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mercoledì 20 marzo 2013

Storiografia del problema della scrittura nuragica di Raimondo Zucca


Storiografia del problema della scrittura nuragica
di Raimondo Zucca
(nel presente articolo non sono presenti le oltre 400 note dell’autore, invitiamo dunque tutti i lettori ad un approfondimento nel testo originale)


Fonte: Bollettino di Studi Sardi - CUEC / CSFS - Anno V, numero 5 - dicembre 2012


I. La nascita del problema della ‘scrittura nuragica’
Il fondatore del problema della ‘scrittura nuragica’ è lo stesso padre dell’archeologia sarda, il canonico Giovanni Spano, che nel suo lavoro generale sulla Paleoetnologia sarda, sull’onda della partecipazione al V Congrès international d’anthropologie et de archéologie préhistoriques a Bologna, nel 1871, scriveva:
Per quante ricerche si siano fatte dentro ed attorno i Nuraghi, non si è scoperto mai un monumento scritto.
In realtà Giovanni Spano si era già imbattuto, nel 1857, in «monumenti scritti» rimontanti «alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi», per i quali l’archeologo si domandava se recassero o meno «lettere o note di qualche segno di religione»: si tratta degli oxhide ingots di produzione cipriota, recanti segni del sillabario cipro-minoico, rinvenuti a Nuragus, nella località di Serra Ilixi:
I monumenti che andiamo a descrivere, e dei quali diamo l’incisione in questo luogo, li crediamo molto rari e di una sublime antichità. Annunziamo questa bella scoperta nel num. 6 del 3 anno di questo Bullettino (pag. 64). Il Sig. G. Medda Serra del villaggio di Nuragus, nel mentre che i contadini aravano in una sua terra, detta Serra Ilixi, in vicinanza di detto villaggio, vedendo che in uno il vomere faceva molta resistenza, dopo qualche sforzo, rovesciò una lapide di molto peso, ed avendo osservato ch’era di bronzo, si fece a scalzare il terreno da dove n’estrasse sino al numero di cinque, tutte ad un dipresso della stessa figura […] Queste lapidi sono di diverso peso, la prima pesa kg 37, e l’altra kg 28. Le altre tre ad un dipresso più o meno, ma al di là di 30 chilogrammi. La materia è di rame perfetto, ma senza essere purificato, in modo che annunziano l’arte primitiva della docimastica, e per così dire la prima fonderia che usò l’uomo […] Tutte le dette stele hanno qualche segno incavato a taglio con istrumento nel mezzo o nella parte superiore, imitante la croce egiziana, o la rozza forma umana colle mani alzate, simili ad una lapide cartaginese illustrata dal Bourgade (V. Toison d’or de la Langue Phenicienne, ecc. Paris 1852, Tav. A). Dalla qual cosa noi non possiamo de prendere altro che di essere stele mortuarie delle prime immigrazioni orientali nella Sardegna […] Ma questi segni diversi delle nostre stele, saranno lettere o note di qualche segno di religione? A noi pare che se non sono rozze figure, siano un monogramma della voce Thaut o Thut, divinità adorata dai primi Egiziani o Fenici alla quale attribuivano l’uffizio di registrare il supremo giudizio che il Dio grande pronunziava sulle anime dei morti nell’Amenti, cioè nella regione infernale, d’onde passavano alla sfera della luce, e si trasmigravano in altri corpi […] Le stele in proposito adunque crediamo che possano rimontare alla stessa antichità dei Nuraghi Sardi.
L’ipotesi interpretativa di Giovanni Spano degli oxhide ingots di Nuragus, considerati «stele mortuarie», seppure di età nuragica, non dovette soddisfare l’archeologo che, quattordici anni dopo, in seguito alla individuazione di matrici di fusione (a Belvì, Suelli e nella Nurra), e di panelle in rame e di scorie di fusione, formulava la corretta interpretazione dei lingotti di Serra Ilixi come «pani di officina» dotati di «marca dell’usina da cui sono uscite»:
A questi strumenti od armi [in bronzo] possono annettersi quelle stele di puro rame, scoperte a Nuragus nel 1857, nel sito di Serra Elixi [sic]. Se non sono stele votive o mortuarie (Bullett. Arch. Sardo an. IV, p. 12) saranno pani di officina, e quindi il monogramma in vece di Thaut, sarà marca dell’usina da cui sono uscite.
Fu Ettore Pais, nel 1884, a inserire definitivamente i lingotti di Serra Ilixi nell’ambito dei pani di rame individuati in diverse fonderie della Sardegna nuragica, soprattutto nella forma delle panelle a sezione piano-convessa:
Assai notevoli sono i cinque pani di rame trovati a Serra Ilixi presso Nuragus, dei quali tre possiede il Museo di Cagliari […] Essi pesano da 28 a 37 chilogrammi l’uno e sono lunghi in media m. 0,700 e si rassomigliano assai al pane di stagno trovato a Falmouth v. Evans, L’age du bronze pag. 464 sg. fig. 514.
Ettore Pais suggeriva di riconoscere nel segno (che consideriamo corrispondente al sillabogramma 08 del Cipro Minoico 1-2-3) di uno dei pani di Serra Ilixi la resa schematizzata del «pugnale sardo», ipotizzando così una origine sarda dei lingotti. Questa ipotesi fu respinta nel 1887 nell’Histoire de l’art dans l’antiquité di Georges Perrot e Charles Chipiez, in base all’osservazione dei diversi segni presenti nei pani di Serra Ilixi, irriducibili alla forma del pugnaletto sardo e in rapporto alla scarsità del rame in Sardegna, dato che induceva a credere che «une partie au moins du cuivre que l’on y [en Sardaigne] consommait y fût apportée du de hors». L’osservazione merita di essere sottolineata poiché anticipa le scoperte di Arthur Evans a Cnosso e, a fortiori, le analisi archeometriche sul rame (di origine cipriota) degli oxhide ingots sardi eseguite allo scorcio del XX secolo. Allo scadere del XIX secolo i segni dei lingotti di Serra Ilixi ebbero una prima decifrazione in chiave iberica da parte di Emil Hübner, l’allievo di Theodor Mommsen che aveva redatto il secondo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum relativo alle epigrafi latine delle provinciae della penisola iberica. Nell’VIII volume dell’Ephemeris Epigraphica, edito a Berlino nel 1899, lo Hübner pubblicava, su invito di Ettore Pais, sia il cippo calcareo con iscrizione iberica scoperto anteriormente al 1891 nella necropoli orientale di Karales, sia i segni scrittori dei tre lingotti di Nuragus-Serra Ilixi, considerati grafemi di scrittura iberica dallo stesso Pais, ma ricondotti dallo Hübner al segnario delle scritture paleo ispaniche solamente nel caso dei segni dei due primi lingotti, mentre il terzo lingotto recava, a giudizio dello Hübner, un segno non iberico, a meno che non si ipotizzasse un nesso fra vari grafemi iberici:
Massae grandes ex aere tres, servatae in museo Caralitano, in quibus extant litterae hae profunde incisae post fusionem. Hector Pais, qui memoravit tertiam (c) Bullet. Archeologico Sardo ser. II vol. I 1884 p. 149, mihi misit a se descriptas et litterae fortasse Ibericas esse adnotavit. In a est m certo Iberica, in b potest l esse, utraque ex Hispaniae citerioris monumentis satis nota. Quod in c est signum, littera Iberica non est, nisi duo lli vel ujt coniunctae indicantur. In aerifodinis Sardis operas fuisse originis Iberae facile credemus.
Indipendentemente dallo Hübner era stata pubblicata nel 1900 da Wilhelm Freiherr von Landau l’iscrizione iberica di Karales. Una relazione fra l’ethnos sardo e l’ethnos iberico era ugualmente affermata da Luigi Ceci, che pure ignorava l’editio princeps dello Hübner, in base al cippo iberico caralitano, ottenendo una violenta ripulsa da parte di Ettore Pais, in un quadro polemico legato alla edizione da parte di Luigi Ceci dell’iscrizione latina del cippo del Lapis niger e al conseguente conflitto fra l’ipercriticismo germanico nei confronti delle fonti annalistiche (accettato dal Pais) e i fautori, tra cui il Ceci, di una conciliazione tra fonti antiche e interpretazione critica. Nel 1896 a Enkomi, nel settore orientale dell’isola di Cipro, venne scoperto, nel corso degli scavi promossi dal British Museum, un oxhide ingot dotato di un segno sillabico ritenuto cipriota (in realtà cipro-minoico), edito da Alexander Stuart Murray nel 1900 con un preciso confronto, suggerito da Arthur Evans, con i lingotti di Serra Ilixi, che risultavano, anche per la presenza di marchi, testimonianza del commercio cipriota in Sardegna. Nel 1903 vennero in luce diciannove esemplari, di cui cinque provvisti di marchi, di oxhide ingots ad Haghia Triada in Creta a opera della missione italiana guidata dallo Halbherr. Infine il celebre articolo nel «Bullettino di Paletnologia italiana» del 1904, del fondatore della moderna paletnologia italiana, Luigi Pigorini, rivendicava con lucida acribia i lingotti di Serra Ilixi all’ambito egeo dell’età del bronzo, chiarendo definitivamente l’ascrizione dei segni dei lingotti rinvenuti in Sardegna ai sistemi scrittori dell’area egea.

II. Ettore Pais e le iscrizioni del nuraghe Losa
Il rinnovamento degli studi sul problema della ‘scrittura nuragica’ è dovuto a Ettore Pais. Lo storico piemontese nel 1909 pubblicava nei «Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei» e, nel 1910, nell’«Archivio Storico Sardo» un importante contributo Sulla civiltà dei nuraghi nel quale tendeva a ribassare la cronologia finale della cultura indigena sarda, sino a farle raggiungere «età  propriamente storiche». In questo quadro assumevano per il Pais notevole valore le ceramiche in bucchero etrusco rinvenute in contesti nuragici e, soprattutto, le «traccie […] di scrittura»
Che gli antichi abitatori dei Nuraghi avessero già conosciuto segni di scrittura, era stato più volte sospettato a proposito dei pani di rame di Serra Ilixi. Ma i dubbi che si avevano in proposito sono, credo, risolti dai fatti che ora presento. Percorrendo nell’autunno del 1908 il Goceano, recatomi nel villaggio di Bono, fui informato dal mio vecchio allievo e amico Edoardo Sancio che in un nuraghe non molto lontano da quel paese e chiamato Eri Manzanu era stata rinvenuta una lastra fittile coperta di graffiti in forma di aste, ossia di segni che  appresentavano per lui una scrittura. Questa lastra, stando al Sancio, si rassomigliava alle tavolette scritte della Caldea, da lui vedute in recenti pubblicazioni scientifiche. Il Sancio credeva che il proprietario del Nuraghe, il sig. Mulas Ena, possedesse ancora il prezioso cimelio. Recatomi dal proprietario, ebbi la conferma del ritrovamento e della forma con cui le lettere erano tracciate, ma non trovai più il cimelio, che era andato perduto. Ebbi invece da lui alcuni frammenti di una ciotola del bucchero di cui ho sopra discusso [bucchero etrusco] e che erano stati trovati insieme alla tavoletta fittile. Impressionato da quanto udii, volli subito verificare se in altri nuraghi della Sardegna vi fossero traccie di scrittura, e mi recai nel nuraghe Losa per verificare alcune indicazioni che da varî anni mi aveva date il
mio amico F. Nissardi. Fu con sommo mio piacere che potei ivi constatare come sopra due macigni del Nuraghe stesso si trovassero profondamente incisi i segni seguenti, di cui qui appresso il fac-simile. Nel caso dei buccheri e della lastra fittile del Nuraghe Eri Manzanu poteva sospettarsi si trattasse di oggetti posteriori alla fondazione del Nuraghe ivi più tardi importati. In quello invece del Nuraghe Losa, rispetto ai segni incisi sulla base e soprattutto a quelli segnati su di una pietra interna laterale della scala, in uno stretto passaggio, dove era pressoché impossibile soffermarsi per segnare tali linee, si tratta con certezza di segni tanto antichi per lo meno quanto lo stesso monumento.  «Altre traccie di scritture si noterebbero nel nuraghe Bara presso la cantoniera ferroviaria di questo nome lungo sulla via che da Macomer va a Bosa. L’iscrizione sarebbe a mano destra entrando nel Nuraghe. Anche di questa indicazione sono da molti anni debitore alla disinteressata amicizia di Filippo Nissardi » (ivi, p. 123, n. 1).  Anche in queste incisioni appare evidente una scrittura astiforme, la quale mostra una certa analogia con alcune rozze e primitive scritture della Spagna appartenenti alla civiltà indigena, che furono pubblicate da Emilio Huebner e di cui qui presento la riproduzione. Fra i due generi di scritture, il sardo e l’iberico, vi sono, se male non mi appongo, alcune somiglianze grafiche esterne. Dobbiamo forse in ciò trovare la conferma della teoria secondo la quale gli Iberi, sotto la guida di Norace, l’eponimo dei nuraghi, fondò sulle coste del mare Nora, la più meridionale e la più antica città della Sardegna? Ovvero si tratta di somiglianze parimenti casuali e di scritture rudimentali simili negli stadii primitivi di vari popoli? Io non dissimulo la mia tendenza a darne la preferenza a questa seconda ipotesi. Tuttavia per essere del tutto obbiettivo faccio osservare che altrove raccolsi già tutti gli elementi che verrebbero a confermare la teoria che i Sardi e gli Iberi appartenevano in origine ad una stessa schiatta. Io non oso già affermare che i dati che oggi possediamo ci conducano ad una conclusione sicura. Tanto meno oso asserire che questa conclusione possa venirci dalle incisioni del Nuraghe Losa. Queste traccie di scrittura trovate in un monumento del centro dell’Isola, in una regione occupata dagli indigeni, hanno ad ogni modo maggior peso rispetto al nostro problema di quella epigrafe rinvenuta presso la marina cagliaritana, che io per primo, vari anni or sono, feci conoscere agli studiosi. Nulla infatti esclude che l’epigrafe iberica di Cagliari appartenesse ad uno Spagnuolo di passaggio, ad es. ad uno dei numerosi Iberi mercenari di Cartagine morto in Sardegna. A torto da questa epigrafe cagliaritana si volle dal Prof. L. Ceci ricavare un argomento perentorio circa l’origine iberica delle primitive ed indigene razze della Sardegna.
Il lavoro di Ettore Pais non ebbe nell’immediato un grande risalto per quanto attiene la sua tesi sulle problematiche iscrizioni di monumenti nuragici. Nello Toscanelli nell’opera Le origini italiche del 1914 si sofferma sui «segni filiformi e certamente intenzionali del nuraghe Losa», considerati tuttavia «la ignorante imitazione di un lapicida illetterato che aveva visto senza intenderli i caratteri corsivi dei fenici e dei cartaginesi». Nello stesso anno 1914 vide la luce un volumetto, di scarso valore scientifico, di Gino Luigi Martelli, dal titolo Le iscrizioni nuragiche, edito a Spello. Il Martelli, docente di Storia dell’arte nell’Accademia di Belle Arti Pietro Vannucci di Perugia, era provvisto di conoscenze linguistiche ed epigrafiche che spaziavano dalle lingue semitiche (fenicio, punico, arabo, ebraico) a quelle italiche, all’etrusco. In realtà egli fu uno studioso principalmente di epigrafia e lingua etrusca, ma anche di storia e archeologia umbra, con una produzione di studi essenzialmente di ambito locale, editi quasi esclusivamente in tipografie di Perugia e di altre città dell’Umbria. Un ruolo minore nell’ambito degli studi etruschi il Martelli lo guadagnò con le sue pubblicazioni, in due casi con prefazione di Giulio Buonamici, fondatore della «Rivista di Epigrafia Etrusca» negli Studi Etruschi. È rilevante notare che in età matura (1936) il Martelli figura tra i corrispondenti dell’archeologo Aldo Neppi Modona, uno dei fondatori (1927) del Comitato permanente dell’Etruria, destinato a divenire nel 1932 l’Istituto di Studi Etruschi. Il Martelli nella sua operetta sulle Iscrizioni nuragiche, introdotta da un breve excursus sulla cultura nuragica, si dissocia vigorosamente dal Pais e, sulle orme del Toscanelli, considera sia l’iscrizione iberica caralitana, sia le ‘epigrafi’ del Losa, sia infine i segni dei lingotti di Serra Ilixi, di ambito fenicio.
Lo Spano scriveva nel 1871: «Per quante ricerche si sieno fatte dentro ed attorno i Nuraghi non si è scoperto mai un monumento scritto. Per la loro età niente si può stabilire di assoluto». Questa affermazione fu contraddetta dal Pais nel 1909 quando pubblicò il suo articolo sulla civiltà dei Nuraghi, riportando due iscrizioni da lui rinvenute, dietro indicazioni del Nissardi, su due pietre del nuraghe Losa. La scoperta è di un interesse infinito, specie se fosse possibile, come speriamo, leggerle ed interpretarle. Il Pais dice: «appare evidente una scrittura astiforme, la quale mostra una certa analogia con alcune rozze e primitive scritture della Spagna appartenenti alla civiltà indigena, che furono pubblicate da Emilio Huebner […] Fra i due generi di scritture, il sardo e l’iberico, vi sono, se male non mi appongo, alcune somiglianze grafiche esterne […] Ovvero si tratta di somiglianze parimenti casuali e di scritture rudimentali simili negli stadii primitivi di vari popoli? Io non dissimulo la mia tendenza a darne la preferenza a questa seconda ipotesi» (Rend. Acc. Lincei, Serie Va, vol. XVIII, 1909). Però a me sembra che le iscrizioni nuragiche abbiano un carattere punico, mentre quelle della Spagna risentono un poco di carattere fenicio-cretese, che abbiamo in un cuore cultuale rinvenuto nei dintorni di Cnosso. Certo che l’elemento ‘fenicio’ o meglio ‘punico’ è molto evidente specie nelle iscrizioni della Sardegna. Salendo per il piano inclinato della scala troviamo i segni tracciati qui a fig. 1; nel piano di campagna a livello della fondazione si vedono, intorno ad un segno fallico, i segni tracciati a fig. 2. La somiglianza di alcuni segni ci fa vedere che fra le due iscrizioni non ci può essere che o qualche anno di differenza, o, meglio ancora, una mano diversa e meno pratica. Per il Toscanelli «i segni filiformi e certamente intenzionali del nuraghe Losa, sono forse la ignorante imitazione di un lapicida illetterato che aveva visto senza intenderli i caratteri corsivi dei fenici e dei cartaginesi». Fin da quando vidi per la prima volta questi segni importanti non solo vi trovai un carattere punico, ma lessi subito la parola fenicia bn “figlio”. La cosa mi parve possibile ma non potei nulla affermare finché nell’opera del Toscanelli non vidi la brutta riproduzione dell’iscrizione della colonna trovata a Cagliari con caratteri iberici (?). Il segno del Nuraghe Losa è quivi segnato per tre volte, ed in due forma evidentemente il gruppo. L’iscrizione mi apparve subito punica, e composi subito la seguente traduzione: “(nome) filius (nome) filii (nome)”. Le lettere sono dubbie e sicuramente malfatte nell’originale e peggio nella copia, purtuttavia azzardiamo trascrivere l’iscrizione in punico, fenicio ed ebraico: Dobbiamo subito vedere che la parola bn si è aspirata divenendo wn; ciò è evidente per la forma punica di waw così fatta. Ciò notato possiamo subito leggere: [cippus vel columna] [Deo …] [erectus a] …th…filio Ahajizii filii Sebal-Rutig (?)… In Sebal si può avere il nome di divinità Sheba, che il Burney deduce dal nome Beer-seba esistendo nell’assiro il dio Sibitti. Nella Genesi (25,3) abbiamo il nome proprio Shb’. Risolta così l’iscrizione sardo-punica, giammai ibero-punica, passiamo ad esaminare i segni del nuraghe Losa. Una delle due iscrizioni, e precisamente la prima (fig. 1) è addirittura illeggibile; solo qualche segno si può sorprendere; ma l’altra, quella a livello di fondazione, è completamente leggibile. Ponendo il segno III dopo, come dev’esser fatto, si ha: ven (ben) malyk nah.um  Prima d’interpretare vediamo il valore della parola bn = wn. Ella può significare tanto “figlio” quanto “edificio della famiglia paterna”; infatti il verbo bnt significa “edificò, costruì”. Allora anziché leggere “figlio del re Naum”, leggeremo meglio “Domus regis Naum”. Il nome Nm è anche il nome di un profeta. Come si vede l’interpretazione del nome “Nurago”  viene confermata e la signoria di questi padroni dei Nuraghi che si facevano chiamare mlk, malik, re, ci balza innanzi con una nuova vita […] Il segno [attestato nell’iscrizione iberica di Campos (Consejo de Tapia), illustrata dall’Hübner e dal Pais] trovasi anche nei pani di rame di Serra Ilixi, trovasi pure nel cuore cultuale di Cnosso. Detti pani dovevano essere vôti, ed infatti abbiamo i tre seguenti esempi: Nel primo abbiamo l’iniziale m [mem] certo di un nome, nel secondo il nome proprio di popolo, ovvero una voce del verbo “si pentì”. Nel terzo si hanno due mm [mem-mem] poste l’una sotto l’altra come nel secondo. La parola mm può significare “sei” [] e noi sappiamo che le divinità in Babilonia erano segnate anche numericamente, e che al “sei” corrispondeva precisamente “Ramman”. Si può avere però nella parola anche il verbo mm “si rallegrò”, quasi ad indicare una grazia ricevuta.
