mercoledì 20 marzo 2013
Storiografia del problema della scrittura nuragica di Raimondo Zucca
Storiografia del problema della scrittura nuragica
di Raimondo Zucca
(nel presente articolo non sono presenti le oltre 400
note dell’autore, invitiamo dunque tutti i lettori ad un approfondimento nel
testo originale)
Fonte: Bollettino
di Studi Sardi - CUEC / CSFS - Anno V, numero 5 - dicembre 2012
I. La
nascita del problema della ‘scrittura nuragica’
Il fondatore del problema della ‘scrittura nuragica’ è
lo stesso padre dell’archeologia sarda, il canonico Giovanni Spano, che nel suo
lavoro generale sulla Paleoetnologia sarda, sull’onda della
partecipazione al V Congrès international d’anthropologie et de archéologie
préhistoriques a Bologna, nel 1871, scriveva:
Per quante ricerche si siano fatte dentro ed attorno i Nuraghi, non si è
scoperto mai un monumento scritto.
In realtà Giovanni Spano si era già imbattuto, nel
1857, in «monumenti scritti» rimontanti «alla stessa antichità dei Nuraghi
Sardi», per i quali l’archeologo si domandava se recassero o meno «lettere o
note di qualche segno di religione»: si tratta degli oxhide ingots di
produzione cipriota, recanti segni del sillabario cipro-minoico, rinvenuti a
Nuragus, nella località di Serra Ilixi:
I monumenti che andiamo a descrivere, e dei quali diamo l’incisione in
questo luogo, li crediamo molto rari e di una sublime antichità. Annunziamo
questa bella scoperta nel num. 6 del 3 anno di questo Bullettino (pag. 64). Il
Sig. G. Medda Serra del villaggio di Nuragus, nel mentre che i contadini
aravano in una sua terra, detta Serra Ilixi, in vicinanza di detto
villaggio, vedendo che in uno il vomere faceva molta resistenza, dopo qualche
sforzo, rovesciò una lapide di molto peso, ed avendo osservato ch’era di
bronzo, si fece a scalzare il terreno da dove n’estrasse sino al numero di
cinque, tutte ad un dipresso della stessa figura […] Queste lapidi sono di
diverso peso, la prima pesa kg 37, e l’altra kg 28. Le altre tre ad un dipresso
più o meno, ma al di là di 30 chilogrammi. La materia è di rame perfetto, ma
senza essere purificato, in modo che annunziano l’arte primitiva della
docimastica, e per così dire la prima fonderia che usò l’uomo […] Tutte le
dette stele hanno qualche segno incavato a taglio con istrumento nel mezzo o
nella parte superiore, imitante la croce egiziana, o la rozza forma umana colle
mani alzate, simili ad una lapide cartaginese illustrata dal Bourgade (V.
Toison d’or de la Langue Phenicienne, ecc. Paris 1852, Tav. A). Dalla qual cosa
noi non possiamo de prendere altro che di essere stele mortuarie delle prime
immigrazioni orientali nella Sardegna […] Ma questi segni diversi delle nostre
stele, saranno lettere o note di qualche segno di religione? A noi pare che se
non sono rozze figure, siano un monogramma della voce Thaut o Thut,
divinità adorata dai primi Egiziani o Fenici alla quale attribuivano l’uffizio
di registrare il supremo giudizio che il Dio grande pronunziava sulle anime dei
morti nell’Amenti, cioè nella regione infernale, d’onde passavano alla
sfera della luce, e si trasmigravano in altri corpi […] Le stele in proposito
adunque crediamo che possano rimontare alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi.
L’ipotesi interpretativa di Giovanni Spano degli oxhide
ingots di Nuragus, considerati «stele mortuarie», seppure di età nuragica,
non dovette soddisfare l’archeologo che, quattordici anni dopo, in seguito alla
individuazione di matrici di fusione (a Belvì, Suelli e nella Nurra), e di
panelle in rame e di scorie di fusione, formulava la corretta interpretazione
dei lingotti di Serra Ilixi come «pani di officina» dotati di «marca dell’usina
da cui sono uscite»:
A questi strumenti od armi [in bronzo] possono annettersi quelle stele
di puro rame, scoperte a Nuragus nel 1857, nel sito di Serra Elixi [sic].
Se non sono stele votive o mortuarie (Bullett. Arch. Sardo an. IV, p. 12)
saranno pani di officina, e quindi il monogramma in vece di Thaut, sarà
marca dell’usina da cui sono uscite.
Fu Ettore Pais, nel 1884, a inserire definitivamente i
lingotti di Serra Ilixi nell’ambito dei pani di rame individuati in diverse
fonderie della Sardegna nuragica, soprattutto nella forma delle panelle a
sezione piano-convessa:
Assai notevoli sono i cinque pani di rame trovati a Serra Ilixi presso
Nuragus, dei quali tre possiede il Museo di Cagliari […] Essi pesano da 28 a 37
chilogrammi l’uno e sono lunghi in media m. 0,700 e si rassomigliano assai al
pane di stagno trovato a Falmouth v. Evans, L’age du bronze pag. 464 sg.
fig. 514.
Ettore Pais suggeriva di riconoscere nel segno (che
consideriamo corrispondente al sillabogramma 08 del Cipro Minoico 1-2-3) di uno
dei pani di Serra Ilixi la resa schematizzata del «pugnale sardo», ipotizzando
così una origine sarda dei lingotti. Questa ipotesi fu respinta nel 1887 nell’Histoire
de l’art dans l’antiquité di Georges Perrot e Charles Chipiez, in base
all’osservazione dei diversi segni presenti nei pani di Serra Ilixi,
irriducibili alla forma del pugnaletto sardo e in rapporto alla scarsità del
rame in Sardegna, dato che induceva a credere che «une partie au moins du
cuivre que l’on y [en Sardaigne] consommait y fût apportée du de hors». L’osservazione
merita di essere sottolineata poiché anticipa le scoperte di Arthur Evans a
Cnosso e, a fortiori, le analisi archeometriche sul rame (di origine
cipriota) degli oxhide ingots sardi eseguite allo scorcio del XX secolo.
Allo scadere del XIX secolo i segni dei lingotti di Serra Ilixi ebbero una
prima decifrazione in chiave iberica da parte di Emil
Hübner, l’allievo di Theodor Mommsen che aveva redatto il secondo volume del Corpus
Inscriptionum Latinarum relativo alle epigrafi latine delle provinciae della
penisola iberica. Nell’VIII volume dell’Ephemeris Epigraphica, edito a
Berlino nel 1899, lo Hübner pubblicava, su invito di Ettore Pais, sia il cippo
calcareo con iscrizione iberica scoperto anteriormente al 1891 nella necropoli
orientale di Karales, sia i segni scrittori dei tre lingotti di
Nuragus-Serra Ilixi, considerati grafemi di scrittura iberica dallo stesso
Pais, ma ricondotti dallo Hübner al segnario delle scritture paleo ispaniche solamente
nel caso dei segni dei due primi lingotti, mentre il terzo lingotto recava, a
giudizio dello Hübner, un segno non iberico, a meno che non si ipotizzasse un
nesso fra vari grafemi iberici:
Massae grandes ex aere tres, servatae in museo Caralitano, in quibus
extant litterae hae profunde incisae post fusionem. Hector Pais, qui memoravit
tertiam (c) Bullet. Archeologico Sardo ser. II vol. I 1884 p. 149, mihi misit a
se descriptas et litterae fortasse Ibericas esse adnotavit. In a est m
certo Iberica, in b potest l esse, utraque ex Hispaniae
citerioris monumentis satis nota. Quod in c est signum, littera Iberica
non est, nisi duo lli vel ujt coniunctae indicantur. In
aerifodinis Sardis operas fuisse originis Iberae facile credemus.
Indipendentemente dallo Hübner era stata pubblicata
nel 1900 da Wilhelm Freiherr von Landau l’iscrizione iberica di Karales. Una
relazione fra l’ethnos sardo e l’ethnos iberico era ugualmente
affermata da Luigi Ceci, che pure ignorava l’editio princeps dello
Hübner, in base al cippo iberico caralitano, ottenendo una violenta ripulsa da
parte di Ettore Pais, in un quadro polemico legato alla edizione
da parte di Luigi Ceci dell’iscrizione latina del cippo del Lapis niger e al
conseguente conflitto fra l’ipercriticismo germanico nei confronti delle fonti
annalistiche (accettato dal Pais) e i fautori, tra cui il Ceci, di una
conciliazione tra fonti antiche e interpretazione critica. Nel 1896 a Enkomi,
nel settore orientale dell’isola di Cipro, venne scoperto, nel corso degli
scavi promossi dal British Museum, un oxhide ingot dotato di un segno sillabico
ritenuto cipriota (in realtà cipro-minoico), edito da Alexander Stuart Murray
nel 1900 con un preciso confronto, suggerito da Arthur Evans, con i lingotti di
Serra Ilixi, che risultavano, anche per la presenza di marchi, testimonianza del
commercio cipriota in Sardegna. Nel 1903 vennero in luce diciannove esemplari,
di cui cinque provvisti di marchi, di oxhide ingots ad Haghia Triada in
Creta a opera della missione italiana guidata dallo Halbherr. Infine il celebre
articolo nel «Bullettino di Paletnologia italiana» del 1904, del fondatore
della moderna paletnologia italiana, Luigi Pigorini, rivendicava con lucida acribia
i lingotti di Serra Ilixi all’ambito egeo dell’età del bronzo, chiarendo definitivamente
l’ascrizione dei segni dei lingotti rinvenuti in Sardegna ai sistemi scrittori
dell’area egea.
II. Ettore
Pais e le iscrizioni del nuraghe Losa
Il rinnovamento degli studi sul problema della
‘scrittura nuragica’ è dovuto a Ettore Pais. Lo storico piemontese nel 1909
pubblicava nei «Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei» e, nel
1910, nell’«Archivio Storico Sardo» un importante contributo Sulla civiltà
dei nuraghi nel quale tendeva a ribassare la cronologia finale della
cultura indigena sarda, sino a farle raggiungere «età propriamente storiche». In questo quadro
assumevano per il Pais notevole valore le ceramiche in bucchero etrusco
rinvenute in contesti nuragici e, soprattutto, le «traccie […] di scrittura»
Che gli antichi abitatori dei Nuraghi avessero già conosciuto segni di
scrittura, era stato più volte sospettato a proposito dei pani di rame di Serra
Ilixi. Ma i dubbi che si avevano in proposito sono, credo, risolti dai fatti
che ora presento. Percorrendo nell’autunno del 1908 il Goceano, recatomi nel
villaggio di Bono, fui informato dal mio vecchio allievo e amico Edoardo Sancio
che in un nuraghe non molto lontano da quel paese e chiamato Eri Manzanu era
stata rinvenuta una lastra fittile coperta di graffiti in forma di aste, ossia
di segni che appresentavano per lui una
scrittura. Questa lastra, stando al Sancio, si rassomigliava alle tavolette
scritte della Caldea, da lui vedute in recenti pubblicazioni scientifiche. Il
Sancio credeva che il proprietario del Nuraghe, il sig. Mulas Ena, possedesse
ancora il prezioso cimelio. Recatomi dal proprietario, ebbi la conferma del
ritrovamento e della forma con cui le lettere erano tracciate, ma non trovai più
il cimelio, che era andato perduto. Ebbi invece da lui alcuni frammenti di una
ciotola del bucchero di cui ho sopra discusso [bucchero etrusco] e che erano
stati trovati insieme alla tavoletta fittile. Impressionato da quanto udii,
volli subito verificare se in altri nuraghi della Sardegna vi fossero traccie
di scrittura, e mi recai nel nuraghe Losa per verificare alcune indicazioni che
da varî anni mi aveva date il
mio amico F. Nissardi. Fu con sommo mio piacere che potei ivi constatare
come sopra due macigni del Nuraghe stesso si trovassero profondamente incisi i
segni seguenti, di cui qui appresso il fac-simile. Nel caso dei buccheri e
della lastra fittile del Nuraghe Eri Manzanu poteva sospettarsi si trattasse di
oggetti posteriori alla fondazione del Nuraghe ivi più tardi importati. In quello
invece del Nuraghe Losa, rispetto ai segni incisi sulla base e soprattutto a
quelli segnati su di una pietra interna laterale della scala, in uno stretto
passaggio, dove era pressoché impossibile soffermarsi per segnare tali linee,
si tratta con certezza di segni tanto antichi per lo meno quanto lo stesso
monumento. «Altre traccie di
scritture si noterebbero nel nuraghe Bara presso la cantoniera ferroviaria di
questo nome lungo sulla via che da Macomer va a Bosa. L’iscrizione sarebbe a
mano destra entrando nel Nuraghe. Anche di questa indicazione sono da molti
anni debitore alla disinteressata amicizia di Filippo Nissardi » (ivi,
p. 123, n. 1). Anche in queste incisioni appare evidente
una scrittura astiforme, la quale mostra una certa analogia con alcune rozze e
primitive scritture della Spagna appartenenti alla civiltà indigena, che furono
pubblicate da Emilio Huebner e di cui qui presento la riproduzione. Fra i due
generi di scritture, il sardo e l’iberico, vi sono, se male non mi appongo,
alcune somiglianze grafiche esterne. Dobbiamo forse in ciò trovare la conferma
della teoria secondo la quale gli Iberi, sotto la guida di Norace, l’eponimo
dei nuraghi, fondò sulle coste del mare Nora, la più meridionale e la più
antica città della Sardegna? Ovvero si tratta di somiglianze parimenti casuali
e di scritture rudimentali simili negli stadii primitivi di vari popoli? Io non
dissimulo la mia tendenza a darne la preferenza a questa seconda ipotesi. Tuttavia
per essere del tutto obbiettivo faccio osservare che altrove raccolsi già tutti
gli elementi che verrebbero a confermare la teoria che i Sardi e gli Iberi
appartenevano in origine ad una stessa schiatta. Io non oso già affermare che i dati che
oggi possediamo ci conducano ad una conclusione sicura. Tanto meno oso asserire
che questa conclusione possa venirci dalle incisioni del Nuraghe Losa. Queste
traccie di scrittura trovate in un monumento del centro dell’Isola, in una
regione occupata dagli indigeni, hanno ad ogni modo maggior peso rispetto al
nostro problema di quella epigrafe rinvenuta presso la marina cagliaritana, che
io per primo, vari anni or sono, feci conoscere agli studiosi. Nulla infatti
esclude che l’epigrafe iberica di Cagliari appartenesse ad uno Spagnuolo di
passaggio, ad es. ad uno dei numerosi Iberi mercenari di Cartagine morto in
Sardegna. A
torto da questa epigrafe cagliaritana si volle dal Prof. L. Ceci ricavare un
argomento perentorio circa l’origine iberica delle primitive ed indigene razze
della Sardegna.
Il lavoro di Ettore Pais non ebbe nell’immediato un
grande risalto per quanto attiene la sua tesi sulle problematiche iscrizioni di
monumenti nuragici. Nello Toscanelli nell’opera Le origini italiche del
1914 si sofferma sui «segni filiformi e certamente intenzionali del nuraghe
Losa», considerati tuttavia «la ignorante imitazione di un lapicida illetterato
che aveva visto senza intenderli i caratteri corsivi dei fenici e dei
cartaginesi». Nello stesso anno 1914 vide la luce un volumetto, di scarso
valore scientifico, di Gino Luigi Martelli, dal titolo Le iscrizioni
nuragiche, edito a Spello. Il Martelli, docente di Storia dell’arte
nell’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci di Perugia, era
provvisto di conoscenze linguistiche ed epigrafiche che spaziavano dalle lingue
semitiche (fenicio, punico, arabo, ebraico) a quelle italiche, all’etrusco. In
realtà egli fu uno studioso principalmente di epigrafia e lingua etrusca, ma
anche di storia e archeologia umbra, con una produzione di studi essenzialmente
di ambito locale, editi quasi esclusivamente in tipografie di Perugia e di
altre città dell’Umbria. Un ruolo minore nell’ambito degli studi etruschi il
Martelli lo guadagnò con le sue pubblicazioni, in due casi con prefazione di
Giulio Buonamici, fondatore della «Rivista di Epigrafia Etrusca» negli Studi
Etruschi. È rilevante notare che in età matura (1936) il Martelli figura tra i
corrispondenti dell’archeologo Aldo Neppi Modona, uno dei fondatori (1927) del Comitato
permanente dell’Etruria, destinato a divenire nel 1932 l’Istituto di
Studi Etruschi. Il Martelli nella sua operetta sulle Iscrizioni
nuragiche, introdotta da un breve excursus sulla cultura nuragica,
si dissocia vigorosamente dal Pais e, sulle orme del Toscanelli, considera sia
l’iscrizione iberica caralitana, sia le ‘epigrafi’ del Losa, sia infine i segni
dei lingotti di Serra Ilixi, di ambito fenicio.
Lo Spano scriveva nel 1871: «Per quante ricerche si sieno fatte dentro
ed attorno i Nuraghi non si è scoperto mai un monumento scritto. Per la loro
età niente si può stabilire di assoluto». Questa affermazione fu contraddetta
dal Pais nel 1909 quando pubblicò il suo articolo sulla civiltà dei Nuraghi,
riportando due iscrizioni da lui rinvenute, dietro indicazioni del Nissardi, su
due pietre del nuraghe Losa. La scoperta è di un interesse infinito, specie se
fosse possibile, come speriamo, leggerle ed interpretarle. Il Pais dice:
«appare evidente una scrittura astiforme, la quale mostra una certa analogia
con alcune rozze e primitive scritture della Spagna appartenenti alla civiltà
indigena, che furono pubblicate da Emilio Huebner […] Fra i due generi di
scritture, il sardo e l’iberico, vi sono, se male non mi appongo, alcune
somiglianze grafiche esterne […] Ovvero si tratta di somiglianze parimenti
casuali e di scritture rudimentali simili negli stadii primitivi di vari
popoli? Io non dissimulo la mia tendenza a darne la preferenza a questa seconda
ipotesi» (Rend. Acc. Lincei, Serie Va, vol. XVIII, 1909). Però a me sembra che
le iscrizioni nuragiche abbiano un carattere punico, mentre quelle della Spagna
risentono un poco di carattere fenicio-cretese, che abbiamo in un cuore
cultuale rinvenuto nei dintorni di Cnosso. Certo che l’elemento ‘fenicio’ o
meglio ‘punico’ è molto evidente specie nelle iscrizioni della Sardegna.
Salendo per il piano inclinato della scala troviamo i segni tracciati qui a
fig. 1; nel piano di campagna a livello della fondazione si vedono, intorno ad
un segno fallico, i segni tracciati a fig. 2. La somiglianza di alcuni segni ci
fa vedere che fra le due iscrizioni non ci può essere che o qualche anno di
differenza, o, meglio ancora, una mano diversa e meno pratica. Per il
Toscanelli «i segni filiformi e certamente intenzionali del nuraghe Losa, sono
forse la ignorante imitazione di un lapicida illetterato che aveva visto senza
intenderli i caratteri corsivi dei fenici e dei cartaginesi». Fin da quando
vidi per la prima volta questi segni importanti non solo vi trovai un carattere
punico, ma lessi subito la parola fenicia bn “figlio”. La cosa mi
parve possibile ma non potei nulla affermare finché nell’opera del Toscanelli
non vidi la brutta riproduzione dell’iscrizione della colonna trovata a
Cagliari con caratteri iberici (?). Il segno del Nuraghe Losa è quivi segnato
per tre volte, ed in due forma evidentemente il gruppo. L’iscrizione mi apparve
subito punica, e composi subito la seguente traduzione: “(nome) filius (nome)
filii (nome)”. Le lettere sono dubbie e sicuramente malfatte nell’originale e
peggio nella copia, purtuttavia azzardiamo trascrivere l’iscrizione in punico,
fenicio ed ebraico: Dobbiamo subito vedere che la parola bn si è
aspirata divenendo wn; ciò è evidente per la forma punica di waw così
fatta. Ciò notato possiamo subito leggere: [cippus vel columna] [Deo …]
[erectus a] …th…filio Ahajizii filii Sebal-Rutig (?)… In Sebal si può
avere il nome di divinità Sheba, che il Burney deduce dal nome Beer-seba
esistendo nell’assiro il dio Sibitti. Nella Genesi (25,3) abbiamo il nome
proprio Shb’. Risolta così l’iscrizione sardo-punica, giammai
ibero-punica, passiamo ad esaminare i segni del nuraghe Losa. Una delle due
iscrizioni, e precisamente la prima (fig. 1) è addirittura illeggibile; solo
qualche segno si può sorprendere; ma l’altra, quella a livello di fondazione, è
completamente leggibile. Ponendo il segno III dopo, come dev’esser fatto, si
ha: ven (ben) malyk nah.um Prima
d’interpretare vediamo il valore della parola bn = wn. Ella può
significare tanto “figlio” quanto “edificio della famiglia paterna”; infatti il
verbo bnt significa “edificò, costruì”. Allora anziché leggere “figlio
del re Naum”, leggeremo meglio “Domus regis Naum”. Il nome Nm è anche il nome
di un profeta. Come si vede l’interpretazione del nome “Nurago” viene confermata e la signoria di questi
padroni dei Nuraghi che si facevano chiamare mlk, malik, re, ci balza
innanzi con una nuova vita […] Il segno [attestato nell’iscrizione iberica di
Campos (Consejo de Tapia), illustrata dall’Hübner e dal Pais] trovasi anche nei
pani di rame di Serra Ilixi, trovasi pure nel cuore cultuale di Cnosso. Detti
pani dovevano essere vôti, ed infatti abbiamo i tre seguenti esempi: Nel primo
abbiamo l’iniziale m [mem] certo di un nome, nel secondo il nome proprio
di popolo, ovvero una voce del verbo “si pentì”. Nel terzo si hanno due mm [mem-mem]
poste l’una sotto l’altra come nel secondo. La parola mm può significare
“sei” […] e noi sappiamo che le divinità in Babilonia erano segnate
anche numericamente, e che al “sei” corrispondeva precisamente “Ramman”. Si può
avere però nella parola anche il verbo mm “si rallegrò”, quasi ad
indicare una grazia ricevuta.
