta. Un ingresso a corridoio ricavato nello spessore murario conduce verso il nuraghe, somiglia alla muraglia di Monte Baranta, ma in questo caso è circolare e i sassi non sono ciclopici. Da lassù si gode di una vista pazzesca! Il porto, la baia, i verdi terreni a valle, e il silenzio è rotto solo da qualche uccello che richiama i suoi piccoli. Il profumo della natura è forte, e si miscela piacevolmente con il paesaggio.
Proseguiamo la salita per qualche metro, non senza qualche difficoltà, è giungiamo sulla vetta. Apriti cielo, entriamo in un nuraghe realizzato sfruttando parzialmente lo sperone roccioso. Si notano le camere, la scala e le nicchie, e si intuisce la planimetria, con almeno due tholos sovrapposte, oggi presenti solo in pochi filari, che fanno di questo sito uno dei più suggestivi presenti nell’isola. La vista a 360° ci fa capire che i nuragici si trattavano bene, e sapevano dove, come e perché costruire. Realizzato con massi di granito sbozzati e disposti su file regolari, il nuraghe presenta un ingresso architravato rivolto a Sud che introduce in un corridoio di 3 metri sulle pareti del quale si aprono a destra una piccola nicchia e a sinistra una scala di cui rimangono 9 gradini che portava al piano superiore, ora scomparso.
La camera quasi circolare, oggi svettata, presenta due nicchie e nella parete di fondo è realizzato un piccolo pozzo, probabilmente utilizzato per le derrate alimentari. Yago gironzola felice per il sito, entrando nelle nicchie per cercare un po’ d’ombra. Avere un doppio manto peloso nero è certamente utile in inverno, ma con queste temperature costringe a evitare i raggi solari. La scoperta nel 1936 di un bronzetto raffigurante una donna con anfora sulla testa, e la presenza della sorgente a valle, testimoniano una funzione rituale, legata al culto delle acque. La cortina muraria lunga oltre 200 metri, cinge il sito ed è alta circa 5 metri. Ingloba numerosi affioramenti rocciosi ed è costruita nella parte inferiore con grandi blocchi di granito ai quali si sovrappongono nei livelli superiori massi più piccoli. Dopo le consuete foto ricordo, scendiamo a valle per ristorarci alla sorgente del parcheggio. La seconda tappa è il pozzo sacro Sa Testa, a Pittulongu, un borgo costiero alla periferia di Olbia.
Imma ci precede e saluta i ragazzi che gestiscono le visite al sito. Francesco, l’archeologo che ci guiderà alla scoperta del monumento è preparato, sono felice che il livello delle guide turistiche sia all’altezza dei nostri beni culturali. Il tempio è costituito da un ampio cortile circolare, un atrio, una scala e una camera con volta a tholos che capta la vena sorgiva. Il cortile lastricato è attraversato da una canaletta per il deflusso dell'acqua e presenta lungo l'intero sviluppo un bancone-sedile. Il tempio a pozzo, realizzato con blocchi di scisto, granito e trachite, leggermente sbozzati, conserva in parte l’ingresso, realizzato a un livello inferiore rispetto al cortile. L'ambiente trapezoidale presenta sedili lungo le pareti e il pavimento lastricato è attraversato da una canaletta.
La scala ha 17 gradini, e presenta una copertura costituita da lastre di granito che riproducono una sorta di scala rovesciata. La camera del pozzo è realizzata con massi disposti su 28 filari regolari. Sopra l’ipogeo si conserva per un’altezza residua di circa un metro e mezzo, una camera a tholos. Il tempio, come di consueto, è databile tra la fine del Bronzo e il Primo Ferro. I ragazzi dell'associazione ArcheOlbia, ci raccontano che la notte di San Lorenzo organizzarono un evento notturno allestendo il sito con lumicini e torce, dando vita a un evento che piacque parecchio ai visitatori.
E’ un suggerimento che girerò ad altri gestori, invitandoli a copiare questa bella iniziativa. E’ quasi ora di pranzo, ma l’escursione non è ancora completa, Imma ci convince ad andare verso Loiri, nei pressi dell’Aeroporto Costa Smeralda, alla Tomba di Giganti Su Monte e S’Abe. Lungo la strada, superate un centinaio di rotatorie tanto grandi quanto inutili, notiamo due siti interessanti: la fattoria romana di S’imbalconadu, nota per il rinvenimento di una stele in granito con il simbolo della dea fenicia Tanit, e il Castello di Pedres, un complesso del XII d.C. commissionato dai Visconti, una potente famiglia pisana che resse il Giudicato di Gallura fino al XIII secolo. Edificato su una ripida roccia alta quasi 100 metri, sovrasta la parte meridionale della conca di Olbia. A pochi metri dalla rupe troviamo ad aspettarci gli amici della cooperativa che presidia la Tomba di Giganti. Il sepolcro di Su monte e s'abe è considerato il più grande della Sardegna con i suoi 28,5 metri di lunghezza dall’ingresso all’abside, nonostante sull'altopiano di Goronna, a Paulilatino, si conservi un corridoio funerario di 24,5 metri, poco più lungo dell’interno di quello che vediamo oggi. La sepoltura a corridoio, di derivazione dolmenica, è costituita da un esedra composta da lastroni verticali, con bancone-sedile alla base, e da un corridoio a ortostati con copertura a piattabanda.