Il quadro interpretativo sulle ‘iscrizioni nuragiche’ di Gino Luigi Martelli appare viziato dal supposto che il codice scrittorio e il sotteso codice linguistico sarebbero, entrambi, semitici, e più precisamente un codice scrittorio punico corsivo utilizzante una lingua semitica del nord ovest, il fenicio. Il riferimento poi a un ambito ‘fenicio-cretese’ per i segni dei lingotti di Serra Ilixi, peraltro ritenuti dei ‘voti’, appare incredibile a tener conto sia della classificazione egea dei lingotti di Serra Ilixi a opera di Luigi Pigorini, sia delle interpretazioni di Arthur Evans sulla ‘scrittura geroglifica’ cretese, del II millennio a.C., presentate nel «Journal of Hellenic Studies» del 1895 in uno studio su I pittogrammi cretesi e la scrittura prefenicia. Infine l’interpretazione in chiave ‘sardo-punica’ del cippo caralitano con iscrizione iberica, ben quaruntuno anni dopo la decifrazione della scrittura paleo ispanica (ancora ritenuta unitaria) a opera di Antonio Delgado, in base alla legenda nelle emissioni delle zecche iberiche, e trentun anni dopo i Monumenta Linguae Ibericae di Emilio Hübner, che riconosceva semplicemente una origine fenicia dei segni della scrittura iberica, ci appare assolutamente insostenibile e arretrata rispetto agli studi. I dati ‘epigrafici’ sul nuraghe Losa furono riesaminati nel volume Sardinnia di B. Erdas e da R. Sardella sulla base dell’ipotetica esistenza di una scrittura nuragica. A riprendere le osservazioni di Ettore Pais sulle iscrizioni sarde fu, con ben altro rigore filologico e storico rispetto ai contributi di Stefanelli e Martelli, Massimo Pallottino nella rivista «Ampurias» del 1952. Il Pallottino prendeva le mosse da un articolo di A. Garcia y Bellido del 1935, nel quale il grande antichista iberico ricavava dallo Hübner l’attribuzione al segnario iberico dei marchi degli oxhide ingots della Sardegna, di cui invece Massimo Pallottino ribadiva l’ascrizione ad ambito egeo. Sicuramente iberica pareva al Pallottino l’iscrizione di Karales edita dallo Hübner in Ephemeris Epigraphica VIII e ripubblicata da A. Beltrán nel 1949, mentre le incisioni del nuraghe Losa venivano considerate meritevoli di approfondimento, nonostante l’impossibilità di una loro datazione, al fine di un loro inquadramento puntuale, benché, a giudizio di Massimo Pallottino, fossero possibili confronti con epigrafi celtiberiche:
Para concluir estas notas quisiéramos recordar que […] existen en Cerdeña otros testimonios, de significado incierto y de interpretación gráfica muy insegura (que, entiéndase bien, son imposibles de fechar), en los que se quise ver una relación con la escritura ibérica. Se trata de las supuestas «inscripciones» incisas mencionadas y parzialmente reproduicidas por E. Pais en su trabajo de síntesis sobre la cultura nurághica, en particolar la del nuraghe Losa di Abbasanta, de cual se reproduce un dibujo. Pais cree que puede ponerse en relación con algunos grafitos asturianos; y no faltan para el ductus alargado y cursivo otras analogías, esencialmente en las regiones celtibéricas. Valdría la pena volver a examinar criticamente estas curiosas incisiones y buscar otras citadas por Pais para establecer su verdadera naturaleza y determinar el valor eventual con fines al estudio del problema de las influencias hispánicas en Cerdeña.

III. Giovanni Lilliu e il problema della ‘scrittura nuragica’
Nel volumetto sulla Sardegna nuragica (1950) Massimo Pallottino osservava «l’assoluta mancanza di documenti diretti e originali [degli elementi linguistici]», ossia l’assenza di documenti scritti. Questo dato negativo risalta nelle pagine dei maggiori archeologi della seconda metà del XX secolo e del principio del XXI.Giovanni Lilliu, in un’importante nota dello studio sui Bronzetti nuragici da Terralba del 1953, fa il punto sulla storia della cultura nuragica «priva, per quanto finora è dato sapere, della qualità di essa più produttiva e significante: cioè della scrittura»:
Nessun documento sicuro in proposito. Il PAIS, Arch. Stor. Sardo, VI, 1910, pag. 121 segg. nel pubblicare alcuni segni incisi sul nuraghe Losa di Abbasanta (Cagliari), da lui supposti «iscrizioni» e messi in relazione con graffiti asturiani iberici, sollevò criticamente il problema della scrittura nuragica, senza peraltro portare alcun dato concreto sull’antichità o meno delle iscrizioni stesse. Nel 1955 Giovanni Lilliu ritorna sul problema osservando a proposito delle epigrafi del nuraghe Losa: «Forse il momento più antico è quello indicato dalle tracce d’iscrizioni che, se effettivamente celtiberiche, potrebbero attribuirsi a breve stanza di mercenari iberici al servizio di Cartagine presso la fortezza» (G. LILLIU, Il nuraghe di Barumini e la stratigrafia nuragica, Sassari 2007, p. 36).
Recentemente il PALLOTTINO ha riprodotto le incisioni lineari intorno al segno fallico delle pareti del Nuraghe Losa (Ampurias, XIV, 1952, pag. 155, fig. 2) allargando i confronti con la scrittura di regioni celtiberiche. Ove
trattisi di lettere alfabetiche vere e proprie, in quelle del nuraghe Losa saranno, se mai, da riconoscersi, per la loro supposta analogia con le iberiche, le tracce di iscrizioni di mercenari iberici al soldo dei Cartaginesi o dei Romani, lasciate in una breve sosta presso la fortezza, dopo averla conquistata e distrutta. Sulla presenza di questi mercenari in Sardegna, in tempi storici, vedasi il PALLOTTINO nell’articolo citato (pagg. 148, 153). Non vi sono ragioni per escludere che la stele del vecchio Orto Botanico di Cagliari (attuale sito dell’Officina del Gas) con iscrizione iberica (Ampurias, cit. pagg. 153, 155, fig. 1), appartenga a un soldato di quella nazione, morto a Cagliari e seppellito in un cimitero riservato a militari, essendo il luogo del trovamento della stele adiacente a quello dove si custodivano le salme dei marinai della classe Misenate di stanza nella città capitale dell’Isola (St.s., IX, pag. 488). La supposizione parrebbe confermata dal contenuto della stele, che ha le maggiori probabilità di essere funeraria. Contro l’ipotesi prospettata d’un arrivo del cippo in Sardegna, occasionalmente dopo la sua
fattura o uso originario (pag. 154 Ampurias), sta la natura della pietra, che è un calcare locale delle cave di Bonaria, località prossima alla scoperta del monumentino, e che è stata in ogni tempo, e lo è anche oggi, area cemiteriale. A corredo mortuario e ad offerte votive di militari iberici assoldati per la Sardegna dai Cartaginesi e poi dai Romani, si devono riferire anche i vasi dipinti, di stile iberico, venuti in luce, negli ultimi tempi, nella necropoli punica di Olbia […] e nel pozzo votivo (F) annesso al santuario punico di via Malta in Cagliari […], dove si trovarono associati con ceramiche etrusco-campane del III-II secolo a.C. Anche il cippo dell’Orto Botanico non sarà molto distante da quest’età.
Nello stesso articolo sui Bronzetti nuragici da Terralba Giovanni Lilliu osservava che nella civiltà sarda manca […] la grande statua, come le manca la pittura, come le manca la scrittura, le quali sono invece presenti nei grandi aspetti culturali, a piena storia, dei potenti paesi egizi, mesopotamici e greci. Nel 1977 con la presentazione della statuaria sarda di Monte Prama Giovanni Lilliu richiama la sua negazione dell’esistenza della grande statua nella cultura di villaggio sarda per esprimere epicamente la sfida dei Sardi nei confronti delle altre culture mediterranee e vicino orientali:
Così, se nel 1953 lamentavo che la cultura da villaggio protosarda non avesse fatto maturare dal piccolo Dedalo girovago che era il ramaio, il grande scultore e che alla Sardegna antica fosse mancata «l’effige del Principe Hem-hom, o il simulacro del Lugal- dalu di Adab o la Kore di Antenore», oggi possiamo affermare che l’isola dei nuraghi lancia la sfida, nella grande plastica, ai potenti paesi egizi, mesopotamici e greci.
Nello studio è evidenziato per l’VIII secolo a.C., l’età geometrica cui si assegna la statuaria di Monte Prama, la forte evoluzione del «cantone [nuragico] tra i più potenti, se non il più potente dell’isola»,48 fino a sfiorare una dimensione urbana:
se si pensa che l’organizzazione tendenzialmente «urbana» nella Sardegna dell’VIII secolo a.C., si era spinta al grado di esprimere una statuaria già matura quando in Grecia essa era appena agli albori, si capisce il valore rilevante della produzione sarda, intrinseco ed estrinseco, anche nel quadro dei movimenti culturali e nella storia dell’antica civiltà mediterranea.
L’acquisizione della grande statuaria protosarda non convinse Giovanni Lilliu a rinunciare alla posizione negativa, metodologicamente ineccepibile, nei confronti della esistenza della ‘scrittura nuragica’, pur temperandola con un «a meno di imprevedibili scoperte». Nella Civiltà dei Sardi dal paleolitico all’età dei nuraghi del 1988 così è sintetizzato lo status quaestionis della presunta ‘scrittura nuragica’:
Il coinvolgimento degli indigeni (tranne forse quelli abitanti nelle città) nella cultura scritta (letterata) punica avrebbe significato dare loro un pericoloso strumento di emancipazione. Invece ghettizzandoli nella cultura orale, per di più decaduta e imbarbarita, li si teneva in uno stato di inferiorità sociale e in condizione di non nuocere (o nuocere di meno) politicamente. I cartaginesi non insegnarono ai sardi la loro scrittura, che era una forma di comunicazione elevata e di potere riservata alla classe dominante e padrona. Né dettero stimoli perché i locali si dotassero d’un alfabeto autonomo, che non avevano mai avuto nemmeno nei tempi della libertà. Il contatto fra i due sustrati etnici-linguistici non provocò nei sardi ciò che il contatto con popolazioni straniere di grande cultura (fenici e greci) procurò agli iberi, i quali si crearono una propria lingua scritta, tanto diffusa da dialettizzarsi e così produttiva da avere lasciato centinaia di documenti epigrafici incisi su varia materia (pietra, piombo, ceramiche, monete ecc.). Alcuni testimoni di scrittura di significato incerto e di interpretazione grafica molto insicura, peraltro impossibili a datarsi, segnalati in luoghi e su monumenti nuragici, non sono da riferirsi a cultura indigena. Le supposte ‘iscrizioni’ incise del nuraghe Losa, furono messe in relazione con alcuni graffiti asturiani e non mancano
per il ductus allungato e corsivo, altre analogie essenzialmente nelle regioni celtiberiche. Le hanno lasciate mercenari iberici al soldo cartaginese? La presenza di soldati di ventura iberici in Sardegna è attestata dalla tradizione letteraria (Paus., X, 17, 5) e non si esclude che sia di un mercenario iberico il cippo di calcare da Cagliari con iscrizione sicuramente iberica (Ephem. Epigr., VIII, 1899, p. 513). La lettura ne potrebbe essere:
serdu (o do?) <n>sors/ear (??) se/ldari (o be?)../…. Seldar sembra un nome personale (quello del mercenario?) e si avvicina alla intitolazione con parole calun seldar, di un cippo funerario di Cretas. Salduie è il nome iberico di Saragozza. Infine con l’arruolamento di mercenari iberici per la Sardegna, si può spiegare la presenza di ceramiche dipinte geometriche, caratteristiche delle culture indigene di varie regioni della Penisola iberica, nella stipe del tempio arieggiante ad architettura punica di via Malta a Cagliari (III sec. a.C.), e nella tomba n. 56 della necropoli olbiense di Joanne Canu (vaso del gruppo detto dei “sombreros de copa”, del III-II secolo a.C.). Recentemente dei segni osservati su altri nuraghi o su pietre ritenute antiche, sono stati interpretati come testimonianze di scrittura nuragica, quando lettere e lessico portano ad età romana e bizantina. Se si può capire il desiderio di ricercare al fine di riempire quel certo vuoto di qualità “civile” rappresentato dall’assenza di documenti scritti, non è possibile approvare l’operato di coloro (anche studiosi autorevoli nel campo della linguistica) i quali li vogliono trovare (e li trovano) ad ogni costo (anche quello del ridicolo). A costo, per esempio, di presumere di accreditare come nuragica un’iscrizione rinvenuta qualche anno fa in località Barasùmene-Montresta, in lingua latina di passaggio tra il Tardo Antico e l’Alto Medioevo (forse per il ductus scrittorio, del VI se non del VII secolo d.C.). Bisogna dunque rassegnarsi, a meno di imprevedibili scoperte, a vedere un paesaggio nuragico senza scrittura, ma con una forte carica di di cultura orale tra cui c’era la lingua della quale offre più che parvenza il ricco sustrato toponomastico e onomastico rimastocene attraverso le tante successive stratificazioni linguistiche. Questo sustrato preistorico e protostorico (prenuragico e nuragico) fu tanto radicato e diffuso territorialmente da competere, come fenomeno residuale, con lo strato romano, mentre della lingua punica sono rimasti pochissimi termini. Il che dimostra che i cartaginesi non diffusero la loro parlata oltre lo stretto hinterland delle città, lasciando nella condizione subalterna di analfabetismo le popolazioni indigene assoggettate, parlanti sardo.
Il quadro negativo sulla presunta ‘scrittura nuragica’ si esplicita ugualmente nelle pagine della Sardegna preistorica e nuragica di Ercole Contu, nelle quali, tuttavia, si evidenzia, in base alle ricerche di Giovanni Ugas, la formazione presso la società sarda della prima età del ferro di «un adatto sistema ponderale (e forse anche metrico), che prima o poi sarebbe sfociato […] anche nella creazione di una scrittura»:
Certo in ambito nuragico già si andavano predisponendo o nascevano pressoché spontaneamente a tale generico fine [allargamento diretto dei commerci nuragici verso l’oriente mediterraneo], sotto la spinta della necessità, degli strumenti tecnico-amministrativi specifici, quali un adatto sistema ponderale (e forse anche metrico), che prima o poi sarebbe sfociato, come era avvenuto altrove, anche nella creazione di una scrittura. La scrittura è infatti figlia dell’amministrazione e degli scambi ed è ben per questo che i Fenici l’adottarono, semplificando una precedente scrittura ideografica. Non fa meraviglia l’adozione verso il IX sec., anche sulla scia e nello spirito della moda orientalizzante, di buona parte dell’alfabeto fenicio da parte dei Greci. Mentre più tardi, su influsso greco, avverrà lo stesso per gli Etruschi e i Romani. L’economia nuragica (cioè di una civiltà che pure fu a stretto contatto dei Fenici e già lo era stata dei Micenei) evidentemente non aveva necessità di registrazioni di carattere   amministrativo contabile. È solo questa la ragione per cui essa restò illetterata: infatti, per quanto pensino diversamente gli idealisti e i sognatori, è solo la necessità a determinare la presenza di una qualunque  manifestazione culturale. Tanto è vero che, essendo partiti da esperienze grafiche molto simili, non vi pervennero le genti della cultura del Milazzese a Lipari (1400-1270 av. C.) né successivamente (fra il IX ed il VII sec.) i Villanoviani dell’Italia centrale. Solo un’organizzazione di tipo urbano, con notevole accumulo e redistribuzione di ricchezza ed un’autorità sufficientemente centralizzata, può necessitare della scrittura; ma a tale livello di organizzazione la Civiltà nuragica non pervenne mai, anche se questa era forse la strada verso la quale si stava avviando. Restò perciò una cultura preistorica; e quando una cultura preistorica o, ai giorni nostri, a livello etnologico si scontra con una civiltà a livello urbano, la prima non può che trasformarsi o perire. E così, essendo troppo diversa da quella degli invasori semitici e senza valide trasformazioni possibili o in ritardo rispetto ad esse, la Civiltà Nuragica andò incontro al suo tramonto.

IV. Le tesi di Massimo Pittau sulla ‘scrittura nuragica’
La polemica di Giovanni Lilliu ed Ercole Contu è rivolta sia a «idealisti e sognatori », sia a uno «studios(o) autorevol(e) nel campo della linguistica», Massimo Pittau, professore emerito di Linguistica Sarda nell’Università di Sassari. Massimo Pittau ha avviato gli studi sui Sardi nuragici e la scrittura sin dal 1981, con un denso capitolo della sua opera La lingua dei Sardi nuragici e degli Etruschi. Nello studio Pittau riprende i dati del Pais, relativi a testi incisi sui nuraghi Losa (Abbasanta) e Bara (Macomer) utilizzanti un codice scrittorio iberico, per esprimere il paleosardo, precisando che l’iscrizione del nuraghe Bara di Macomer è invece ascrivibile al nuraghe Succorónis. Si riportano inoltre due testi inediti: uno in caratteri greci inciso su un concio dell’abside di San Nicola di Trullas (ma di evidente redazione moderna in lingua italiana), l’altro in caratteri alfabetici latini incisi su due blocchi in basalto ai lati dell’ingresso del nuraghe Rampinu di Orosei, di dubbia cronologia ma forse moderna.
I testi sono i seguenti: ITSN (blocco a sin. dell’ingresso); TS / TSNHBEI. Le due T presentano apicature marcate (in particolare la T della seconda linea con una apicatura inferiore dell’asta ridotta a un trattino orizzontale) inconcepibili prima dell’avanzata età romana imperiale, ma piuttosto derivate da esempi di T con le grazie tipografiche. La N è retroversa. La S della I linea è a tre tratti destrorsa; la S della II linea è ugualmente a tre tratti sinistrorsa.