Il quadro interpretativo sulle ‘iscrizioni nuragiche’
di Gino Luigi Martelli appare viziato dal supposto che il codice scrittorio e
il sotteso codice linguistico sarebbero, entrambi, semitici, e più precisamente
un codice scrittorio punico corsivo utilizzante una lingua semitica del nord
ovest, il fenicio. Il riferimento poi a un ambito ‘fenicio-cretese’ per i segni
dei lingotti di Serra Ilixi, peraltro ritenuti dei ‘voti’, appare incredibile a
tener conto sia della classificazione egea dei lingotti di Serra Ilixi a opera
di Luigi Pigorini, sia delle interpretazioni di Arthur Evans sulla ‘scrittura
geroglifica’ cretese, del II millennio a.C., presentate nel «Journal of
Hellenic Studies» del 1895 in uno studio su I pittogrammi cretesi e la
scrittura prefenicia. Infine l’interpretazione in chiave ‘sardo-punica’ del
cippo caralitano con iscrizione iberica, ben quaruntuno anni dopo la
decifrazione della scrittura paleo ispanica (ancora ritenuta unitaria) a opera
di Antonio Delgado, in base alla legenda nelle emissioni delle zecche
iberiche, e trentun anni dopo i Monumenta Linguae Ibericae di Emilio
Hübner, che riconosceva semplicemente una origine fenicia dei segni della scrittura
iberica,
ci appare assolutamente insostenibile e arretrata rispetto agli studi. I
dati ‘epigrafici’ sul nuraghe Losa furono riesaminati nel volume Sardinnia di
B. Erdas
e da R. Sardella sulla base dell’ipotetica esistenza di una
scrittura nuragica. A riprendere le osservazioni di Ettore Pais sulle
iscrizioni sarde fu, con ben altro rigore filologico e storico rispetto ai
contributi di Stefanelli e Martelli, Massimo Pallottino nella rivista
«Ampurias» del 1952. Il Pallottino prendeva le mosse da un articolo di A.
Garcia y Bellido del 1935, nel quale il grande antichista iberico ricavava
dallo Hübner l’attribuzione al segnario iberico dei marchi degli oxhide ingots
della Sardegna, di cui invece Massimo Pallottino ribadiva l’ascrizione ad ambito egeo. Sicuramente
iberica pareva al Pallottino l’iscrizione di Karales edita dallo
Hübner in Ephemeris Epigraphica VIII e ripubblicata da A. Beltrán nel 1949, mentre le
incisioni del nuraghe Losa venivano considerate meritevoli di approfondimento,
nonostante l’impossibilità di una loro datazione, al fine di un loro
inquadramento puntuale, benché, a giudizio di Massimo Pallottino, fossero possibili
confronti con epigrafi celtiberiche:
Para concluir estas notas quisiéramos recordar que […] existen en
Cerdeña otros testimonios, de significado incierto y de interpretación gráfica
muy insegura (que, entiéndase bien, son imposibles de fechar), en los que se
quise ver una relación con la escritura ibérica. Se trata de las supuestas
«inscripciones» incisas mencionadas y parzialmente reproduicidas por E. Pais en
su trabajo de síntesis sobre la cultura nurághica, en particolar la del nuraghe
Losa di Abbasanta, de cual se reproduce un dibujo. Pais cree que puede ponerse
en relación con algunos grafitos asturianos; y no faltan para el ductus alargado
y cursivo otras analogías, esencialmente en las regiones celtibéricas. Valdría la
pena volver a examinar criticamente estas curiosas incisiones y buscar otras
citadas por Pais para establecer su verdadera naturaleza y determinar el valor
eventual con fines al estudio del problema de las influencias hispánicas en
Cerdeña.
III. Giovanni
Lilliu e il problema della ‘scrittura nuragica’
Nel volumetto sulla Sardegna nuragica (1950)
Massimo Pallottino osservava «l’assoluta mancanza di documenti diretti e
originali [degli elementi linguistici]», ossia l’assenza di documenti scritti. Questo
dato negativo risalta nelle pagine dei maggiori archeologi della seconda metà
del XX secolo e del principio del XXI.Giovanni Lilliu, in un’importante nota
dello studio sui Bronzetti nuragici da Terralba del 1953, fa il punto
sulla storia della cultura nuragica «priva, per quanto finora è dato sapere,
della qualità di essa più produttiva e significante: cioè della scrittura»:
Nessun documento sicuro in proposito. Il PAIS, Arch. Stor. Sardo, VI,
1910, pag. 121 segg. nel pubblicare alcuni segni incisi sul nuraghe Losa di
Abbasanta (Cagliari), da lui supposti «iscrizioni» e messi in relazione con
graffiti asturiani iberici, sollevò criticamente il problema della scrittura
nuragica, senza peraltro portare alcun dato concreto sull’antichità o meno
delle iscrizioni stesse. Nel 1955 Giovanni Lilliu ritorna sul problema
osservando a proposito delle epigrafi del nuraghe Losa: «Forse il momento più
antico è quello indicato dalle tracce d’iscrizioni che, se effettivamente
celtiberiche, potrebbero attribuirsi a breve stanza di mercenari iberici al
servizio di Cartagine presso la fortezza» (G. LILLIU, Il nuraghe di Barumini e la
stratigrafia nuragica, Sassari 2007, p. 36).
Recentemente il PALLOTTINO ha riprodotto le incisioni lineari intorno
al segno fallico delle pareti del Nuraghe Losa (Ampurias, XIV, 1952,
pag. 155, fig. 2) allargando i confronti con la scrittura di regioni
celtiberiche. Ove
trattisi di lettere alfabetiche vere e proprie, in quelle del nuraghe
Losa saranno, se mai, da riconoscersi, per la loro supposta analogia con le
iberiche, le tracce di iscrizioni di mercenari iberici al soldo dei Cartaginesi
o dei Romani, lasciate in una breve sosta presso la fortezza, dopo averla
conquistata e distrutta. Sulla presenza di questi mercenari in Sardegna, in
tempi storici, vedasi il PALLOTTINO nell’articolo citato (pagg. 148, 153). Non
vi sono ragioni per escludere che la stele del vecchio Orto Botanico di
Cagliari (attuale sito dell’Officina del Gas) con iscrizione iberica (Ampurias,
cit. pagg. 153, 155, fig. 1), appartenga a un soldato di quella nazione, morto
a Cagliari e seppellito in un cimitero riservato a militari, essendo il luogo
del trovamento della stele adiacente a quello dove si custodivano le salme dei
marinai della classe Misenate di stanza nella città capitale dell’Isola (St.s.,
IX, pag. 488). La supposizione parrebbe confermata dal contenuto della stele,
che ha le maggiori probabilità di essere funeraria. Contro l’ipotesi
prospettata d’un arrivo del cippo in Sardegna, occasionalmente dopo la sua
fattura o uso originario (pag. 154 Ampurias), sta la natura della
pietra, che è un calcare locale delle cave di Bonaria, località prossima alla
scoperta del monumentino, e che è stata in ogni tempo, e lo è anche oggi, area
cemiteriale. A corredo mortuario e ad offerte votive di militari iberici
assoldati per la Sardegna dai Cartaginesi e poi dai Romani, si devono riferire
anche i vasi dipinti, di stile iberico, venuti in luce, negli ultimi tempi, nella
necropoli punica di Olbia […] e nel pozzo votivo (F) annesso al santuario
punico di via Malta in Cagliari […], dove si trovarono associati con ceramiche
etrusco-campane del III-II secolo a.C. Anche il cippo dell’Orto Botanico non
sarà molto distante da quest’età.
Nello stesso articolo sui Bronzetti nuragici da
Terralba Giovanni Lilliu osservava che nella civiltà sarda manca […] la grande
statua, come le manca la pittura, come le manca la scrittura, le quali sono
invece presenti nei grandi aspetti culturali, a piena storia, dei potenti paesi
egizi, mesopotamici e greci. Nel 1977 con la presentazione della
statuaria sarda di Monte Prama Giovanni Lilliu richiama la sua negazione
dell’esistenza della grande statua nella cultura di villaggio sarda per
esprimere epicamente la sfida dei Sardi nei confronti delle altre culture
mediterranee e vicino orientali:
Così, se nel 1953 lamentavo che la cultura da villaggio protosarda non
avesse fatto maturare dal piccolo Dedalo girovago che era il ramaio, il grande
scultore e che alla Sardegna antica fosse mancata «l’effige del Principe
Hem-hom, o il simulacro del Lugal- dalu di Adab o la Kore di Antenore», oggi
possiamo affermare che l’isola dei nuraghi lancia la sfida, nella grande plastica,
ai potenti paesi egizi, mesopotamici e greci.
Nello studio è evidenziato per l’VIII secolo a.C.,
l’età geometrica cui si assegna la statuaria di Monte Prama, la forte
evoluzione del «cantone [nuragico] tra i più potenti, se non il più potente
dell’isola»,48 fino a sfiorare una dimensione urbana:
se si pensa che l’organizzazione tendenzialmente «urbana» nella Sardegna
dell’VIII secolo a.C., si era spinta al grado di esprimere una statuaria già
matura quando in Grecia essa era appena agli albori, si capisce il valore
rilevante della produzione sarda, intrinseco ed estrinseco, anche nel quadro
dei movimenti culturali e nella storia dell’antica civiltà mediterranea.
L’acquisizione della grande statuaria protosarda non
convinse Giovanni Lilliu a rinunciare alla posizione negativa,
metodologicamente ineccepibile, nei confronti della esistenza della ‘scrittura
nuragica’, pur temperandola con un «a meno di imprevedibili scoperte». Nella Civiltà
dei Sardi dal paleolitico all’età dei nuraghi del 1988 così è sintetizzato
lo status quaestionis della presunta ‘scrittura nuragica’:
Il coinvolgimento degli indigeni (tranne forse quelli abitanti nelle
città) nella cultura scritta (letterata) punica avrebbe significato dare loro
un pericoloso strumento di emancipazione. Invece ghettizzandoli nella cultura
orale, per di più decaduta e imbarbarita, li si teneva in uno stato di
inferiorità sociale e in condizione di non nuocere (o nuocere di meno)
politicamente. I cartaginesi non insegnarono ai sardi la loro scrittura, che
era una forma di comunicazione elevata e di potere riservata alla classe
dominante e padrona. Né dettero stimoli perché i locali si dotassero d’un
alfabeto autonomo, che non avevano mai avuto nemmeno nei tempi della libertà.
Il contatto fra i due sustrati etnici-linguistici non provocò nei sardi ciò che
il contatto con popolazioni straniere di grande cultura (fenici e greci)
procurò agli iberi, i quali si crearono una propria lingua scritta, tanto
diffusa da dialettizzarsi e così produttiva da avere lasciato centinaia di
documenti epigrafici incisi su varia materia (pietra, piombo, ceramiche, monete
ecc.). Alcuni testimoni di scrittura di significato incerto e di
interpretazione grafica molto insicura, peraltro impossibili a datarsi,
segnalati in luoghi e su monumenti nuragici, non sono da riferirsi a cultura
indigena. Le supposte ‘iscrizioni’ incise del nuraghe Losa, furono messe in
relazione con alcuni graffiti asturiani e non mancano
per il ductus allungato e corsivo, altre analogie essenzialmente
nelle regioni celtiberiche. Le hanno lasciate mercenari iberici al soldo
cartaginese? La presenza di soldati di ventura iberici in Sardegna è attestata
dalla tradizione letteraria (Paus., X, 17, 5) e non si esclude che sia
di un mercenario iberico il cippo di calcare da Cagliari con iscrizione sicuramente
iberica (Ephem. Epigr., VIII, 1899, p. 513). La lettura ne potrebbe
essere:
…serdu (o do?) <n>sors/ear (??) se/ldari (o
be?)../…. Seldar sembra un nome personale (quello del
mercenario?) e si avvicina alla intitolazione con parole calun seldar,
di un cippo funerario di Cretas. Salduie è il nome iberico di Saragozza.
Infine con l’arruolamento di mercenari iberici per la Sardegna, si può spiegare
la presenza di ceramiche dipinte geometriche, caratteristiche delle culture
indigene di varie regioni della Penisola iberica, nella stipe del tempio
arieggiante ad architettura punica di via Malta a Cagliari (III sec. a.C.), e
nella tomba n. 56 della necropoli olbiense di Joanne Canu (vaso del gruppo
detto dei “sombreros de copa”, del III-II secolo a.C.). Recentemente dei segni osservati
su altri nuraghi o su pietre ritenute antiche, sono stati interpretati come
testimonianze di scrittura nuragica, quando lettere e lessico portano ad età
romana e bizantina. Se si può capire il desiderio di ricercare al fine di
riempire quel certo vuoto di qualità “civile” rappresentato dall’assenza di
documenti scritti, non è possibile approvare l’operato di coloro (anche
studiosi autorevoli nel campo della linguistica) i quali li vogliono trovare (e
li trovano) ad ogni costo (anche quello del ridicolo). A costo, per esempio, di
presumere di accreditare come nuragica un’iscrizione rinvenuta qualche anno fa
in località Barasùmene-Montresta, in lingua latina di passaggio tra il Tardo
Antico e l’Alto Medioevo (forse per il ductus scrittorio, del VI se non
del VII secolo d.C.). Bisogna dunque rassegnarsi, a meno di imprevedibili
scoperte, a vedere un paesaggio nuragico senza scrittura, ma con una forte
carica di di cultura orale tra cui c’era la lingua della quale offre più che
parvenza il ricco sustrato toponomastico e onomastico rimastocene attraverso le
tante successive stratificazioni linguistiche. Questo sustrato preistorico e
protostorico (prenuragico e nuragico) fu tanto radicato e diffuso territorialmente
da competere, come fenomeno residuale, con lo strato romano, mentre della lingua
punica sono rimasti pochissimi termini. Il che dimostra che i cartaginesi non diffusero
la loro parlata oltre lo stretto hinterland delle città, lasciando nella
condizione subalterna di analfabetismo le popolazioni indigene assoggettate,
parlanti sardo.
Il quadro negativo sulla presunta ‘scrittura nuragica’
si esplicita ugualmente nelle pagine della Sardegna preistorica e nuragica di
Ercole Contu, nelle quali, tuttavia, si evidenzia, in base alle ricerche di
Giovanni Ugas, la formazione presso la società sarda della prima età del ferro
di «un adatto sistema ponderale (e forse anche metrico), che prima o poi
sarebbe sfociato […] anche nella creazione di una scrittura»:
Certo in ambito nuragico già si andavano predisponendo o nascevano
pressoché spontaneamente a tale generico fine [allargamento diretto dei
commerci nuragici verso l’oriente mediterraneo], sotto la spinta della
necessità, degli strumenti tecnico-amministrativi specifici, quali un adatto
sistema ponderale (e forse anche metrico), che prima o poi sarebbe sfociato,
come era avvenuto altrove, anche nella creazione di una scrittura. La scrittura
è infatti figlia dell’amministrazione e degli scambi ed è ben per questo che i
Fenici l’adottarono, semplificando una precedente scrittura ideografica. Non fa
meraviglia l’adozione verso il IX sec., anche sulla scia e nello spirito della
moda orientalizzante, di buona parte dell’alfabeto fenicio da parte dei Greci.
Mentre più tardi, su influsso greco, avverrà lo stesso per gli Etruschi e i
Romani. L’economia nuragica (cioè di una civiltà che pure fu a stretto contatto
dei Fenici e già lo era stata dei Micenei) evidentemente non aveva necessità di
registrazioni di carattere amministrativo
contabile. È solo questa la ragione per cui essa restò illetterata: infatti,
per quanto pensino diversamente gli idealisti e i sognatori, è solo la
necessità a determinare la presenza di una qualunque manifestazione culturale. Tanto è vero che,
essendo partiti da esperienze grafiche molto simili, non vi pervennero le genti
della cultura del Milazzese a Lipari (1400-1270 av. C.) né successivamente (fra
il IX ed il VII sec.) i Villanoviani dell’Italia centrale. Solo
un’organizzazione di tipo urbano, con notevole accumulo e redistribuzione di
ricchezza ed un’autorità sufficientemente centralizzata, può necessitare della
scrittura; ma a tale livello di organizzazione la Civiltà nuragica non pervenne
mai, anche se questa era forse la strada verso la quale si stava avviando.
Restò perciò una cultura preistorica; e quando una cultura preistorica o, ai
giorni nostri, a livello etnologico si scontra con una civiltà a livello
urbano, la prima non può che trasformarsi o perire. E così, essendo troppo diversa
da quella degli invasori semitici e senza valide trasformazioni possibili o in
ritardo rispetto ad esse, la Civiltà Nuragica andò incontro al suo tramonto.
IV. Le
tesi di Massimo Pittau sulla ‘scrittura nuragica’
La polemica di Giovanni Lilliu ed Ercole Contu è
rivolta sia a «idealisti e sognatori », sia a uno «studios(o) autorevol(e)
nel campo della linguistica», Massimo Pittau, professore emerito di
Linguistica Sarda nell’Università di Sassari. Massimo Pittau ha avviato gli
studi sui Sardi nuragici e la scrittura sin dal 1981, con un denso
capitolo della sua opera La lingua dei Sardi nuragici e degli Etruschi. Nello
studio Pittau riprende i dati del Pais, relativi a testi incisi sui nuraghi
Losa (Abbasanta) e Bara (Macomer) utilizzanti un codice scrittorio iberico, per
esprimere il paleosardo, precisando che l’iscrizione del nuraghe Bara di
Macomer è invece ascrivibile al nuraghe Succorónis. Si riportano inoltre
due testi inediti: uno in caratteri greci inciso su un concio dell’abside di
San Nicola di Trullas (ma di evidente redazione moderna in lingua italiana),
l’altro in caratteri alfabetici latini incisi su due blocchi in basalto ai
lati dell’ingresso del nuraghe Rampinu di Orosei, di dubbia cronologia ma forse
moderna.
I testi sono i seguenti: ITSN (blocco a sin. dell’ingresso); TS /
TSNHBEI. Le due T presentano apicature marcate (in particolare la T della
seconda linea con una apicatura inferiore dell’asta ridotta a un trattino orizzontale)
inconcepibili prima dell’avanzata età romana imperiale, ma piuttosto derivate
da esempi di T con le grazie tipografiche. La N è retroversa. La S della I
linea è a tre tratti destrorsa; la S della II linea è ugualmente a tre tratti
sinistrorsa.
La posizione di Massimo Pittau a favore dell’esistenza
della scrittura nuragica, in polemica con Giovanni Lilliu, è stata divulgata a
livello di stampa quotidiana nel 1982. Nel Lessico Etrusco-Latino comparato
col Nuragico (1984) Massimo Pittau presenta nella quarta di copertina
quattro illustrazioni di iscrizioni su un monumento nuragico (il protonuraghe
Aidu entos di Mulargia-Bortigali) e di siti nuragici di Aidomaggiore (nuraghe
Sanilo) e di Suni. In tutti questi quattro documenti è evidente l’uso del
codice scrittorio latino, benché sia accertato che, in alcuni casi, i testi,
pacificamente di età romana imperiale, abbiano serbato lessemi paleosardi. Massimo
Pittau ha proseguito nella sua ricerca riservando in vari suoi libri un capitolo
relativo al rapporto fra i Sardi e la scrittura. Citiamo L’iscrizione
nuragica in lettere latine del nuraghe Aidu Entos, del 1994, Origine e
parentela dei Sardi e degli Etruschi, del 1993, o ancora La
scrittura presso i Sardi Nuragici del 2007. Più recentemente lo studioso ha
offerto, nel proprio sito web, un ampio saggio sulla problematica in
questione. Le argomentazioni del Pittau si basano sul supposto che i Nuragici
abbiano adottato di volta in volta codici scrittori esterni per la propria
lingua: si tratta del geroglifico egiziano, di un sillabario egeo, dell’alfabeto
fenicio, di quello greco, etrusco e latino, poiché non è mai esistita una
«scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica, ma i Sardi avrebbero adottato
i codici scrittori delle società che entravano in rapporto con essi»:
Poiché l’iscrizione fenicia di Nora non ha trovato sinora una traduzione
neppure lontanamente condivisa dai semitisti, non è inverosimile che questa
divergenza di opinioni sia la conseguenza del fatto che l’iscrizione in realtà
porti un messaggio in lingua nuragica. A questa supposizione siamo spinti anche
dal fatto che nell’iscrizione figura certamente anche il nome della Sardegna o
dei Sardi (SHRDN). La medesima considerazione è da farsi rispetto ad alcune
altre iscrizioni in alfabeto fenicio, per le quali esiste fra gli interpreti
forte divergenza di opinioni.