La camera sepolcrale deriva da una sepoltura più arcaica, un alleè cuverte, che in un secondo momento è stata rifasciata e trasformata in tomba dei giganti. La grande stele centinata, della quale si conserva solo il lato sinistro fino all'altezza della sommità del portello, è assente, ma secondo la nostra guida doveva essere bilitica, alta circa quattro metri. Al termine del corridoio funerario è infissa una lastra, perpendicolarmente all'asse, e dietro essa ci sono alcuni metri di tumulo fino all'abside, incredibilmente non ancora oggetto di scavo. Incuriosisce lo spazio fra la lastra e l’abside, e a mio avviso potrebbe celare un’arcaica cista litica, simile a ciò che si nota a Lunamatrona nella Tomba di Giganti denominata Cuaddu de Nixas. Il nostro fidato amico Yago è l’unico ad avere il privilegio di infilarsi nel corridoio funerario, e ci osserva compiaciuto scodinzolando animatamente. Pietro, uno degli amici che ci accompagna nell’escursione, fortunatamente scatta una serie di foto che utilizzerò per l’articolo, in quanto la mia macchina fotografica ha esaurito la carica energetica e inesorabilmente mi avvisa di sostituire la batteria. La giornata volge al termine, rientriamo verso l’auto vinti dalla bellezza dei siti visitati.
Olbia merita tutta l’attenzione dell’archeologia internazionale, peccato che si continui a investire esclusivamente per cercare materiali greci e punici, un dispendio di risorse che non illumina le nostre origini e non aggiunge nulla a ciò che già conosciamo della breve frequentazione greca nella cittadina gallurese. Forse in futuro qualche soprintendente illuminato capirà che la civiltà nuragica è il biglietto da visita esclusivo della storia antica della nostra isola, la bandiera della nostra identità storica dell’età d’oro, e inizierà a mirare verso ciò che i turisti culturali cercano in Sardegna: scoprire un’antica civiltà che realizzò nuraghi, tombe di giganti, pozzi sacri e bronzetti. Oggi i finanziamenti per gli scavi e la ricerca a Olbia sono accentrati verso il segmento greco perché l’attuale responsabile degli scavi si occupa solo del periodo greco e romano.
Ma quell’epoca non mostra le nostre vere radici storiche, non ci identifica. Si parla tanto di incrementare il turismo offrendo identità e tradizioni, ossia cultura, e poi s’investe in rotatorie superflue e scavi mirati a ricostruire la storia di altri popoli. Rientriamo verso Cagliari, la strada concilia il sonno, ma a breve incontrerò gli amici del Nuraghe Losa, il miglior caffè delle S.S. 131 sorseggiato all'ombra del maestoso gigante bruno che domina sul territorio di Abbasanta. Si tratta di una delle espressioni più alte dell'architettura nuragica, per il disegno organico e la raffinatezza delle tecniche murarie. Edificato con blocchi di basalto, con il suo bastione trilobato che contiene il mastio, e un poderoso antemurale circondato da un'ulteriore cinta muraria. All'interno i nuragici realizzarono una serie di capanne circolari e una tomba di Giganti edificata con conci isodomi, ossia blocchi regolari parallelepipedi elegantemente rifiniti. Il complesso fu costruito in più fasi: fra il XV e gli inizi del XIII a.C. con la costruzione del mastio, dalla metà del XIII alla fine del XII a.C. con la costruzione del bastione, dell'antemurale e della cinta esterna, infine dal XII agli inizi del IX a.C. con la costruzione della capanna 1. Il sito fu abitato ancora nella prima età del Ferro e nelle epoche successive, anche a scopo funerario, fino al VII-VIII d.C.
Bene…il mio racconto è giunto al termine, vi ringrazio per essere giunti fino all’ultima riga e, insieme a Rita e Yago, ringrazio Imma, Durdica e Pietro per avermi regalato tante emozioni, e vi saluto con affetto.
lunedì 15 aprile 2013
Escursione archeologica a Olbia: Domus di Oniferi, Su Tempiesu di Orune e Su Romanzesu di Bitti. 1° parte di 2.