La posizione di Massimo Pittau a favore dell’esistenza della scrittura nuragica, in polemica con Giovanni Lilliu, è stata divulgata a livello di stampa quotidiana nel 1982. Nel Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico (1984) Massimo Pittau presenta nella quarta di copertina quattro illustrazioni di iscrizioni su un monumento nuragico (il protonuraghe Aidu entos di Mulargia-Bortigali) e di siti nuragici di Aidomaggiore (nuraghe Sanilo) e di Suni. In tutti questi quattro documenti è evidente l’uso del codice scrittorio latino, benché sia accertato che, in alcuni casi, i testi, pacificamente di età romana imperiale, abbiano serbato lessemi paleosardi. Massimo Pittau ha proseguito nella sua ricerca riservando in vari suoi libri un capitolo relativo al rapporto fra i Sardi e la scrittura. Citiamo L’iscrizione nuragica in lettere latine del nuraghe Aidu Entos, del 1994, Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi, del 1993, o ancora La scrittura presso i Sardi Nuragici del 2007. Più recentemente lo studioso ha offerto, nel proprio sito web, un ampio saggio sulla problematica in questione. Le argomentazioni del Pittau si basano sul supposto che i Nuragici abbiano adottato di volta in volta codici scrittori esterni per la propria lingua: si tratta del geroglifico egiziano, di un sillabario egeo, dell’alfabeto fenicio, di quello greco, etrusco e latino, poiché non è mai esistita una «scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica, ma i Sardi avrebbero adottato i codici scrittori delle società che entravano in rapporto con essi»:
Poiché l’iscrizione fenicia di Nora non ha trovato sinora una traduzione neppure lontanamente condivisa dai semitisti, non è inverosimile che questa divergenza di opinioni sia la conseguenza del fatto che l’iscrizione in realtà porti un messaggio in lingua nuragica. A questa supposizione siamo spinti anche dal fatto che nell’iscrizione figura certamente anche il nome della Sardegna o dei Sardi (SHRDN). La medesima considerazione è da farsi rispetto ad alcune altre iscrizioni in alfabeto fenicio, per le quali esiste fra gli interpreti forte divergenza di opinioni.
All’epoca della conquista cartaginese della Sardegna (ultimi decenni del VI sec. a.C.) i Sardi si sarebbero alleati con i Sibariti, come testimonierebbe la tabella dei Serdaioi rinvenuta a Olimpia, e ai Serdaioi si dovrebbero ascrivere le emissioni monetali con legenda Serd in alfabeto acheo e le più tarde monete con la legenda Sardoi. In tale torno di tempo i Sardi avrebbero adottato per le proprie iscrizioni un alfabeto greco.
Alla fine della loro indipendenza e ormai sotto la dominazione dei Romani, i Sardi Nuragici fecero uso anche dell’alfabeto latino per comunicare i loro messaggi in lingua nuragica. Lo dimostra una iscrizione in caratteri latini che si trova nell’architrave del nuraghe di Aidu entos di Bortigali, però purtroppo quasi completamente illeggibile, perché la pietra è stata corrosa dal tempo. In alfabeto latino sarebbero state redatte altre iscrizioni nuragiche come quella della navicella nuragica a testa di antilope già nell’Antiquarium Arborense di Oristano e una epigrafe incisa sulla stele di una tomba di giganti presso Santa Teresa di Gallura.
Inoltre sono da citare, come esempi di messaggi nuragici scritti però in alfabeto latino, le due tabellae defixionis di piombo, rinvenute nel villaggio nuragico di Linn’arta di Orosei ed ora sistemate nel Museo Archeologico di Nùoro: le lettere sono sicuramente latine, ma dei vocaboli quasi nessuno si può spiegare col lessico latino, mentre almeno uno, ripetuto tre volte, è sicuramente nuragico, NURGO, il quale corrisponde sorprendentemente al toponimo odierno Nurgòe di Irgoli (villaggio confinante) e al mediev. Nurgoi (CSPS 190). Infine è probabilmente un sesto esempio di iscrizione nuragica scritta in caratteri latini, quella incisa in un masso che si trova nei pressi del piccolo nuraghe che è vicinissino alla chiesa parrocchiale di Suni (OR) (nuovo chiarissimo esempio di sincretismo nuragico-cristiano).
Si è voluto lasciare largo spazio alle argomentazioni di Massimo Pittau sulla conoscenza della scrittura da parte dei Sardi perché esse propongono diverse tematiche sia di indole storico-filologica, sia di ambito epigrafico, sia di rilievo linguistico, sia infine di carattere metodologico. L’esistenza in Sardegna di vari documenti, sicuramente antichi, provvisti di diversi codici scrittori è un dato di estremo rilievo, ma esso deve essere confrontato con il contesto di rinvenimento, ove noto, espresso in ‘unità stratigrafica’. In tale caso il contesto potrà definirsi in termini storici integrali. Per quanto concerne gli oxhide ingots si deve rimarcare, in sintonia con le analisi archeometriche effettuate anche sui lingotti oxhide della Sardegna che rimandano al rame dei monti Troodos a Cipro, che il complesso dei segni dei lingotti in Sardegna possono inquadrarsi fra i sillabogrammi del Cipro-Minoico. I due testi in geroglifico egiziano, a parte gli scarabei, rinvenuti a Tharros (placchetta con la triade tebana) e ad Assemini,non possono assegnarsi tout court a età del bronzo, ma vanno riportati ad artigianato egizio di età romana (Tharros), e a importazione dall’Egitto, in età indeterminata (cartaginese? romana?), di una iscrizione geroglifica, in considerazione del contesto romano, non nuragico del rinvenimento (Assemini). Per quanto concerne le iscrizioni fenicie della Sardegna, esse non sono le più numerose dell’Occidente, ma il loro rinvenimento in ambito urbano o santuariale depone a favore della loro pertinenza a un codice linguistico fenicio (o punico dal tardo VI a.C.). Il discorso vale in primis per la stele di Nora, per la quale, nonostante i complessi problemi di lettura, non si vede assolutamente la possibilità
di individuarvi un testo espresso in codice linguistico paleosardo, a parte un toponimo o antroponimo75 ngr che potremmo considerare paleosardo, sia o meno identificabile con il toponimo Nora. La documentazione numismatica ed epigrafica greca evocata da Massimo Pittau deve essere puntualmente analizzata: attualmente la maggioranza degli studiosi esclude un rapporto fra i Sardonioi (Sardi) e i celeberrimi Serdaioi del trattato con Sibari di Olimpia, mentre, con Lello Greco e Mario Torelli, si riconosce in essi una tribù indigena sulla costa tirrenica della Calabria, garantita dalla sub colonia Poseidonia. D’altro canto il ruolo di mercenari dei Sardi nell’esercito cartaginese, attestato in Sicilia sin dal 480 a.C. a Himera, non può essere ricondotto alle coscrizioni di leva di cartaginesi di stanza nell’isola, ma deve essere considerato secondo
l’ipotesi di Giovanni Colonna nel quadro del mercenariato in area alto-tirrenica e ligure che abbraccia Sardi, Corsi, Elysici, Sordoni. Inoltre è da sottolineare la fecondità della proposta di Momigliano (ripresa da Massimo Pittau) nell’attribuzione a mercenari sardi in Sicilia della emissione monetale in argento e bronzo con testa femminilea d. con legenda Sardo sul D/ e grappolo d’uva al R/ di cui si conosce un esemplare di sicura provenienza da contrada Mòscala (Carini-Palermo), e un nuovo esemplare riconiato su una moneta punico-siceliota con cavallo in corsa. Per quanto concerne l’arcaismo, l’individuazione di una iscrizione ionica (l’antroponimo Théol(l)os) graffita sul corpo di una kotyle del Corinzio Antico (cerchia del Polyteleia Painter) del 600 a.C., a Olbia,rinvenuta in un contesto di materiale greco con alcune ceramiche d’impasto presumibilmente indigene, ha dato concretezza all’ipotesi di un insediamento greco (ionico, forse foceo) a Olbia, spazzato via dalla battaglia del Mare Sardonio. Tale dato positivo non è però utilizzabile, fino a prova contraria, per l’ipotesi dell’acquisizione da parte dei Sardi di un alfabeto greco arcaico, che semmai sarebbe stato un alfabeto ‘rosso’, euboico, nel quadro di rapporti fra Eubei (e Fenici) e Sardi a Sant’Imbenia (Alghero). In tale quadro non appare probabile l’attribuzione a evo antico e all’alfabetario ‘corinzio megarese’ per la forma del primo segno, supposto beta, delle due lettere incise sul concio dell’ingresso sopraelevato volto a nord est del bastione del su Nuraxi di Barumini. Sembrerebbe trattarsi più semplicemente di una sigla onomastica di un S(---) E(---), con S retrograda, probabilmente il cognome seguito dal nome (secondo il frequente uso dei Sardi) inciso nel XX secolo. Così pure, come già detto, non sembrerebbe plausibile l’evocazione dell’alfabeto greco per giustificare la scritta incisa su due conci ai lati dell’ingresso del nuraghe Rampinu di Orosei, utilizzante con evidenza un alfabeto latino. Quanto al codice linguistico usato è opportuno sospendere il giudizio, senza escludere che la scritta rientri nell’ambito vasto delle iscrizioni della II guerra mondiale, eventualmente cifrate. Per quanto attiene le iscrizioni etrusche in Sardegna dobbiamo fare una distinzione fra la iscrizione di Oristano, presso Othoca, una nuova epigrafe di Tharros, entrambe incise su un supporto di arenaria, il numerale etrusco su una placchetta eburnea di Nora, forse un’iscrizione sulcitana, lo scarabeo tharrense con la scritta tulus, in lettere retrograde (se non è latina) e la gemma tharrense appartenente all’Antiquarium Arborense (collezione Efisio Pischedda) con un testo etrusco, impaginato su due linee e trafugata nel 1966, evidentemente concernenti il rapporto fra gli Etruschi e i Fenici prima e i Cartaginesi poi delle suddette città, e i rinvenimenti dell’area interna dell’isola, in particolare l’area di Allai- Bidonì, in cui il moltiplicarsi della scoperta di testi in alfabeti etruschi su supporti vari (litici e fittili) denuncia una officina falsariorum che deriva le proprie iscrizioni  da originali, conosciuti in riproduzione e talora fraintesi. Resta il novero di iscrizioni in alfabeto latino, spesso scoperte dallo stesso Massimo Pittau, in varie località della Sardegna interna. L’affermazione di Pittau «alla fine della loro indipendenza e ormai sotto la dominazione dei Romani, i Sardi Nuragici fecero uso anche dell’alfabeto latino per comunicare i loro messaggi in lingua nuragica» deve essere sottoposta a verifica. Già Theodor Mommsen, a proposito dei tituli latini del territorio prossimo a Forum Traiani-Fordongianus, aveva notato che Paucis titulis ad Forum Traiani effossis adiunxi qui prodierunt in vicis vicinis item mediterraneis Samugheo, Busachi, Ula; qui si recte excepti essent, haberent utilitatem propter Sardorum genuinorum nomina a Romana consuetidine abhorrentia.
L’ipotesi che in un quadro di prevalente cultura orale i Sardi dell’area centrale abbiano adottato il codice alfabetico latino in fase imperiale per esprimere la propria lingua (che, tuttavia, era in fase regressiva a fronte del latino sin dal primo impero) appare una possibilità remota, benché le attestazioni epigrafiche di antroponimi e, eccezionalmente, di lessemi paleosardi siano in aumento in particolare nei territoria di Aquae Ypsitanae / Forum Traiani, Vselis e Valentia.
V. Le ‘tavolette di Tziricottu’ e la‘scrittura nuragica’ nell’opera di G. Sanna
Nell’ultima parte del suo intervento su I Sardi nuragici e la scrittura Massimo Pittau introduce il proprio giudizio sull’opera di Gigi Sanna sulla ‘scrittura nuragica’, giungendo alla conclusione che l’autore sia stato fuorviato da alcuni falsi, anche perché, aggiunge, «stanno pure spuntando come funghi le “scritte” sui nuraghi». L’opera di Gigi Sanna, apprezzato professore di Greco e Latino nel Liceo-Ginnasio De Castro di Oristano (1967-1998), attualmente docente presso l’Istituto di Scienze Religiose dell’Arcidiocesi di Oristano, collegato alla Facoltà teologica della Sardegna, di Storia della Chiesa antica e di Storia della Chiesa in Sardegna, spazia dalla storia della Sardegna giudicale, alla omiletica in lingua sarda, alla letteratura sarda, alla problematica ‘scrittura nuragica’. Quest’ultimo ambito è stato analizzato dapprima insieme a Gianni Atzori nel libro Omines, quindi, dopo la scomparsa del coautore, dal solo Gigi Sanna nel volume Sardoa grammata, e nei successivi I segni del Lossia cacciatore, La stele di Nora, in numerosissimi interventi su blog e in varie riviste.
Dell’amico Gigi Sanna come studioso di antichi alfabeti, soprattutto di quelli orientali. È raro incontrare, anche a livello accademico, colleghi che nel detto settore siano all’altezza di Gigi Sanna. Però ritengo che purtroppo egli sia caduto nei raggiri di qualche falsario e inoltre si sia fatto fuorviare nelle sue interpretazioni da suggerimenti sbagliati datigli da qualche suo collega molto meno valido di lui in termini scientifici. Venendo al caso specifico delle cosiddette ‘Tabelle’ di Tziricotu, dico che mi ha convinto Paolo Benito Serra, il quale ha sostenuto e dimostrato che quelle Tabelle non sono altro che «matrici in bronzo di
tipo bizantino-mediterraneo […] utili per la produzione in serie di guarnizioni di finimenti equini e di linguelle e pendenti di cinture multiple da parata, decorate in un caso e nell’altro con motivi ornamentali a punti e a virgole». E mi ha pure convinto Rubens D’Oriano, quando, in un dibattito pubblico tenutosi qualche mese fa a Sassari con Gigi Sanna, ha affermato che i segni delle Tabelle di Tziricotu non possono essere considerati segni di ‘scrittura’, dato che, dividendo in senso verticale la rispettiva figura, le due parti sono ‘speculari’, ossia combaciano perfettamente l’una con l’altra. E questo – a mio avviso – non succede né può succedere in nessun alfabeto o scrittura che preveda la corrispondenza della ‘successione spaziale’ delle lettere scritte con la ‘successione temporale’ dei fonemi pronunziati. Purtroppo anche in Sardegna stanno circolando i falsari di reperti archeologici e stanno pure spuntando come funghi le ‘scritte’ sui nuraghi. Qui mi permetto di suggerire all’amico Gigi Sanna di stare bene in guardia rispetto agli uni e rispetto alle altre. Del resto è certo che Gigi Sanna non è stato il primo né sarà l’ultimo ad essere ingannato da falsari: qualche decennio or sono fece molto scalpore il fatto che il noto critico d’arte Giulio Carlo Argan avesse dichiarato come opera di Amedeo Modigliani autentica una testa in pietra, che invece due studenti dimostrarono di aver scolpito loro col trapano elettrico…».
Lo studio sulla ‘scrittura nuragica’ ha preso le mosse dalla scoperta delle ‘tavolette’ di Tziricottu (Cabras), ritenute sigilli nuragici inscritti, presentate sulla base dei cinque calchi in gesso sia nel primo volume di Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura, sia nella citata opera Omines. Di questi cinque calchi è, finora, comparso nel 1998 un unico esemplare in bronzo, consegnato dall’inventore Andrea Porcu di Cabras allo scrivente, in qualità di Direttore dell’Antiquarium Arborense, e dallo stesso rimesso alla Soprintendenza per i beni archeologici di Cagliari e Oristano. Chi scrive, dopo un iniziale tentativo di interpretazione dei calchi in chiave cipro-sillabica, espresse riserve sull’antichità dell’unico manufatto disponibile, mentre oggi ritiene plausibile, seguendo l’interpretazione di Paolo Benito Serra, 105 che l’unico esemplare in bronzo noto sia un mòdano per lamelle metalliche a decoro geometrico e fitomorfo simmetrico che fungevano da guarnizione per l’abbigliamento e l’equipaggiamento di personaggi di rango della società sardobizantina. In assenza degli originali degli altri tre calchi (essendo stato appurato che il calco 2 delle ‘tavolette’ di Tziricottu costituisce una copia del calco 4 delle stesse ‘tavolette’) risulta aleatoria ogni valutazione dei medesimi, tenuto conto che è evidente agli stessi editori il carattere di base di partenza per i calchi 3-4-5 della ‘tavoletta’ in bronzo 1. Appare altrettanto indubbio che i calchi 3-4-5 rechino, sulla base di partenza del bronzo 1, grafemi di codici scrittori vicino-orientali.
In particolare il calco 3 reca (da sinistra a destra come nella maggior parte dei testi cuneiformi ugaritici) grafemi cuneiformi ugaritici, in cui si rileva la sequenza dell’8°-9°-10° segno dell’‘alfabeto’ ugaritico, seguita dal trentesimo (e ultimo) grafema dello stesso ‘alfabeto’. Nel calco 3 appare il ‘segno di Tanit’ mentre nel calco 4 una incisione solo parzialmente riconducibile allo stesso ‘segno di Tanit’, ma che sarebbe formato dai grafemi H Y W. Secondo G. Sanna nelle ‘tavolette’ di Tziricottu si individuano, inoltre, segni ispirati ai codici scrittori protosinaitico, protocananaico e gublita. In realtà i grafemi sussistono, come si è detto, esclusivamente nei calchi 3-4-5, impostati sul sistema decorativo del bronzo Tziricottu 1, per cui allo stato e in attesa che gli eventuali originali bronzei vengano alla luce appare più probabile a chi scrive una produzione moderna dei calchi, successiva alla scoperta nel 1929 a Ras Shamra dei primi testi ugaritici.
Contra G. SANNA, Sardoa grammata, Oristano 2004, pp. 85-179; A. LOSI, Le tavolette-sigillo di Tziricotu e la questione medievale, in «Monti Prama. Rivista semestrale di Quaderni Oristanesi», 62 (2011), p. 17, fig. 2, che evidenziano la presenza nella ‘tavoletta’ 1 di Tziricottu di un grafema protosinaitico w, corrispondente al segno 15 dell’iscrizione protosinaitica 357 di B. SASS, The Genesis of the Alphabet and its Development in the Second Millennium B.C., Wiesbaden 1988, p. 50. Il grafema appare puntiforme e potrebbe appartenere al sistema decorativo dell’oggetto, benché ne alteri il carattere simmetrico, ma non può escludersi un intervento seriore all’originario schema decorativo.
L’analisi delle testimonianze della ‘scrittura nuragica’ non si arresta alle «tavolette» di Tziricottu ma si amplia a varie categorie di oggetti iscritti, che potremmo schematizzare nel modo seguente, pur rinunciando all’esaustione negli exempla di ciascuna categoria:
A) Nuraghi o monumenti presuntivamente nuragici con iscrizioni
1) Abbasanta (nuraghe Aiga): «iscrizione in protocananeo»; 2) Abbasanta (nuraghe Zuras): iscrizione «nuragica in alfabeto lineare»; 3) Barumini (nuraghe su Nuraxi): «iscrizione protocananaica»; 4) Bortigali (protonuraghe Aidu Entos): iscrizione «in caratteri latini ma con testo composto da lessemi sia nuragici, sia strettamente semitici che latini »; 5) Orosei-Onifai (nuraghe Rampinu): iscrizione «nuragica greco-etrusca».
B) Manufatti fittili inscritti 6) Alghero, Palmavera: fusaiola fittile con iscrizione nuragica; 7) Alghero, Sant’Imbenia:
sigillo-scaraboide con iscrizione sulla base in «caratteri paleocananei-gublitiugaritici »; 8) Arzachena, Capanna delle Riunioni di La Prisgiona: vaso con «dodici pittogrammi acrofonici»; 9) Mogoro, loc. Serra sa Furca: «coccio nuragico con dei caratteri cuneiformi [di tipologia non specificata] incisi»; 10) Orani, località sconosciuta:
frammento di una ciotola (nuragica), con «tre linee di scrittura di tipologia fenicia arcaica », con tredici grafemi fenici post coctionem che rispondono alla sequenza di lessemi della prima e seconda linea, della quarta e della quinta linea della stele di Nora, di cui ripetono le peculiarità paleografiche; 11) Pozzomaggiore, frammento in ceramica con un testo impaginato su sei linee superstiti, articolato in «22 segni in alfabeto nuragico […] d’ispirazione pittografica orientale ‘protosinaitica’ […] e ‘protocananaica’» con anche «i caratteri ‘sardi’: yod, he»; 12) Teti (forse insediamento nuragico S’Urbale): lucerna a barchetta fittile con segni «di tre sistemi di scrittura protosinaitico, proto cananeo e sardo»; 13) Villagrande Strisaili, Santuario di S’Arcu ‘e sos Forros: anfora fenicia «con iscrizione nuragica-cananaica, [presentante fra gli altri] due segni proto sinaitici e poi protocananaici della zayn, i due segni dell’‘aleph e del nun pittografici (ugual mente protosinaitici e poi protocananici), [… e il] segno strano a ‘pugnaletto nuragico’».