All’epoca della conquista cartaginese della Sardegna
(ultimi decenni del VI sec. a.C.) i Sardi si sarebbero alleati con i Sibariti,
come testimonierebbe la tabella dei Serdaioi rinvenuta a Olimpia, e ai Serdaioi
si dovrebbero ascrivere le emissioni monetali con legenda Serd in
alfabeto acheo e le più tarde monete con la legenda Sardoi. In tale
torno di tempo i Sardi avrebbero adottato per le proprie iscrizioni un alfabeto
greco.
Alla fine della loro indipendenza e ormai sotto la dominazione dei
Romani, i Sardi Nuragici fecero uso anche dell’alfabeto latino per comunicare i
loro messaggi in lingua nuragica. Lo dimostra una iscrizione in caratteri
latini che si trova nell’architrave del nuraghe di Aidu entos di
Bortigali, però purtroppo quasi completamente illeggibile, perché la pietra è
stata corrosa dal tempo. In alfabeto latino sarebbero state redatte
altre iscrizioni nuragiche come quella della navicella nuragica a testa di
antilope già nell’Antiquarium Arborense di Oristano e una epigrafe incisa sulla
stele di una tomba di giganti presso Santa Teresa di Gallura.
Inoltre sono da citare, come esempi di messaggi nuragici scritti però in
alfabeto latino, le due tabellae defixionis di piombo, rinvenute nel
villaggio nuragico di Linn’arta di Orosei ed ora sistemate nel Museo
Archeologico di Nùoro: le lettere sono sicuramente latine, ma dei vocaboli
quasi nessuno si può spiegare col lessico latino, mentre almeno uno, ripetuto
tre volte, è sicuramente nuragico, NURGO, il quale corrisponde sorprendentemente
al toponimo odierno Nurgòe di Irgoli (villaggio confinante) e al mediev.
Nurgoi (CSPS 190). Infine è probabilmente un sesto esempio di iscrizione
nuragica scritta in caratteri latini, quella incisa in un masso che si trova
nei pressi del piccolo nuraghe che è vicinissino alla chiesa parrocchiale di
Suni (OR) (nuovo chiarissimo esempio di sincretismo nuragico-cristiano).
Si è voluto lasciare largo spazio alle argomentazioni
di Massimo Pittau sulla conoscenza della scrittura da parte dei Sardi perché
esse propongono diverse tematiche sia di indole storico-filologica, sia di
ambito epigrafico, sia di rilievo linguistico, sia infine di carattere
metodologico. L’esistenza in Sardegna di vari documenti, sicuramente antichi,
provvisti di diversi codici scrittori è un dato di estremo rilievo, ma esso
deve essere confrontato con il contesto di rinvenimento, ove noto, espresso in
‘unità stratigrafica’. In tale caso il contesto potrà definirsi in termini
storici integrali. Per quanto concerne gli oxhide ingots si deve
rimarcare, in sintonia con le analisi archeometriche effettuate anche sui
lingotti oxhide della Sardegna che rimandano al rame dei monti Troodos a
Cipro, che il complesso dei segni dei lingotti in Sardegna possono inquadrarsi
fra i sillabogrammi del Cipro-Minoico. I due testi in geroglifico egiziano, a
parte gli scarabei, rinvenuti a Tharros (placchetta con la triade tebana) e ad
Assemini,non possono assegnarsi tout court a età del bronzo, ma vanno
riportati ad artigianato egizio di età romana (Tharros), e a
importazione dall’Egitto, in età indeterminata (cartaginese? romana?), di una
iscrizione geroglifica, in considerazione del contesto romano, non nuragico del
rinvenimento (Assemini). Per quanto concerne le iscrizioni fenicie della
Sardegna, esse non sono le più numerose dell’Occidente, ma il
loro rinvenimento in ambito urbano o santuariale depone a favore della loro
pertinenza a un codice linguistico fenicio (o punico dal tardo VI a.C.). Il
discorso vale in primis per la stele di Nora, per la
quale, nonostante i complessi problemi di lettura, non si vede assolutamente la
possibilità
di individuarvi un testo espresso in codice
linguistico paleosardo, a parte un toponimo o antroponimo75 ngr che
potremmo considerare paleosardo, sia o meno identificabile con il toponimo Nora.
La documentazione numismatica ed epigrafica greca evocata da Massimo Pittau deve
essere puntualmente analizzata: attualmente la maggioranza degli studiosi esclude
un rapporto fra i Sardonioi (Sardi) e i celeberrimi Serdaioi del
trattato con Sibari di Olimpia, mentre, con Lello Greco e Mario Torelli, si
riconosce in essi una tribù indigena sulla costa tirrenica della Calabria,
garantita dalla sub colonia Poseidonia. D’altro canto il ruolo di
mercenari dei Sardi nell’esercito cartaginese, attestato in Sicilia sin dal 480
a.C. a Himera, non può essere ricondotto alle coscrizioni di leva di
cartaginesi di stanza nell’isola, ma deve essere considerato secondo
l’ipotesi di Giovanni Colonna nel quadro del
mercenariato in area alto-tirrenica e ligure che abbraccia Sardi, Corsi,
Elysici, Sordoni. Inoltre è da sottolineare la fecondità della proposta di
Momigliano (ripresa da Massimo Pittau) nell’attribuzione a mercenari sardi in
Sicilia della emissione monetale in argento e bronzo con testa femminilea d.
con legenda Sardo sul D/ e grappolo d’uva al R/ di cui si conosce un
esemplare di sicura provenienza da contrada Mòscala (Carini-Palermo), e
un nuovo esemplare riconiato su una moneta punico-siceliota con cavallo in
corsa. Per quanto concerne l’arcaismo, l’individuazione di una iscrizione
ionica (l’antroponimo Théol(l)os) graffita sul corpo di una kotyle del
Corinzio Antico (cerchia del Polyteleia Painter) del 600 a.C., a
Olbia,rinvenuta in un contesto di materiale greco con alcune ceramiche d’impasto
presumibilmente indigene, ha dato concretezza all’ipotesi di un insediamento
greco (ionico, forse foceo) a Olbia, spazzato via dalla battaglia del Mare
Sardonio. Tale dato positivo non è però utilizzabile, fino a prova contraria,
per l’ipotesi dell’acquisizione da parte dei Sardi di un alfabeto greco
arcaico, che semmai sarebbe stato un alfabeto ‘rosso’, euboico, nel quadro di
rapporti fra Eubei (e Fenici) e Sardi a Sant’Imbenia (Alghero). In tale quadro
non appare probabile l’attribuzione a evo antico e all’alfabetario ‘corinzio
megarese’ per la forma del primo segno, supposto beta, delle due lettere
incise sul concio dell’ingresso sopraelevato volto a nord est del bastione del
su Nuraxi di Barumini. Sembrerebbe trattarsi più semplicemente di una sigla onomastica
di un S(---) E(---), con S retrograda, probabilmente il cognome
seguito dal nome (secondo il frequente uso dei Sardi) inciso nel XX secolo. Così
pure, come già detto, non sembrerebbe plausibile l’evocazione dell’alfabeto greco
per giustificare la scritta incisa su due conci ai lati dell’ingresso del
nuraghe Rampinu di Orosei, utilizzante con evidenza un alfabeto latino. Quanto
al codice linguistico usato è opportuno sospendere il giudizio, senza escludere
che la scritta rientri nell’ambito vasto delle iscrizioni della II guerra mondiale,
eventualmente cifrate. Per quanto attiene le iscrizioni etrusche in Sardegna
dobbiamo fare una distinzione fra la iscrizione di Oristano, presso Othoca,
una nuova epigrafe di Tharros, entrambe incise su un supporto di
arenaria, il numerale etrusco su una placchetta eburnea di Nora, forse
un’iscrizione sulcitana, lo scarabeo tharrense con la scritta tulus,
in lettere retrograde (se non è latina) e la gemma tharrense appartenente
all’Antiquarium Arborense (collezione Efisio Pischedda) con un testo etrusco,
impaginato su due linee e trafugata nel 1966, evidentemente concernenti il
rapporto fra gli Etruschi e i Fenici prima e i Cartaginesi poi delle suddette città,
e i rinvenimenti dell’area interna dell’isola, in particolare l’area di Allai- Bidonì,
in cui il moltiplicarsi della scoperta di testi in alfabeti etruschi su
supporti vari (litici e fittili) denuncia una officina falsariorum che
deriva le proprie iscrizioni da
originali, conosciuti in riproduzione e talora fraintesi. Resta il novero di
iscrizioni in alfabeto latino, spesso scoperte dallo stesso Massimo Pittau, in
varie località della Sardegna interna. L’affermazione di Pittau «alla fine
della loro indipendenza e ormai sotto la dominazione dei Romani, i Sardi
Nuragici fecero uso anche dell’alfabeto latino per comunicare i loro messaggi
in lingua nuragica» deve essere sottoposta a verifica. Già Theodor Mommsen, a
proposito dei tituli latini del territorio prossimo a Forum
Traiani-Fordongianus, aveva notato che Paucis titulis ad Forum Traiani effossis
adiunxi qui prodierunt in vicis vicinis item mediterraneis Samugheo, Busachi,
Ula; qui si recte excepti essent, haberent utilitatem propter Sardorum
genuinorum nomina a Romana consuetidine abhorrentia.
L’ipotesi che in un quadro di prevalente cultura orale i Sardi
dell’area centrale abbiano adottato il codice alfabetico latino in fase
imperiale per esprimere la propria lingua (che, tuttavia, era in fase
regressiva a fronte del latino sin dal primo impero) appare una possibilità
remota, benché le attestazioni epigrafiche di antroponimi e,
eccezionalmente, di lessemi paleosardi siano in aumento in particolare
nei territoria di Aquae Ypsitanae / Forum Traiani, Vselis e
Valentia.
V. Le
‘tavolette di Tziricottu’ e la‘scrittura nuragica’ nell’opera di G. Sanna
Nell’ultima parte del suo intervento su I Sardi
nuragici e la scrittura Massimo Pittau introduce il proprio
giudizio sull’opera di Gigi Sanna sulla ‘scrittura nuragica’, giungendo alla
conclusione che l’autore sia stato fuorviato da alcuni falsi, anche perché,
aggiunge, «stanno pure spuntando come funghi le “scritte” sui
nuraghi». L’opera di Gigi Sanna, apprezzato professore di Greco e Latino nel
Liceo-Ginnasio De Castro di Oristano (1967-1998), attualmente docente presso
l’Istituto di Scienze Religiose dell’Arcidiocesi di Oristano, collegato alla
Facoltà teologica della Sardegna, di Storia della Chiesa antica e di Storia
della Chiesa in Sardegna, spazia dalla storia della Sardegna giudicale, alla
omiletica in lingua sarda, alla letteratura sarda, alla
problematica ‘scrittura nuragica’. Quest’ultimo ambito è stato
analizzato dapprima insieme a Gianni Atzori nel libro Omines, quindi,
dopo la scomparsa del coautore, dal solo Gigi Sanna nel volume Sardoa
grammata, e nei successivi I segni del Lossia cacciatore, La
stele di Nora, in numerosissimi interventi su blog e in
varie riviste.
Dell’amico Gigi Sanna come studioso di antichi alfabeti, soprattutto di
quelli orientali. È raro incontrare, anche a livello accademico, colleghi che
nel detto settore siano all’altezza di Gigi Sanna. Però ritengo che purtroppo
egli sia caduto nei raggiri di qualche falsario e inoltre si sia fatto
fuorviare nelle sue interpretazioni da suggerimenti sbagliati datigli da
qualche suo collega molto meno valido di lui in termini scientifici. Venendo al
caso specifico delle cosiddette ‘Tabelle’ di Tziricotu, dico che mi ha convinto
Paolo Benito Serra, il quale ha sostenuto e dimostrato che quelle Tabelle non
sono altro che «matrici in bronzo di
tipo bizantino-mediterraneo […] utili per la produzione in serie di
guarnizioni di finimenti equini e di linguelle e pendenti di cinture multiple
da parata, decorate in un caso e nell’altro con motivi ornamentali a punti e a
virgole». E mi ha pure convinto Rubens D’Oriano, quando, in un dibattito
pubblico tenutosi qualche mese fa a Sassari con Gigi Sanna, ha affermato che i
segni delle Tabelle di Tziricotu non possono essere considerati segni di
‘scrittura’, dato che, dividendo in senso verticale la rispettiva figura, le
due parti sono ‘speculari’, ossia combaciano perfettamente l’una con l’altra. E
questo – a mio avviso – non succede né può succedere in nessun alfabeto o
scrittura che preveda la corrispondenza della ‘successione spaziale’ delle
lettere scritte con la ‘successione temporale’ dei fonemi pronunziati.
Purtroppo anche in Sardegna stanno circolando i falsari di reperti archeologici
e stanno pure spuntando come funghi le ‘scritte’ sui nuraghi. Qui mi permetto
di suggerire all’amico Gigi Sanna di stare bene in guardia rispetto agli uni e
rispetto alle altre. Del resto è certo che Gigi Sanna non è stato il primo né
sarà l’ultimo ad essere ingannato da falsari: qualche decennio or sono fece
molto scalpore il fatto che il noto critico d’arte Giulio Carlo Argan avesse
dichiarato come opera di Amedeo Modigliani autentica una testa in pietra, che
invece due studenti dimostrarono di aver scolpito loro col trapano elettrico…».
Lo studio sulla ‘scrittura nuragica’ ha
preso le mosse dalla scoperta delle ‘tavolette’ di Tziricottu
(Cabras), ritenute sigilli nuragici inscritti, presentate sulla base dei cinque
calchi in gesso sia nel primo volume di Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura, sia nella
citata opera Omines. Di questi cinque calchi è, finora, comparso nel 1998
un unico esemplare in bronzo, consegnato dall’inventore Andrea Porcu di Cabras
allo scrivente, in qualità di Direttore dell’Antiquarium Arborense, e dallo
stesso rimesso alla Soprintendenza per i beni archeologici di Cagliari e
Oristano. Chi scrive, dopo un iniziale tentativo di interpretazione dei calchi
in chiave cipro-sillabica, espresse riserve sull’antichità dell’unico manufatto
disponibile, mentre oggi ritiene plausibile, seguendo l’interpretazione di
Paolo Benito Serra, 105 che l’unico esemplare in bronzo noto sia
un mòdano per lamelle metalliche a decoro geometrico e fitomorfo simmetrico che
fungevano da guarnizione per l’abbigliamento e l’equipaggiamento di personaggi
di rango della società sardobizantina. In assenza degli originali degli altri tre
calchi (essendo stato appurato che il calco 2 delle ‘tavolette’ di
Tziricottu costituisce una copia del calco 4 delle stesse ‘tavolette’)
risulta aleatoria ogni valutazione dei medesimi, tenuto conto che è evidente agli
stessi editori il carattere di base di partenza per i calchi 3-4-5 della ‘tavoletta’
in bronzo 1. Appare altrettanto indubbio che i calchi 3-4-5 rechino,
sulla base di partenza del bronzo 1, grafemi di codici scrittori
vicino-orientali.
In particolare il calco 3 reca (da sinistra a destra
come nella maggior parte dei testi cuneiformi ugaritici) grafemi cuneiformi
ugaritici, in cui si rileva la sequenza dell’8°-9°-10° segno dell’‘alfabeto’
ugaritico, seguita dal trentesimo (e ultimo) grafema dello stesso ‘alfabeto’. Nel
calco 3 appare il ‘segno di Tanit’ mentre nel calco 4 una
incisione solo parzialmente riconducibile allo stesso ‘segno di
Tanit’, ma che sarebbe formato dai grafemi H Y W. Secondo G. Sanna nelle ‘tavolette’ di
Tziricottu si individuano, inoltre, segni ispirati ai codici scrittori
protosinaitico, protocananaico e gublita. In realtà i grafemi sussistono, come
si è detto, esclusivamente nei calchi 3-4-5, impostati sul sistema decorativo
del bronzo Tziricottu 1, per cui allo stato e in attesa che gli
eventuali originali bronzei vengano alla luce appare più probabile a chi scrive
una produzione moderna dei calchi, successiva alla scoperta nel 1929 a Ras
Shamra dei primi testi ugaritici.
Contra G. SANNA, Sardoa grammata, Oristano 2004, pp. 85-179; A. LOSI, Le
tavolette-sigillo di Tziricotu e la questione medievale, in «Monti Prama.
Rivista semestrale di Quaderni Oristanesi», 62 (2011), p. 17, fig. 2, che evidenziano
la presenza nella ‘tavoletta’ 1 di Tziricottu di un grafema protosinaitico w,
corrispondente al segno 15 dell’iscrizione protosinaitica 357 di B. SASS, The Genesis of
the Alphabet and its Development in the Second Millennium B.C., Wiesbaden
1988, p. 50. Il grafema appare puntiforme e potrebbe appartenere al sistema
decorativo dell’oggetto, benché ne alteri il carattere simmetrico, ma non può
escludersi un intervento seriore all’originario schema decorativo.
L’analisi delle testimonianze della ‘scrittura
nuragica’ non si arresta alle «tavolette» di Tziricottu ma si amplia a
varie categorie di oggetti iscritti, che potremmo schematizzare nel modo
seguente, pur rinunciando all’esaustione negli exempla di ciascuna
categoria:
A) Nuraghi o monumenti presuntivamente nuragici con iscrizioni
1) Abbasanta (nuraghe Aiga): «iscrizione in protocananeo»; 2) Abbasanta
(nuraghe Zuras): iscrizione «nuragica in alfabeto lineare»; 3) Barumini
(nuraghe su Nuraxi): «iscrizione protocananaica»; 4) Bortigali (protonuraghe Aidu
Entos): iscrizione «in caratteri latini ma con testo composto da lessemi sia nuragici, sia
strettamente semitici che latini »; 5) Orosei-Onifai (nuraghe Rampinu):
iscrizione «nuragica greco-etrusca».
B) Manufatti fittili inscritti 6) Alghero, Palmavera: fusaiola
fittile con iscrizione nuragica; 7) Alghero, Sant’Imbenia:
sigillo-scaraboide con iscrizione sulla base in «caratteri
paleocananei-gublitiugaritici »; 8) Arzachena, Capanna delle Riunioni di La Prisgiona:
vaso con «dodici pittogrammi acrofonici»; 9) Mogoro, loc. Serra sa Furca: «coccio
nuragico con dei caratteri cuneiformi [di tipologia non specificata] incisi»; 10) Orani,
località sconosciuta:
frammento di una ciotola (nuragica), con «tre linee di scrittura di
tipologia fenicia arcaica », con tredici grafemi fenici post coctionem che
rispondono alla sequenza di lessemi della prima e seconda linea, della quarta e
della quinta linea della stele di Nora, di cui ripetono le peculiarità
paleografiche; 11) Pozzomaggiore, frammento in ceramica con un testo impaginato su sei
linee superstiti, articolato in «22 segni in alfabeto nuragico […]
d’ispirazione pittografica orientale ‘protosinaitica’ […] e ‘protocananaica’»
con anche «i caratteri ‘sardi’: yod, he»; 12) Teti (forse insediamento nuragico
S’Urbale): lucerna a barchetta fittile con segni «di tre sistemi di scrittura
protosinaitico, proto cananeo e sardo»; 13) Villagrande Strisaili, Santuario di
S’Arcu ‘e sos Forros: anfora fenicia «con iscrizione nuragica-cananaica,
[presentante fra gli altri] due segni proto sinaitici e poi protocananaici della zayn,
i due segni dell’‘aleph e del nun pittografici (ugual mente
protosinaitici e poi protocananici), [… e il] segno strano a ‘pugnaletto
nuragico’».