Escursione archeologica a Olbia
di Pierluigi Montalbano
1° parte
Un nuovo sole fa capolino rosseggiando le cime all’orizzonte e affrontando una luna che si appresta a scomparire nel cielo. E’ sabato, e questa sera sarò relatore in Gallura, invitato dagli amici di ArcheOlbia che hanno organizzato un convegno per la presentazione del mio libro “Antichi Popoli del Mediterraneo”, edito da Capone lo scorso anno. Di buon mattino, dopo aver consumato una ricca colazione ammirando lo spettacolo dell’alba, aiuto mia moglie Rita nella preparazione del necessario per trascorrere il week-end. Qualche borsa, due bottiglie d’acqua preventivamente lasciate in freezer per conservare a lungo la freschezza, il computer, la macchina fotografica e tanto entusiasmo per l’avventura che sempre accompagna le nostre escursioni. Yago, il nostro fido cagnolino nuragico, verifica se le crocchette, il riso e il pollo sono sufficienti per il pasto quotidiano, per nulla sorpreso dalla quantità e dall’aroma sprigionato dal contenitore ancora caldo. Il nostro amico, affidatoci dal canile di Cagliari quasi 6 anni fa, non conosce cibi in scatola, e la sua salute conferma che la nostra scelta alimentare è stata positiva. Saliamo in auto e dopo qualche minuto siamo fuori dalla città, diretti verso il nord dell’isola. Prima tappa dagli amici dell’associazione Archeotour, gestori del sito realizzato intorno al pozzo sacro di Santa Cristina. Una breve chiacchierata e siamo nuovamente in viaggio, increduli davanti a un’azienda nei pressi di Paulilatino nella quale si vendono enormi pietre certamente ricavate dallo smontaggio di qualche nuraghe nei dintorni. Arricchiscono la loro offerta con dolmen e menhir giganteschi, e sono attraversato da un brivido quando provo a immaginare quale sia la provenienza di quel materiale. Lo svincolo di Ghilarza riaccende buoni pensieri perché so che da lì a poco potrò fare una preghierina nel santuario di San Costantino a Sedilo, una delle mie mete preferite. Il comitato è già impegnato nella preparazione dell’ardia che si svolgerà a Luglio, e due ragazze lustrano la chiesa.
Per la prima volta vedo le pareti illuminate dalla luce naturale che penetra dall’ingresso, completamente spalancato, e dalla luce artificiale che illumina l’altare e gli angoli. Generalmente San Costantino si presenta buia, sublime, tappezzata da ex-voto che i fedeli offrono al santo. Oggi è solare, radiosa, annuncia la primavera e una nuova stagione di raccolta. Nel parco mi aggiro fra i betili e gli altri elementi architettonici che i nuragici realizzavano per ingraziarsi le divinità. Saluto il comitato e mi dirigo verso un cavallo che mi osserva da qualche minuto. Nero, elegante, con due occhioni profondi che controllano le mosse di Yago, si avvicina per le carezze di rito. Siamo amici ora, e sono certo che si ricorderà di me quando ritornerò in questo incantevole santuario. L’auto ronfa speditamente verso Nuoro, arrampicandosi lungo una strada deserta che offre paesaggi verdi e gialli, alternati da mostri industriali che meriterebbero un colpo di spugna per cancellare dalla memoria un fallimento che ha messo in ginocchio l’economia del territorio. Sulla destra, Rita nota una parete lievemente degradante che presenta fori nella roccia. Rallento e mi accorgo che si tratta della necropoli di Oniferi, le famose domus de janas con i petroglifi. E’ la prima volta che posso vederle e toccarle, e non posso lasciarmi sfuggire l’occasione. Parcheggiamo nei pressi del cancelletto in legno che separa il terreno dalla strada e iniziamo la passeggiata. L’erba è alta e dobbiamo attraversare un rivolo d’acqua prima di giungere sul pianoro forato. Che spettacolo! Yago le visita tutte, immergendosi nell’acqua contenuta all’interno a causa delle abbondanti piogge dei giorni scorsi. Il silenzio è rotto solo da qualche mezzo agricolo che opera nei terreni vicini. Approfittiamo della luminosità della giornata per scattare qualche foto. La piacevolezza del sito è interrotta da un evento inaspettato: un vascone artificiale scavato nella roccia, di notevoli dimensioni, si apre dietro un macchione di rovi e fichi d’india. E’ uno spettacolo della natura miscelato con il lavoro dell’uomo. Posso solo immaginare quanto lavoro è stato fatto per scavare questo bacino d’acqua frequentato oggi dagli animali della zona.