C) Manufatti litici inscritti
14) Abbasanta, presso il nuraghe Aiga «iscrizione con lettere e pittogrammi»; 15) Abbasanta, presso il nuraghe Pitzinnu: «pietra ‘altare’ con numerosi segni di scrittura protosinaitica, protocananea e gublitica»; 16) Aidomaggiore, presso nuraghe Sanilo: «iscrizione nuragica di natura pittografica e lineare»; (Nota 1) 17) Allai, loc. Pranu Antas: ciondolo ellittico con foro pervio a una estremità con «iscrizione in caratteri fenici arcaici, scrittura ‘logo-pittografica’ e scrittura ‘numerica’»;(Nota 2) 18) Allai, S’isca de su Nurachi: «Iscrizione nuragica-etrusca, in caratteri latini ed etruschi;(Nota 3) 19) Barisardo: «stele nuragica in protocananaico»; 20) Bosa: «concio nuragico della chiesa di S. Pietro extra muros (località Santi Jacu) […] contenente, oltre alla scrittura pittografica e ideografica, 7 segni di scrittura lineare, i primi quattro recanti la sequenza šrdn e i rimanenti la sequenza yhw»; 21) Bosa, frammento di stele: «[iscrizione] in lingua nuragica [?] [con] caratteri fenici arcaici»; 22) Nora, stele I: «documento in caratteri di tipologia fenicia e in lingua semitica ma con tenore attinente alla antica religione sarda ‘nuragica’ »; 23) Nora frammento di stele II: «[iscrizione] in lingua nuragica [?] [con] caratteri fenici arcaici»; 24) Laconi e Samugheo: «stele tombali scritte […] caratteri gubliti- paleocananei-nuragici, XVI-XV sec. a.C.»; 25) Paulilatino, presso Perdu Pes: «due massi inscritti […] recanti segni di scrittura riconducibili anch’essi a tipologie di tipo protosinaitico e protocananeo»; 26) San Giovanni Suergiu, necropoli a domus de Janas di Locci Santus: brassard dell’Eneolitico tardo-inizi Bronzo antico, con «caratteri di scrittura d’ispirazione protosinaitica»; 27) Solarussa, loc. sconosciuta: «‘ciondolo’ […] recante segni di scrittura riconducibile a note tipologie di scrittura sinaitica»; 28) Terralba: pietra basaltica di forma ellissoidale con «segni della scrittura, in numero di cinque, [che] procedono con lettura dall’alto verso il basso e sono composti da un ’aleph, da un gimel, da un h􀇤, da un nun e infine da un lamed. Dei cinque segni il ’aleph e il nun sono pittografici, gli altri tre sono schematici ‘lineari’»; 29) Uras, tomba a corridoio nuragica di Su cungiau de is Mongias a nord del nuraghe Domu Beccia: «‘nuraghetto’» con «10 segni del codice scrittorio gublita»; 30) Zeddiani: «pietra (altare) in arenaria […] con canaletta divisoria [per il sangue dei sacrifici] e lettere proto cananee ».
D) Manufatti enei inscritti
31) Sinis: navicella sarda già nell’Antiquarium Arborense-Oristano con «iscrizione protocananaica»; 32) San Vero Milis, Loc. Su Pallosu: «Anello sigillo con 36 lettere alfabetiche […] caratteri paleocananei»; 33) Villaputzu, nuraghe complesso del Monte del Castello di Quirra: «sigillo del Dio Toro Padre Shrdn di Quirra […] caratteri paleo cananei »; 34) Villaverde: «Fibula bronzea con il ‘capovolto’ […] caratteri paleocananeigubliti- sardi».
E) Manufatto in piombo inscritto 35) Sant’Antioco (Sulci): dischetto in piombo «con caratteri fenici arcaici […] X-IX sec. a.C. [in] lingua nuragica». F) Manufatto in oro inscritto 36) Santadi, Su Benatzu, grotta santuario nuragica di Pirosu: laminetta aurea «con segni di scrittura molto arcaica (di ispirazione protosinaitico/protocananea)».
La notevole quantità di documenti relativi alla ‘scrittura nuragica’, accumulata in un breve volgere di anni, invita ad alcune osservazioni metodologiche: 1) il contesto di rinvenimento del documento inscritto, inteso come unità stratigrafica di cui il documento è componente artificiale, appare il criterio fondamentale per un inquadramento dello stesso in un ambito culturale e cronologico. In assenza del dato di contesto l’inquadramento del documento inscritto prevederà, in primis, la datazione archeometrica e archeologica del supporto; in secondo luogo l’analisi del codice scrittorio e del codice linguistico da esso sotteso; 2) il supporto scrittorio, sia esso monumentale (ad esempio un nuraghe), sia esso un manufatto mobile (un vaso, una fusaiola, etc.), offre, attraverso la sua datazione con criteri archeometrici e archeologici, un terminus post quem per il testo, a eccezione del caso in cui il testo sia contemporaneo al manufatto (è il caso delle
iscrizioni ante coctionem dei fittili). Il testo può essere successivo al supporto ed essere pertinente a una cultura differente da quella che realizzò il supporto medesimo. Tale criterio è da prendere in considerazione anche in rapporto all’aggiunta di un testo epigrafico moderno a un supporto antico;
3) un codice scrittorio noto consente la lettura di un testo, sia che esso pertenga a un codice linguistico conosciuto o a un codice linguistico sconosciuto. Un codice scrittorio sconosciuto non consente la lettura di un testo, ma ove i segni e i gruppi di segni di cui è composto siano attestati migliaia di volte è possibile avviare un processo di decifrazione. Si noti per inciso che i 242 segni del disco di Festòs, i 2900 segni della scrittura geroglifica cretese, i 3700 segni delle scritture in cipro minoico (CM 0, CM 1, CM 2, CM 3), i 7500 segni della scrittura lineare A non sono stati finora sufficienti per un processo di decifrazione di tali codici scrittori, mentre i 30.000 segni della Lineare B furono sufficienti a Michel Ventris nella sua opera di decifrazione dei sillabogrammi della scrittura Lineare B, che rivelarono il suo utilizzo nella resa della lingua greca del Medio Elladico e del Tardo Elladico. Nell’ambito delle ‘iscrizioni nuragiche’ è ricondotto un numero basso di documenti scritti di contesto noto in termini stratigrafici, ma di questi documenti antichi una buona parte è, allo stato delle conoscenze di chi scrive, pertinente a codici scrittori fenicio e punico (tra cui le due stele di Nora, la stele di Bosa, l’iscrizione su anfora di Villagrande Strisaili-S’Arcu is Forros, il dischetto in piombo di Sulci, l’iscrizione di Sanilo-Aidomaggiore) e latino (l’iscrizione dell’architrave del protonuraghe Aidu Entos-Mulargia, il blocco presso il nuraghe Pitzinnu di Abbasanta, la navicella nuragica già nell’Antiquarium Arborense) benché in alcuni casi (scritte di Aidu Entos-Mulargia e Sanilo-Aidomaggiore) tali documenti possano testimoniare, in età punica e romana, antroponimi e lessemi paleosardi. L’analisi del supporto di numerosi testi e le relative tecniche scrittorie rivelano, a giudizio di chi scrive, da un lato l’aggiunta recenziore su supporti vari anche antichi (Nota 4) di grafemi (tratti sia da repertori, sia dalla celebre stele di Nora (ripresa ad verbum dal ‘testo’ di Orani e dal ‘testo’ di Allai), (Nota 5) di vari codici scrittori (Nota 6)  (reinterpretati come protosinaitici, protocananaici, gubliti, fenici e ‘sardi’), dall’altro la cronologia medievale (alto e basso medievale) di manufatti sia anepigrafi (concio con aquila di S. Pietro di Bosa, fibula bizantina di Villaverde), sia inscritti (anello di Su Pallosu con iscrizione islamica). Inoltre se si considerano portatrici di un testo scritto «in caratteri gubliti- paleocananei-nuragici, del XVI-XV sec. a.C.» le statue menhirs di Laconi e di Samugheo155 è necessario dimostrare, con dati archeologici, che la cronologia delle stesse all’eneolitico di Abealzu e Filigosa del principio del III millennio a.C. sia errata, ma in tale caso ci si troverà a fare i conti con il riutilizzo delle statue stele spezzate in nuraghi di Laconi, Senis o in tombe megalitiche come quella di Aiodda- Nurallao. Si lasciano da parte i sigilli-scarabei con testi geroglifici, individuati in contesti urbani fenici e cartaginesi, a parte i limitatissimi aigyptiakà di ambito indigeno (S. Imbenia-Alghero, Nurdole-Orani, Monte Prama-Cabras e S’Arcu e is Forros-Villagrande Strisaili), per i quali non appare allo stato delle conoscenze un intervento di intagliatori sardi (indigeni) che avrebbero inciso in essi iscrizioni che rimanderebbero a concetti religiosi e a lessemi nuragici in scrittura protocananaica. Nel corpus dei manufatti, sicuramente antichi, dotati presuntivamente di iscrizioni, vi è da fare una distinzione fra oggetti (quali il frammento di un vaso a cestello di cultura Ozieri nel neolitico finale di Serra ‘e sa Furca, il pendente di Solarussa,  la laminetta d’oro di Su Benatzu, il vaso di Sa Prisgiona-Arzachena), per i quali chi scrive ritiene assente una notazione di un codice scrittorio, e un’altra serie di manufatti (c.d. ‘nuraghetto’ di Uras, scarabeo di Sant’Imbenia, e frammento ceramico di Pozzomaggiore), di differente cronologia, in cui si evidenzia, con maggiore o minore probabilità, l’uso di un codice scrittorio. Purtroppo non pare definibile la questione sulla base delle immagini fin qui edite per il frammento ceramico di Pozzomaggiore per il quale sembrerebbe, comunque, più plausibile un’ascrizione al corsivo neopunico. Per lo scarabeo di Sant’Imbenia si ribadisce il quadro stratigrafico che impedisce una cronologia ante 800 a.C., dato che autorizza l’ipotesi, già emessa da Rubens D’Oriano, dell’utilizzo di segni di scrittura alfabetica fenici da parte di un sardo, in base all’ascrizione del sigillo a bottega indigena per il tipo di argilla utilizzata. Differente è il caso del ‘nuraghetto’ di Uras che si rivela una fusaiola troncoconica in steatite con una sequenza incisa di sillabogrammi presumibilmente ascrivibili al Cipro Minoico 1, che consentono di verificare la circolazione a livello di XII/ XI sec. a.C. presso la comunità nuragica di Domu Beccia-Uras di un oggetto, di manifattura cipriota, che recava segni di scrittura. La ‘griglia di Sassari’ della scrittura nuragica si basa sul complesso dei segni individuati sui manufatti presuntivamente dotati di iscrizioni, ma non appare giustificata da elementi probanti, in quanto basata, secondo l’opinione dello scrivente, sull’interpretazione di segni su documenti incerti o non antichi. Non condivisibile, per lo scrivente, è l’affermazione di un codice scrittorio nuragico che esprimerebbe una lingua in cui le componenti sarebbero ipoteticamente indoeuropea e semitica, in totale contrasto con i quadri del paleo sardo ricostruiti, sulla base della toponomastica e di qualche residuo lessicale fossile serbato dalle fonti classiche e dal sardo neolatino, da maestri del calibro del Wagner e dell’Hubschimid, e affinati dalle analisi di Emidio de Felice, Giulio Paulis, Edoardo Blasco Ferrer e dalla loro scuola. Si aggiunga che il limite cronologico più alto invocato per i documenti scritti nuragici (XVI sec. a.C.) non è giustificato dai rapporti fra la Sardegna e il Vicino Oriente mediterraneo attestati, su base archeologica, non prima del XII secolo a.C., mentre anche se si ammetta una migrazione degli Sherden in Sardegna, questa non è ipotizzabile antecedentemente lo stanziamento in Egitto e in area siro-palestinese degli stessi Sherden. In tale ambito non si comprende come sarebbe pervenuto il codice scrittorio protosinaitico e il codice scrittorio protocananaico alla base del presunto codice scrittorio nuragico sin dal XVI secolo o addirittura nella I metà del II millennio a.C., né si vede, allo stato delle nostre conoscenze, sulla base della documentazione materiale, la possibilità di un rapporto fra gli Israeliti (già stanziati nel paese di Canaan ante 1207 a.C., data della attestazione di Israel in Canaan nella stele di Merneptah) e la Sardegna. La presenza di un tempio definito tout court ‘cananeo’ nel Sinis di Cabras, a nord del nuraghe Su Nuraxi, non pare costituire una prova al riguardo, poiché l’edificio, potrebbe
appartenere alla serie di tempietti a megaron della cultura sarda della prima età del ferro. Un discorso a parte, da affrontare ex novo, meritano i segni astiformi profondamente incisi su elementi strutturali di edifici antichi, quali il nuraghe Losa- Abbasanta, il nuraghe Succoronis-Macomer, ipotizzate iscrizioni da Ettore Pais, Massimo Pallottino e, fra gli altri, da Gianni Atzori e Gigi Sanna. Se per essi rimarcassimo la filiazione da scritture iberiche, in particolare celtiberiche, come sostenuto da Pais, Pallottino e Lilliu, saremmo ricondotti a un ambito cronologico tardivo, non anteriore all’epoca tardo repubblicana, elemento che accrediterebbe la pertinenza delle stesse a soldati iberici nell’esercito romano, secondo l’ipotesi di Giovanni Lilliu, estesa alla iscrizione iberica di Karales. Va detto peraltro che almeno in un caso (sequenza di segni astiformi di un concio della struttura naviforme presso il nuraghe Santa Cristina-Paulilatino) è stata proposta da Ferruccio Barreca una interpretazione in ambito corsivo neopunico. Terminata l’analisi dei documenti principali portati a sostegno della tesi dell’esistenza di una ‘scrittura nuragica’, è doveroso rimarcare l’acrimonia dei ricercatori che sostengono l’esistenza di tale scrittura indirizzata verso il mondo accademico e le Soprintendenze per i Beni Archeologici, anche da parte di chi allo stesso mondo accademico appartiene, per le presunte nefandezze perpetrate nei confronti della ‘scrittura nuragica’. La differenza di interpretazioni, se sostenuta da una rigorosa metodologia, è elemento dialettico nella ricerca scientifica. D’altro canto, sul piano storiografico, si deve ricordare che la ricerca scientifica sui grafemi alfabetici e sugli aritmogrammi in ambito sardo (essenziamente della prima età del ferro e della fase orientalizzante) è stata fondata da Giovanni Ugas della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano e, successivamente, dell’Università di Cagliari, a partire dalle sue ricerche di Monastir-Monte Olladiri, sin dal 1967. Sulla tematica aperta da G. Ugas si sono soffermati vari autori, fra cui, a proposito dei valori ponderali, C. Zaccagnini, M. Ruiz-Gálvez, F. Lo Schiavo e N. Ialongo e relativamente ai segni di scrittura P. Bernardini (cui va il merito, fra l’altro, della edizione dello spillone eneo sardo con iscrizione da Antas), P. Bartoloni, M. Minoja, A. Depalmas e chi scrive. Non esiste dunque un tabu relativo alle problematiche inerenti l’assunzione o meno della scrittura da parte della cultura dei Sardi. Di conseguenza chi scrive non intende opporre ai ricercatori quali G. Atzori, G. Sanna, A. Losi, che si sono soffermati da lunghi anni sul problema della ‘scrittura nuragica’, alcun vieto principio dell’‘auctoritas’ accademica (Nota 7): in considerazione del valore probabilistico della scienza storica lo scrivente ritiene del tutto improbabile il sistema ricostruttivo della ‘scrittura nuragica’, ma come insegnava Henry-Irenée Marrou, citando Sant’Agostino: fonte dell’errore sarà sempre questa ipotesi falsa e non l’essere stesso del documento: se siamo ingannati non è ex eo quod est, bensì ex eo quod non est.
VI. Il problema della circolazione di documenti inscritti orientali nel Mediterraneo centrale
e occidentale durante l’età del bronzo Onde chiarire i modi e i tempi delle attestazioni dei grammata nell’ambito della cultura sarda della prima età del ferro è necessario evidenziare la differenza, nel Mediterraneo centrale e occidentale, tra l’età del bronzo, in cui eccezionalmente sono attestati documenti inscritti di provenienza orientale, e la prima età del ferro, durante una fase avanzata della quale riconosciamo la diffusione di segni di codici scrittori, che tocca anche la Sardegna. Le nostre attuali conoscenze sulla ‘nascita della scrittura’ in ambito mediterraneo ed europeo attestano il focus dell’acquisizione di codici scrittori, esclusivamente nel settore orientale, da parte delle culture egiziana (intorno al 3150 a.C.), mesopotamiche (fine IV millennio a.C.), ittita (luvio geroglifico), ed egee. Per quest’ultime è nota la seguente scansione: (Creta): lineare A (XIX-XIV sec. a.C.); geroglifico cretese (XVIII-XVII sec. a.C.); Grecia: lineare B (XVII sec. a.C.-fine XIII sec. a.C.); Cipro: Cipro Minoico(CM) 0 (Enkomi), CM1(XVI-XI sec. a.C.), CM 2 (Enkomi) (fine XIII-inizi XII sec. a.C.), CM 3 (Ugarit). L’ipotesi dell’esistenza di ‘protoscritture’ neolitiche ed eneolitiche nel Mediterraneo e nell’Europa continentale, in particolare balcanica (cultura di Vinca), è, generalmente, riconosciuta come non attendibile o improbabile. Per quanto concerne la presenza di documenti inscritti, di provenienza egiziana, mesopotamica, vicino orientale ed egea in contesti della seconda metà del II millennio a.C. nel Mediterraneo centrale e occidentale, ossia in un ambito del Bronzo medio, tardo e finale, dobbiamo riconoscere che essa è del tutto sporadica e tale da non consentire l’ipotesi di una capacità interpretativa dei codici scrittori da parte dei recettori degli oggetti inscritti (Nota 8):
1) Malta. Santuario di Tas-Silg
Frammento di crescente lunare in agata muschiata con iscrizione cuneiforme babilonese, rinvenuto nel 2011.
2) Sicilia.
Isole Eolie
Ceramiche della cultura di Capo Graziano (Bronzo antico) e della cultura del Milazzese (Bronzo medio) con segni grafici (c.d. ‘scrittura eoliana’). Il repertorio grafemico, nell’ambito delle ceramiche della cultura di Capo Graziano, è estremamente limitato ai ‘segni cruciformi’e ai ‘segni puntiformi’ e ‘curviformi’, attestati una trentina di volte. Molto più vasto è il segnario della cultura del Milazzese che annovera circa 200 attestazioni con 69 segni, in taluni casi in serie di due e tre segni associati. Allo stato delle conoscenza non pare stabilita una connessione fra il «sistema grafico eoliano e procedure di controllo sull’accumulo e l’immagazzinamento» (M. Marazzi).
Cannatello
Tre anse di anfore di tipo miceneo, edite da Ernesto De Miro, rivelano dei potmarks derivati dai sillabogrammi del Cipro minoico.
3) Rieti. Campo di Santa Susanna
Due frammenti di tavoletta fittile con segni di tipo ‘pseudo-geroglifico’ di Biblo, rinvenuti nel 1928-1929, in un contesto di cultura subappenninica.