C) Manufatti litici inscritti
14) Abbasanta, presso il nuraghe Aiga «iscrizione con lettere e
pittogrammi»; 15) Abbasanta, presso il nuraghe Pitzinnu: «pietra ‘altare’ con numerosi
segni di scrittura protosinaitica, protocananea e gublitica»; 16) Aidomaggiore,
presso nuraghe Sanilo: «iscrizione nuragica di natura pittografica e lineare»;
(Nota 1) 17) Allai, loc. Pranu Antas: ciondolo ellittico con foro pervio a una
estremità con «iscrizione in caratteri fenici arcaici, scrittura
‘logo-pittografica’ e scrittura ‘numerica’»;(Nota 2) 18) Allai, S’isca
de su Nurachi: «Iscrizione nuragica-etrusca, in caratteri latini ed etruschi;(Nota
3) 19) Barisardo:
«stele nuragica in protocananaico»; 20) Bosa: «concio nuragico della chiesa
di S. Pietro extra muros (località Santi Jacu) […] contenente, oltre alla
scrittura pittografica e ideografica, 7 segni di scrittura lineare, i primi
quattro recanti la sequenza šrdn e i rimanenti la sequenza yhw»; 21) Bosa,
frammento di stele: «[iscrizione] in lingua nuragica [?] [con] caratteri fenici
arcaici»; 22) Nora, stele I: «documento in caratteri di tipologia fenicia e in
lingua semitica ma con tenore attinente alla antica religione sarda ‘nuragica’ »; 23) Nora frammento
di stele II: «[iscrizione] in lingua nuragica [?] [con] caratteri fenici
arcaici»; 24) Laconi e Samugheo: «stele tombali scritte […] caratteri gubliti- paleocananei-nuragici,
XVI-XV sec. a.C.»; 25) Paulilatino, presso Perdu Pes: «due massi inscritti […] recanti
segni di scrittura riconducibili anch’essi a tipologie di tipo protosinaitico e
protocananeo»; 26) San Giovanni Suergiu, necropoli a domus de Janas di Locci Santus: brassard
dell’Eneolitico tardo-inizi Bronzo antico, con «caratteri di scrittura
d’ispirazione protosinaitica»; 27) Solarussa, loc. sconosciuta: «‘ciondolo’ […] recante
segni di scrittura riconducibile a note tipologie di scrittura sinaitica»; 28) Terralba:
pietra basaltica di forma ellissoidale con «segni della scrittura, in numero di cinque,
[che] procedono con lettura dall’alto verso il basso e sono composti da un ’aleph,
da un gimel, da un h, da un nun e
infine da un lamed. Dei cinque segni il ’aleph e il nun sono
pittografici, gli altri tre sono schematici ‘lineari’»; 29) Uras, tomba a
corridoio nuragica di Su cungiau de is Mongias a nord del nuraghe Domu Beccia: «‘nuraghetto’»
con «10 segni del codice scrittorio gublita»; 30) Zeddiani: «pietra (altare) in
arenaria […] con canaletta divisoria [per il sangue dei sacrifici] e lettere proto
cananee ».
D) Manufatti enei inscritti
31) Sinis: navicella sarda già nell’Antiquarium Arborense-Oristano con
«iscrizione protocananaica»; 32) San Vero Milis, Loc. Su Pallosu: «Anello sigillo
con 36 lettere alfabetiche […] caratteri paleocananei»; 33) Villaputzu,
nuraghe complesso del Monte del Castello di Quirra: «sigillo del Dio Toro Padre
Shrdn di Quirra […] caratteri paleo cananei »; 34) Villaverde: «Fibula bronzea
con il ‘capovolto’ […] caratteri paleocananeigubliti- sardi».
E) Manufatto in piombo inscritto 35) Sant’Antioco (Sulci):
dischetto in piombo «con caratteri fenici arcaici […] X-IX sec. a.C. [in]
lingua nuragica». F) Manufatto in oro inscritto 36) Santadi, Su Benatzu, grotta
santuario nuragica di Pirosu: laminetta aurea «con segni di scrittura molto
arcaica (di ispirazione protosinaitico/protocananea)».
La notevole quantità di documenti relativi alla
‘scrittura nuragica’, accumulata in un breve volgere di anni,
invita ad alcune osservazioni metodologiche: 1) il contesto di rinvenimento del
documento inscritto, inteso come unità stratigrafica di cui il documento
è componente artificiale, appare il criterio fondamentale per un inquadramento
dello stesso in un ambito culturale e cronologico. In assenza del dato di
contesto l’inquadramento del documento inscritto prevederà, in primis,
la datazione archeometrica e archeologica del supporto; in secondo luogo l’analisi
del codice scrittorio e del codice linguistico da esso sotteso; 2) il supporto
scrittorio, sia esso monumentale (ad esempio un nuraghe), sia esso un manufatto
mobile (un vaso, una fusaiola, etc.), offre, attraverso la sua datazione con
criteri archeometrici e archeologici, un terminus post quem per il
testo, a eccezione del caso in cui il testo sia contemporaneo al manufatto (è
il caso delle
iscrizioni ante coctionem dei fittili). Il
testo può essere successivo al supporto ed essere pertinente a una cultura
differente da quella che realizzò il supporto medesimo. Tale criterio è da
prendere in considerazione anche in rapporto all’aggiunta di un testo
epigrafico moderno a un supporto antico;
3) un codice scrittorio noto consente la lettura di un
testo, sia che esso pertenga a un codice linguistico conosciuto o a un codice
linguistico sconosciuto. Un codice scrittorio sconosciuto non consente la
lettura di un testo, ma ove i segni e i gruppi di segni di cui è composto siano
attestati migliaia di volte è possibile avviare un processo di decifrazione. Si
noti per inciso che i 242 segni del disco di Festòs, i 2900 segni della
scrittura geroglifica cretese, i 3700 segni delle scritture in cipro minoico
(CM 0, CM 1, CM 2, CM 3), i 7500 segni della scrittura lineare A non sono stati
finora sufficienti per un processo di decifrazione di tali codici scrittori,
mentre i 30.000 segni della Lineare B furono sufficienti a Michel Ventris nella
sua opera di decifrazione dei sillabogrammi della scrittura Lineare B, che
rivelarono il suo utilizzo nella resa della lingua greca del Medio Elladico e del
Tardo Elladico. Nell’ambito delle ‘iscrizioni nuragiche’ è ricondotto un numero
basso di documenti scritti di contesto noto in termini stratigrafici, ma di
questi documenti antichi una buona parte è, allo stato delle conoscenze di chi
scrive, pertinente a codici scrittori fenicio e punico (tra cui le due stele di
Nora, la stele di Bosa, l’iscrizione su anfora di Villagrande Strisaili-S’Arcu
is Forros, il dischetto in piombo di Sulci, l’iscrizione di
Sanilo-Aidomaggiore) e latino (l’iscrizione dell’architrave
del protonuraghe Aidu Entos-Mulargia, il blocco presso il nuraghe Pitzinnu di
Abbasanta, la navicella nuragica già nell’Antiquarium Arborense) benché in
alcuni casi (scritte di Aidu Entos-Mulargia e Sanilo-Aidomaggiore) tali documenti
possano testimoniare, in età punica e romana, antroponimi e lessemi paleosardi.
L’analisi del supporto di numerosi testi e le relative tecniche scrittorie
rivelano, a giudizio di chi scrive, da un lato l’aggiunta recenziore su
supporti vari anche antichi (Nota 4) di grafemi (tratti sia da
repertori, sia dalla celebre stele di Nora (ripresa ad verbum dal
‘testo’ di Orani e dal ‘testo’ di Allai), (Nota 5) di vari
codici scrittori (Nota 6) (reinterpretati
come protosinaitici, protocananaici, gubliti, fenici e ‘sardi’), dall’altro la
cronologia medievale (alto e basso medievale) di manufatti sia anepigrafi (concio
con aquila di S. Pietro di Bosa, fibula bizantina di Villaverde), sia inscritti
(anello di Su Pallosu con iscrizione islamica). Inoltre se si considerano
portatrici di un testo scritto «in caratteri gubliti- paleocananei-nuragici,
del XVI-XV sec. a.C.» le statue menhirs di Laconi e di Samugheo155 è
necessario dimostrare, con dati archeologici, che la cronologia delle stesse
all’eneolitico di Abealzu e Filigosa del principio del III millennio a.C. sia errata,
ma in tale caso ci si troverà a fare i conti con il riutilizzo delle statue
stele spezzate in nuraghi di Laconi, Senis o in tombe megalitiche come quella
di Aiodda- Nurallao. Si lasciano da parte i sigilli-scarabei con testi
geroglifici, individuati in contesti urbani fenici e cartaginesi, a parte i
limitatissimi aigyptiakà di ambito indigeno (S. Imbenia-Alghero,
Nurdole-Orani, Monte Prama-Cabras e S’Arcu e is Forros-Villagrande Strisaili),
per i quali non appare allo stato delle conoscenze un intervento di
intagliatori sardi (indigeni) che avrebbero inciso in essi iscrizioni che
rimanderebbero a concetti religiosi e a lessemi nuragici in scrittura protocananaica.
Nel corpus dei manufatti, sicuramente antichi, dotati presuntivamente di
iscrizioni, vi è da fare una distinzione fra oggetti (quali il frammento di un
vaso a cestello di cultura Ozieri nel neolitico finale di Serra ‘e sa Furca, il
pendente di Solarussa, la
laminetta d’oro di Su Benatzu, il vaso di Sa Prisgiona-Arzachena), per
i quali chi scrive ritiene assente una notazione di un codice scrittorio, e
un’altra serie di manufatti (c.d. ‘nuraghetto’ di Uras, scarabeo
di Sant’Imbenia, e frammento ceramico di Pozzomaggiore), di differente cronologia, in cui
si evidenzia, con maggiore o minore probabilità, l’uso di un codice scrittorio.
Purtroppo non pare definibile la questione sulla base delle immagini fin qui
edite per il frammento ceramico di Pozzomaggiore per il quale sembrerebbe,
comunque, più plausibile un’ascrizione al corsivo neopunico. Per lo scarabeo di
Sant’Imbenia si ribadisce il quadro stratigrafico che impedisce una cronologia ante
800 a.C., dato che autorizza l’ipotesi, già emessa da Rubens D’Oriano,
dell’utilizzo di segni di scrittura alfabetica fenici da parte di un sardo, in
base all’ascrizione del sigillo a bottega indigena per il tipo di argilla
utilizzata. Differente è il caso del ‘nuraghetto’ di Uras che si rivela una
fusaiola troncoconica in steatite con una sequenza incisa di sillabogrammi
presumibilmente ascrivibili al Cipro Minoico 1, che consentono di verificare la
circolazione a livello di XII/ XI sec. a.C. presso la comunità nuragica di Domu
Beccia-Uras di un oggetto, di manifattura cipriota, che recava segni di
scrittura. La ‘griglia di Sassari’ della ‘scrittura nuragica’ si basa
sul complesso dei segni individuati sui manufatti presuntivamente dotati di
iscrizioni, ma non appare giustificata da elementi probanti, in quanto basata,
secondo l’opinione dello scrivente, sull’interpretazione di segni su documenti
incerti o non antichi. Non condivisibile, per lo scrivente, è l’affermazione di
un codice scrittorio nuragico che esprimerebbe una lingua in cui le componenti
sarebbero ipoteticamente indoeuropea e semitica, in totale contrasto con i quadri
del paleo sardo ricostruiti, sulla base della toponomastica e di qualche
residuo lessicale fossile serbato dalle fonti classiche e dal sardo neolatino,
da maestri del calibro del Wagner e dell’Hubschimid, e affinati dalle analisi
di Emidio de Felice, Giulio Paulis, Edoardo Blasco Ferrer e dalla loro scuola. Si
aggiunga che il limite cronologico più alto invocato per i documenti scritti nuragici
(XVI sec. a.C.) non è giustificato dai rapporti fra la Sardegna e il Vicino Oriente
mediterraneo attestati, su base archeologica, non prima del XII secolo a.C., mentre
anche se si ammetta una migrazione degli Sherden in Sardegna, questa non è
ipotizzabile antecedentemente lo stanziamento in Egitto e in area siro-palestinese
degli stessi Sherden. In tale ambito non si comprende come
sarebbe pervenuto il codice scrittorio protosinaitico e il codice scrittorio
protocananaico alla base del presunto codice scrittorio nuragico sin dal XVI
secolo o addirittura nella I metà del II millennio a.C., né si
vede, allo stato delle nostre conoscenze, sulla base della documentazione
materiale, la possibilità di un rapporto fra gli Israeliti (già stanziati nel
paese di Canaan ante 1207 a.C., data della attestazione di Israel in
Canaan nella stele di Merneptah) e la Sardegna. La
presenza di un tempio definito tout court ‘cananeo’ nel Sinis di Cabras,
a nord del nuraghe Su Nuraxi, non pare costituire una prova al riguardo, poiché
l’edificio, potrebbe
appartenere alla serie di tempietti a megaron della
cultura sarda della prima età del ferro. Un discorso a parte, da affrontare ex
novo, meritano i segni astiformi profondamente incisi su elementi
strutturali di edifici antichi, quali il nuraghe Losa- Abbasanta, il nuraghe
Succoronis-Macomer, ipotizzate iscrizioni da Ettore Pais, Massimo
Pallottino e, fra gli altri, da Gianni Atzori e Gigi Sanna. Se per
essi rimarcassimo la filiazione da scritture iberiche, in particolare
celtiberiche, come sostenuto da Pais, Pallottino e Lilliu, saremmo ricondotti a
un ambito cronologico tardivo, non anteriore all’epoca tardo repubblicana, elemento
che accrediterebbe la pertinenza delle stesse a soldati iberici nell’esercito
romano, secondo l’ipotesi di Giovanni Lilliu, estesa alla iscrizione iberica di
Karales. Va detto peraltro che almeno in un caso (sequenza di segni astiformi di
un concio della struttura naviforme presso il nuraghe Santa
Cristina-Paulilatino) è stata proposta da Ferruccio Barreca una interpretazione
in ambito corsivo neopunico. Terminata l’analisi dei documenti principali
portati a sostegno della tesi dell’esistenza di una ‘scrittura nuragica’, è
doveroso rimarcare l’acrimonia dei ricercatori che sostengono l’esistenza di
tale scrittura indirizzata verso il mondo accademico e le Soprintendenze per i
Beni Archeologici, anche da parte di chi allo stesso mondo accademico
appartiene, per le presunte nefandezze perpetrate nei confronti della ‘scrittura
nuragica’. La differenza di interpretazioni, se sostenuta da una rigorosa
metodologia, è elemento dialettico nella ricerca scientifica. D’altro canto,
sul piano storiografico, si deve ricordare che la ricerca scientifica sui
grafemi alfabetici e sugli aritmogrammi in ambito sardo (essenziamente della prima
età del ferro e della fase orientalizzante) è stata fondata da Giovanni Ugas della
Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano e,
successivamente, dell’Università di Cagliari, a partire dalle sue ricerche di
Monastir-Monte Olladiri, sin dal 1967. Sulla tematica aperta da G. Ugas
si sono soffermati vari autori, fra cui, a proposito dei valori ponderali, C.
Zaccagnini, M. Ruiz-Gálvez, F. Lo Schiavo e N.
Ialongo e relativamente ai segni di scrittura P. Bernardini (cui va il merito,
fra l’altro, della edizione dello spillone eneo sardo con iscrizione da Antas), P.
Bartoloni, M. Minoja, A. Depalmas e chi scrive. Non esiste dunque un tabu relativo
alle problematiche inerenti l’assunzione o meno della scrittura da parte della
cultura dei Sardi. Di conseguenza chi scrive non intende opporre ai ricercatori
quali G. Atzori, G. Sanna, A. Losi, che si sono soffermati da lunghi anni sul
problema della ‘scrittura nuragica’, alcun vieto principio dell’‘auctoritas’
accademica (Nota 7): in considerazione del valore
probabilistico della scienza storica lo scrivente ritiene del tutto improbabile
il sistema ricostruttivo della ‘scrittura nuragica’, ma come insegnava
Henry-Irenée Marrou, citando Sant’Agostino: fonte dell’errore sarà sempre questa
ipotesi falsa e non l’essere stesso del documento: se siamo ingannati non è ex
eo quod est, bensì ex eo quod non est.
VI. Il
problema della circolazione di documenti inscritti orientali nel Mediterraneo
centrale
e occidentale durante l’età del bronzo Onde
chiarire i modi e i tempi delle attestazioni dei grammata nell’ambito
della cultura sarda della prima età del ferro è necessario evidenziare la
differenza, nel Mediterraneo centrale e occidentale, tra l’età del bronzo, in
cui eccezionalmente sono attestati documenti inscritti di provenienza
orientale, e la prima età del ferro, durante una fase avanzata della quale
riconosciamo la diffusione di segni di codici scrittori, che tocca anche la
Sardegna. Le nostre attuali conoscenze sulla ‘nascita della scrittura’ in
ambito mediterraneo ed europeo attestano il focus dell’acquisizione di
codici scrittori, esclusivamente nel settore orientale, da parte delle culture
egiziana (intorno al 3150 a.C.), mesopotamiche (fine IV millennio a.C.), ittita
(luvio geroglifico), ed egee. Per quest’ultime è nota la
seguente scansione: (Creta): lineare A (XIX-XIV sec. a.C.); geroglifico cretese
(XVIII-XVII sec. a.C.); Grecia: lineare B (XVII sec. a.C.-fine XIII sec. a.C.);
Cipro: Cipro Minoico(CM) 0 (Enkomi), CM1(XVI-XI sec. a.C.), CM 2 (Enkomi) (fine
XIII-inizi XII sec. a.C.), CM 3 (Ugarit). L’ipotesi dell’esistenza di
‘protoscritture’ neolitiche ed eneolitiche nel Mediterraneo e nell’Europa
continentale, in particolare balcanica (cultura di Vinca), è, generalmente,
riconosciuta come non attendibile o improbabile. Per quanto concerne la
presenza di documenti inscritti, di provenienza egiziana, mesopotamica, vicino
orientale ed egea in contesti della seconda metà del II millennio a.C. nel
Mediterraneo centrale e occidentale, ossia in un ambito del Bronzo medio, tardo
e finale, dobbiamo riconoscere che essa è del tutto sporadica e tale da non
consentire l’ipotesi di una capacità interpretativa dei codici scrittori da
parte dei recettori degli oggetti inscritti (Nota 8):
1) Malta. Santuario di Tas-Silg
Frammento di crescente lunare in agata muschiata con
iscrizione cuneiforme babilonese, rinvenuto nel 2011.
2) Sicilia.
Isole Eolie
Ceramiche della cultura di Capo Graziano (Bronzo
antico) e della cultura del Milazzese (Bronzo medio) con segni grafici (c.d.
‘scrittura eoliana’). Il repertorio grafemico, nell’ambito delle ceramiche
della cultura di Capo Graziano, è estremamente limitato ai ‘segni cruciformi’e
ai ‘segni puntiformi’ e ‘curviformi’, attestati una trentina di volte. Molto
più vasto è il segnario della cultura del Milazzese che annovera circa 200
attestazioni con 69 segni, in taluni casi in serie di due e tre segni
associati. Allo stato delle conoscenza non pare stabilita una connessione fra
il «sistema grafico eoliano e procedure di controllo sull’accumulo e l’immagazzinamento»
(M. Marazzi).
Cannatello
Tre anse di anfore di tipo miceneo, edite da Ernesto
De Miro, rivelano dei potmarks derivati dai sillabogrammi del Cipro
minoico.
3) Rieti. Campo di Santa Susanna
Due frammenti di tavoletta fittile con segni di tipo
‘pseudo-geroglifico’ di Biblo, rinvenuti nel 1928-1929, in un contesto
di cultura subappenninica.
4) Cupra Marittima
Sigillo-amuleto rettangolare egizio-filisteo con una
iscrizione geroglifica sul lato B e una iscrizione probabilmente filistea sul
lato A. (Nota 9)
5) Trieste. Caverna del Frassino (Altopiano del
Carso fra Villa Opicina e Fernetti) Tavoletta fittile, ricomposta parzialmente
da due frammenti, con testo inciso ante coctionem in scrittura lineare,
impaginata su linee. La tavoletta fu scoperta nel 1949 nel corso di uno scavo
archeologico, curato dal Gruppo Triestino Speleologi, nella galleria A della
caverna del Frassino. Riconosciuta come tavoletta inscritta con un codice
scrittorio lineare da L.A. Stella, Direttore del Gruppo di Ricerca per gli
studi micenei del CNR (Università di Trieste), fu edita preliminarmente da Fausto
Gnesotto sulla rivista «Kadmos», con gli esami chimico-fisici e con l’analisi della
termoluminescenza, che ne assicurò l’ascrizione all’‘antichità’. La
tavoletta è stata ascritta ad ambito levantino da Giovanni Garbini, che ha
notato per i segni scrittori una connessione con gli ‘pseudo-geroglifici’ di
Biblo e per la sottolineatura di alcuni caratteri un rapporto con i
sillabogrammi cipro-minoici. Brian Colless, nel suo studio The
Canaanite Syllabary, a proposito della tavoletta di
Trieste, ha sostenuto la possibile relazione dei segni con i sillabogrammi
cananaici, pur non potendo determinare se il codice linguistico espresso dalla
tavoletta sia semitico.