Un altro rullino di foto si avvolge nella macchina e proseguiamo il viaggio. Superato lo svincolo per Nuoro leggiamo nei cartelli stradali una indicazione che accende la mia fantasia: Orune. Rallento e, senza troppi sforzi, convinco Rita e Yago a fare una deviazione verso la montagna. Tante volte ho letto di un luogo paradisiaco, storicamente importante, legato all’acqua e ai nuragici: Su Tempiesu, una fonte sacra immersa nel bosco. Inserisco le ridotte perché l’auto pesa oltre due tonnellate e il cambio automatico inizia a soffrire la salita. Poco prima di Orune spicca su una cima un gruppo di massi con una forma caratteristica. Un amico dice che ricorda un cowboy, ma secondo noi sembra più un esploratore col naso lungo e uno zainetto sulle spalle. Foto di rito e proseguimento del viaggio. I cartelli sono frequenti e non abbiamo problemi a trovare il sito. Circa 5 km di sentiero asfaltato ci conducono da Orune fino al complesso dedicato agli dei dell’acqua: la fonte sacra di Su Tempiesu. Il profumo della campagna inonda l’ambiente mentre una signora che si occupa della biglietteria ci illustra il doppio percorso: una via di 800 metri che si snoda verso il basso dedicata alle piante locali, con cartelli che consentono di riconoscere le specie, e la risalita da percorrere al termine della visita della fonte, dedicata alle specie animali, anch’essa dotata di cartelli esplicativi e corredata con una pinnetta rivestita col sughero e una capanna che riproduce le celebri “capanne delle riunioni” della prima età del Ferro.
La fonte sacra di Su Tempiesu fu scoperta nel 1953, realizzata allo scopo di captare e incanalare una vena sorgiva che sgorgava tra due ripide pareti di scisto per approvvigionare del prezioso liquido le vicine comunità del nuraghe S. Lulla e del villaggio verso la vallata di Marreri. Successivamente, intorno al XII a.C., la trasformazione in luogo di culto fece convergere nel sito i clan nuragici della vallata dell'Isalle. La struttura di Su Tempiesu mostra gli elementi tipici dei pozzi sacri: atrio, scala e pozzo, in questo caso coperto a tholos. L’atrio rettangolare è delimitato dai due sostegni che s’innalzano obliquamente e si restringono verso l'alto del paramento interno.
Il vano, è pavimentato con lastre di trachite e presenta lateralmente due banconi-sedile realizzati con blocchi. Alla sommità, l’ingresso presenta due archetti monolitici decorativi. La facciata del tempio presenta una copertura a doppia falda che, appoggiandosi alla parete naturale di scisto, copre l’edificio costituendo un timpano di gusto gotico. In origine, nella parte superiore del timpano erano infisse 20 spade votive in bronzo, saldate negli incavi con colate di piombo. Dall’ingresso, una scala trapezoidale introduce al piccolo vano che raccoglie l’acqua sorgiva. La base lastricata presenta una fossetta circolare di decantazione per cui le acque si mantengono sempre limpidissime. Le acque che traboccano si raccolgono al di sotto, in una seconda struttura di raccolta dell’acqua che riproduce, in scala minore, la costruzione maggiore. Anche in questo pozzetto, con imboccatura sovrastata da un archetto, ci sono una canaletta con gocciolatoio in steatite e una fossetta di decantazione. Proprio da questo pozzetto provengono numerosi reperti votivi offerti alla divinità delle acque: bronzetti figurati, spilloni, braccialetti, anelli, stiletti miniaturistici, spade, bottoni.
Dal punto di vista costruttivo la fonte di Su Tempiesu è realizzata con blocchi isodomi di trachite e di basalto, lavorati a martellina e messi in opera senza uso di malta. I blocchi provengono da oltre 10 km, attraverso la vallata del fiume Isalle in quanto nell’area del monumento sono presenti soltanto lo scisto e il granito. Al termine della visita salutiamo Peppino Goddi, uno dei responsabili del sito, e ci avviamo verso Bitti, alla scoperta del suggestivo sito Su Romanzesu, del quale ho sentito tanto parlare ma non ho mai visitato. Un altopiano granitico posto ai limiti settentrionali del territorio nuorese, al km 54.2 della provinciale 389 che conduce a Buddusò, giungiamo nel primo pomeriggio, accolti da Nando, la guida che ci accompagnerà lungo il percorso. E’ un mondo cristallizzato nei millenni, silenzioso, colorato, reso magico da un aura luminosa che avvolge le pietre e un fitto bosco di sughere. Yago si inoltra nella vegetazione, mentre Rita inizia a scattare foto per immortalare questo luogo fuori dalla realtà. Il toponimo Su Romanzesu é dovuto alla presenza di testimonianze di epoca romano imperiale quando nell'altopiano furono realizzati alcuni insediamenti produttivi. Gli stessi romani realizzarono un'importante strada che partiva dalle sorgenti del fiume Tirso e raggiungeva la mansio di Sorabile, in agro di Fonni, un avamposto militare per il controllo dei monti del Gennargentu. Il sito si snoda per sette ettari vicino alla sorgente del fiume Tirso, nei pressi della quale è stato costruito il pozzo sacro, la struttura più antica del complesso.