4) Cupra Marittima
Sigillo-amuleto rettangolare egizio-filisteo con una iscrizione geroglifica sul lato B e una iscrizione probabilmente filistea sul lato A. (Nota 9)
5) Trieste. Caverna del Frassino (Altopiano del Carso fra Villa Opicina e Fernetti) Tavoletta fittile, ricomposta parzialmente da due frammenti, con testo inciso ante coctionem in scrittura lineare, impaginata su linee. La tavoletta fu scoperta nel 1949 nel corso di uno scavo archeologico, curato dal Gruppo Triestino Speleologi, nella galleria A della caverna del Frassino. Riconosciuta come tavoletta inscritta con un codice scrittorio lineare da L.A. Stella, Direttore del Gruppo di Ricerca per gli studi micenei del CNR (Università di Trieste), fu edita preliminarmente da Fausto Gnesotto sulla rivista «Kadmos», con gli esami chimico-fisici e con l’analisi della termoluminescenza, che ne assicurò l’ascrizione all’‘antichità’. La tavoletta è stata ascritta ad ambito levantino da Giovanni Garbini, che ha notato per i segni scrittori una connessione con gli ‘pseudo-geroglifici’ di Biblo e per la sottolineatura di alcuni caratteri un rapporto con i sillabogrammi cipro-minoici. Brian Colless, nel suo studio The Canaanite Syllabary, a proposito della tavoletta di Trieste, ha sostenuto la possibile relazione dei segni con i sillabogrammi cananaici, pur non potendo determinare se il codice linguistico espresso dalla tavoletta sia semitico.
6) Corsica. Revinco-Sant’Anastasia-Mariana
Oxhide ingot integro presumibilmente pertinente all’ambito di un approdo protostorico interrito dagli apporti del fiume Golo. Sul lingottodi Mariana è inciso a punta di scalpello sul metallo caldo un segno a croce che potrebbe rimandare al sillabogramma 005 del Cipro Minoico 1-2-3.
7) Sardegna
I Sardi del Bronzo tardo e del Bronzo finale entrarono in contatto, con certezza, con culture in possesso di codici scrittori: in particolare con la cultura minoica del Tardo Minoico III B e C (presenza di ceramiche sarde del XIV sec. a.C. a Kommos, Creta meridionale e ceramica cretese a Antigori-Sarrok), con la cultura Elladica sin dal Tardo Miceneo III A 2 e soprattutto del Tardo Miceneo III B (materiali micenei di Tharros, nuraghe Arrubiu-Orroli, territorio di Nora, Decimoputzu per il Tardo Miceneo III A2 e materiali micenei di Sarrok-Nuraghe Antigori e di numerose località della Sardegna per il Tardo Miceneo III B. La diffusione in Sardegna del materiale ceramico del Tardo Miceneo III C potrebbe porre un diverso problema interpretativo in quanto tali ceramiche, documentate in Sardegna, furono prodotte soprattutto a Cipro e in area siro-palestinese. Recenti analisi archeometriche hanno documentato inoltre la presenza di un vaso nuragico (un contenitore con anse a gomito rovescio) a Pyla-Kokkinokremos, un centro fortificato cipriota, nell’entroterra del golfo di Làrnaka (Kition), vissuto mezzo secolo fra il 1200 e il 1150 a.C. e di uno spiedo articolato della tomba 523 di Amatunte del CG I, analogo a uno spiedo atlantico del ripostiglio di Monte Sa Idda (Decimoputzu- Sardegna sud occidentale) e ai vari esemplari del Bronzo finale Atlantico (fase
III).In Sardegna, d’altro canto, abbiamo una chiara evidenza di bronzi di manifattura o di modello cipriota del TC III B o, meglio, del CG I (in particolatre i tripodi attestati a Ittiri (S. Maria in Paulis), Serri (S. Vittoria), Villagrande J.-P. OLIVIER (avec la  Strisaili (S’Arcu ‘e is Forros), collezione privata di Oristano (forse da Siniscola),  Solarussa-San Vero Congius, Oristano (San Giovanni dei Fiori?), Cabras (Sinis), Samugheo, Santadi (Su Benatzu), di attrezzi per la fusione del metallo di ‘matrice culturale’ cipriota, di oxhide ingots anche con marchi ciprominoici.
Venendo al quadro storico in cui si inseriscono i rapporti fra Cipro e la Sardegna dobbiamo considerare che Cipro nel secolo XIII non subì l’ondata prolungata di distruzioni che interessarono la Grecia continentale, l’Anatolia, il Vicino Oriente e l’Egitto, divenendo meta privilegiata di flussi micenei che portarono alla diffusione della lingua greca nell’isola, dopo i contatti del Tardo Elladico. Fra la fine del Tardo Cipriota III A e l’inizio del Tardo Cipriota III B (1200-1125 a.C.) la situazione mutò, forse in rapporto a nuovi afflussi di elementi di cultura micenea e a saccheggi da parte di pirati di varia estrazione geografica. Indubbiamente questo passaggio fu marcato da vari indicatori socio-culturali, con l’abbandono di alcune antiche città e di recenti centri fortificati (come Maa Palaikastro sulla costa ovest e Pyla-Kokkinokremos, sulla costa meridionale, presso Larnaka) e la fondazione di nuovi centri (l’esempio classico è costituito da Salamis che sostituisce la vicina Enkomi-Alashya, anche in rapporto a mutamenti della linea di costa, che avevano cancellato lo scalo portuale dell’età del bronzo). I contatti di Cipro con l’Oriente, in realtà mai venuti meno, si rafforzarono a metà dell’XI secolo, attraverso i rapporti di scambio della monarchia di Tiro con i
sovrani di Palaepaphos, sede del santuario della dea Afrodite, e anche di Amatunte e di Salamis.Tali scambi sfoceranno nella fondazione probabilmente da parte di Ithobaal re di Tiro e di Sidone (887-856 a.C.) o di un suo immediato successore, della colonia di Kition (circa metà IX sec. a.C.). Nel X secolo conosciamo l’avvio dei contatti fra Eubei, Ciprioti e Levantini (Aramei e Fenici), destinato ad aprire la rotta dei prospectors greci e orientali dell’Occidente. La rotta Cipro-Sardegna, attraverso Creta e Sicilia, sembrerebbe certamente in uso tra il XIII e il XII secolo come documentano i numerosi lingotti ‘a pelle di bue’, la cui produzione viene poi a cessare intorno alla metà del XII sec. a.C. Tuttavia lo spiedo articolato del Bronce final atlantico della tomba 523 di Amatunte, veicolato verosimilmente dalla Sardegna, ci riporta forse alla fine dell’XI secolo. All’XI-X sec. potrebbero risalire i modelli ciprioti di tripodi bronzei ampiamente attestati nell’isola. Al X secolo, se non al IX secolo dovrebbero risalire i due bacili più antichi con anse decorate a fiore di loto da Santa Anastasia di Sardara. Al livello cronologico di X e, soprattutto, di IX secolo ci appare plausibile che la continuità di rapporti fra l’isola del rame e la Sardegna, si arricchisca di altri protagonisti che si affiancano ai Ciprioti e ai Sardi: entrano in gioco i Levantini. La Sardegna era stata un ottimo ‘mercato’ del rame cipriota, che continuerà a circolare in Sardegna (e probabilmente anche a giungere nell’isola nella forma di scrap-metal (rottami)) per tutto il Bronzo finale e al principio della prima età del ferro. Tuttavia l’acquisizione della metallurgia del ferro da parte dei Ciprioti intorno all’inizio del TC IIIA (1200 a.C.) comporterà per i gestori della attività metallurgica la necessità dell’approvvigionamento dei minerali del ferro. In questo quadro potrebbe avere avuto una rilevante importanza anche la Sardegna, ricca di mineralizzazioni del ferro in aree boschive, che potevano offrire il legno necessario ai processi primari di riduzione del metallo.
L’interesse per il ferro e l’argento della Sardegna poté determinare la frequentazione di metallurghi ciprioti e levantini presso le comunità nuragiche, che detenevano quelle risorse, introdotte da meccanismi cerimoniali quali lo scambio del dono fra capi. Appare rilevante osservare che a Enkomi venga costruito nel XII secolo un santuario, utilizzato fino alla metà del secolo successivo, incentrato sul culto del ‘dio del lingotto’, uno smiting-god impostato su un oxhide ingot, a denotare il legame della produzione metallurgica con la divinità. Anche a Kition il tempio 2 del TC IIIA aveva al suo interno un opificio metallurgico che rispondeva al criterio del controllo divino dell’attività. Nella Sardegna nuragica osserviamo la prossimità di officine metallurgiche a santuari, in particolare a Villagrande Strisaili, dove è attestato il tipo di tempio ‘a megaron’. Al di là della funzionalità di un opificio per la metallurgia al servizio del santuario e dei suoi fruitori, vi è da chiedersi se non possa ipotizzarsi una influenza cipriota sull’assunzione da parte dei Sardi di una divinità (un Efesto sardo?) che assicurava il processo magico della metallurgia. La liaison tra la Sardegna e il Mediterraneo orientale e l’area levantina, documentata da una serie di elementi archeologici,235 non determinò, allo stato delle conoscenze, l’acquisizione di un codice scrittorio presso la cultura nuragica, ma segni scrittori dei sillabari cipro-minoici sono attestati su manufatti rinvenuti in Sardegna, a documentare esclusivamente la conoscenza da parte di gruppi elitari di oggetti con scrittura, i quali, in quanto tali, erano elementi preziosi agli occhi di una società basata sull’oralità. D’altro canto la presenza di una tavoletta scrittoria in legno con cerniera in avorio nella nave di Ulu Burun, della fine del XIV sec. a.C., che trasportava fra l’altro lingotti oxide, dimostra che nei luoghi dello scambio mediterraneo (quindi anche in approdi della Sardegna) poteva verificarsi da parte dei locali l’uso della scrittura. I documenti dotati di segni di scrittura (o comunque legati alle attività di scrittura), di provenienza cipriota, rinvenuti in Sardegna sono i seguenti: sette oxhide ingots, un sigillo a cilindretto e una fusaiola.
OXHIDE INGOTS CON MARCHI
Dei numerosissimi lingotti ‘a pelle di bue’ integri e frammentari rinvenuti in Sardegna otto esemplari recano marchi incisi, in parallelo con i numerosi marchi e disegni su oxide ingots del Mediterraneo ed, in particolare, dei relitti di Capo Gelidonia e Ulu Burun. Si deve rimarcare, in sintonia con le analisi archeometriche effettuate anche sui lingotti oxhide della Sardegna, rimandanti al rame dei monti Troodos a Cipro, che il complesso dei segni dei lingotti della Sardegna possa inquadrarsi preferibilmente fra i sillabogrammi del Cipro-Minoico, benché non manchino le note corrispondenze con i sillabogrammi della lineare A e della lineare B, nonché con i segnari canaaniti (proto sinaitico, tardo canaanitico e antico fenicio), che risponderebbero ai traffici di oxhide ingots prodotti in area levantina, come è dimostrato dal rinvenimento di una matrice monovalva di un oxhide ingot nel sito nord siriano di Ras Ibn Hani:
a) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 1: sillabogramma099 del CM 1, 3
b) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 2: sillabogrammi 005 del CM 1, 2, 3 e 098 del CM 3 e disposti in verticale lungo l’asse longitudinale maggiore.
c) Oxhide ingot di Nuragus-Serra Ilixi 3: sillabogramma 008 del CM 1, 2, 3
d) Oxhide ingot di Ozieri-Bisarcio: il segno a T potrebbe corrispondere al sillabogramma 004 del CM 1, 2, 3, con la barretta laterale destra più lunga dell’asta verticale. In alternativa si potrebbe richiamare il metrogrammo B 112 della lineare B.
e) Frammento di oxhide ingot di Capoterra: sillabogramma 008 del CM1, 2, 3
f) Frammento di oxhide ingot di Teti: sillabogramma 008 (?) del CM1, 2, 3
g) Frammento di oxhide ingot di Sardara-Santa Anastasia: marchio frammentario composto da tre tratti obliqui. Potrebbe trattarsi del sillabogramma 038 del CM1, 2, 3
h) Frammento di oxhide ingot di Sardara-Santa Anastasia: marchio frammentario composto da un tratto obliquo a sinistra e un’asta centrale. Potrebbe essere il sillabogramma 012 del CM1, 2, 3 ovvero, se completato da un secondo tratto obliquo a destra del sillabogramma 023 del CM 1, 2, 3.
CYLINDER SEAL INSCRITTO (?)
San Sperate-Su Fraigu
Sigillo a cilindretto in olivina rinvenuto in una tomba nuragica a corridoio rettangolare con fondo absidato, contenente circa 300 inumati, riportabile al BF2. La consunzione del sigillo ne impedisce una chiara lettura. Secondo Dominique Collonvi sarebbe rappresentato un motivo vegetale affiancato da figure alate, a destra un grifone, a sin. un uccello che vola (?). Al di sopra delle figure è un mostro dal becco adunco e, ancora superiormente, a destra, un pesce. All’estrema destra la scena è limitata da una teoria di globetti. Altri globetti più radi si evidenziano sul lato superiore. Pur non rinvenendo puntuali paralleli lo studioso è incline ad attribuirlo a un atelier di Cipro. Il sigillo, pur connesso alla funzione di autentica documentale del proprietario originario, poté pervenire in dono a un personaggio prestigioso di una comunità nuragica, che doveva ignorare la reale funzione del manufatto. Non si esclude la presenza di un sillabogramma CM all’estremità sinistra del sigillo.
FUSAIOLA TRONCOCONICA INSCRITTA
Uras-Loc. Su cungiau de is Mongias
Fusaiola in steatite verde con venature ocra dotata di iscrizione probabilmente in Cipro Minoico, individuata nel tardo secolo XIX in una tomba nuragica a pianta rettangolare, da attribuirsi al Bronzo finale, localizzata a circa 100 metri a nord del nuraghe Domu Beccia. La fusaiola è di forma troncoconica, o più precisamente (per l’andamento curvo e non rettilineo della superficie) a segmento sferico a due basi (con la base inferiore maggiore e la base superiore minore), con foro centrale troncoconico. Questa tipologia di fusaiola, sia in steatite, sia in argilla, è ben nota nell’Egeo e segnatamente a Cipro, nel periodo compreso fra il Tardo Cipriota III e il Cipro Geometrico I, con attestazioni che discendono fino al CG III. I segni incisi, abbastanza irregolarmente per via del grado di durezza della steatite e per la superficie curva del supporto scrittorio, parrebbero pertinenti al sillabario cipro minoico con la seguente sequenza: 028 – X – 006 – 008 | 009 – 004 Al sillabogramma 028 segue un tratto orizzontale che potrebbe essere l’aritmogramma X; il gruppo di sillabogrammi 006 e 008 sono divisi dalla sequenza 009-004 dal consueto stictogramma ad asta verticale. Al gruppo di segni 009-004 seguono due schemi figurati che parrebbero la rappresentazione di due navi. Il ductus sembrerebbe destrorso, come di regola nel Cipro Minoico, se si assume come primo segno il sillabogramma 028, inciso a partire dall’estremità superiore della fusaiola, mentre gli altri segni si dispongono lungo una fascia discendente da sinistra a destra. Il segno ‘a freccia’ con asta verticale prolungata sembrerebbe il sillabogramma 028 e non il più comune, sia in posizione iniziale, sia in posizione finale, 023. L’acquisizione come dono della fusaiola in steatite, resa preziosa dalla iscrizione, pur se non compresa, da parte di un personaggio eminente, di sesso femminile, della comunità nuragica di Uras, costituisce il pendantal cylinder seal cipriota di San Sperate, ricevuto in dono per il suo valore di oggetto prezioso, anche perché inscritto, da un membro dell’élite nuragica di Su Fraigu- San Sperate. Benché rare sono note da contesti nuragici del Sinis, a una trentina di km a nord di Uras, una serie di fusaiole in steatite della stessa forma del manufatto di Su Cungiau de is Mongias. Si dovrà notare il rilievo dell’associazione fusaiola-scrittura documentata a partire dalla prima età del ferro in svariatissimi ambienti mediterranei.
VII. Le attestazioni di grafemi nella Sardegna della prima età del ferro
1. La disseminazione di grafemi nel Mediterraneo centrale e occidentale nell’VIII a.C.
Se dobbiamo escludere, allo stato delle nostre conoscenze, l’esistenza di codici scrittori nell’età del Bronzo medio, tardo e finale nel Mediterraneo centrale e occidentale, dunque anche in Sardegna, differente è la situazione della prima età del ferro, poiché certamente entro l’VIII sec. a.C. abbiamo una documentazione scrittoria sia presso stanziamenti emporici e/o coloniali greci e fenici, sia presso ambiti indigeni della penisola italica, della Spagna meridionale e, possiamo aggiungere, della Sardegna. Appare evidente che la disseminazione di iscrizioni in particolare vascolari nel Mediterraneo centrale e occidentale sia da rapportarsi all’agilità dei codici ‘alfabetici’ sia fenici, sia aramaici, sia greci per notazioni varie (di possesso, di dedica, ma anche, per il versante greco, di carattere erotico-simposiastico in versi) rispetto alla complessità dei codici scrittori dell’età del bronzo, appannaggio di una ristretta classe di scribi. Allorquando utilizziamo il termine ‘disseminazione’ epigrafica intendiamo alludere, nell’ambito dell’VIII secolo a.C., per il Mediterraneo centrale e occidentale (ma anche per l’Atlantico mauro-iberico), alla relativa frequenza di iscrizioni vascolari che costituiscono il plafond della attività scrittoria officinale; quest’ultima è appannaggio di rari contesti occidentali: valgano gli esempi della statuina bronzea della dea Ashtart in trono da El Carambolo con iscrizione fenicia ancora della fine dell’VIII sec. a.C., forse di un atelier di Gadir, o le stele monumentali in panchina da Nora o in ignimbrite da Bosa in Sardegna, dipendenti da prototipi orientali, in un momento, tuttavia, in cui Nora non presenta tratti urbani ma parrebbe una enclave fenicia in ambito di un centro sardo e Bosa non rivela elementi fenici prima della fine del VII-inizi VI a.C. (scarabeo in pasta naucratite). A Cartagine e a Gadir disponiamo di una non abbondante documentazione epigrafica in cui spiccano le sei cretulae gaditane con l’impressione di sigilli, pertinenti a documenti commerciali in papiro, di contesto fenicio dell’VIII sec. a.C., ma mentre l’Iberia sarà recettore fertile della scrittura, la Libye indigena acquisirà un proprio codice scrittorio (alfabeto libico) solo  tardivamente. L’area iberica meridionale documenta una precoce diffusione del codice scrittorio fenicio presso gli stanziamenti tartessi, interessati da una presenza fenicia, cui si accompagnano, documentati  archeologicamente, gruppi euboici e, forse, ciprioti e sardi. La scoperta del segnario di Espanca nel 1987 ha documentato la corrispondenza, nella sequenza dei grafemi, tra il codice scrittorio paleo ispanico tartessio-sudlusitano (scrittura del SO) e il codice scrittorio fenicio, con assenze di grafemi giustificata dalla fonologia della lingua (o delle lingue) del SO e nuovi segni inseriti dopo il taw, ultimo grafema degli alfabetari fenici. La teoria di una derivazione del più antico codice scrittorio paleoispanico da quello fenicio appare la più plausibile, benché, secondo J. Untermann, non possa essere escluso del tutto l’intervento dell’alfabeto greco, sia per la forma di alcuni grafemi, sia per i segni vocalici introdotti nella scrittura del SO. La formazione del codice scrittorio tartessio parrebbe rimontare al VII secolo a.C. se a tale livello coronologico attribuiamo le più antiche stele del SO di ambiente lusitano e andaluso occidentale, benché potremmo avere testimoniato il sillabogramma ko della scrittura del SO in un frammento ceramico di Huelva, rinvenuto in un contesto dell’800-760 a.C. I graffiti del Castillo de Doña Blanca e di Huelva267 mostrano una notevole diffusione dei grafemi fenici o dei segni tartessi nel corso dell’VIII e del VII sec. a.C., che peraltro si estende a numerosi altri centri tartessi. Per quanto attiene la penisola italica non dobbiamo tacere l’importanza delle iscrizioni fenicia e fenicio-aramaica, rispettivamente della patera di 61574 della Tomba Bernardini di Praeneste e della patera di Pontecagnano, attribuibili a un atelier della Fenicia o di Cipro, donate dai sarim delle città fenicie o fenicio- cipriote ai principes etruschi, attraverso il meccanismo del gift-exchange, anche come ‘doni di apertura’ delle relazioni, poiché veicolavano la preziosa scrittura in contesti in cui la scrittura alfabetica andava diffondendosi. Il ruolo fenicio e nord siriano nello sviluppo della cultura scritta è d’altro canto implicito nelle attestazioni epigrafiche semitiche nell’emporion euboico di Pithekoussai/Inarim, l’isola campana, secondo la proposta di Piero Bartoloni, dal duplice nome greco e semitico, che rivela, in filigrana, il carattere multiculturale della società insulare. Nell’ambito della penisola italiana la diffusione del codice alfabetico euboico, recato dapprima dai ‘prospectors’ greci, quindi dai calcidesi di Pithekoussai, e di Cuma, in seno alle comunità laziali, campane ed etrusche fu precoce nell’ambito dell’VIII secolo a.C., come documenta da un lato il celebre vaso a fiasco d’impasto della tomba femminile (?) a cremazione nr. 482, databile alla fase laziale IIB2 (circa 780-770 a.C.), di Osteria dell’Osa (Gabii) con l’iscrizione greca (Eulin(os) o Euoin) o latina (ni lue) per il Latium, benché la formazione dei diversi alfabeti di matrice euboica (Nota 10) quali quello etrusco (Il più antico esempio di scrittura etrusca è costituito dall’iscrizione della kotyle PCA di Tarquinia, forse ancora della fine dell’VIII a.C.), latino, falisco e altri di area laziale-campana non rimonti oltre il 700 a.C., ma spesso discenda al VII a.C., quando non al VI. Più tardiva la creazione di alfabeti di derivazione etrusca in area settentrionale italiana, benché sia documentata la precocissima assunzio- ne di segni alfabetici greci in seno al villanoviano felsineo, in sintonia con quanto avviene nel villanoviano e tirrenico e nella cultura laziale, in particolare su manufatti metallici e su oggetti connessi alla filatura e alla tessitura (ma non solo), che attestano la circolazione di grafemi alfabetici greci in seno a comunità indigene sin dalla prima metà dell’VIII secolo a.C. La Sicilia offre una situazione di grande interesse: la documentazione epigrafica delle apoikiai greche è estremamente precoce, mentre la nascita degli alfabeti elimo e siculi, di pertinenza di lingue anelleniche, derivato il primo dall’alfabeto selinuntino, i secondi dai codici scrittori delle città greche di Siracusa, Megara e Gela in rapporto alle varie comunità sicule, deve attendere il pieno VI sec. a.C.