6) Corsica. Revinco-Sant’Anastasia-Mariana
Oxhide ingot integro presumibilmente pertinente
all’ambito di un approdo protostorico interrito dagli apporti del fiume Golo. Sul
lingottodi Mariana è inciso a punta di scalpello sul metallo caldo un segno a
croce che potrebbe rimandare al sillabogramma 005 del Cipro Minoico 1-2-3.
7) Sardegna
I Sardi del Bronzo tardo e del Bronzo finale entrarono
in contatto, con certezza, con culture in possesso di codici scrittori: in
particolare con la cultura minoica del Tardo Minoico III B e C (presenza di
ceramiche sarde del XIV sec. a.C. a Kommos, Creta meridionale e ceramica
cretese a Antigori-Sarrok), con la cultura Elladica sin dal Tardo Miceneo III A
2 e soprattutto del Tardo Miceneo III B (materiali micenei di Tharros, nuraghe
Arrubiu-Orroli, territorio di Nora, Decimoputzu per il Tardo Miceneo III A2 e
materiali micenei di Sarrok-Nuraghe Antigori e di numerose località della
Sardegna per il Tardo Miceneo III B. La diffusione in Sardegna del materiale
ceramico del Tardo Miceneo III C potrebbe porre un diverso problema
interpretativo in quanto tali ceramiche, documentate in Sardegna, furono prodotte
soprattutto a Cipro e in area siro-palestinese. Recenti analisi archeometriche hanno
documentato inoltre la presenza di un vaso nuragico (un contenitore con
anse a gomito rovescio) a Pyla-Kokkinokremos, un centro fortificato cipriota,
nell’entroterra del golfo di Làrnaka (Kition), vissuto mezzo secolo fra
il 1200 e il 1150 a.C. e di uno spiedo articolato della tomba 523
di Amatunte del CG I, analogo a uno spiedo atlantico del ripostiglio di Monte
Sa Idda (Decimoputzu- Sardegna sud occidentale) e ai vari esemplari del Bronzo
finale Atlantico (fase
III).In Sardegna, d’altro canto, abbiamo una chiara
evidenza di bronzi di manifattura o di modello cipriota del TC
III B o, meglio, del CG I (in particolatre i tripodi attestati a
Ittiri (S. Maria in Paulis), Serri (S. Vittoria), Villagrande J.-P. OLIVIER (avec la Strisaili (S’Arcu ‘e is Forros), collezione
privata di Oristano (forse da Siniscola), Solarussa-San
Vero Congius, Oristano (San Giovanni dei Fiori?), Cabras (Sinis), Samugheo, Santadi
(Su Benatzu), di attrezzi per la fusione del metallo di ‘matrice culturale’ cipriota,
di oxhide ingots anche con marchi ciprominoici.
Venendo al quadro storico in cui si inseriscono i
rapporti fra Cipro e la Sardegna dobbiamo considerare che Cipro nel secolo XIII
non subì l’ondata prolungata di distruzioni che interessarono la Grecia
continentale, l’Anatolia, il Vicino Oriente e l’Egitto, divenendo meta privilegiata
di flussi micenei che portarono alla diffusione della lingua greca nell’isola,
dopo i contatti del Tardo Elladico. Fra la fine del Tardo Cipriota III A e
l’inizio del Tardo Cipriota III B (1200-1125 a.C.) la situazione mutò, forse in
rapporto a nuovi afflussi di elementi di cultura micenea e a saccheggi da parte
di pirati di varia estrazione geografica. Indubbiamente questo passaggio fu
marcato da vari indicatori socio-culturali, con l’abbandono di alcune antiche
città e di recenti centri fortificati (come Maa Palaikastro sulla costa ovest e
Pyla-Kokkinokremos, sulla costa meridionale, presso Larnaka) e la
fondazione di nuovi centri (l’esempio classico è costituito da Salamis che
sostituisce la vicina Enkomi-Alashya, anche in rapporto a mutamenti della linea
di costa, che avevano cancellato lo scalo portuale dell’età del bronzo). I
contatti di Cipro con l’Oriente, in realtà mai venuti meno, si rafforzarono a metà
dell’XI secolo, attraverso i rapporti di scambio della monarchia di Tiro con i
sovrani di Palaepaphos, sede del santuario della dea
Afrodite, e anche di Amatunte e di Salamis.Tali scambi sfoceranno nella
fondazione probabilmente da parte di Ithobaal re di Tiro e di Sidone (887-856
a.C.) o di un suo immediato successore, della colonia di Kition (circa metà IX
sec. a.C.). Nel X secolo conosciamo l’avvio dei contatti fra Eubei, Ciprioti e
Levantini (Aramei e Fenici), destinato ad aprire la rotta dei prospectors greci
e orientali dell’Occidente. La rotta Cipro-Sardegna, attraverso Creta e Sicilia,
sembrerebbe certamente in uso tra il XIII e il XII secolo come documentano i
numerosi lingotti ‘a pelle di bue’, la cui produzione viene poi a cessare
intorno alla metà del XII sec. a.C. Tuttavia lo spiedo articolato del Bronce
final atlantico della tomba 523 di Amatunte, veicolato verosimilmente dalla
Sardegna, ci riporta forse alla fine dell’XI secolo. All’XI-X
sec. potrebbero risalire i modelli ciprioti di tripodi bronzei ampiamente
attestati nell’isola. Al X secolo, se non al IX secolo
dovrebbero risalire i due bacili più antichi con anse decorate a fiore di loto
da Santa Anastasia di Sardara. Al livello cronologico di X e, soprattutto, di
IX secolo ci appare plausibile che la continuità di rapporti fra l’isola del
rame e la Sardegna, si arricchisca di altri protagonisti che si affiancano ai
Ciprioti e ai Sardi: entrano in gioco i Levantini. La Sardegna era stata un
ottimo ‘mercato’ del rame cipriota, che continuerà a circolare in Sardegna (e
probabilmente anche a giungere nell’isola nella forma di scrap-metal (rottami))
per tutto il Bronzo finale e al principio della prima età del ferro. Tuttavia
l’acquisizione della metallurgia del ferro da parte dei Ciprioti intorno all’inizio
del TC IIIA (1200 a.C.) comporterà per i gestori della attività metallurgica la
necessità dell’approvvigionamento dei minerali del ferro. In questo quadro
potrebbe avere avuto una rilevante importanza anche la Sardegna, ricca di
mineralizzazioni del ferro in aree boschive, che potevano offrire il legno
necessario ai processi primari di riduzione del metallo.
L’interesse per il ferro e l’argento della Sardegna
poté determinare la frequentazione di metallurghi ciprioti e levantini
presso le comunità nuragiche, che detenevano quelle risorse, introdotte da
meccanismi cerimoniali quali lo scambio del dono fra capi. Appare rilevante
osservare che a Enkomi venga costruito nel XII secolo un santuario, utilizzato
fino alla metà del secolo successivo, incentrato sul culto del ‘dio del
lingotto’, uno smiting-god impostato su un oxhide ingot, a
denotare il legame della produzione metallurgica con la divinità. Anche a
Kition il tempio 2 del TC IIIA aveva al suo interno un opificio metallurgico che
rispondeva al criterio del controllo divino dell’attività. Nella
Sardegna nuragica osserviamo la prossimità di officine metallurgiche a santuari,
in particolare a Villagrande Strisaili, dove è attestato il tipo di tempio ‘a megaron’. Al di là
della funzionalità di un opificio per la metallurgia al servizio del santuario
e dei suoi fruitori, vi è da chiedersi se non possa ipotizzarsi una influenza cipriota
sull’assunzione da parte dei Sardi di una divinità (un Efesto sardo?) che
assicurava il processo magico della metallurgia. La liaison tra la
Sardegna e il Mediterraneo orientale e l’area levantina, documentata da una
serie di elementi archeologici,235 non determinò, allo stato delle conoscenze,
l’acquisizione di un codice scrittorio presso la cultura nuragica, ma segni
scrittori dei sillabari cipro-minoici sono attestati su manufatti rinvenuti in Sardegna,
a documentare esclusivamente la conoscenza da parte di gruppi elitari di
oggetti con scrittura, i quali, in quanto tali, erano elementi preziosi agli
occhi di una società basata sull’oralità. D’altro canto la presenza di una
tavoletta scrittoria in legno con cerniera in avorio nella nave di Ulu Burun,
della fine del XIV sec. a.C., che trasportava fra l’altro lingotti oxide,
dimostra che nei luoghi dello scambio mediterraneo (quindi anche in approdi
della Sardegna) poteva verificarsi da parte dei locali l’uso della scrittura. I
documenti dotati di segni di scrittura (o comunque legati alle attività di
scrittura), di provenienza cipriota, rinvenuti in Sardegna sono i seguenti:
sette oxhide ingots, un sigillo a cilindretto e una fusaiola.
OXHIDE INGOTS CON MARCHI
Dei numerosissimi lingotti ‘a pelle di bue’ integri e frammentari
rinvenuti in Sardegna otto esemplari recano marchi incisi, in parallelo con i
numerosi marchi e disegni su oxide ingots del Mediterraneo ed, in
particolare, dei relitti di Capo Gelidonia e Ulu Burun. Si deve rimarcare, in
sintonia con le analisi archeometriche effettuate anche sui lingotti oxhide della
Sardegna, rimandanti al rame dei monti Troodos a Cipro, che il complesso
dei segni dei lingotti della Sardegna possa inquadrarsi preferibilmente fra i
sillabogrammi del Cipro-Minoico, benché non manchino le note corrispondenze con
i sillabogrammi della lineare A e della lineare B, nonché con i segnari
canaaniti (proto sinaitico, tardo canaanitico e antico fenicio), che risponderebbero
ai traffici di oxhide ingots prodotti in area levantina, come è
dimostrato dal rinvenimento di una matrice monovalva di un oxhide ingot nel
sito nord siriano di Ras Ibn Hani:
a) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 1: sillabogramma099 del CM
1, 3
b) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 2: sillabogrammi 005 del
CM 1, 2, 3 e 098 del CM 3 e disposti in verticale lungo l’asse longitudinale
maggiore.
c) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 3: sillabogramma 008 del
CM 1, 2, 3
d) Oxhide ingot di Ozieri-Bisarcio: il segno a T potrebbe
corrispondere al sillabogramma 004 del CM 1, 2, 3, con la barretta laterale
destra più lunga dell’asta verticale. In alternativa si potrebbe richiamare il
metrogrammo B 112 della lineare B.
e) Frammento di oxhide ingot di Capoterra: sillabogramma 008 del
CM1, 2, 3
f) Frammento di oxhide ingot di Teti: sillabogramma 008 (?) del
CM1, 2, 3
g) Frammento di oxhide ingot di Sardara-Santa Anastasia: marchio
frammentario composto da tre tratti obliqui. Potrebbe trattarsi del
sillabogramma 038 del CM1, 2, 3
h) Frammento di oxhide ingot di Sardara-Santa Anastasia: marchio
frammentario composto da un tratto obliquo a sinistra e un’asta centrale.
Potrebbe essere il sillabogramma 012 del CM1, 2, 3 ovvero, se completato da un
secondo tratto obliquo a destra del sillabogramma 023 del CM 1, 2, 3.
CYLINDER SEAL
INSCRITTO (?)
San Sperate-Su Fraigu
Sigillo a cilindretto in olivina rinvenuto in una tomba nuragica a
corridoio rettangolare con fondo absidato, contenente circa 300 inumati,
riportabile al BF2. La consunzione del sigillo ne impedisce una chiara lettura.
Secondo Dominique Collonvi sarebbe rappresentato un motivo vegetale affiancato
da figure alate, a destra un grifone, a sin. un uccello che vola (?). Al di
sopra delle figure è un mostro dal becco adunco e, ancora superiormente, a
destra, un pesce. All’estrema destra la scena è limitata da una teoria di
globetti. Altri globetti più radi si evidenziano sul lato superiore. Pur non
rinvenendo puntuali paralleli lo studioso è incline ad attribuirlo a un atelier
di Cipro. Il sigillo, pur connesso alla funzione di autentica documentale del
proprietario originario, poté pervenire in dono a un personaggio prestigioso di
una comunità nuragica, che doveva ignorare la reale funzione del manufatto. Non
si esclude la presenza di un sillabogramma CM all’estremità sinistra del
sigillo.
FUSAIOLA
TRONCOCONICA INSCRITTA
Uras-Loc. Su cungiau de is Mongias
Fusaiola in steatite verde con venature ocra dotata di iscrizione
probabilmente in Cipro Minoico, individuata nel tardo secolo XIX in una tomba nuragica
a pianta rettangolare, da attribuirsi al Bronzo finale, localizzata a circa 100
metri a nord del nuraghe Domu Beccia. La fusaiola è di forma troncoconica, o
più precisamente (per l’andamento curvo e non rettilineo della superficie) a
segmento sferico a due basi (con la base inferiore maggiore e la base superiore
minore), con foro centrale troncoconico. Questa tipologia di fusaiola, sia in
steatite, sia in argilla, è ben nota nell’Egeo e segnatamente a Cipro, nel
periodo compreso fra il Tardo Cipriota III e il Cipro Geometrico I, con
attestazioni che discendono fino al CG III. I segni incisi, abbastanza irregolarmente
per via del grado di durezza della steatite e per la superficie curva del
supporto scrittorio, parrebbero pertinenti al sillabario cipro minoico con la seguente
sequenza: 028 – X – 006 – 008 | 009 – 004 Al sillabogramma 028 segue un tratto
orizzontale che potrebbe essere l’aritmogramma X; il gruppo di sillabogrammi
006 e 008 sono
divisi dalla sequenza 009-004 dal consueto stictogramma ad asta verticale. Al
gruppo di segni 009-004 seguono due schemi figurati che parrebbero la
rappresentazione di due navi. Il ductus sembrerebbe destrorso, come di regola
nel Cipro Minoico, se si assume come primo segno il sillabogramma 028, inciso a
partire dall’estremità superiore della fusaiola, mentre gli altri segni si
dispongono lungo una fascia discendente da sinistra a destra. Il segno ‘a
freccia’ con asta verticale prolungata sembrerebbe il sillabogramma 028 e non
il più comune, sia in posizione iniziale, sia in posizione finale, 023. L’acquisizione come
dono della fusaiola in steatite, resa preziosa dalla iscrizione, pur se non compresa,
da parte di un personaggio eminente, di sesso femminile, della comunità
nuragica di Uras, costituisce il pendantal cylinder seal cipriota
di San Sperate, ricevuto in dono per il suo valore di oggetto prezioso, anche
perché inscritto, da un membro dell’élite nuragica di Su Fraigu- San
Sperate. Benché rare sono note da contesti nuragici del Sinis, a una trentina
di km a nord di Uras, una serie di fusaiole in steatite della stessa forma del
manufatto di Su Cungiau de is Mongias. Si dovrà notare il rilievo
dell’associazione fusaiola-scrittura documentata a partire dalla prima età del
ferro in svariatissimi ambienti mediterranei.
VII. Le
attestazioni di grafemi nella Sardegna della prima età del ferro
1. La
disseminazione di grafemi nel Mediterraneo centrale e occidentale nell’VIII a.C.
Se dobbiamo escludere, allo stato delle nostre
conoscenze, l’esistenza di codici scrittori nell’età del Bronzo medio, tardo e
finale nel Mediterraneo centrale e occidentale, dunque anche in Sardegna,
differente è la situazione della prima età del ferro, poiché certamente entro
l’VIII sec. a.C. abbiamo una documentazione scrittoria sia presso stanziamenti
emporici e/o coloniali greci e fenici, sia presso ambiti indigeni della
penisola italica, della Spagna meridionale e, possiamo aggiungere, della
Sardegna. Appare evidente che la disseminazione di iscrizioni in particolare
vascolari nel Mediterraneo centrale e occidentale sia da rapportarsi
all’agilità dei codici ‘alfabetici’ sia fenici, sia aramaici, sia greci per
notazioni varie (di possesso, di dedica, ma anche, per il versante greco, di
carattere erotico-simposiastico in versi) rispetto alla complessità dei codici
scrittori dell’età del bronzo, appannaggio di una ristretta classe di scribi. Allorquando
utilizziamo il termine ‘disseminazione’ epigrafica intendiamo alludere, nell’ambito
dell’VIII secolo a.C., per il Mediterraneo centrale e occidentale (ma anche per
l’Atlantico mauro-iberico), alla relativa frequenza di iscrizioni vascolari che
costituiscono il plafond della attività scrittoria officinale;
quest’ultima è appannaggio di rari contesti occidentali: valgano gli esempi
della statuina bronzea della dea Ashtart in trono da El Carambolo con
iscrizione fenicia ancora della fine dell’VIII sec. a.C., forse di un atelier
di Gadir, o le stele monumentali in panchina da Nora o in ignimbrite da Bosa in
Sardegna, dipendenti da prototipi orientali, in un momento, tuttavia, in cui
Nora non presenta tratti urbani ma parrebbe una enclave fenicia in ambito di un
centro sardo e Bosa non rivela elementi fenici prima della fine del VII-inizi VI a.C.
(scarabeo in pasta naucratite). A Cartagine e a Gadir disponiamo
di una non abbondante documentazione epigrafica in cui spiccano le sei cretulae
gaditane con l’impressione di sigilli, pertinenti a documenti commerciali
in papiro, di contesto fenicio dell’VIII sec. a.C., ma mentre
l’Iberia sarà recettore fertile della scrittura, la Libye indigena
acquisirà un proprio codice scrittorio (alfabeto libico) solo tardivamente. L’area iberica meridionale
documenta una precoce diffusione del codice scrittorio fenicio presso gli
stanziamenti tartessi, interessati da una presenza fenicia, cui
si accompagnano, documentati archeologicamente, gruppi euboici e, forse, ciprioti
e sardi. La scoperta del segnario di Espanca nel 1987 ha documentato la corrispondenza,
nella sequenza dei grafemi, tra il codice scrittorio paleo ispanico tartessio-sudlusitano
(scrittura del SO) e il codice scrittorio fenicio, con assenze di grafemi giustificata
dalla fonologia della lingua (o delle lingue) del SO e nuovi segni inseriti
dopo il taw, ultimo grafema degli alfabetari fenici. La teoria di una derivazione
del più antico codice scrittorio paleoispanico da quello fenicio appare la più
plausibile, benché, secondo J. Untermann, non possa essere escluso del tutto l’intervento
dell’alfabeto greco, sia per la forma di alcuni grafemi, sia per i segni vocalici
introdotti nella scrittura del SO. La formazione del codice scrittorio tartessio
parrebbe rimontare al VII secolo a.C. se a tale livello coronologico
attribuiamo le più antiche stele del SO di ambiente lusitano e andaluso
occidentale, benché potremmo avere testimoniato il sillabogramma ko della
scrittura del SO in un frammento ceramico di Huelva, rinvenuto in un contesto
dell’800-760 a.C. I graffiti del Castillo de Doña Blanca e di
Huelva267
mostrano una notevole diffusione dei grafemi fenici o dei segni tartessi
nel corso dell’VIII e del VII sec. a.C., che peraltro si estende a numerosi
altri centri tartessi. Per quanto attiene la penisola italica non
dobbiamo tacere l’importanza delle iscrizioni fenicia e fenicio-aramaica,
rispettivamente della patera di 61574 della Tomba Bernardini di Praeneste e
della patera di Pontecagnano, attribuibili a un atelier della Fenicia o
di Cipro, donate dai sarim delle città fenicie o fenicio- cipriote ai principes
etruschi, attraverso il meccanismo del gift-exchange, anche come
‘doni di apertura’ delle relazioni, poiché veicolavano la preziosa
scrittura in contesti in cui la scrittura alfabetica andava diffondendosi. Il ruolo
fenicio e nord siriano nello sviluppo della cultura scritta è d’altro canto
implicito nelle attestazioni epigrafiche semitiche nell’emporion euboico
di Pithekoussai/Inarim, l’isola campana, secondo la proposta di Piero
Bartoloni, dal duplice nome greco e semitico, che rivela, in filigrana, il
carattere multiculturale della società insulare. Nell’ambito della penisola
italiana la diffusione del codice alfabetico euboico, recato dapprima dai
‘prospectors’ greci, quindi dai calcidesi di Pithekoussai, e di
Cuma, in seno
alle comunità laziali, campane ed etrusche fu precoce nell’ambito dell’VIII
secolo a.C., come documenta da un lato il celebre vaso a fiasco d’impasto della
tomba femminile (?) a cremazione nr. 482, databile alla fase laziale IIB2
(circa 780-770 a.C.), di Osteria dell’Osa (Gabii) con
l’iscrizione greca (Eulin(os) o Euoin) o latina
(ni lue) per il Latium, benché la formazione dei diversi alfabeti di
matrice euboica (Nota 10) quali quello etrusco (Il più antico esempio di scrittura
etrusca è costituito dall’iscrizione della kotyle PCA di Tarquinia, forse
ancora della fine dell’VIII a.C.), latino, falisco e
altri di area laziale-campana non rimonti oltre il 700 a.C., ma spesso discenda
al VII a.C., quando non al VI. Più tardiva la creazione di alfabeti di
derivazione etrusca in area settentrionale italiana, benché sia documentata la
precocissima assunzio- ne di segni alfabetici greci in seno al villanoviano
felsineo, in sintonia con quanto avviene nel villanoviano e tirrenico e nella
cultura laziale, in particolare su manufatti metallici e su oggetti connessi alla filatura
e alla tessitura (ma non solo), che attestano la circolazione di grafemi
alfabetici greci in seno a comunità indigene sin dalla prima metà dell’VIII
secolo a.C. La Sicilia offre una situazione di grande interesse: la
documentazione epigrafica delle apoikiai greche è estremamente precoce, mentre la
nascita degli alfabeti elimo e siculi, di pertinenza di lingue anelleniche,
derivato il primo dall’alfabeto selinuntino, i secondi dai codici scrittori
delle città greche di Siracusa, Megara e Gela in rapporto alle varie comunità
sicule, deve attendere il pieno VI sec. a.C.