Nel villaggio si notano numerose capanne, due templi a megaron, un edificio rettangolare, una grande struttura labirintica, e una struttura a forma di anfiteatro. Tra le capanne ve ne sono alcune di grandi dimensioni, con un sedile di pietra che corre lungo la muratura e un focolare in pietra posto al centro del pavimento lastricato. Dei tre templi, due sono a megaron, di forma rettangolare con la presenza di un atrio davanti alla camera, mentre il terzo è caratterizzato dall'ingresso posto su uno dei lati lunghi. In una struttura è presente un labirinto, formato da muri di pietre concentrici all'interno dei quali furono trovati ciottoli di fiume in quarzo rosso e un grande focolare in pietra, forse utilizzato a scopi rituali. Il pozzo, di cui rimangono 19 filari in granito, era coperto a tholos e mostra ancora la sorgente. Davanti al pozzo si apre un canalone lungo 42 metri, realizzato con grossi blocchi di granito e dotato di gradoni sul lato destro,che conduceva l'acqua della sorgente fino all'anfiteatro, un grande bacino circolare caratterizzato da tribune a gradoni, sulle quali potevano trovare posto molte persone. Le ceramiche restituite dalle capanne attestano un primitivo impianto dell'abitato nel Bronzo Medio. Altri edifici a pianta rettangolare, con lato di fondo absidato e banconi spiraliformi o circolari, erano forse funzionali all'accoglienza dei pellegrini. Immersi nella poesia di questo luogo selvaggio ci si sente a contatto con la natura, ma il tempo trascorre inesorabilmente, e fra un paio d’ore è prevista la conferenza a Olbia. Salutiamo una famiglia giunta da Portland, una cittadina della costa pacifica.
Li abbiamo incontrati a Su Tempiesu di Orune, e con loro abbiamo trascorso il pomeriggio a chiacchierare della magia della nostra isola, e della bellezza mozzafiato della natura di Su Romanzesu. Il nostro amico Nando ci suggerisce un percorso alternativo alle indicazioni del navigatore. Anziché proseguire per Buddusò, attraversare Alà dei Sardi e giungere a Olbia, seguendo un percorso breve ma tortuoso, ci convinciamo ad ascoltare il consiglio e rientriamo a Bitti, per poi scendere verso la più comoda 131 che ci porterà fino a Olbia con le 4 corsie. Arrivati a Olbia, facciamo tappa all’Hotel Demar, un 3 stelle di ottimo livello, nel quale hanno accettato la nostra prenotazione con Yago. Alla reception, una elegante signora sorridente ci consegna le chiavi della stanza e possiamo indossare i “vestiti da convegno”, ossia tolti gli scarponi e la tuta ci infiliamo in un più indicato abito scuro, biglietto da visita richiesto per i conferenzieri.
Al centro di Olbia la sala convegni dell’Expo, ci accoglie con le sue poltroncine rosse e la sua maestosità. Prepariamo la strumentazione e concordiamo con gli organizzatori la scaletta della serata. Sarà Durdica Bacciu, presidente dell’associazione ArcheOlbia, a rompere il ghiaccio alle 18.30. Sarà poi il turno di Roberto Carta, incaricato di presentarmi e illustrare il tema della serata. Alle 19.00 inizia il mio lungo racconto, accompagnato dalle immagini sulle prime civiltà, Gerico e Catal Hoyouk, e dalla descrizione dei commerci fino all’avvento dei minoici, i grandi navigatori del Bronzo.
Le vicende cretesi catturano l’attenzione del pubblico, e l’esplosione del vulcano Santorini fa sempre effetto. E’ la volta del relitto di Uluburun, dei micenei, della guerra di Qadesh, della coalizione dei Popoli del Mare e della pace del faraone Ramesse III. E’ il momento di portare il discorso in Sardegna, e il racconto sulla funzione e sull’evoluzione dei nuraghi conclude la serata. Al termine si svolge un breve dibattito e la serata si conclude con il rito degli autografi sui libri. Ritorniamo in Hotel per riposare, ci attende una Domenica dedicata alle escursioni nel territorio.