2. Sardi, Levantini ed Eubei nella Sardegna della prima età del ferro
La Sardegna documenta nel passaggio fra il Bronzo finale e la prima età del ferro una nuova organizzazione territoriale, che se da un lato supera le strutture della cultura nuragica, anche attraverso la selezione degli insediamenti che ora appaiono in genere più estesi rispetto a quelli delle fasi nuragiche, dall’altro sviluppa un rapporto mitico-religioso con i signa dell’età del bronzo, e in primis il nuraghe, assurto nei suoi modelli in bronzo, pietra, terracotta a simbolo cultuale. Questa nuova cultura della prima età del ferro ha protagonisti i Sardi, che arrichiscono i propri modelli sociali, culturali, economici nel quadro di un rapporto più ampio e articolato sia con le nascenti aristocrazie tirreniche, sia con i membri di quel mondo levantino che aveva già intrecciato strette relazioni con la Sardegna sin dal XIII a.C., attraverso le città cipriote del periodo Tardo
Cipriota III, e che ora si ripresenta ai Sardi articolato nelle sue componenti ancora una volta cipriote, ma anche fenicie, aramaiche, filistee ed euboiche, ben strutturate queste ultime nei fondachi del Mediterraneo orientale. Tiro, nel quadro della sua politica di colonizzazione occidentale (Utica, Cartagine, Mozia, Gadir, Lixus) otterrà dai Sardi, attraverso modalità per noi sconosciute, la possibilità di una fondazione stabile, di tipo protourbano, sulla costa orientale del Molibodes nesos (Ptol. III, 3, 7), l’isola di Sant’Antioco, porto di confluenza delle risorse minerarie dell’Iglesiente. In questa fondazione, risalente intorno al 780 a.C., si costituirà una società multiculturale che comprendeva, insieme ai Fenici, Sardi, Euboici, Tartessi e membri delle comunità etrusche e laziali dell’VIII sec. a.C. Nelle altre aree della Sardegna, per l’arco cronologico compreso fra lo scorcio del IX, l’VIII e i primi tre quarti del VII a.C., i Levantini e gli Euboici sembrano stanziarsi in seno alle comunità sarde o comunque in insediamenti privi di carettere urbano, sotto il controllo dei Sardi. L’esempio più esplicito è costituito dallo stanziamento sardo di Sant’Imbenia (Alghero), che alla fine del IX a.C. ma soprattutto nel successivo VIII, rappresenta la struttura di scambio indigena aperta all’elemento levantino ed euboico: se, infatti, la documentazione archeologica ed epigrafica ci mostra, nell’ambito del controllo indigeno dell’emporio, una chiara prevalenza di manifatture e modelli orientali, tra cui emerge una componente filistea, d’altro canto l’attestazione di materiali euboici (uno skyphos a semicerchi penduli della fine del IX a.C., uno skyphos ‘à chèvrons’ della metà dell’VIII a.C., una
coppa one bird, kotylai tipo Aetòs 666 del 750-730 a.C. e oinochoai di produzione pitecusana, una kotyle del Protocorinzio antico, della fine dell’VIII a.C.) consente di non escludere che nelle stesse navi dei Phoinikes che attraccavano nel Porto Conte, all’emporio di Sant’Imbenia, vi fossero levantini e Eubei, secondo un modello noto ad Al Mina, alla foce dell’Oronte, a Pithekoussai, nella Sibari- tide, a Cartagine, a La Rebanadilla e a Huelva (Tartessos), in Andalusia.
La situazione di Sant’Imbenia appare di altissimo interesse perché in questo centro indigeno appaiono documenti scritti: si tratta di due frammenti di ceramiche fenicie con testi in alfabeto fenicio, con attestazioni onomastiche probabilmente filistee, da riportarsi all’VIII a.C., e di un sigillo scarabeo fittile, di produzione locale, che presenta sulla base, entro una doppia cornice ovale, tre grafemi e una sequenza di punti, sul quale torneremo. Altro insediamento indigeno che richiama la nostra attenzione è il santuario di S’Arcu ‘e sos forros di Villagrande Strisaili da cui proviene un’anfora frammentaria di derivazione dal tipo cananeo, ma ascrivibile probabilmente al tipo 9 delle anfore di Tiro, con una iscrizione fenicia, della fine del IX-primi decenni dell’VIII sec. a.C., in corso di studio da parte di Giovanni Garbini.
3. Il sillabario cipriota in documenti sardi?
Venendo alla Sardegna della prima età del ferro, i cui inizi collocheremo verso l’850 a.C., dobbiamo osservare una possibile continuità dei rapporti fra i ciprioti, verosimilmente grecofoni in rapporto alla migrazione nell’isola di gruppi micenei che portarono all’affermazione del dialetto arcado-cipriota in Cipro, e i Sardi del IX a.C. (ma anche dei secoli successivi, in un intreccio con i Fenici), come è documentato dalla presenza di ceramiche di importazione o di ispirazione  ta nel Mediterraneo centrale (Mozia) e occidentale (Toscanos, La Rebanadilla) e nell’Atlantico (Huelva e Mogador). In tale contesto si vedrebbe il ruolo della Sardegna nella redistribuzione in area etrusca, laziale e umbra di manufatti ciprioti come lo specchio cipriota di una tomba a pozzetto del Villanoviano I A di Tarquinia, l’askos fittile a testa equina, del CG III (gruppo Kourou I), dalla tomba 2138 della Necropoli del Laghetto di Caere (La tomba ceretana si data fra il 770 e il 750 a.C. anche per l’associazione con uno skyphos a semicerchi pendenti del tipo Kearsley 6) e il complesso di bronzi ciprioti del ripostiglio di Piediluco-Contigliano Terni.307 Una possibile manifattura (o modello) cipriota (ma anche fenicia) potrebbe riconoscersi nelle coppe bronzee emisferiche inedite documentate in Sardegna a Nuraxinieddu-Su Cungiau ‘e Funtana e forse a San Vero Milis-S’Uraki, un tipo cerimoniale per libagioni e banchetti pubblici recentemente studiato da Massimo Botto per la Sicilia, la Calabria, il Latium vetus e l’Etruria del IX e della prima metà dell’VIII sec. a.C. In questo quadro di presenze cipriote in Sardegna si vuole proporre una riflessione sulla eventualità di che singoli segni del sillabario cipriota possano essere stati utilizzati come ‘marks’ da ceramisti e da fonditori di estrazione cipriota in Sardegna o da officine sarde in cui sopravvivevano strumentari, tecniche e modelli ciprioti circolati in Sardegna tra il Tardo Cipriota III (1200-1050 a.C.) e il Cipro Geometrico I-III (1050-750 a.C.). Appare di rilevante interesse la possibilità che possano ascriversi al Cipro Minoico 1 o, forse meglio, al Cipro Sillabico da esso derivato, i grafemi presenti su una serie di oggetti in bronzo rinvenuti in Sardegna ad Antas-Fluminimaggiore, Sinis-Cabras, Sant’Imbenia-Alghero, S’Uraki-San Vero Milis e su un frammento di anfora tharrense:
1) Fluminimaggiore. Località Antas. (Nota 11) Necropoli sarda della prima età del ferro Spillone in bronzo309 (lunghezza cm 14) con iscrizione incisa sul fusto (alt. lettere cm 0,35/0,40). Lo spillone a capocchia fusa con il gambo, capocchia corta a estremità emisferica allungata e collo sottolineato da doppia modanatura, appartiene a una tipologia diffusa in ambito sardo (tipo A2 Milletti), anche nella stessa area della necropoli di Antas, durante la prima età del ferro, probabilmente del Primo ferro 2. L’iscrizione è stata dal primo editore interpretata come fenicia, con una lettura sinistrorsa:
k r(?)m k, in «riferimento a un nome locale, indigeno, trasposto nei phoinikeia grammata». In un nuovo intervento Paolo Bernardini si dimostra aperto ad altre soluzioni tra cui quella greca proposta da Giovanni Ugas. L’analisi dei segni dello spillone di Antas, affiancata da un ottimo fac-simile, e la disamina del contesto di Antas nella prima età del ferro ha portato Piero Bartoloni a uno scetticismo sulla interpretazione fenicia dei grafemi. In questa fase preliminare di studio chi scrive ha proposto316 l’interpretazione dei segni dello spillone come sillabogrammi ciprioti suddivisi da uno stictogramma: avremmo, infatti, con andamento destrorso,ti | sa-ti. I due sillabogrammi ti e sa documentano la forma attestata sia nel sillabario pafio antico, sia nel sillabario eteocipriota o amatusiano, sia nel sillabario comune. D’altro canto i sillabogrammi in esame rispondono rispettivamente ai nrr. 023 e 082 del CM 1. Il livello cronologico cui rimanda il supporto della iscrizione (uno spillone sardo) e la necropoli di Antas consente la interpretazione dei sillabogrammi nell’ambito del cipro sillabico,
le cui più antiche attestazioni rimontano all’VIII a.C., se con Jean Pierre Olivier riferiamo al Cipro Minoico 1 (e non al cipro sillabico) le iscrizioni sugli obelòi enei della tomba 49 della necropoli di Palaepaphos-Skales del Cipro Geometrico I, uno dei quali (nr. 16) reca una sequenza di segni interpretata come il genitivo di possesso del proprietario greco: o-pe-le-ta-u. La successione dei grafemi dello spillone di Antas richiama lo schema dell’iscrizione sull’obelòs 17 della tomba 49 interpretata come formula votiva abbreviata: ti (stictogramma) ti benché non possa invocarsi esattamente la legenda 1+1. Una presenza di una iscrizione in Cipro sillabico su un manufatto bronzistico sardo non appare problematica, in considerazione sia delle stringenti relazioni fra Cipro e la Sardegna, sia della documentazione di testi in cipro sillabico dell’VIII sec. a.C. in Cilicia e del VII secolo a Delfi e ad Heraclea lucana. Allo stato delle conoscenze appare prudente sospendere il giudizio sul codice linguistico espresso dai sillabogrammi dello spillone di Antas, non escludendo, beninteso, né una formula onomastica (di proprietà?) né una formula di dedica.
2. Alghero. Località S. Imbenia. Villaggio della prima età del ferro
Ascia in bronzo a margini rialzati con marchio inciso a freddo.
Nel corso della campagna di scavo 2010 del villaggio-emporion sardo di Sant’Imbenia, nell’ambiente 24, è stato individuato un ripostiglio di manufatti in bronzo e rame contenuti in un dolio a corpo ovoidale. Gli oggetti del ripostiglio sono composti da una spada in bronzo a lingua da presa, tipo Monte Sa Idda, frammentaria, da otto asce in bronzo a margini rialzati e da 44 lingotti in rame, integri e frammentari, a sezione piano convessa e biconvessa e eccezionalmente ‘a frittata’ e di tipo troncoconico, per un peso totale di kg 41, 239. La deposizione del ripostiglio dovrebbe situarsi intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. Una delle asce a margini rialzati reca sul tallone un marchio: Ascia a margini rialzati con tallone diritto, e lama breve, di forma trapezoidale, con taglio curvilineo ed espanso, che sembrerebbe ascrivibile al Primo ferro. L’ascia reca un’incisione sulla parte iniziale del tallone, costituita da un segno a freccia, con l’estremità inferiore dell’asta dotata di un apice a sinistra (alt. segno cm 1,2). Dimensioni: lungh. cm 15,8 cm; largh. lamacm 5; spessore fusto cm 2; peso: g 432. Il segno, come osservato da Anna Depalmas, parrebbe corrispondere al sillabogramma ti del sillabario cipriota comune330 del sillabario eteocipriota. Tuttavia la presenza di un apice a sin. all’estremità inferiore dell’asta della freccia potrebbe rimandarci meglio al sillabogramma wo sia del sillabario cipriota comune, sia di quello eteocipriota. È rilevante notare la pratica nei marchi di asce in bronzo, come nel ripostiglio di Ardea, dell’utilizzo di singoli grafemi che «presuppongono, come più tardi a Bologna nel ripostiglio di San Francesco, una conoscenza pur embrionale dell’alfabeto e la capacità di avvalersene, anche se solo a fini identificativi e di conteggio» (G.  Colonna).
3. Cabras. Località sconosciuta della regione del Sinis
Asce in bronzo a tagli ortogonali miniaturistiche dotate di marchi incisi.
Nell’ambito di un probabile ripostiglio, costituito da manufatti in bronzo (navicelle, figure antropomorfe e zoomorfe, ‘bottoni’, pendenti [‘a fiasca del pellegrino’, ‘ad anfora pririforme’, ad ascia con contrappeso discoidale, a maglio], ‘faretrina’, pugnaletto a elsa gammata, bracciali, collane, spilloni, paletta decorata da quattro serie parallele di spirali, frammento di attacco di bacile decorato da spirali; armi, fibule a sanguisuga e a navicella) riportabili fra IX e VIII a.C., si evidenzia un gruppo di otto esemplari di ascia a tagli ortogonali, miniaturistici, ma di dimensioni e peso differenti, pertinenti a una tipologia assai poco rappresentata in Sardegna, dove sono noti a Santa Vittoria di Serri (bipenni e ascia a tagli ortogonali), Silanus (ascia a tagli ortogonali) e da località sconosciuta (bipenne). La miniaturizzazione delle asce, di varia tipologia, è amplissimamente diffusa in ambito peninsulare italico e greco, e talvolta è documentato l’utilizzo delle stesse come pendenti. Gli esemplari in questione ripetono fedelmente la forma della ‘malepeggio’ in bronzo nota in numerosissimi esempi funzionali nella Sardegna nuragica, con il foro per l’immanicatura. Appare di eccezionale interesse la presenza, in tre esemplari, di segni probabilmnente scrittori, incisi a freddo.
1. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con segno a X (taw ?) sul piatto della penna. Lungh. cm 5,5; peso gr. 9,86.
2. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con segno costituito da un’asta verticale dalla quale si dipartono, ad angolo acuto, due sbarrette oblique a sinistra su una penna e segno ad astro radiato a sei punte sull’altra. Lungh. cm 5,1; peso gr. 8,40.
3. Ascia a tagli ortogonali con foro passante per immanicatura, con segno a + sul piatto della penna. Lungh. cm 3,52; peso gr. 2,58.
L’interpretazioni di questi marchi intenzionali appare altamente problematica, sia per la semplicità dei segni, sia per la loro utilizzazione in differenti sistemi scrittori quali il fenicio e il greco, ma anche nel cipro sillabico.
Nell’alfabeto fenicio riscontriamo i grafemi X e + con valore taw. Entrambi i grafemi vennero riutilizzati nel codice scrittorio greco per i segni complementari esprimenti la gutturale aspirata negli alfabeti del gruppo ‘orientale’ e per esprimere il digramma ks nel gruppo ‘occidentale’. Per il segno ad asta verticale con due barrette divergenti potremmo richiamarci al kaf fenicio attestato ad es. alla l. 6 della stele di Nora, ma già nell’ultimo terzo del IX a.C. a Kilamuwa (Zincirli) e successivamente a Panamuwa e a Bar Rakab (Zincirli) nella seconda metà dell’VIII a.C. Quest’ultimo segno kaf passa al kappa negli alfabeti greci arcaici, ad esempio nell’iscrizione dell’Apollo di Mantiklos, forse da Tebe, della fine dell’VIII a.C. Per il segno a stella si noti che un analogo grafema rappresenta il nesso ps in alcuni alfabeti greci del gruppo occidentale, ad esempio nella colonia achea di Posidonia, in Arcadia e nella Locride Ozolia. Se passiamo al sillabario cipriota nella variante del pafio arcaico abbiamo il segno a stella a sei raggi equivalente al sillabogramma a, mentre il segno ad asta verticale dalla quale si dipartono due sbarrette oblique a sinistra corrisponde al sillabogramma nu. Inoltre i segni a X ed a + corrispondono, rispettivamente, ai sillabogrammi ma (variante) e lo.
4. Tharros. Anfora con iscrizione dipinta
Frammento di orlo e spalla di anfora da trasporto del tipo B1 Bartoloni con orlo rigonfio innesatato sulla spalla convessa, mediante un solco (fine VIII-prima metà del VII sec. a.C.). Argilla rosso-marrone con inclusi calcarei e micacei. Alt. cm 8; largh cm 14; spess. cm 1, 1. Sulla spalla dell’anfora è dipinta una iscrizione, certamente non fenicia, ascritta probabilisticamente da Enrico Acquaro a sillabario cipriota: Se l’andamento del testo, con tutti i grafemi mutili inferiormente, fosse sinistrorso avremmo tre tratti verticali forse del sillabogramma se, ovvero un numerale, un possibile stictogramma, il sillabogramma ta, costituito da un’asta con un tratto orizzontale mediano dotato di un’appendice inferiore, un secondo stictogramma (?) e un segno indistinto: se (?)  ta
Il rapporto di Cipro con Tharros sembrerebbe essere attestato in epoca arcaica da terrecotte figurate (testa di centauro e ruota di un modellino di wine-carts, analogo a esempi di Amatunte e di Ayia Irini)345e ancora in età ellenistica da una iscrizione punica graffita sulla superficie stuccata di un blocco pertinente a un tempio, presso la collina settentrionale di Murru Mannu, a ovest del tofet: YP‘ ’ 􀎢L􀍤G KT Secondo Giovanni Garbini il testo andrebbe tradotto «Yafi‘ ha partecipato al pellegrinaggio di KT», dove KT non sarebbe Kition-Larnaka, rifondazione fenicia del IX a.C., quanto il nome dell’isola, come nell’ebraico biblico ktym «gente di Kition» ma per estensione «Ciprioti». Il pellegrinaggio, allora, molto verosimilmente, alluderebbe al santuario dell’Ashtart-Afrodite Cipria o di Paphos celebre in tutto il mondo antico.