2. Sardi,
Levantini ed Eubei nella Sardegna della prima età del ferro
La Sardegna documenta nel passaggio fra il Bronzo
finale e la prima età del ferro una nuova organizzazione territoriale, che se
da un lato supera le strutture della cultura nuragica, anche attraverso la
selezione degli insediamenti che ora appaiono in genere più estesi rispetto a
quelli delle fasi nuragiche, dall’altro sviluppa un rapporto mitico-religioso
con i signa dell’età del bronzo, e in primis il nuraghe, assurto
nei suoi modelli in bronzo, pietra, terracotta a simbolo cultuale. Questa nuova
cultura della prima età del ferro ha protagonisti i Sardi, che arrichiscono i
propri modelli sociali, culturali, economici nel quadro di un rapporto più
ampio e articolato sia con le nascenti aristocrazie tirreniche, sia con i membri
di quel mondo levantino che aveva già intrecciato strette relazioni con la
Sardegna sin dal XIII a.C., attraverso le città cipriote del periodo Tardo
Cipriota III, e che ora si ripresenta ai Sardi
articolato nelle sue componenti ancora una volta cipriote, ma anche fenicie,
aramaiche, filistee ed euboiche, ben strutturate queste ultime nei
fondachi del Mediterraneo orientale. Tiro, nel quadro della sua politica
di colonizzazione occidentale (Utica, Cartagine, Mozia, Gadir, Lixus) otterrà
dai Sardi, attraverso modalità per noi sconosciute, la possibilità di una
fondazione stabile, di tipo protourbano, sulla costa orientale del Molibodes
nesos (Ptol. III, 3, 7), l’isola di Sant’Antioco, porto di confluenza delle
risorse minerarie dell’Iglesiente. In questa fondazione, risalente intorno al
780 a.C., si costituirà una società multiculturale che comprendeva, insieme ai
Fenici, Sardi, Euboici, Tartessi e membri delle comunità etrusche e laziali dell’VIII
sec. a.C. Nelle altre aree della Sardegna, per l’arco cronologico compreso fra lo
scorcio del IX, l’VIII e i primi tre quarti del VII a.C., i Levantini e gli Euboici
sembrano stanziarsi in seno alle comunità sarde o comunque in insediamenti privi
di carettere urbano, sotto il controllo dei Sardi. L’esempio più esplicito è
costituito dallo stanziamento sardo di Sant’Imbenia (Alghero), che alla fine
del IX a.C. ma soprattutto nel successivo VIII, rappresenta la struttura di
scambio indigena aperta all’elemento levantino ed euboico: se, infatti, la
documentazione archeologica ed epigrafica ci mostra, nell’ambito del controllo
indigeno dell’emporio, una chiara prevalenza di manifatture e modelli
orientali, tra cui emerge una componente filistea, d’altro canto
l’attestazione di materiali euboici (uno skyphos a semicerchi penduli
della fine del IX a.C., uno skyphos ‘à chèvrons’ della metà dell’VIII
a.C., una
coppa one bird, kotylai tipo Aetòs 666
del 750-730 a.C. e oinochoai di produzione pitecusana, una kotyle del
Protocorinzio antico, della fine dell’VIII a.C.) consente di non escludere che
nelle stesse navi dei Phoinikes che attraccavano nel Porto Conte,
all’emporio di Sant’Imbenia, vi fossero levantini e Eubei, secondo un
modello noto ad Al Mina, alla foce dell’Oronte, a Pithekoussai, nella Sibari- tide, a
Cartagine, a La Rebanadilla e a Huelva (Tartessos), in
Andalusia.
La situazione di Sant’Imbenia appare di altissimo
interesse perché in questo centro indigeno appaiono documenti scritti: si
tratta di due frammenti di ceramiche fenicie con testi in alfabeto fenicio, con
attestazioni onomastiche probabilmente filistee, da riportarsi all’VIII a.C., e
di un sigillo scarabeo fittile, di produzione locale, che presenta sulla base,
entro una doppia cornice ovale, tre grafemi e una sequenza di punti, sul quale
torneremo. Altro insediamento indigeno che richiama la nostra attenzione è il
santuario di S’Arcu ‘e sos forros di Villagrande Strisaili da cui proviene
un’anfora frammentaria di derivazione dal tipo cananeo, ma ascrivibile
probabilmente al tipo 9 delle anfore di Tiro, con una iscrizione fenicia, della
fine del IX-primi decenni dell’VIII sec. a.C., in corso di studio da parte di
Giovanni Garbini.
3. Il
sillabario cipriota in documenti sardi?
Venendo alla Sardegna della prima età del ferro, i cui
inizi collocheremo verso l’850 a.C., dobbiamo osservare una possibile
continuità dei rapporti fra i ciprioti, verosimilmente grecofoni in rapporto
alla migrazione nell’isola di gruppi micenei che portarono all’affermazione del
dialetto arcado-cipriota in Cipro, e i Sardi del IX a.C. (ma anche dei secoli
successivi, in un intreccio con i Fenici), come è documentato dalla presenza di
ceramiche di importazione o di ispirazione ta nel Mediterraneo centrale (Mozia) e
occidentale (Toscanos, La Rebanadilla) e
nell’Atlantico (Huelva e Mogador). In tale
contesto si vedrebbe il ruolo della Sardegna nella redistribuzione in area
etrusca, laziale e umbra di manufatti ciprioti come lo specchio
cipriota di una tomba a pozzetto del Villanoviano I A di Tarquinia, l’askos
fittile a testa equina, del CG III (gruppo Kourou I), dalla tomba 2138 della
Necropoli del Laghetto di Caere (La tomba ceretana si data fra il 770 e il
750 a.C. anche per l’associazione con uno skyphos a semicerchi pendenti
del tipo Kearsley 6) e il complesso di bronzi ciprioti del
ripostiglio di Piediluco-Contigliano Terni.307 Una possibile manifattura (o
modello) cipriota (ma anche fenicia) potrebbe riconoscersi nelle coppe bronzee emisferiche
inedite documentate in Sardegna a Nuraxinieddu-Su Cungiau ‘e Funtana e forse a
San Vero Milis-S’Uraki, un tipo cerimoniale per libagioni e banchetti pubblici
recentemente studiato da Massimo Botto per la Sicilia, la Calabria, il Latium
vetus e l’Etruria del IX e della prima metà dell’VIII sec. a.C. In questo
quadro di presenze cipriote in Sardegna si vuole proporre una riflessione sulla
eventualità di che singoli segni del sillabario cipriota possano essere stati
utilizzati come ‘marks’ da ceramisti e da fonditori di estrazione cipriota in Sardegna
o da officine sarde in cui sopravvivevano strumentari, tecniche e modelli ciprioti
circolati in Sardegna tra il Tardo Cipriota III (1200-1050 a.C.) e il Cipro Geometrico
I-III (1050-750 a.C.). Appare di rilevante interesse la possibilità che possano
ascriversi al Cipro Minoico 1 o, forse meglio, al Cipro Sillabico da esso
derivato, i grafemi presenti su una serie di oggetti in bronzo rinvenuti in
Sardegna ad Antas-Fluminimaggiore, Sinis-Cabras, Sant’Imbenia-Alghero,
S’Uraki-San Vero Milis e su un frammento di anfora tharrense:
1) Fluminimaggiore. Località Antas. (Nota 11) Necropoli sarda
della prima età del ferro Spillone in bronzo309 (lunghezza cm 14) con iscrizione incisa
sul fusto (alt. lettere cm 0,35/0,40). Lo spillone a capocchia fusa con il gambo,
capocchia corta a estremità emisferica allungata e collo sottolineato da doppia
modanatura, appartiene a una tipologia diffusa in ambito sardo (tipo A2
Milletti), anche
nella stessa area della necropoli di Antas, durante la prima età del ferro,
probabilmente del Primo ferro 2. L’iscrizione è stata dal primo editore interpretata
come fenicia, con una lettura sinistrorsa:
k r(?)m k, in «riferimento a un nome locale, indigeno, trasposto nei phoinikeia
grammata». In
un nuovo intervento Paolo Bernardini si dimostra aperto ad altre soluzioni tra
cui quella greca proposta da Giovanni Ugas. L’analisi dei segni dello spillone di
Antas, affiancata da un ottimo fac-simile, e la disamina del contesto di
Antas nella prima età del ferro ha portato Piero Bartoloni a uno scetticismo
sulla interpretazione fenicia dei grafemi. In questa fase preliminare di studio
chi scrive ha proposto316 l’interpretazione dei segni dello spillone come
sillabogrammi ciprioti suddivisi da uno stictogramma: avremmo, infatti, con
andamento destrorso,ti | sa-ti. I due sillabogrammi ti e sa
documentano la forma attestata sia nel sillabario pafio antico, sia nel
sillabario eteocipriota o amatusiano, sia nel sillabario comune. D’altro canto
i sillabogrammi in esame rispondono rispettivamente ai nrr. 023 e 082 del CM 1. Il
livello cronologico cui rimanda il supporto della iscrizione (uno spillone
sardo) e la necropoli di Antas consente la interpretazione dei sillabogrammi
nell’ambito del cipro sillabico,
le cui più antiche attestazioni rimontano all’VIII a.C., se con Jean Pierre
Olivier riferiamo al Cipro Minoico 1 (e non al cipro sillabico) le iscrizioni
sugli obelòi enei della tomba 49 della necropoli di Palaepaphos-Skales
del Cipro Geometrico I, uno dei quali (nr. 16) reca una sequenza di segni
interpretata come il genitivo di possesso del proprietario greco: o-pe-le-ta-u. La successione dei
grafemi dello spillone di Antas richiama lo schema dell’iscrizione sull’obelòs
17 della tomba 49 interpretata come formula votiva abbreviata: ti (stictogramma)
ti
benché
non possa invocarsi esattamente la legenda 1+1. Una presenza di una iscrizione in Cipro
sillabico su un manufatto bronzistico sardo non appare problematica, in
considerazione sia delle stringenti relazioni fra Cipro e la Sardegna, sia
della documentazione di testi in cipro sillabico dell’VIII sec. a.C. in Cilicia
e del VII secolo a Delfi e ad Heraclea lucana. Allo stato delle conoscenze appare
prudente sospendere il giudizio sul codice linguistico espresso dai
sillabogrammi dello spillone di Antas, non escludendo, beninteso, né una
formula onomastica (di proprietà?) né una formula di dedica.
2. Alghero. Località S. Imbenia. Villaggio della prima età del ferro
Ascia in bronzo a margini rialzati con marchio inciso a freddo.
Nel corso della campagna di scavo 2010 del villaggio-emporion sardo di
Sant’Imbenia, nell’ambiente 24, è stato individuato un ripostiglio di manufatti
in bronzo e rame contenuti in un dolio a corpo ovoidale. Gli oggetti del
ripostiglio sono composti da una spada in bronzo a lingua da presa, tipo
Monte Sa Idda, frammentaria, da otto asce in bronzo a margini rialzati e da 44
lingotti in rame, integri e frammentari, a sezione piano convessa e biconvessa
e eccezionalmente ‘a frittata’ e di tipo troncoconico, per un peso totale di kg
41, 239. La deposizione del ripostiglio dovrebbe situarsi intorno alla metà
dell’VIII sec. a.C. Una delle asce a margini rialzati reca sul tallone un
marchio: Ascia a margini rialzati con tallone diritto, e lama breve, di forma
trapezoidale, con taglio curvilineo ed espanso, che sembrerebbe ascrivibile al
Primo ferro. L’ascia reca un’incisione sulla parte iniziale del tallone, costituita
da un segno a freccia, con l’estremità inferiore dell’asta dotata di un apice a
sinistra (alt. segno cm 1,2). Dimensioni: lungh. cm 15,8 cm; largh. lamacm 5;
spessore fusto cm 2; peso: g 432. Il segno, come osservato da Anna
Depalmas, parrebbe corrispondere al sillabogramma ti del sillabario
cipriota comune330 del sillabario eteocipriota. Tuttavia la presenza di un apice a sin.
all’estremità inferiore dell’asta della freccia potrebbe rimandarci meglio al
sillabogramma wo sia del sillabario cipriota comune, sia di quello eteocipriota. È rilevante
notare la pratica nei marchi di asce in bronzo, come nel ripostiglio di Ardea, dell’utilizzo di
singoli grafemi che «presuppongono, come più tardi a Bologna nel ripostiglio di San
Francesco, una conoscenza pur embrionale dell’alfabeto e la capacità di
avvalersene, anche se solo a fini identificativi e di conteggio» (G. Colonna).
3. Cabras. Località sconosciuta della regione del Sinis
Asce in bronzo a tagli ortogonali miniaturistiche dotate di marchi
incisi.
Nell’ambito di un probabile ripostiglio, costituito da manufatti in bronzo
(navicelle, figure antropomorfe e zoomorfe, ‘bottoni’, pendenti [‘a fiasca del
pellegrino’, ‘ad anfora pririforme’, ad ascia con contrappeso discoidale, a
maglio], ‘faretrina’, pugnaletto a elsa gammata, bracciali, collane, spilloni,
paletta decorata da quattro serie parallele di spirali, frammento di attacco di
bacile decorato da spirali; armi, fibule a sanguisuga e a navicella)
riportabili fra IX e VIII a.C., si evidenzia un gruppo di otto esemplari di
ascia a tagli ortogonali, miniaturistici, ma di dimensioni e peso differenti,
pertinenti a una tipologia assai poco rappresentata in Sardegna, dove sono noti
a Santa Vittoria di Serri (bipenni e ascia a tagli ortogonali), Silanus (ascia
a tagli ortogonali) e da località sconosciuta (bipenne). La miniaturizzazione
delle asce, di varia tipologia, è amplissimamente diffusa in ambito peninsulare
italico e greco, e talvolta è documentato l’utilizzo delle stesse come
pendenti. Gli
esemplari in questione ripetono fedelmente la forma della ‘malepeggio’ in bronzo
nota in numerosissimi esempi funzionali nella Sardegna nuragica, con il foro
per l’immanicatura. Appare di eccezionale interesse la presenza, in tre
esemplari, di segni probabilmnente scrittori, incisi a freddo.
1. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con
segno a X (taw ?) sul piatto della penna. Lungh. cm 5,5; peso gr. 9,86.
2. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con
segno costituito da un’asta verticale dalla quale si dipartono, ad angolo
acuto, due sbarrette oblique a sinistra su una penna e segno ad astro radiato a
sei punte sull’altra. Lungh. cm 5,1; peso gr. 8,40.
3. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con
segno a + sul piatto della penna. Lungh. cm 3,52; peso gr. 2,58.
L’interpretazioni di questi marchi intenzionali appare altamente
problematica, sia per la semplicità dei segni, sia per la loro utilizzazione in
differenti sistemi scrittori quali il fenicio e il greco, ma anche nel cipro
sillabico.
Nell’alfabeto fenicio riscontriamo i grafemi X e + con valore taw.
Entrambi i grafemi vennero riutilizzati nel codice scrittorio greco per i segni
complementari esprimenti la gutturale aspirata negli alfabeti del gruppo
‘orientale’ e per esprimere il digramma ks nel gruppo ‘occidentale’. Per il segno ad
asta verticale con due barrette divergenti potremmo richiamarci al kaf fenicio
attestato ad es. alla l. 6 della stele di Nora, ma già nell’ultimo terzo del IX
a.C. a Kilamuwa (Zincirli) e successivamente a Panamuwa e a Bar Rakab (Zincirli)
nella seconda metà dell’VIII a.C. Quest’ultimo segno kaf passa al kappa
negli alfabeti greci arcaici, ad esempio nell’iscrizione dell’Apollo di
Mantiklos, forse da Tebe, della fine dell’VIII a.C. Per il segno a
stella si noti che un analogo grafema rappresenta il nesso ps in alcuni
alfabeti greci del gruppo occidentale, ad esempio nella colonia achea di
Posidonia, in Arcadia e nella Locride Ozolia. Se passiamo al sillabario
cipriota nella variante del pafio arcaico abbiamo il segno a stella a sei raggi
equivalente al sillabogramma a, mentre il segno ad asta verticale dalla
quale si dipartono due sbarrette oblique a sinistra corrisponde al
sillabogramma nu. Inoltre i segni a X ed a + corrispondono,
rispettivamente, ai sillabogrammi ma (variante) e lo.
4. Tharros. Anfora con iscrizione dipinta
Frammento di orlo e spalla di anfora da trasporto del tipo B1 Bartoloni
con orlo rigonfio innesatato sulla spalla convessa, mediante un solco (fine
VIII-prima metà del VII sec. a.C.). Argilla rosso-marrone con inclusi calcarei
e micacei. Alt. cm 8; largh cm 14; spess. cm 1, 1. Sulla spalla dell’anfora è
dipinta una iscrizione, certamente non fenicia, ascritta probabilisticamente da
Enrico Acquaro a sillabario cipriota: Se l’andamento del testo, con tutti i
grafemi mutili inferiormente, fosse sinistrorso avremmo tre tratti verticali forse del
sillabogramma se, ovvero un numerale, un possibile stictogramma, il
sillabogramma ta, costituito da un’asta con un tratto orizzontale
mediano dotato di un’appendice inferiore, un secondo stictogramma (?) e un
segno indistinto: se (?) ta
Il rapporto di Cipro con Tharros sembrerebbe essere attestato in epoca
arcaica da terrecotte figurate (testa di centauro e ruota di un modellino di wine-carts,
analogo a esempi di Amatunte e di Ayia Irini)345e ancora in età ellenistica da una
iscrizione punica graffita sulla superficie stuccata di un blocco pertinente a
un tempio, presso la collina settentrionale di Murru Mannu, a ovest del tofet:
YP‘ ’ LG KT Secondo
Giovanni Garbini il testo andrebbe tradotto «Yafi‘ ha partecipato al
pellegrinaggio di KT», dove KT non sarebbe Kition-Larnaka, rifondazione
fenicia del IX a.C., quanto il nome dell’isola, come nell’ebraico biblico ktym
«gente di Kition» ma per estensione «Ciprioti». Il pellegrinaggio, allora,
molto verosimilmente, alluderebbe al santuario dell’Ashtart-Afrodite Cipria o
di Paphos celebre in tutto il mondo antico.
5. San Vero Milis. Insediamento sardo di S’Uraki.
Torciere in bronzo‘fenicio-cipriota’ caratterizzato da tre corolle rovesciate,
con un coronamento a tre volute, probabilmente del principio del Cipro Arcaico
I (circa 700 a.C.), appartenente al tipo B-3 di Almagro Gorbea348 e alla tecnica di
assemblaggio b-2 di Jiménez Ávila, esclusiva delle attestazioni occidentali,
frutto probabilmente di maestranze specializzate itineranti, che avranno
utilizzato il sillabario cipriota per marcare i pezzi. Quest’ultima eventualità
è documentata proprio del manufatto in esame. Infatti su una delle volute del
torciere di San Vero Milis è inciso un sillabogramma u, ancora affine al
segno 012 del CM 1, attestato con probabile valore u nell’iscrizione (o-pe-la-ta-u)
dell’obelòs 16 della tomba 40 di Palaepaphos.
4. Aritmogrammi
della prima età del ferro in Sardegna
Non c’è dubbio, dunque, che i Sardi della prima età
del ferro entrarono in contatto con la scrittura recata dai Fenici e, forse,
dagli Euboici. Un punto fermo è costituito, grazie alle indagini di Giovanni
Ugas, dall’acquisizione degli aritmogrammi dalla cultura sarda della prima età
del ferro. Gli aritmogrammi sardi della prima età del ferro sono i seguenti,
certamente legati a valori numerali differenti. (Nota 12)
Asta verticale |
Segmento orizzontale —
Circolo o punto circolare o
Deve osservarsi che tale sequeza dei numerali risponde
ai sistemi di aritmogrammi egei: nella lineare B, nel CM e nel Cipro Sillabico
abbiamo infatti | (unità);
— (decine), o (?).