Domani la 2° e ultima parte.
di Pierluigi Montalbano
1° parte
Un nuovo sole fa capolino rosseggiando le cime all’orizzonte e affrontando una luna che si appresta a scomparire nel cielo. E’ sabato, e questa sera sarò relatore in Gallura, invitato dagli amici di ArcheOlbia che hanno organizzato un convegno per la presentazione del mio libro “Antichi Popoli del Mediterraneo”, edito da Capone lo scorso anno. Di buon mattino, dopo aver consumato una ricca colazione ammirando lo spettacolo dell’alba, aiuto mia moglie Rita nella preparazione del necessario per trascorrere il week-end. Qualche borsa, due bottiglie d’acqua preventivamente lasciate in freezer per conservare a lungo la freschezza, il computer, la macchina fotografica e tanto entusiasmo per l’avventura che sempre accompagna le nostre escursioni. Yago, il nostro fido cagnolino nuragico, verifica se le crocchette, il riso e il pollo sono sufficienti per il pasto quotidiano, per nulla sorpreso dalla quantità e dall’aroma sprigionato dal contenitore ancora caldo. Il nostro amico, affidatoci dal canile di Cagliari quasi 6 anni fa, non conosce cibi in scatola, e la sua salute conferma che la nostra scelta alimentare è stata positiva. Saliamo in auto e dopo qualche minuto siamo fuori dalla città, diretti verso il nord dell’isola. Prima tappa dagli amici dell’associazione Archeotour, gestori del sito realizzato intorno al pozzo sacro di Santa Cristina. Una breve chiacchierata e siamo nuovamente in viaggio, increduli davanti a un’azienda nei pressi di Paulilatino nella quale si vendono enormi pietre certamente ricavate dallo smontaggio di qualche nuraghe nei dintorni. Arricchiscono la loro offerta con dolmen e menhir giganteschi, e sono attraversato da un brivido quando provo a immaginare quale sia la provenienza di quel materiale. Lo svincolo di Ghilarza riaccende buoni pensieri perché so che da lì a poco potrò fare una preghierina nel santuario di San Costantino a Sedilo, una delle mie mete preferite. Il comitato è già impegnato nella preparazione dell’ardia che si svolgerà a Luglio, e due ragazze lustrano la chiesa.
Per la prima volta vedo le pareti illuminate dalla luce naturale che penetra dall’ingresso, completamente spalancato, e dalla luce artificiale che illumina l’altare e gli angoli. Generalmente San Costantino si presenta buia, sublime, tappezzata da ex-voto che i fedeli offrono al santo. Oggi è solare, radiosa, annuncia la primavera e una nuova stagione di raccolta. Nel parco mi aggiro fra i betili e gli altri elementi architettonici che i nuragici realizzavano per ingraziarsi le divinità. Saluto il comitato e mi dirigo verso un cavallo che mi osserva da qualche minuto. Nero, elegante, con due occhioni profondi che controllano le mosse di Yago, si avvicina per le carezze di rito. Siamo amici ora, e sono certo che si ricorderà di me quando ritornerò in questo incantevole santuario. L’auto ronfa speditamente verso Nuoro, arrampicandosi lungo una strada deserta che offre paesaggi verdi e gialli, alternati da mostri industriali che meriterebbero un colpo di spugna per cancellare dalla memoria un fallimento che ha messo in ginocchio l’economia del territorio. Sulla destra, Rita nota una parete lievemente degradante che presenta fori nella roccia. Rallento e mi accorgo che si tratta della necropoli di Oniferi, le famose domus de janas con i petroglifi. E’ la prima volta che posso vederle e toccarle, e non posso lasciarmi sfuggire l’occasione. Parcheggiamo nei pressi del cancelletto in legno che separa il terreno dalla strada e iniziamo la passeggiata. L’erba è alta e dobbiamo attraversare un rivolo d’acqua prima di giungere sul pianoro forato. Che spettacolo! Yago le visita tutte, immergendosi nell’acqua contenuta all’interno a causa delle abbondanti piogge dei giorni scorsi. Il silenzio è rotto solo da qualche mezzo agricolo che opera nei terreni vicini. Approfittiamo della luminosità della giornata per scattare qualche foto. La piacevolezza del sito è interrotta da un evento inaspettato: un vascone artificiale scavato nella roccia, di notevoli dimensioni, si apre dietro un macchione di rovi e fichi d’india. E’ uno spettacolo della natura miscelato con il lavoro dell’uomo. Posso solo immaginare quanto lavoro è stato fatto per scavare questo bacino d’acqua frequentato oggi dagli animali della zona.