5. San Vero Milis. Insediamento sardo di S’Uraki.
Torciere in bronzo‘fenicio-cipriota’ caratterizzato da tre corolle rovesciate, con un coronamento a tre volute, probabilmente del principio del Cipro Arcaico I (circa 700 a.C.), appartenente al tipo B-3 di Almagro Gorbea348 e alla tecnica di assemblaggio b-2 di Jiménez Ávila, esclusiva delle attestazioni occidentali, frutto probabilmente di maestranze specializzate itineranti, che avranno utilizzato il sillabario cipriota per marcare i pezzi. Quest’ultima eventualità è documentata proprio del manufatto in esame. Infatti su una delle volute del torciere di San Vero Milis è inciso un sillabogramma u, ancora affine al segno 012 del CM 1, attestato con probabile valore u nell’iscrizione (o-pe-la-ta-u) dell’obelòs 16 della tomba 40 di Palaepaphos.
4. Aritmogrammi della prima età del ferro in Sardegna
Non c’è dubbio, dunque, che i Sardi della prima età del ferro entrarono in contatto con la scrittura recata dai Fenici e, forse, dagli Euboici. Un punto fermo è costituito, grazie alle indagini di Giovanni Ugas, dall’acquisizione degli aritmogrammi dalla cultura sarda della prima età del ferro. Gli aritmogrammi sardi della prima età del ferro sono i seguenti, certamente legati a valori numerali differenti. (Nota 12)
Asta verticale |
Segmento orizzontale
Circolo o punto circolare o
Deve osservarsi che tale sequeza dei numerali risponde ai sistemi di aritmogrammi egei: nella lineare B, nel CM e nel Cipro Sillabico abbiamo infatti | (unità);
(decine), o (?).
Si noti, tuttavia, che tali notazioni numerali si ritrovano fra gli aritmogrammi fenici (a prescindere dal segno a circolo). Al di là dell’utilizzo da parte dei Sardi di tali aritmogrammi per differenti funzionalità (segnature ponderali, numerazione di partite di materiali), il sistema numerale potrebbe suggerire che nella Sardegna nuragica dell’età del ferro esistessero forme embrionali di sistemi di notazione legati a pratiche commerciali o amministrative. Vi è inoltre da osservare che il lingotto in piombo nr. 79 (con 26 aste verticali) di Sant’Anastasia di Sardara ci offre la possibilità di verificare il senso della notazione degli aritmogrammi degli addetti alle registrazioni ponderali o amministrative del santuario di Sardara nella prima età del ferro. Infatti in tale lingotto osserviamo una prima linea di aste (valore 1?), seguita da una seconda linea che ha un andamento destroverso. Il senso della prima linea di aritmogrammi è problematico: infatti, come è stato
brillantemente rilevato da Giovanni Marginesu dell’Università di Sassari, gli aritmogrammi di tale linea sono ritmati con un interspazio ampio a partire dall’estremità destra della faccia del lingotto, mentre dalla metà della linea divengono serrati, per poi riprendere con un interspazio ampio nella seconda linea. Tale constatazione induce a ritenere che l’addetto a questa registrazione avesse adottato un sistema di notazione ad andamento bustrofedico. In alternativa si potrebbe ipotizzare un regolare andamento progressivo di entrambe le linee, giustificandosi l’ampliamento dell’interspazio fra le aste, a partire dalla metà della linea, dalla constatazione che non era più possibile incidere su una stessa linea l’intera sequenza di aritmogrammmi. Abbiamo in ogni caso l’utilizzo di un senso della trascrizione degli aritmogrammi non retrogrado, ossia non secondo il verso della scrittura che i Fenici avrebbero potuto veicolare, in quanto, come è noto, i Fenici utilizzarono in modo sostanzialmente esclusivo la direzione sinistrorsa a partire dal X a.C.
Il senso della scrittura (e delle notazioni numerali) progressivo o bustrofedico dovrebbe essere pervenuto ai Sardi da una cultura in possesso di tale uso. Osserviamo che il Cipro Minoico, la Lineare B, il sillabario cipriota pafio arcaico e eteocipriota o amatusiano sono tutti destroversi, mentre il sillabario cipriota comune è retrogrado. Le più antiche notazioni alfabetiche greche sono prevalentemente sinistrorse, per diretta derivazione dal fenicio o dall’aramaico, ma tuttavia sin dall’VIII secolo possediamo documenti greci certamente progressivi e bustrofedici. Appare rilevante la constatazione che le iscrizioni paleoispaniche del SO sono in prevalenza sinistrorse, in relazione al modello fenicio, ma esistono pure esempi minoritari di scrittura destrorsa e bustrofedica, che saremmo inclini a considerare il frutto di una possibile compartecipazione – minoritaria – dell’alfabeto greco alla formazione della più antica scrittura paleoispanica.
5.:il segno ‘a freccia’
Dobbiamo introdurre ora l’esame dei segni probabilmente alfabetici attestati in Sardegna nella prima età del ferro. Come detto il merito di avere aperto il problema va a Giovanni Ugas, cui si deve ora il contributo più ampio sulla questione. I segni alfabetici sono documentati nel centro fenicio più antico della Sardegna, Sulci, dove un’anfora locale della II metà dell’VIII a.C. presenta un segno ante coctionem identificabile con un ghimel piuttosto che con un dalet. Allo stato degli studi le attestazioni di segni alfabetici sono più frequenti in ambito indigeno sia su ceramiche, sia su lingotti in piombo e in rame. Per la ceramica ci soffermiamo sul segno ‘a freccia’ inciso a crudo, su un’anforetta nuragica del Bronzo finale 3-prima età del ferro (circa 850 a.C.) da Soleminis-Facc’e Idda, su un’ansa di brocchetta askoide dalla capanna pluricellulare U di Oliena-Sa Sedda ‘e sos Carros e su un’ansa a gomito rovescio nuragica da S. Vero Milis-Su Padrigheddu identica a un esemplare rinvenuto a Lipari della fine dell’Ausonio II (metà IX sec. a.C.). Se nel primo caso il segno, ripetuto su entrambi lati, ha evidente carattere decorativo, sull’ansa di Sa Sedda ‘e sos Carros il segno si associa alla consueta decorazione a circoli semplici impressi, mentre nell’esempio di San Vero Milis il segno ‘a freccia’ era destinato a non essere visto, rappresentando in tutta evidenza un pre-firing mark. Come è noto, «i contrassegni di vasaio non hanno alcun valore fonetico poiché essi, non facendo parte di nessun sistema di scrittura […] non rappresentano convezionalmente né determinate parole, né determinate sillabe, né determinate lettere»366 benché sia chiaro che talvolta (in una società dotata di un codice scrittorio) il vasaio possa attingere per il repertorio di marchi anche ai grafemi o ai sillabogrammi. In questi ultimi casi deve comunque non escludersi, in presenza di marchi semplici (croce, punti etc.), l’indipendenza degli stessi da segni scrittori. Nel caso del segno a ‘freccia’ possiamo ricordare che esso è simile ai sillabogrammi A 304 della lineare A, AB 37, con valore ti, della lineare B, 023 del Cipro-Minoico 1, 2, 3 e del sillabogrammi ti del sillabario cipriota, e ancora al segno 376 con valore zi del sillabario fonetico del luvio geroglifico. Il segno kaf (e anche il segno shin) dell’alfabeto fenicio ‘a tridente’ ha sempre il vertice verso il basso sicché non parrebbe corrispondente al segno ‘a freccia’, benché da quest’ultimo deriverebbe il sampi, accolto
come numerale dai Greci ma non nell’alfabeto. Il segno ‘a freccia’ è, inoltre, presente su anfore di Lefkandi e di Pithekoussai, su un’ansa di tazza a Kalapodi e sull’orlo esterno di uno skyphos del Geometrico Recente a Eretria, dove è considerato una forma invertita del chi euboico ovvero un segno non alfabetico con significato proprio. Appare importante rilevare che il segno ‘a freccia’ si ritrova in vari sistemi scrittori arcaici di area mediterranea sia orientale, sia centrale, sia occidentale. In ambito anatolico abbiamo il segno ‘a freccia’ nell’alfabeto licio con il valore vocalico di /e/, nel lidio con un valore incerto/?/, nel cario con un valore incerto. Nelle iscrizioni sicule il segno assume il valore vocalico di /a/ e tale tipo di alpha, noto come alpha siculo, funge da ‘marker’ grafico che sottolinea la «solidarietà interna alla compagine sicula e (il) parallelo antagonismo nei confronti dell’elemento greco». Tra i sistemi di scrittura della penisola italiana il segno ‘a freccia’ è attestato con valore incerto /?/nell’alfabeto camuno. Finalmente il segno ‘a freccia’ è documentato nel segnario paleoispanico del SO con valore incerto, ma forse corrispondente alla sillaba bi, mentre nel segnario del SE assume il valore , in quello iberico nord-orientale corrisponde alla vocale /u/. Per questo grafema delle scritture paleoispaniche si è ipotizzata sia la sua creazione a partire dal pe fenicio, duplicando simmetricamente l’appendice superiore del segno, sia la sua pertinenza all’ambito di grafemi liberamente inventati per completare il sistema scrittorio. Indubbiamente il segno ‘a freccia’ appartiene al novero dei segni semplici presenti in ambiti culturali e cronologici diversissimi, sicché è possibile ammettere
l’assunzione indipendente di tale segno nei vari sistemi di scrittura per completare un segnario di derivazione fenicia, insufficiente nella resa grafematica dei fonemi presenti in una data lingua. Tuttavia allorquando una serie di tali segni, presuntivamente inventati, si riscontra sia in ambiti orientali, sia in ambiti occidentali (ad esempio i segni 25, 27, 32, 33, 40 degli alfabeti cari corrispondono ai segni G 21’ (scrittura del SE), G 28 (scrittura iberica levantina) G 22 (scrittura iberica levantina), G 17 (scritture del SE e iberica levantina), G5 = G26’ (rispettivamente nella scrittura iberica levantina e in quella del SE)) non può escludersi che le navi levantine, caratterizzate da un profondo multiculturalismo dei viaggiatori, potessero recare insieme al più funzionale segnario fenicio una serie di altri codici scrittori secondari da cui trarre i segni occorrenti al sistema fonologico della lingua che doveva essere scritta.
6: gli altri segni alfabetici
I lingotti in rame e in piombo della prima età del ferro in Sardegna rivelano l’adozione di tre segni alfabetici di origine fenicia: uno yod inciso sul lato piano di una panella piano-convessa (ridotta a una metà) in rame di Forraxi Nioi-Nuragus, uno zayn sulla faccia piana del lingotto in piombo di Monte Olladiri- Monastir e un kaf sinistrorso seguito da un’asta verticale in un lingotto plumbeo da S. Anastasìa-Sardara. In realtà i grafemi, a prescindere dallo yod che ripete la forma del segno fenicio del IX-VIII a.C., potrebbero essere anche uno zeta e un kappa euboici, in considerazione della possibilità che i due lingotti plumbei possano datarsi all’VIII a.C. Per quanto attiene la ceramica sarda della prima età del ferro essa presenta, soprattutto sulle anse, dei marchi da vasaio che potrebbero essere tratti da serie alfabetiche: abbiamo ripetutamente il segno a X, che per la sua semplicità potrebbe non essere effettivamente un grafema, ma ove si riconoscesse il suo valore grafematico sarebbe un taw fenicio o un tau greco. Più rilevante è la serie delle anse di brocchette askoidi di Monte Olladiri- Monastir, in cui oltre a un segno a X è attestato uno zayn o uno zeta e un segno destrorso costituito da un’asta obliqua da cui si dipartono in alto due barrette. Quest’ultimo grafema per il suo ductus progressivo e per la presenza di due barrette non può identificarsi con lo heth fenicio ma, con verosimiglianza, con il digamma greco, derivato da un adattamento del waw fenicio. Finalmente citiamo la brocchetta askoide di Su Cungiau ‘e Funtana-Nuraxinieddu, ingubbiata in rosso e lucidata, forse dell’Orientalizzante antico, dotata nel settore compreso fra l’attacco del collo e quello dell’ansa, di una serie di cinque motivi triangoliformi, incisi ante coctionem, disposti su due registri, che potrebbero ricondurre al daleth fenicio o al delta greco. Questo complesso di segni induce a ritenere che i Sardi, probabilmente già a conoscenza del sillabario cipriota veicolato da qualche technites di Cipro, poterono acquisire dai Fenici e, forse, dagli Euboici nozione di nuovi codici scrittori, utilizzando talora dei grafemi come potters’ marks o come segni di incerta funzione sui lingotti metallici. Cinque documenti, uno scarabeo fittile di S. Imbenia-Alghero, due frammenti di anfore ‘Sant’Imbenia’ di Cartagine e due frammenti di analoghe anfore rispettivamente da Huelva e da Gadir, dotati di una serie probabile di grafemi fenici, ci spingono a credere che nella produzione materiale sarda fossero attivi degli scribi fenici o dei Sardi che utilizzavano il segnario fenicio:
1) Cartagine, Scavi del Decumanus Maximus.
Due frammenti non combacianti della spalla di un’anfora della Subklasse Nuragisch 1 (ZitASant’Imbenia),
dotati di segni graffiti, dubitativamente interpretati come Punische Graffiti, del 725-700 a.C. Nel frammento a si ha un graffito costituito da un’asta su cui si innesta a destra un tratto obliquo. Il frammento b presenta (da sin. a destra) due aste oblique convergenti in alto (ghimel ?) e un’asta obliqua.
2) Cartagine. Scavi del Decumanus Maximus
Frammenti della spalla di un’anfora della Subklasse Nuragisch 1 (ZitA-Sant’Imbenia), dotato di segni graffiti, dubitativamente interpretati come Punische Graffiti, del 725-700 a.C. Il frammento presenta superiormente un tratto orizzontale e inferiormente a destra un tratto curvilineo.
3) Huelva. Calle Méndez Núñez
Frammento della spalla di un’anfora Sant’Imbenia con due lettere fenicie graffite e l’estremità di un tratto obliquo pertinente a una terza lettera: l b+[---], inteso da Michel Heltzer dell’Università di Tel Aviv come «belonging to b[…](the personal name)». Lo studioso rileva l’unicità del tipo di beth che si apparenta al beth dell’ostrakon di
‘Izbet Sarta (Israel) dell’XI sec. a.C. Si potrebbe, tuttavia, ipotizzare che la singolarità del grafema possa imputarsi a una mano indigena (sarda).
4) Cádiz. Scavi del Teatro Cómico
Frammento di «ánfora sarda [ZitA-Sant’Imbenia] con trazos incisos hallada en contextos de los inicios del s. VIII a.n.e.». Le incisioni formano un angolo «a modo de gran gimel», ma potrebbe trattarsi di segni non intenzionali.
5) Alghero. Sant’Imbenia
Sigillo-scarabeo fittile (lungh. cm 3) con foro longitudinale passante. Sulla base, entro cornice ellittica, presenta da sinistra a destra, profondamente incisi ante coctionem: A sinistra un segno sub circolare (‘ayin?) superiormente e un segno ad asta verticale terminato in alto da una linea curva (pe’?) inferiormente, con un punto mediano a destra. Al centro un segno costituito da due aste parallele, collegate da tre tratti orizzontali (et). A destra quattro
punti disposti uno in alto, due al centro, il quarto in basso. L’impressione della sequenza di segni alla base del sigillo scarabeo su una cretula ci darebbe in ductus retrogrado: (quattro punti)het?(un punto) –‘ayin?pe’?
Rubens d’Oriano, autore della editio princeps del manufatto ha osservato: «Sembra trattarsi di un prodotto nuragico a imitazione di quelli orientali, e infatti i segni grafici paiono lettere alfabetiche fraintese. Non è facile dire se l’oggetto avesse un uso pratico per marcare prodotti, cosa che avrebbe notevoli ripercussioni sulle innovazioni dell’organizzazione economica del villaggio».
Appare probabile che i segni alfabetici siano alterati in virtù di una «maladresse d’écriture» invocata anche in altri contesti primordiali dell’apprendimento della scrittura, come a Eretria per un alpha di un graffito su uno skyphos del Geometrico Recente (?). Deve rimarcarsi la presenza di punti circolari nella sequenza 4 e 1, che ci porterebbe a interpretarli come aritmogrammi sardi, con valore possibile n x 100 (?).
In conclusione vogliamo riprendere le parole che Javier de Hoz ha dedicato alla creazione delle scritture paleoispaniche, che consideriamo emblematiche del processo di disseminazione dei segni alfabetici nel Mediterraneo:
Hay que tener en cuenta sin embargo […] que el creador o creadores del prototipo de las escrituras hispánicas podía no sólo conocer la escritura fenicia sino probablemente – estamos en el mundo cosmopolita de los mercaderes – también otras contemporáneas que le habrían familiarizado con la idea de los signos vocálicos.
Questo «mundo cosmopolita de los mercaderes» è quello che ritroviamo tra IX e VIII a.C. ad Al Mina come a Huelva, a Tiro come in Eubea, a Cipro come a Creta, a Cartagine come a Pithekoussai e a Veii, in Cilicia come in Sicilia e in Sardegna. Il mondo dei mercanti conosceva i vari sistemi scrittori e utilizzava anche le tavolette cerate del tipo di quelle di Ulu Burun, Megiddo, Huelva e Marsiliana d’Albegna. Tali tavolette rientrano nell’orizzonte della cultura omerica, in riferimento alla Licia, e paiono documentate dalle iscrizioni luvie. Se è possibile che uno dei luoghi di acquisizione del codice scrittorio fenicio o aramaico da parte dei creatori dell’alfabeto greco sia stato Cipro, in cui funzionava il semplificato sillabario cipriota con 56 segni, di cui cinque vocali, i dati più recenti sulla diffusione dell’alfabeto fenicio in ambito anatolico ci mostrano la
complessità della formazione dei codici scrittori cario, frigio, lidio, licio, in cui la sistematizzazione in rapporto all’alfabeto greco è secondaria e non originaria. Il multilinguismo e la conoscenza di differenti codici scrittori («la scrittura della città, la scrittura di Sura [= Tiro], la scrittura di Assiria e la scrittura di Taiman ») sono documentati, anche simbolicamente, in una iscrizione in geroglifico luvio, di circa l’800 a.C., proveniente da Karkamiš, nella quale il principe Yariris dichiara di conoscere 12 lingue e le differenti scritture. Dalle cittadelle neo ittite, al vertice orientale del «triangolo» tra Cipro, Cilicia, vicino Oriente, irte di un popolo di statue che fiancheggiavano le vie cittadine frequentate da Fenici, Aramei, Eubei, Ciprioti, dovette venire ai Sardi l’ispirazione della statuaria monumentale, tradotta negli agalmata di Monte Prama (Cabras-OR), che dominavano la strada che delimitava a oriente l’heroon degli eroi sardi, simboleggiati dai guerrieri, dagli arcieri e dai pugili di calcarenite. In questo contesto di incontri tra Oriente e Occidente poté germinare presso i Sardi della prima età del ferro la coscienza del valore dei codici scrittori. Sarà il futuro delle ricerche a documentare o smentire l’ipotesi di acquisizione di un codice scrittorio da parte delle comunità sarde, che, comunque, attestano in età ellenistica e romana l’utilizzo sporadico dei codici alfabetici punico e latino per rendere lessemi – come nurac – e antroponimi e teonimi della lingua paleosarda, al pari di populi come il lusitano, che attenderanno la romanizzazione per acquisire con il latino il codice scrittorio atto a esprimere la loro lingua.

Note:
1 G. SANNA, La stele di Nora, p. 83, fig. 1. Il supporto, presumibilmente basaltico, presenta una riutilizzazione come soglia. Il testo, verosimilmente antico, potrebbe essere punico: nrg [---], non anteriore all’età tardo punica per il tipo del  Per un altro documento punico (una stele a davanzale del III sec. a.C., con il testo: wg‘, inteso come antroponimo paleosardo) dall’area del nuraghe Sanilo (Aidomaggiore) cfr. P. FILIGHEDDU, Additamenta priora ad res poenicas Sardiniae pertinentes, in L’Africa romana, 10, Sassari 1994, p. 811, nr. 4.