Si noti, tuttavia, che tali notazioni numerali si
ritrovano fra gli aritmogrammi fenici (a prescindere dal segno a circolo). Al
di là dell’utilizzo da parte dei Sardi di tali aritmogrammi per differenti
funzionalità (segnature ponderali, numerazione di partite di materiali), il
sistema numerale potrebbe suggerire che nella Sardegna nuragica dell’età del
ferro esistessero forme embrionali di sistemi di notazione legati a pratiche
commerciali o amministrative. Vi è inoltre da osservare che il lingotto in
piombo nr. 79 (con 26 aste verticali) di Sant’Anastasia di Sardara ci offre la
possibilità di verificare il senso della notazione degli aritmogrammi degli
addetti alle registrazioni ponderali o amministrative del santuario di Sardara
nella prima età del ferro. Infatti in tale lingotto osserviamo una prima linea
di aste (valore 1?), seguita da una seconda linea che ha un andamento destroverso.
Il senso della prima linea di aritmogrammi è problematico: infatti, come è
stato
brillantemente rilevato da Giovanni Marginesu
dell’Università di Sassari, gli aritmogrammi di tale linea sono
ritmati con un interspazio ampio a partire dall’estremità destra della faccia
del lingotto, mentre dalla metà della linea divengono serrati, per poi
riprendere con un interspazio ampio nella seconda linea. Tale constatazione
induce a ritenere che l’addetto a questa registrazione avesse adottato un
sistema di notazione ad andamento bustrofedico. In alternativa si potrebbe
ipotizzare un regolare andamento progressivo di entrambe le linee,
giustificandosi l’ampliamento dell’interspazio fra le aste, a partire dalla
metà della linea, dalla constatazione che non era più possibile incidere su una
stessa linea l’intera sequenza di aritmogrammmi. Abbiamo in ogni caso
l’utilizzo di un senso della trascrizione degli aritmogrammi non retrogrado,
ossia non secondo il verso della scrittura che i Fenici avrebbero potuto veicolare,
in quanto, come è noto, i Fenici utilizzarono in modo sostanzialmente esclusivo
la direzione sinistrorsa a partire dal X a.C.
Il senso della scrittura (e delle notazioni numerali)
progressivo o bustrofedico dovrebbe essere pervenuto ai Sardi da una cultura in
possesso di tale uso. Osserviamo che il Cipro Minoico, la Lineare B, il
sillabario cipriota pafio arcaico e eteocipriota o amatusiano sono tutti
destroversi, mentre il sillabario cipriota comune è retrogrado. Le più antiche
notazioni alfabetiche greche sono prevalentemente sinistrorse, per diretta
derivazione dal fenicio o dall’aramaico, ma tuttavia sin dall’VIII secolo possediamo
documenti greci certamente progressivi e bustrofedici. Appare rilevante la
constatazione che le iscrizioni paleoispaniche del SO sono in prevalenza
sinistrorse, in relazione al modello fenicio, ma esistono pure esempi minoritari
di scrittura destrorsa e bustrofedica, che saremmo inclini a considerare il
frutto di una possibile compartecipazione – minoritaria – dell’alfabeto greco
alla formazione della più antica scrittura paleoispanica.
5.:il
segno ‘a freccia’
Dobbiamo introdurre ora l’esame dei segni
probabilmente alfabetici attestati in Sardegna nella prima età del ferro. Come
detto il merito di avere aperto il problema va a Giovanni Ugas, cui si deve ora
il contributo più ampio sulla questione. I segni alfabetici sono documentati
nel centro fenicio più antico della Sardegna, Sulci, dove un’anfora locale
della II metà dell’VIII a.C. presenta un segno ante coctionem identificabile
con un ghimel piuttosto che con un dalet. Allo stato degli studi
le attestazioni di segni alfabetici sono più frequenti in ambito indigeno sia
su ceramiche, sia su lingotti in piombo e in rame. Per la ceramica ci
soffermiamo sul segno ‘a freccia’ inciso a crudo, su un’anforetta nuragica del
Bronzo finale 3-prima età del ferro (circa 850 a.C.) da Soleminis-Facc’e Idda, su
un’ansa di brocchetta askoide dalla capanna pluricellulare U di Oliena-Sa Sedda
‘e sos Carros e su un’ansa a gomito rovescio nuragica da S. Vero Milis-Su Padrigheddu identica
a un esemplare rinvenuto a Lipari della fine dell’Ausonio II (metà IX sec.
a.C.). Se nel primo caso il segno, ripetuto su entrambi lati, ha evidente
carattere decorativo, sull’ansa di Sa Sedda ‘e sos Carros il segno si associa
alla consueta decorazione a circoli semplici impressi, mentre nell’esempio di
San Vero Milis il segno ‘a freccia’ era destinato a non essere visto, rappresentando
in tutta evidenza un pre-firing mark. Come è noto, «i contrassegni di vasaio
non hanno alcun valore fonetico poiché essi, non facendo parte di nessun sistema
di scrittura […] non rappresentano convezionalmente né determinate parole, né
determinate sillabe, né determinate lettere»366 benché sia chiaro che talvolta (in
una società dotata di un codice scrittorio) il vasaio possa attingere per il
repertorio di marchi anche ai grafemi o ai sillabogrammi. In questi
ultimi casi deve comunque non escludersi, in presenza di marchi semplici
(croce, punti etc.), l’indipendenza degli stessi da segni scrittori. Nel caso
del segno a ‘freccia’ possiamo ricordare che esso è simile ai sillabogrammi A
304 della lineare A, AB 37, con valore ti, della lineare B, 023 del
Cipro-Minoico 1, 2, 3 e del sillabogrammi ti del
sillabario cipriota, e ancora al segno 376 con valore zi del sillabario fonetico del
luvio geroglifico. Il segno kaf (e anche il segno shin) dell’alfabeto fenicio
‘a tridente’ ha sempre il vertice verso il basso sicché non parrebbe corrispondente al
segno ‘a freccia’, benché da quest’ultimo deriverebbe il sampi, accolto
come numerale dai Greci ma non nell’alfabeto. Il segno
‘a freccia’ è, inoltre, presente su anfore di Lefkandi e di Pithekoussai, su
un’ansa di tazza a Kalapodi e sull’orlo esterno di uno skyphos del
Geometrico Recente a Eretria, dove è considerato una forma invertita del chi
euboico ovvero un segno non alfabetico con significato proprio. Appare
importante rilevare che il segno ‘a freccia’ si ritrova in vari sistemi scrittori
arcaici
di area mediterranea sia orientale, sia centrale, sia occidentale. In
ambito anatolico abbiamo il segno ‘a freccia’ nell’alfabeto licio con il valore
vocalico di /e/, nel lidio con un valore incerto/?/, nel cario
con un valore incerto. Nelle iscrizioni sicule il segno assume il valore vocalico
di /a/ e tale tipo di alpha, noto come alpha siculo, funge da
‘marker’ grafico che sottolinea la «solidarietà interna alla compagine sicula e
(il) parallelo antagonismo nei confronti dell’elemento greco». Tra i
sistemi di scrittura della penisola italiana il segno ‘a freccia’ è attestato
con valore incerto /?/nell’alfabeto camuno. Finalmente il segno ‘a freccia’ è
documentato nel segnario paleoispanico del SO con valore incerto, ma forse
corrispondente alla sillaba bi, mentre nel segnario del SE assume il
valore pí, in quello iberico nord-orientale corrisponde alla vocale /u/.
Per questo grafema delle scritture paleoispaniche si è ipotizzata sia la sua creazione
a partire dal pe fenicio, duplicando simmetricamente l’appendice
superiore del segno, sia la sua pertinenza all’ambito di grafemi liberamente inventati per
completare il sistema scrittorio. Indubbiamente il segno ‘a freccia’
appartiene al novero dei segni semplici presenti in ambiti culturali e
cronologici diversissimi, sicché è possibile ammettere
l’assunzione indipendente di tale segno nei vari
sistemi di scrittura per completare un segnario di derivazione fenicia,
insufficiente nella resa grafematica dei fonemi presenti in una data lingua. Tuttavia
allorquando una serie di tali segni, presuntivamente inventati, si riscontra sia
in ambiti orientali, sia in ambiti occidentali (ad esempio i segni 25, 27, 32,
33, 40 degli alfabeti cari corrispondono ai segni G 21’ (scrittura del SE), G
28 (scrittura iberica levantina) G 22 (scrittura iberica levantina), G 17
(scritture del SE e iberica levantina), G5 = G26’ (rispettivamente nella
scrittura iberica levantina e in quella del SE)) non può escludersi che le navi
levantine, caratterizzate da un profondo multiculturalismo dei viaggiatori,
potessero recare insieme al più funzionale segnario fenicio una serie di altri
codici scrittori secondari da cui trarre i segni occorrenti al sistema
fonologico della lingua che doveva essere scritta.
6: gli altri segni alfabetici
I lingotti in rame e in piombo della prima età del
ferro in Sardegna rivelano l’adozione di tre segni alfabetici di origine
fenicia: uno yod inciso sul lato piano di una panella piano-convessa
(ridotta a una metà) in rame di Forraxi Nioi-Nuragus, uno zayn
sulla faccia piana del lingotto in piombo di Monte Olladiri- Monastir e un kaf
sinistrorso seguito da un’asta verticale in un lingotto plumbeo da S.
Anastasìa-Sardara. In realtà i grafemi, a prescindere dallo yod che ripete la forma
del segno fenicio del IX-VIII a.C., potrebbero essere anche uno zeta e
un kappa euboici, in considerazione della possibilità che i due lingotti
plumbei possano datarsi all’VIII a.C. Per quanto attiene la ceramica sarda
della prima età del ferro essa presenta, soprattutto sulle anse, dei marchi da
vasaio che potrebbero essere tratti da serie alfabetiche: abbiamo ripetutamente
il segno a X, che per la sua semplicità potrebbe non essere effettivamente un
grafema, ma ove si riconoscesse il suo valore grafematico sarebbe un taw fenicio
o un tau greco. Più rilevante è la serie delle anse di
brocchette askoidi di Monte Olladiri- Monastir, in cui oltre a un segno a X è
attestato uno zayn o uno zeta e un segno destrorso costituito da
un’asta obliqua da cui si dipartono in alto due barrette. Quest’ultimo grafema
per il suo ductus progressivo e per la presenza di due barrette non può
identificarsi con lo heth fenicio ma, con verosimiglianza, con il digamma
greco, derivato da un adattamento del waw fenicio. Finalmente
citiamo la brocchetta askoide di Su Cungiau ‘e Funtana-Nuraxinieddu, ingubbiata
in rosso e lucidata, forse dell’Orientalizzante antico, dotata nel settore
compreso fra l’attacco del collo e quello dell’ansa, di una serie di cinque motivi
triangoliformi, incisi ante coctionem, disposti su due registri, che
potrebbero ricondurre al daleth fenicio o al delta greco. Questo
complesso di segni induce a ritenere che i Sardi, probabilmente già a conoscenza
del sillabario cipriota veicolato da qualche technites di Cipro,
poterono acquisire dai Fenici e, forse, dagli Euboici nozione di nuovi codici
scrittori, utilizzando talora dei grafemi come potters’ marks o come
segni di incerta funzione sui lingotti metallici. Cinque documenti, uno
scarabeo fittile di S. Imbenia-Alghero, due frammenti di anfore ‘Sant’Imbenia’
di Cartagine e due frammenti di analoghe anfore rispettivamente da Huelva e da
Gadir, dotati di una serie probabile di grafemi fenici, ci spingono a credere
che nella produzione materiale sarda fossero attivi degli scribi fenici o dei
Sardi che utilizzavano il segnario fenicio:
1) Cartagine, Scavi del Decumanus Maximus.
Due frammenti non combacianti della spalla di un’anfora della Subklasse
Nuragisch 1 (ZitASant’Imbenia),
dotati di segni graffiti, dubitativamente interpretati come Punische
Graffiti, del 725-700 a.C. Nel frammento a si ha un graffito
costituito da un’asta su cui si innesta a destra un tratto obliquo. Il
frammento b presenta (da sin. a destra) due aste oblique convergenti in
alto (ghimel ?) e un’asta obliqua.
2) Cartagine. Scavi del Decumanus Maximus
Frammenti della spalla di un’anfora della Subklasse Nuragisch 1
(ZitA-Sant’Imbenia), dotato di segni graffiti, dubitativamente interpretati
come Punische Graffiti, del 725-700 a.C. Il frammento presenta
superiormente un tratto orizzontale e inferiormente a destra un tratto
curvilineo.
3) Huelva. Calle Méndez Núñez
Frammento della spalla di un’anfora Sant’Imbenia con due lettere fenicie
graffite e l’estremità di un tratto obliquo pertinente a una terza lettera: l
b+[---], inteso da Michel Heltzer dell’Università di Tel Aviv come «belonging
to b[…](the personal name)». Lo studioso rileva l’unicità del tipo di beth
che si apparenta al beth dell’ostrakon di
‘Izbet Sarta (Israel) dell’XI sec. a.C. Si potrebbe, tuttavia,
ipotizzare che la singolarità del grafema possa imputarsi a una mano indigena
(sarda).
4) Cádiz. Scavi del Teatro Cómico
Frammento di «ánfora sarda [ZitA-Sant’Imbenia] con trazos
incisos hallada en contextos de los inicios del s. VIII a.n.e.». Le incisioni
formano un angolo «a modo de gran gimel», ma potrebbe trattarsi di segni
non intenzionali.
5) Alghero. Sant’Imbenia
Sigillo-scarabeo fittile (lungh. cm 3) con foro longitudinale passante.
Sulla base, entro cornice ellittica, presenta da sinistra a destra,
profondamente incisi ante coctionem: A sinistra un segno sub circolare
(‘ayin?) superiormente e un segno ad asta verticale terminato in alto da
una linea curva (pe’?) inferiormente, con un punto mediano a destra. Al
centro un segno costituito da due aste parallele, collegate da tre tratti
orizzontali (et). A destra quattro
punti disposti uno in alto, due al centro, il quarto in basso. L’impressione
della sequenza di segni alla base del sigillo scarabeo su una cretula ci
darebbe in ductus retrogrado: (quattro punti)–het?–(un punto) –‘ayin?–pe’?
Rubens d’Oriano, autore della editio princeps del manufatto ha
osservato: «Sembra trattarsi di un prodotto nuragico a imitazione di quelli
orientali, e infatti i segni grafici paiono lettere alfabetiche fraintese. Non
è facile dire se l’oggetto avesse un uso pratico per marcare prodotti, cosa che
avrebbe notevoli ripercussioni sulle innovazioni dell’organizzazione economica
del villaggio».
Appare probabile che i segni alfabetici siano alterati in virtù di una «maladresse
d’écriture» invocata anche in altri contesti primordiali dell’apprendimento
della scrittura, come a Eretria per un alpha di un graffito su uno skyphos
del Geometrico Recente (?). Deve rimarcarsi la presenza di punti circolari nella
sequenza 4 e 1, che ci porterebbe a interpretarli come aritmogrammi sardi, con
valore possibile n x 100 (?).
In conclusione vogliamo riprendere le parole che
Javier de Hoz ha dedicato alla creazione delle scritture paleoispaniche, che
consideriamo emblematiche del processo di disseminazione dei segni alfabetici
nel Mediterraneo:
Hay que tener en cuenta sin embargo […] que el creador o creadores del
prototipo de las escrituras hispánicas podía no sólo conocer la escritura
fenicia sino probablemente – estamos en el mundo cosmopolita de los mercaderes
– también otras contemporáneas que le habrían familiarizado con la idea de los
signos vocálicos.
Questo «mundo cosmopolita de los mercaderes» è quello
che ritroviamo tra IX e VIII a.C. ad Al Mina come a Huelva, a Tiro come in
Eubea, a Cipro come a Creta, a Cartagine come a Pithekoussai e a Veii, in
Cilicia come in Sicilia e in Sardegna. Il mondo dei mercanti conosceva i vari
sistemi scrittori e utilizzava anche le tavolette cerate del tipo di quelle di
Ulu Burun, Megiddo, Huelva e Marsiliana d’Albegna. Tali tavolette rientrano nell’orizzonte
della cultura omerica, in riferimento alla Licia, e paiono documentate dalle
iscrizioni luvie. Se è possibile che uno dei luoghi di acquisizione del codice scrittorio
fenicio o aramaico da parte dei creatori dell’alfabeto greco sia stato Cipro,
in cui funzionava il semplificato sillabario cipriota con 56 segni, di cui
cinque vocali, i dati più recenti sulla diffusione dell’alfabeto fenicio in ambito
anatolico ci mostrano la
complessità della formazione dei codici scrittori
cario, frigio, lidio, licio, in cui la sistematizzazione in rapporto
all’alfabeto greco è secondaria e non originaria. Il multilinguismo e la
conoscenza di differenti codici scrittori («la scrittura della città, la
scrittura di Sura [= Tiro], la scrittura di Assiria e la scrittura di Taiman »)
sono documentati, anche simbolicamente, in una iscrizione in geroglifico luvio,
di circa l’800 a.C., proveniente da Karkamiš, nella quale il principe Yariris dichiara
di conoscere 12 lingue e le differenti scritture. Dalle cittadelle neo ittite, al
vertice orientale del «triangolo» tra Cipro, Cilicia, vicino Oriente, irte di un
popolo di statue che fiancheggiavano le vie cittadine frequentate da Fenici, Aramei,
Eubei, Ciprioti, dovette venire ai Sardi l’ispirazione della statuaria monumentale,
tradotta negli agalmata di Monte Prama (Cabras-OR), che dominavano la
strada che delimitava a oriente l’heroon degli eroi sardi, simboleggiati
dai guerrieri, dagli arcieri e dai pugili di calcarenite. In
questo contesto di incontri tra Oriente e Occidente poté germinare presso i Sardi
della prima età del ferro la coscienza del valore dei codici scrittori. Sarà il
futuro delle ricerche a documentare o smentire l’ipotesi di acquisizione di un
codice scrittorio da parte delle comunità sarde, che, comunque, attestano in età
ellenistica e romana l’utilizzo sporadico dei codici alfabetici punico e latino
per rendere lessemi – come nurac – e antroponimi e teonimi della lingua
paleosarda, al pari di populi come il lusitano, che attenderanno la
romanizzazione per acquisire con il latino il codice scrittorio atto a
esprimere la loro lingua.
Note:
1 G. SANNA, La stele di Nora, p. 83, fig. 1. Il supporto, presumibilmente
basaltico, presenta una riutilizzazione come soglia. Il testo, verosimilmente
antico, potrebbe essere punico: nrg [---], non anteriore all’età tardo
punica per il tipo del Per un
altro documento punico (una stele a davanzale del III sec. a.C., con il testo: wg‘,
inteso come antroponimo paleosardo) dall’area del nuraghe Sanilo (Aidomaggiore)
cfr. P. FILIGHEDDU, Additamenta priora ad res poenicas Sardiniae pertinentes, in L’Africa
romana, 10, Sassari 1994, p. 811, nr. 4.
2 G. SANNA, La stele di Nora cit., pp. 61-67, figg. 25-28. Il lato A del
‘ciondolo’ reca la scritta in caratteri fenici ‘bd’ che parrebbe
trascrivere con i caratteri arcaici della stele di Nora l’antroponimo ‘bd’ dell’iscrizione
punica tharrense CIS I 157; il lato B trascrive unitariamente, con una
resa paleografica identica alla stele di Nora, l’ultima lettera ( ’ ) della
seconda linea, seguita dalle prime cinque lettere (b šrdn) della terza
linea della stessa stele di Nora, componendo ’b šrdn. Il testo dei due
lati è considerato dall’autore come ’bd{’} / ’ b šrdn, tradotto “servo
del padre signore giudice”, ove “signore giudice” è l’interpretazione di G.
Sanna di šrdn, inteso comunemente come il nesonimo “Sardegna”. L’aleph
del lato A è interpretato come «logogramma
(toro, ’aleph, ’ak)» (p. 65). Può essere interessante
notare che, sulla base delle interpretazioni di varie ‘iscrizioni nuragiche’,
in particolare di quelle di Orani e di questa di Allai, G. Sanna propende per
la lettura di ’/b šrdn alle linee 2-3 della Stele di Nora, intendendo
“padre Shardan (signore giudice)” ossia Sardus pater, secondo la lettura
già propria di studiosi ottocenteschi della Stele di Nora, quale l’Arri, lo Iudas,
il Bourgade, lo Spano (G. SANNA, La stele di Nora cit., pp. 24-27, 63).