Un altro rullino di foto si avvolge nella macchina e proseguiamo il viaggio. Superato lo svincolo per Nuoro leggiamo nei cartelli stradali una indicazione che accende la mia fantasia: Orune. Rallento e, senza troppi sforzi, convinco Rita e Yago a fare una deviazione verso la montagna. Tante volte ho letto di un luogo paradisiaco, storicamente importante, legato all’acqua e ai nuragici: Su Tempiesu, una fonte sacra immersa nel bosco. Inserisco le ridotte perché l’auto pesa oltre due tonnellate e il cambio automatico inizia a soffrire la salita. Poco prima di Orune spicca su una cima un gruppo di massi con una forma caratteristica. Un amico dice che ricorda un cowboy, ma secondo noi sembra più un esploratore col naso lungo e uno zainetto sulle spalle. Foto di rito e proseguimento del viaggio. I cartelli sono frequenti e non abbiamo problemi a trovare il sito. Circa 5 km di sentiero asfaltato ci conducono da Orune fino al complesso dedicato agli dei dell’acqua: la fonte sacra di Su Tempiesu. Il profumo della campagna inonda l’ambiente mentre una signora che si occupa della biglietteria ci illustra il doppio percorso: una via di 800 metri che si snoda verso il basso dedicata alle piante locali, con cartelli che consentono di riconoscere le specie, e la risalita da percorrere al termine della visita della fonte, dedicata alle specie animali, anch’essa dotata di cartelli esplicativi e corredata con una pinnetta rivestita col sughero e una capanna che riproduce le celebri “capanne delle riunioni” della prima età del Ferro.
La fonte sacra di Su Tempiesu fu scoperta nel 1953, realizzata allo scopo di captare e incanalare una vena sorgiva che sgorgava tra due ripide pareti di scisto per approvvigionare del prezioso liquido le vicine comunità del nuraghe S. Lulla e del villaggio verso la vallata di Marreri. Successivamente, intorno al XII a.C., la trasformazione in luogo di culto fece convergere nel sito i clan nuragici della vallata dell'Isalle. La struttura di Su Tempiesu mostra gli elementi tipici dei pozzi sacri: atrio, scala e pozzo, in questo caso coperto a tholos. L’atrio rettangolare è delimitato dai due sostegni che s’innalzano obliquamente e si restringono verso l'alto del paramento interno.
Il vano, è pavimentato con lastre di trachite e presenta lateralmente due banconi-sedile realizzati con blocchi. Alla sommità, l’ingresso presenta due archetti monolitici decorativi. La facciata del tempio presenta una copertura a doppia falda che, appoggiandosi alla parete naturale di scisto, copre l’edificio costituendo un timpano di gusto gotico. In origine, nella parte superiore del timpano erano infisse 20 spade votive in bronzo, saldate negli incavi con colate di piombo. Dall’ingresso, una scala trapezoidale introduce al piccolo vano che raccoglie l’acqua sorgiva. La base lastricata presenta una fossetta circolare di decantazione per cui le acque si mantengono sempre limpidissime. Le acque che traboccano si raccolgono al di sotto, in una seconda struttura di raccolta dell’acqua che riproduce, in scala minore, la costruzione maggiore. Anche in questo pozzetto, con imboccatura sovrastata da un archetto, ci sono una canaletta con gocciolatoio in steatite e una fossetta di decantazione. Proprio da questo pozzetto provengono numerosi reperti votivi offerti alla divinità delle acque: bronzetti figurati, spilloni, braccialetti, anelli, stiletti miniaturistici, spade, bottoni.
Dal punto di vista costruttivo la fonte di Su Tempiesu è realizzata con blocchi isodomi di trachite e di basalto, lavorati a martellina e messi in opera senza uso di malta. I blocchi provengono da oltre 10 km, attraverso la vallata del fiume Isalle in quanto nell’area del monumento sono presenti soltanto lo scisto e il granito. Al termine della visita salutiamo Peppino Goddi, uno dei responsabili del sito, e ci avviamo verso Bitti, alla scoperta del suggestivo sito Su Romanzesu, del quale ho sentito tanto parlare ma non ho mai visitato. Un altopiano granitico posto ai limiti settentrionali del territorio nuorese, al km 54.2 della provinciale 389 che conduce a Buddusò, giungiamo nel primo pomeriggio, accolti da Nando, la guida che ci accompagnerà lungo il percorso. E’ un mondo cristallizzato nei millenni, silenzioso, colorato, reso magico da un aura luminosa che avvolge le pietre e un fitto bosco di sughere. Yago si inoltra nella vegetazione, mentre Rita inizia a scattare foto per immortalare questo luogo fuori dalla realtà. Il toponimo Su Romanzesu é dovuto alla presenza di testimonianze di epoca romano imperiale quando nell'altopiano furono realizzati alcuni insediamenti produttivi. Gli stessi romani realizzarono un'importante strada che partiva dalle sorgenti del fiume Tirso e raggiungeva la mansio di Sorabile, in agro di Fonni, un avamposto militare per il controllo dei monti del Gennargentu. Il sito si snoda per sette ettari vicino alla sorgente del fiume Tirso, nei pressi della quale è stato costruito il pozzo sacro, la struttura più antica del complesso.