3 G. SANNA, Scrittura nuragica: gli Etruschi allievi dei Sardi (I-II), gianfrancopintore.blogspot.com
(14 giugno 2010). L’epigrafe era già stata studiata da M. PITTAU, Nuova
iscrizione etrusca rinvenuta in Sardegna, in L’Africa romana, 9,
Sassari 1992, pp. 637-644, con replica di L. Gasperini, che argomentatamente
considera le scritte false, e controreplica di M. Pittau (pp. 645-649); M. PITTAU, Nuova
iscrizione etrusca rinvenuta in Sardegna, in Ulisse e Nausica in
Sardegna cit., p. 97. G. Sanna ritiene che nel testo di Allai siano
presenti segni di tipologia etrusca, latina e nuragica: «La tipologia delle
lettere è facilmente riconducibile agli alfabeti presenti nei documenti romani
del V-IV secolo a.C. Interessante si rivela subito, dal punto di vista
epigrafico e paleografico, l’andamento della velare sonora (‘g’ forse
gutturale e non palatale) arcaica che mostra il consueto andamento a spirale.
Detta consonante non è da considerarsi simbolo alfabetico e basta, ma con ogni
probabilità, è ancora intenzionalità simbolica, trattandosi in particolare di
una lettera a spirale o a serpente, cioè di un vero e proprio pittogramma,
all’interno di tutto il codice grafico simbolico di esorcizzazione della morte
posto in essere (come si vedrà più avanti) nella lapide. Sulla sinistra della
prima sequenza di lettere si trova un serpentello, disegnato verticalmente, di
dimensioni tali da coincidere con
l’altezza dei segni della suddetta sequenza. Il serpente, come si sa, è
simbolo di ‘immortalità’ e di ‘rinascita’ usato nell’iconografia, mortuaria e
non, di molti popoli. Posto com’è, e cioè verticalmente, esso si affianca chiaramente
al segno precedente, e cioè alla consonante spirale-serpente, che è anch’essa
simbolo di energia, di continuità della vita e di rinascita. Sulla sinistra
della stele compaiono, disposti anche stavolta obliquamente da sinistra verso
destra, 26 segni di tipologia alfabetica etrusca, così disposti: 4 segni nella
prima linea (a partire da sinistra), 6 segni nella seconda linea, 8 segni nella
terza e altri 8 segni nella quarta. I grafemi non compaiono tutti di
proporzioni uguali: i segni della prima linea sono manifestamente
più piccoli di quelli delle altre tre. Anche i caratteri etruschi con
facilità possono essere ricondotti per tipologia a quelli in uso in Etruria nel
V-IV secolo a.C. Pertanto tipologia dei segni alfabetici latini e tipologia dei
segni etruschi sembrano denunciare subito una contemporaneità delle due scritte
della lapide essendo contemporanei gli stessi alfabeti. Insomma, lo scriba che
ha redatto sia il testo latino che quello etrusco operava scrivendo con dei
segni in voga nel suo tempo o poco prima». Si deve rilevare, a proposito dell’analisi
della G («arcaica che mostra il consueto andamento a spirale») di Giorre,
che, a onta del rimando generico al recentissimo (e bellissimo) manuale di
Alfredo Buonopane dell’Università di Verona (A. BUONOPANE, Manuale di
Epigrafia latina, Roma 2009), il grafema specifico della velare sonora
(fonema /g/) nell’epigrafia latina a r c a ic a è inesistente, poiché, come è
noto, la introduzione nell’alfabeto latino del grafema G si deve al grammatico
Spurio Carvilio, nel III sec. a.C., che lo formò aggiungendo un apice al grafema
C, derivato al latino dall’alfabeto etrusco che aveva adottato sin dal VII
secolo il gamma corinzio di forma semilunata (M. CRISTOFANI, Introduzione
allo studio dell’etrusco, Firenze 1981, p. 10), utilizzato in Etruria per
la velare sorda (fonema /k/) (non esistendo nella fonologia etrusca la velare
sonora), mentre
nell’alfabeto latino, prima della riforma carviliana, serviva per
esprimere sia la velare sorda, sia la velare sonora (R. ONIGA, Il latino.
Breve introduzione linguistica, Milano 2007, p. 26). Lo scrivente aderisce all’argomentato
giudizio di falsificazione recente per questa iscrizione, formulato nel 1991 da
Lidio Gasperini.
4 Vedi supra l’elenco: nrr. 1-3, 5-6, 10, 12, 14, 17, 18, 19, 25,
26 (con il dubbio su una eventuale pertinenza a età romana dell’aggiunta dei
simboli e dei grafemi), 28, 30. I dubbi maggiormente rilevanti riguardano le iscrizioni
che contengono evidenti grafemi fenici arcaici, protocananaici e protosinaitici
che parrebbero pendere da repertori di segni presenti in pubblicazioni sulla
scrittura. Tali iscrizioni sono state incise con uno strumento appuntito che
determina una incisione sottilissima, priva della medesima patina del supporto.
Per le iscrizioni a incisione con solco profondo chi scrive ritiene plausibile
una attribuzione a codici scrittori moderni derivati dall’alfabeto latino (ad
es. nrr. 3, 5, 19, 28). La fusaiola fittile da Palmavera (Alghero), esposta
presso il Museo Archeologico G.A. Sanna di Sassari (autopsia dello scrivente in
data 19 novembre 2012), rivela una sequenza di lettere, graffite con una punta
fine che ha inciso le incrostazioni del reperto e, di conseguenza, è posteriore
alla formazione di tali incrostazioni, determinate dalla giacitura nello strato
archeologico. Chi scrive è incline ad attribuire l’iscrizione a un lusus nell’ambito
dei partecipanti (operai?) allo scavo archeologico di oltre mezzo secolo
addietro. La c.d. navicella fittile di Teti è
nota in una serie di immagini di cattiva qualità che non consentono di
comprendere la natura dei presunti segni.
5 Chi scrive ritiene estremamente più verosimile che le iscrizioni del
frammento vascolare di Orani e del ‘ciondolo’ di Allai siano due falsi
contemporanei che hanno utilizzato sequenze grafematiche della stele di Nora,
alla stessa stregua del falsario (Gaetano Cara?) autore della iscrizione
ebraico-fenicia sulla base del trono di Sardus Pater del Manoscritto
Gilj, edito da Alberto Lamarmora nel 1853, dove si legge lb šrdn al posto
del corretto ’b šrdn, come rilevò lo stesso Lamarmora (A. LA MARMORA, Sopra alcune
antichità ricavate da un manoscritto del XV secolo, in «Memorie
dell’Accademia delle Scienze di Torino», 14, 2 (1853), p. 157; ID., Itinerario
dell’isola di Sardegna tradotto e compendiato dal canon. Giovanni Spano, I,
Cagliari 1868, pp. 166-167) che notava che, per la paleografia, le lettere
fenicie šrdn del trono di Sardus Pater fossero «simili a
quelle che si trovano nella famosa lapida di Nora» (ivi, p. 167).
Sulla falsificazione del manoscritto Gilj cfr. G. LILLIU, Un giallo del
secolo XIX in Sardegna. Gli idoli sardo-fenici, in «Studi Sardi», 23, 1
(1973-74), pp. 313- 363; ID., L’archeologo e i falsi bronzetti, Cagliari
1998, pp. 45-48.
6 La storia dei falsi epigrafici è storia di longue durée. In
generale sulle falsificazioni di iscrizioni si vedano le considerazioni di M. GUARDUCCI, Epigrafia
greca, I, Roma 1967, pp. 487-501 e la celebre dimostrazione della falsificazione
dell’iscrizione latina della fibula prenestina: EAD., La cosiddetta fibula
prenestina. Antiquari, eruditi e falsari nella Roma dell'Ottocento, Roma
1980 («Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie. Classe di scienze
morali, storiche e filologiche», s. 8, vol. 24, fasc. 4); EAD., La cosiddetta
fibula prenestina. Elementi nuovi, Roma 1984 («Atti della Accademia
Nazionale dei Lincei. Memorie». Classe di scienze morali, storiche e
filologiche, s. 8, vol. 28, fasc. 2); EAD., Nuova appendice alla storia della
«Fibula prenestina», in «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei».
Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. 9, 2 (1991), pp. 139-146;
EAD., Per la storia
dell'Istituto Archeologico Germanico. 1. 1887: la Fibula Prenestina e Wolfgang
Helbig, in «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (Römische
Abteilung)», 92 (1992), pp. 307-313. Per una lucida disamina delle motivazioni
varie delle falsificazioni (in ambito delle iscrizioni iberiche) cfr. J. DE HOZ, Historia
lingüística de la Península Ibérica en la Antigüedad. II: El mundo
ibérico prerromano y la indoeuropeización, Manuales y Anejos de «Emerita»,
51, Madrid 2011, pp. 434-436. La Sardegna vanta al riguardo una ampia
tradizione che, pur rimontando al secolo XVI, diviene imponente nell’Ottocento
(cfr. A. MASTINO, P. RUGGERI, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea, in L. Marrocu
(a cura di), Le Carte d’ Arborea. Falsi e Falsari nella Sardegna del XIX
secolo, Cagliari 1997, pp. 219-273). Fra i documenti falsificati di recente
lo scrivente annovera i testi ‘etruschi’ di Crocores-Bidonì, in base al
riconoscimento dei testi originari etruschi ricopiati con fraintendimenti.
Sulla questione cfr. E. CARTA, Reperti archeologici o falsi? Allai, la procura
chiude l'inchiesta: c’è un indagato, in «La Nuova Sardegna», 4 ottobre
2009, p. 26; G. PINTORE, I “falsi di Allai” fra giudizi così così e solidi pre-giudizi,
gianfrancopintore.blogspot.com (5 novembre 2009); G. SANNA, Religione
nuragica: l’origine dei presunti falsi di Allai. Il dio Anubi ('Jnp-w) e il dio
YHWH ’ab šrdn, gianfrancopintore.blogspot.com.
7 Chi scrive fu richiesto, da parte di Gianni Atzori e Gigi Sanna, al
principio della loro ricerche, di un giudizio sulle celebri ‘tavolette
di Tziricottu’. Lo scrivente sulla base della documentazione fotografica dei calchi
ipotizzò inizialmente una pertinenza dei segni ad ambito del cipro sillabico
(non miceneo, come è stato scritto), rinunziando ben presto a tale idea per
l’impossibilità di individuare nei vari sillabari ciprioti segni corrispondenti
e non perché costrettovi da alcuno. Inoltre lo scrivente comunicò a G. Atzori e
G. Sanna i dati a propria conoscenza su segni alfabetici e aritmogrammi su
materiali sardi della prima età del ferro scoperti e studiati da Gianni Ugas.
Finalmente diede notizia agli stessi che la foto di un frammento di ceramica
prenuragica
di cultura Ozieri dal sito pluristratificato di Serra ‘e sa Furca di
Mogoro era stata mostrata al Prof. G. Pettinato, che ritenne di ravvisarvi
segni cuneiformi. Il celebre anello con iscrizioni protocananaiche di Su Pallosu
fu considerato da chi scrive medievale, con iscrizione araba, e così dichiarato
ai due ricercatori. Allorquando fu edito il volume di G. Atzori e G. Sanna, Omines,
gli autori chiesero allo scrivente di presentarlo a Ghilarza e a Oristano. Nella
presentazione chi scrive ripropose la propria posizione relativa ai segni
alfabetici e numerali attestati in manufatti sardi del Primo ferro, ribadendo
l’opinione della Scuola del Prof. Giovanni Lilliu dell’inesistenza di una
scrittura della Sardegna nuragica, dell’età del bronzo. In occasione della
consegna
da parte dell’inventore della ‘tavoletta di Tziricottu-A’, Andrea Porcu
di Cabras, alla Soprintendenza per i Beni Archeologici, nelle mani di chi
scrive, nella sede dell’Antiquarium Arborense, il 19 giugno 1998, lo scrivente,
in qualità di Direttore dell’Antiquarium, rifiutò di concedere il Museo come
sede della Conferenza stampa organizzata dagli autori della ricerca sulla
‘scrittura nuragica’, esprimendo poi in un comunicato stampa, non eterodiretto
ma compilato dallo scrivente, le proprie posizioni sulla stessa ‘scrittura
nuragica’. Il prof. Gigi Sanna (La micrografia di Gianni Atzori e l’inizio
della storia. Microcronaca, gianfrancopintore.
blogspot.com (16 gennaio 2012)), richiede circostanze e nomi (che chi
scrive non avrebbe avuto desiderio di rivelare) di chi avrebbe determinato lo
scrivente a cambiare opinione sulle ‘tavolette di Tziricottu’: chi scrive
ribadisce in pubblico quel che disse privatamente a Gianni Atzori e Gigi Sanna.
Lo scrivente rivendica la propria libertà di pensiero: il Professor Giovanni
Lilliu, di venerata memoria, fece sapere a chi scrive di non approvarne la
presentazione del volume Omines di G. Atzori e G. Sanna. A tale
osservazione lo scrivente rispose che in quella presentazione aveva ribadito la
propria posizione sfavorevole alla esistenza di una scrittura della Sardegna
nuragica, sostenendo l’acquisizione da parte dei Sardi di grafemi alfabetici e
di un
sistema numerale nel Primo ferro. Infine lo scrivente considera
perfettamente legittimo da parte di chiunque esprimere le proprie opinioni
anche ferocemente avverse alle interpretazioni di chi scrive: la libertà, nel mondo
globale, si misura, secondo la massima eraclitea, nel silenzio che spegne i
conflitti.
8 L. GODART, L’invenzione della scrittura cit., pp. 127-128 ha ricordato la
pagina di C. LEVI STRAUSS, Tristi tropici,
Milano 1960, relativa al ruolo del capo della tribù amazzonica dei Nambikwara
nella comprensione dell’importanza e della funzione della scrittura come
strumento di prestigio, tradottasi nell’ottenimento da parte del capo degli
strumenti scrittori (bloc-notes e matita) necessari per mostrare alla sua tribù
la propria pretesa capacità di utilizzo di un codice scrittorio (in realtà un
sistema di linee curve), col quale poteva dimostrare la propria autorità nello
scambio. Al di là della differenza sostanziale fra il livello culturale dei
Nambikwara e quello delle popolazioni mediterranee ed europee a livello
dell’età del bronzo medio, tardo e finale è indubbio che il possesso di
manufatti (esotici) provvisti di segni di scrittura, ottenuti in dono, da parte
dei capi delle società mediterranee centro-occidentali, non dotate di codici
scrittori, doveva rimarcare l’autorità dei capi sia per il dono ‘prezioso’ in
sé, sia e soprattutto perché i capi poterono percepire la funzione della
scrittura, pur non possedendola. Problematiche appaiono alcune testimonianze
epigrafiche, probabilmente in sillabari egei, di Drama in Bulgaria (tavoletta
con un testo presunto in lineare A: cfr. A. FOL, R. SCHMITT, A Linear A Text on a Clay Reel
from Drama, South-East Bulgaria?, in «Prähistorische Zeitschrift», 75
(2000), pp. 56-62) e di Vattina, Serbia, al confine con la Romania (boule
fittile forata con testo in probabile CM: E. MASSON, Étude de
vingt-six boules d'argile inscrites trouvées à Enkomi et Hala Sultan Tekke
(Chypre), SIMA XXXI, 1: Studies in the Cypro-Minoan scripts, 1, pp.
30-31, pl. III, per la quale appare più plausibile l’ipotesi di importazione dall’area
egea: cfr. J.C. COURTOIS, Bibliographie, in «Syria», 50 (1973), p. 467).
9 Il sigillo, individuato in una collezione privata, fu rinvenuto
«durante lavori agricoli sulle pendici nord della falesia di Marano a Cupra
Marittima […] Il lato A della tavoletta presenta, lungo i lati brevi, una
decorazione a piccoli cerchi allineati, cinque per ogni lato; lungo i lati
lunghi si nota un doppia incisione: questa sorta di cornice inquadra
un’iscrizione in segni piuttosto rozzamente tracciati, divisa in due registri da
una doppia linea. Il lato B del sigillo cuprense porta una breve iscrizione
geroglifica contenente
sicuramente il nome del dio Amon: da destra si trova il segno i, quindi
un uccello che si può identificare con l’oca attribuendogli il valore z3,
infine il segno mn. La combinazione potrebbe aver riprodotto, anche se un po’
maldestramente, parte della titolatura regale egizia ampiamente diffusa anche
attraverso gli scarabei, e precisamente il titolo z3 imn, “figlio di Amon”. Va
inoltre considerata la possibilità che il segno dell'uccello non abbia il
valore z3 “figlio”, bensì sia parte integrante del nome divino in quanto l'oca era
uno degli animali sacri al dio» (G. CAPRIOTTI VITTOZZI in ID., G. GARBINI, Un amuleto egizio-filisteo da Cupra
Marittima, in «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei». Classe di scienze
morali, storiche e filologiche, 397 (2000), pp. 529-541). Giovanni Garbini ha
proposto l’individuazione dei segni del lato A come lineari filistei: «si può
affermare che pur sottraendosi a qualsiasi tentativo di lettura i segni
visibili sulla faccia A dell’amuleto ci riportano a un tipo di scrittura che
potremmo definire ‘miceneizzante’ con forti affinità con la lineare B. Ora,
ritrovare insieme su un unico oggetto una scritta egiziana e segni riferibili, anche
se in maniera non precisa, alla scrittura micenea ci riporta a un orizzonte
culturale ben determinabile storicamente: quello della Palestina posteriore
all'insediamento dei cosiddetti popoli del mare, i quali conobbero un processo
abbastanza rapido di acculturazione con l’ambiente locale. In altri termini, l'amuleto
di Cupra Marittima rivela immediatamente la sua origine palestinese, che per il
periodo compreso tra il XII e il X sec. a.C. vuol dire di fatto filistea» (ivi,
pp. 537-538).
10 G. COLONNA, in G. Bartoloni, F. Delpino (a cura di), Oriente e Occidente:
metodi e discipline a confronto cit., p. 481 ha proposto l’idea che
«l’acquisizione della scrittura nell’Italia centrale sia stato non un evento
puntuale, come finora abbiamo creduto, ma un processo ‘lungo’ svoltosi almeno
in due tempi, e con conseguenze assai diverse. Un primo, timido passo verso la
scrittura sembra essere stato compiuto nella bassa valle del Tevere,
probabilmente a Veio, all’epoca delle frequentazioni euboiche ‘pre-coloniali’,
con una fievole ripercussione a Bologna. Il secondo passo, decisivo perché non
ha conosciuto ripensamenti, a differenza del primo, ha avuto luogo in una delle
grandi città dell’Etruria meridionale costiera, forse Tarquinia,
nella fase di transizione o agli inizi dell’Orientalizzante». Giovanni
Colonna valorizza in questa lettura un’anforetta a spirali di Veio del secondo
quarto del VII sec. a.C. (G. COLONNA, Veii. Rivista di epigrafia Etrusca, in «Studi
Etruschi», 69 (2003), pp. 379-382) con le lettere graffite sul collo alfa,
beta, gamma, delta, in cui l’alfa ha la forma adagiata di immediata
impronta fenicia (come nell’oinochoe del Dipylon) riportabile a
un «modello antichissimo di alfabeto euboico, che potremmo definire
pre-pitecusano» (p. 481). Il medesimo tipo di alfa adagiato si riscontra
graffito nell’iscrizione etrusca al (“dono”) del cinerario della tomba 21
Benacci-Caprara (Bologna) (p. 481).
11 Lo spillone fu rinvenuto nel corso
dello scavo del 1993 in una delle «fossette […] interpretabili come luoghi di
offerte votive» (P. BERNARDINI, Necropoli della Prima Età del Ferro
in Sardegna cit., p. 355) che circondavano alcune tombe, esplorate tra il
1990 e il 1993, appartenenti alla necropoli con tombe a pozzetto a inumazione
singola (scavi G. Ugas 1984), una delle quali (tomba 3) restituì una statuetta
in bronzo di un personaggio stante armato di lancia.
12 N. IALONGO, Il santuario nuragico di Monte S. Antonio di Siligo (SS) cit.,
pp. 396-398 sembra ritenere i diversi aritmogrammi dotati del medesimo valore
numerale («simboli che rappresentano entrambi, seppure con rese differenti, un
valore identificabile con la cifra 5», p. 397), il che è improbabile se non
ammettendo l’assunzione di valori diversi in contesti e ambiti cronologici
differenti. Si noti che l’aritmogramma a circolo avrebbe un valore 100 ad
esempio nel lingotto di Santa Anastasia con peso di kg 9,005 corrispondente a
circa 400 multipli dell’unità ponderale del peso di Abini (ivi, p. 397).
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Nelle sagge parole di Christopher A. Rollston: "In sum, modern forgeries have been produced for some time. Forgers have means, motive, and opportunity; however, epigraphers and palaeographers also have a substantial counter-arsenal. At this juncture, methodological doubt and rigorous protocols are desiderata. Caveat Eruditus".
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