Nel villaggio si notano numerose capanne, due templi a megaron, un edificio rettangolare, una grande struttura labirintica, e una struttura a forma di anfiteatro. Tra le capanne ve ne sono alcune di grandi dimensioni, con un sedile di pietra che corre lungo la muratura e un focolare in pietra posto al centro del pavimento lastricato. Dei tre templi, due sono a megaron, di forma rettangolare con la presenza di un atrio davanti alla camera, mentre il terzo è caratterizzato dall'ingresso posto su uno dei lati lunghi. In una struttura è presente un labirinto, formato da muri di pietre concentrici all'interno dei quali furono trovati ciottoli di fiume in quarzo rosso e un grande focolare in pietra, forse utilizzato a scopi rituali. Il pozzo, di cui rimangono 19 filari in granito, era coperto a tholos e mostra ancora la sorgente. Davanti al pozzo si apre un canalone lungo 42 metri, realizzato con grossi blocchi di granito e dotato di gradoni sul lato destro,che conduceva l'acqua della sorgente fino all'anfiteatro, un grande bacino circolare caratterizzato da tribune a gradoni, sulle quali potevano trovare posto molte persone. Le ceramiche restituite dalle capanne attestano un primitivo impianto dell'abitato nel Bronzo Medio. Altri edifici a pianta rettangolare, con lato di fondo absidato e banconi spiraliformi o circolari, erano forse funzionali all'accoglienza dei pellegrini. Immersi nella poesia di questo luogo selvaggio ci si sente a contatto con la natura, ma il tempo trascorre inesorabilmente, e fra un paio d’ore è prevista la conferenza a Olbia. Salutiamo una famiglia giunta da Portland, una cittadina della costa pacifica.
Li abbiamo incontrati a Su Tempiesu di Orune, e con loro abbiamo trascorso il pomeriggio a chiacchierare della magia della nostra isola, e della bellezza mozzafiato della natura di Su Romanzesu. Il nostro amico Nando ci suggerisce un percorso alternativo alle indicazioni del navigatore. Anziché proseguire per Buddusò, attraversare Alà dei Sardi e giungere a Olbia, seguendo un percorso breve ma tortuoso, ci convinciamo ad ascoltare il consiglio e rientriamo a Bitti, per poi scendere verso la più comoda 131 che ci porterà fino a Olbia con le 4 corsie. Arrivati a Olbia, facciamo tappa all’Hotel Demar, un 3 stelle di ottimo livello, nel quale hanno accettato la nostra prenotazione con Yago. Alla reception, una elegante signora sorridente ci consegna le chiavi della stanza e possiamo indossare i “vestiti da convegno”, ossia tolti gli scarponi e la tuta ci infiliamo in un più indicato abito scuro, biglietto da visita richiesto per i conferenzieri.
Al centro di Olbia la sala convegni dell’Expo, ci accoglie con le sue poltroncine rosse e la sua maestosità. Prepariamo la strumentazione e concordiamo con gli organizzatori la scaletta della serata. Sarà Durdica Bacciu, presidente dell’associazione ArcheOlbia, a rompere il ghiaccio alle 18.30. Sarà poi il turno di Roberto Carta, incaricato di presentarmi e illustrare il tema della serata. Alle 19.00 inizia il mio lungo racconto, accompagnato dalle immagini sulle prime civiltà, Gerico e Catal Hoyouk, e dalla descrizione dei commerci fino all’avvento dei minoici, i grandi navigatori del Bronzo.
Le vicende cretesi catturano l’attenzione del pubblico, e l’esplosione del vulcano Santorini fa sempre effetto. E’ la volta del relitto di Uluburun, dei micenei, della guerra di Qadesh, della coalizione dei Popoli del Mare e della pace del faraone Ramesse III. E’ il momento di portare il discorso in Sardegna, e il racconto sulla funzione e sull’evoluzione dei nuraghi conclude la serata. Al termine si svolge un breve dibattito e la serata si conclude con il rito degli autografi sui libri. Ritorniamo in Hotel per riposare, ci attende una Domenica dedicata alle escursioni nel territorio.
Domani la 2° e ultima parte.
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