2 G. SANNA, La stele di Nora cit., pp. 61-67, figg. 25-28. Il lato A del ‘ciondolo’ reca la scritta in caratteri fenici ‘bd’ che parrebbe trascrivere con i caratteri arcaici della stele di Nora l’antroponimo ‘bd’ dell’iscrizione punica tharrense CIS I 157; il lato B trascrive unitariamente, con una resa paleografica identica alla stele di Nora, l’ultima lettera ( ’ ) della seconda linea, seguita dalle prime cinque lettere (b šrdn) della terza linea della stessa stele di Nora, componendo ’b šrdn. Il testo dei due lati è considerato dall’autore come ’bd{’} / ’ b šrdn, tradotto “servo del padre signore giudice”, ove “signore giudice” è l’interpretazione di G. Sanna di šrdn, inteso comunemente come il nesonimo “Sardegna”. L’aleph del lato A è interpretato come «logogramma
(toro, ’aleph, ’ak)» (p. 65). Può essere interessante notare che, sulla base delle interpretazioni di varie ‘iscrizioni nuragiche’, in particolare di quelle di Orani e di questa di Allai, G. Sanna propende per la lettura di ’/b šrdn alle linee 2-3 della Stele di Nora, intendendo “padre Shardan (signore giudice)” ossia Sardus pater, secondo la lettura già propria di studiosi ottocenteschi della Stele di Nora, quale l’Arri, lo Iudas, il Bourgade, lo Spano (G. SANNA, La stele di Nora cit., pp. 24-27, 63).
3 G. SANNA, Scrittura nuragica: gli Etruschi allievi dei Sardi (I-II), gianfrancopintore.blogspot.com (14 giugno 2010). L’epigrafe era già stata studiata da M. PITTAU, Nuova iscrizione etrusca rinvenuta in Sardegna, in L’Africa romana, 9, Sassari 1992, pp. 637-644, con replica di L. Gasperini, che argomentatamente considera le scritte false, e controreplica di M. Pittau (pp. 645-649); M. PITTAU, Nuova iscrizione etrusca rinvenuta in Sardegna, in Ulisse e Nausica in Sardegna cit., p. 97. G. Sanna ritiene che nel testo di Allai siano presenti segni di tipologia etrusca, latina e nuragica: «La tipologia delle lettere è facilmente riconducibile agli alfabeti presenti nei documenti romani del V-IV secolo a.C. Interessante si rivela subito, dal punto di vista epigrafico e paleografico, l’andamento della velare sonora (‘g’ forse gutturale e non palatale) arcaica che mostra il consueto andamento a spirale. Detta consonante non è da considerarsi simbolo alfabetico e basta, ma con ogni probabilità, è ancora intenzionalità simbolica, trattandosi in particolare di una lettera a spirale o a serpente, cioè di un vero e proprio pittogramma, all’interno di tutto il codice grafico simbolico di esorcizzazione della morte posto in essere (come si vedrà più avanti) nella lapide. Sulla sinistra della prima sequenza di lettere si trova un serpentello, disegnato verticalmente, di dimensioni tali da coincidere con
l’altezza dei segni della suddetta sequenza. Il serpente, come si sa, è simbolo di ‘immortalità’ e di ‘rinascita’ usato nell’iconografia, mortuaria e non, di molti popoli. Posto com’è, e cioè verticalmente, esso si affianca chiaramente al segno precedente, e cioè alla consonante spirale-serpente, che è anch’essa simbolo di energia, di continuità della vita e di rinascita. Sulla sinistra della stele compaiono, disposti anche stavolta obliquamente da sinistra verso destra, 26 segni di tipologia alfabetica etrusca, così disposti: 4 segni nella prima linea (a partire da sinistra), 6 segni nella seconda linea, 8 segni nella terza e altri 8 segni nella quarta. I grafemi non compaiono tutti di proporzioni uguali: i segni della prima linea sono manifestamente
più piccoli di quelli delle altre tre. Anche i caratteri etruschi con facilità possono essere ricondotti per tipologia a quelli in uso in Etruria nel V-IV secolo a.C. Pertanto tipologia dei segni alfabetici latini e tipologia dei segni etruschi sembrano denunciare subito una contemporaneità delle due scritte della lapide essendo contemporanei gli stessi alfabeti. Insomma, lo scriba che ha redatto sia il testo latino che quello etrusco operava scrivendo con dei segni in voga nel suo tempo o poco prima». Si deve rilevare, a proposito dell’analisi della G («arcaica che mostra il consueto andamento a spirale») di Giorre, che, a onta del rimando generico al recentissimo (e bellissimo) manuale di Alfredo Buonopane dell’Università di Verona (A. BUONOPANE, Manuale di Epigrafia latina, Roma 2009), il grafema specifico della velare sonora (fonema /g/) nell’epigrafia latina a r c a ic a è inesistente, poiché, come è noto, la introduzione nell’alfabeto latino del grafema G si deve al grammatico Spurio Carvilio, nel III sec. a.C., che lo formò aggiungendo un apice al grafema C, derivato al latino dall’alfabeto etrusco che aveva adottato sin dal VII secolo il gamma corinzio di forma semilunata (M. CRISTOFANI, Introduzione allo studio dell’etrusco, Firenze 1981, p. 10), utilizzato in Etruria per la velare sorda (fonema /k/) (non esistendo nella fonologia etrusca la velare sonora), mentre
nell’alfabeto latino, prima della riforma carviliana, serviva per esprimere sia la velare sorda, sia la velare sonora (R. ONIGA, Il latino. Breve introduzione linguistica, Milano 2007, p. 26). Lo scrivente aderisce all’argomentato giudizio di falsificazione recente per questa iscrizione, formulato nel 1991 da Lidio Gasperini.
4 Vedi supra l’elenco: nrr. 1-3, 5-6, 10, 12, 14, 17, 18, 19, 25, 26 (con il dubbio su una eventuale pertinenza a età romana dell’aggiunta dei simboli e dei grafemi), 28, 30. I dubbi maggiormente rilevanti riguardano le iscrizioni che contengono evidenti grafemi fenici arcaici, protocananaici e protosinaitici che parrebbero pendere da repertori di segni presenti in pubblicazioni sulla scrittura. Tali iscrizioni sono state incise con uno strumento appuntito che determina una incisione sottilissima, priva della medesima patina del supporto. Per le iscrizioni a incisione con solco profondo chi scrive ritiene plausibile una attribuzione a codici scrittori moderni derivati dall’alfabeto latino (ad es. nrr. 3, 5, 19, 28). La fusaiola fittile da Palmavera (Alghero), esposta presso il Museo Archeologico G.A. Sanna di Sassari (autopsia dello scrivente in data 19 novembre 2012), rivela una sequenza di lettere, graffite con una punta fine che ha inciso le incrostazioni del reperto e, di conseguenza, è posteriore alla formazione di tali incrostazioni, determinate dalla giacitura nello strato archeologico. Chi scrive è incline ad attribuire l’iscrizione a un lusus nell’ambito dei partecipanti (operai?) allo scavo archeologico di oltre mezzo secolo addietro. La c.d. navicella fittile di Teti è
nota in una serie di immagini di cattiva qualità che non consentono di comprendere la natura dei presunti segni.
5 Chi scrive ritiene estremamente più verosimile che le iscrizioni del frammento vascolare di Orani e del ‘ciondolo’ di Allai siano due falsi contemporanei che hanno utilizzato sequenze grafematiche della stele di Nora, alla stessa stregua del falsario (Gaetano Cara?) autore della iscrizione ebraico-fenicia sulla base del trono di Sardus Pater del Manoscritto Gilj, edito da Alberto Lamarmora nel 1853, dove si legge lb šrdn al posto del corretto ’b šrdn, come rilevò lo stesso Lamarmora (A. LA MARMORA, Sopra alcune antichità ricavate da un manoscritto del XV secolo, in «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino», 14, 2 (1853), p. 157; ID., Itinerario dell’isola di Sardegna tradotto e compendiato dal canon. Giovanni Spano, I, Cagliari 1868, pp. 166-167) che notava che, per la paleografia, le lettere fenicie šrdn del trono di Sardus Pater fossero «simili a
quelle che si trovano nella famosa lapida di Nora» (ivi, p. 167). Sulla falsificazione del manoscritto Gilj cfr. G. LILLIU, Un giallo del secolo XIX in Sardegna. Gli idoli sardo-fenici, in «Studi Sardi», 23, 1 (1973-74), pp. 313- 363; ID., L’archeologo e i falsi bronzetti, Cagliari 1998, pp. 45-48.
6 La storia dei falsi epigrafici è storia di longue durée. In generale sulle falsificazioni di iscrizioni si vedano le considerazioni di M. GUARDUCCI, Epigrafia greca, I, Roma 1967, pp. 487-501 e la celebre dimostrazione della falsificazione dell’iscrizione latina della fibula prenestina: EAD., La cosiddetta fibula prenestina. Antiquari, eruditi e falsari nella Roma dell'Ottocento, Roma 1980 («Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», s. 8, vol. 24, fasc. 4); EAD., La cosiddetta fibula prenestina. Elementi nuovi, Roma 1984 («Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie». Classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 8, vol. 28, fasc. 2); EAD., Nuova appendice alla storia della «Fibula prenestina», in «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei». Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. 9, 2 (1991), pp. 139-146; EAD., Per la storia dell'Istituto Archeologico Germanico. 1. 1887: la Fibula Prenestina e Wolfgang Helbig, in «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (Römische Abteilung)», 92 (1992), pp. 307-313. Per una lucida disamina delle motivazioni varie delle falsificazioni (in ambito delle iscrizioni iberiche) cfr. J. DE HOZ, Historia lingüística de la Península Ibérica en la Antigüedad. II: El mundo ibérico prerromano y la indoeuropeización, Manuales y Anejos de «Emerita», 51, Madrid 2011, pp. 434-436. La Sardegna vanta al riguardo una ampia tradizione che, pur rimontando al secolo XVI, diviene imponente nell’Ottocento (cfr. A. MASTINO, P. RUGGERI, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea, in L. Marrocu (a cura di), Le Carte d’ Arborea. Falsi e Falsari nella Sardegna del XIX secolo, Cagliari 1997, pp. 219-273). Fra i documenti falsificati di recente
lo scrivente annovera i testi ‘etruschi’ di Crocores-Bidonì, in base al riconoscimento dei testi originari etruschi ricopiati con fraintendimenti. Sulla questione cfr. E. CARTA, Reperti archeologici o falsi? Allai, la procura chiude l'inchiesta: c’è un indagato, in «La Nuova Sardegna», 4 ottobre 2009, p. 26; G. PINTORE, I “falsi di Allai” fra giudizi così così e solidi pre-giudizi, gianfrancopintore.blogspot.com (5 novembre 2009); G. SANNA, Religione nuragica: l’origine dei presunti falsi di Allai. Il dio Anubi ('Jnp-w) e il dio YHWH ’ab šrdn, gianfrancopintore.blogspot.com.
7 Chi scrive fu richiesto, da parte di Gianni Atzori e Gigi Sanna, al principio della loro ricerche, di un giudizio sulle celebri ‘tavolette di Tziricottu’. Lo scrivente sulla base della documentazione fotografica dei calchi ipotizzò inizialmente una pertinenza dei segni ad ambito del cipro sillabico (non miceneo, come è stato scritto), rinunziando ben presto a tale idea per l’impossibilità di individuare nei vari sillabari ciprioti segni corrispondenti e non perché costrettovi da alcuno. Inoltre lo scrivente comunicò a G. Atzori e G. Sanna i dati a propria conoscenza su segni alfabetici e aritmogrammi su materiali sardi della prima età del ferro scoperti e studiati da Gianni Ugas. Finalmente diede notizia agli stessi che la foto di un frammento di ceramica prenuragica
di cultura Ozieri dal sito pluristratificato di Serra ‘e sa Furca di Mogoro era stata mostrata al Prof. G. Pettinato, che ritenne di ravvisarvi segni cuneiformi. Il celebre anello con iscrizioni protocananaiche di Su Pallosu fu considerato da chi scrive medievale, con iscrizione araba, e così dichiarato ai due ricercatori. Allorquando fu edito il volume di G. Atzori e G. Sanna, Omines, gli autori chiesero allo scrivente di presentarlo a Ghilarza e a Oristano. Nella presentazione chi scrive ripropose la propria posizione relativa ai segni alfabetici e numerali attestati in manufatti sardi del Primo ferro, ribadendo l’opinione della Scuola del Prof. Giovanni Lilliu dell’inesistenza di una scrittura della Sardegna nuragica, dell’età del bronzo. In occasione della consegna
da parte dell’inventore della ‘tavoletta di Tziricottu-A’, Andrea Porcu di Cabras, alla Soprintendenza per i Beni Archeologici, nelle mani di chi scrive, nella sede dell’Antiquarium Arborense, il 19 giugno 1998, lo scrivente, in qualità di Direttore dell’Antiquarium, rifiutò di concedere il Museo come sede della Conferenza stampa organizzata dagli autori della ricerca sulla ‘scrittura nuragica’, esprimendo poi in un comunicato stampa, non eterodiretto ma compilato dallo scrivente, le proprie posizioni sulla stessa ‘scrittura nuragica’. Il prof. Gigi Sanna (La micrografia di Gianni Atzori e l’inizio della storia. Microcronaca, gianfrancopintore.
blogspot.com (16 gennaio 2012)), richiede circostanze e nomi (che chi scrive non avrebbe avuto desiderio di rivelare) di chi avrebbe determinato lo scrivente a cambiare opinione sulle ‘tavolette di Tziricottu’: chi scrive ribadisce in pubblico quel che disse privatamente a Gianni Atzori e Gigi Sanna. Lo scrivente rivendica la propria libertà di pensiero: il Professor Giovanni Lilliu, di venerata memoria, fece sapere a chi scrive di non approvarne la presentazione del volume Omines di G. Atzori e G. Sanna. A tale osservazione lo scrivente rispose che in quella presentazione aveva ribadito la propria posizione sfavorevole alla esistenza di una scrittura della Sardegna nuragica, sostenendo l’acquisizione da parte dei Sardi di grafemi alfabetici e di un
sistema numerale nel Primo ferro. Infine lo scrivente considera perfettamente legittimo da parte di chiunque esprimere le proprie opinioni anche ferocemente avverse alle interpretazioni di chi scrive: la libertà, nel mondo globale, si misura, secondo la massima eraclitea, nel silenzio che spegne i conflitti.
8 L. GODART, L’invenzione della scrittura cit., pp. 127-128 ha ricordato la pagina di C. LEVI STRAUSS, Tristi tropici, Milano 1960, relativa al ruolo del capo della tribù amazzonica dei Nambikwara nella comprensione dell’importanza e della funzione della scrittura come strumento di prestigio, tradottasi nell’ottenimento da parte del capo degli strumenti scrittori (bloc-notes e matita) necessari per mostrare alla sua tribù la propria pretesa capacità di utilizzo di un codice scrittorio (in realtà un sistema di linee curve), col quale poteva dimostrare la propria autorità nello scambio. Al di là della differenza sostanziale fra il livello culturale dei
Nambikwara e quello delle popolazioni mediterranee ed europee a livello dell’età del bronzo medio, tardo e finale è indubbio che il possesso di manufatti (esotici) provvisti di segni di scrittura, ottenuti in dono, da parte dei capi delle società mediterranee centro-occidentali, non dotate di codici scrittori, doveva rimarcare l’autorità dei capi sia per il dono ‘prezioso’ in sé, sia e soprattutto perché i capi poterono percepire la funzione della scrittura, pur non possedendola. Problematiche appaiono alcune testimonianze epigrafiche, probabilmente in sillabari egei, di Drama in Bulgaria (tavoletta con un testo presunto in lineare A: cfr. A. FOL, R. SCHMITT, A Linear A Text on a Clay Reel from Drama, South-East Bulgaria?, in «Prähistorische Zeitschrift», 75
(2000), pp. 56-62) e di Vattina, Serbia, al confine con la Romania (boule fittile forata con testo in probabile CM: E. MASSON, Étude de vingt-six boules d'argile inscrites trouvées à Enkomi et Hala Sultan Tekke (Chypre), SIMA XXXI, 1: Studies in the Cypro-Minoan scripts, 1, pp. 30-31, pl. III, per la quale appare più plausibile l’ipotesi di importazione dall’area egea: cfr. J.C. COURTOIS, Bibliographie, in «Syria», 50 (1973), p. 467).
9 Il sigillo, individuato in una collezione privata, fu rinvenuto «durante lavori agricoli sulle pendici nord della falesia di Marano a Cupra Marittima […] Il lato A della tavoletta presenta, lungo i lati brevi, una decorazione a piccoli cerchi allineati, cinque per ogni lato; lungo i lati lunghi si nota un doppia incisione: questa sorta di cornice inquadra un’iscrizione in segni piuttosto rozzamente tracciati, divisa in due registri da una doppia linea. Il lato B del sigillo cuprense porta una breve iscrizione geroglifica contenente
sicuramente il nome del dio Amon: da destra si trova il segno i, quindi un uccello che si può identificare con l’oca attribuendogli il valore z3, infine il segno mn. La combinazione potrebbe aver riprodotto, anche se un po’ maldestramente, parte della titolatura regale egizia ampiamente diffusa anche attraverso gli scarabei, e precisamente il titolo z3 imn, “figlio di Amon”. Va inoltre considerata la possibilità che il segno dell'uccello non abbia il valore z3 “figlio”, bensì sia parte integrante del nome divino in quanto l'oca era uno degli animali sacri al dio» (G. CAPRIOTTI VITTOZZI in ID., G. GARBINI, Un amuleto egizio-filisteo da Cupra
Marittima, in «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei». Classe di scienze morali, storiche e filologiche, 397 (2000), pp. 529-541). Giovanni Garbini ha proposto l’individuazione dei segni del lato A come lineari filistei: «si può affermare che pur sottraendosi a qualsiasi tentativo di lettura i segni visibili sulla faccia A dell’amuleto ci riportano a un tipo di scrittura che potremmo definire ‘miceneizzante’ con forti affinità con la lineare B. Ora, ritrovare insieme su un unico oggetto una scritta egiziana e segni riferibili, anche se in maniera non precisa, alla scrittura micenea ci riporta a un orizzonte culturale ben determinabile storicamente: quello della Palestina posteriore all'insediamento dei cosiddetti popoli del mare, i quali conobbero un processo abbastanza rapido di acculturazione con l’ambiente locale. In altri termini, l'amuleto di Cupra Marittima rivela immediatamente la sua origine palestinese, che per il periodo compreso tra il XII e il X sec. a.C. vuol dire di fatto filistea» (ivi, pp. 537-538).
10 G. COLONNA, in G. Bartoloni, F. Delpino (a cura di), Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto cit., p. 481 ha proposto l’idea che «l’acquisizione della scrittura nell’Italia centrale sia stato non un evento puntuale, come finora abbiamo creduto, ma un processo ‘lungo’ svoltosi almeno in due tempi, e con conseguenze assai diverse. Un primo, timido passo verso la scrittura sembra essere stato compiuto nella bassa valle del Tevere, probabilmente a Veio, all’epoca delle frequentazioni euboiche ‘pre-coloniali’, con una fievole ripercussione a Bologna. Il secondo passo, decisivo perché non ha conosciuto ripensamenti, a differenza del primo, ha avuto luogo in una delle grandi città dell’Etruria meridionale costiera, forse Tarquinia,
nella fase di transizione o agli inizi dell’Orientalizzante». Giovanni Colonna valorizza in questa lettura un’anforetta a spirali di Veio del secondo quarto del VII sec. a.C. (G. COLONNA, Veii. Rivista di epigrafia Etrusca, in «Studi Etruschi», 69 (2003), pp. 379-382) con le lettere graffite sul collo alfa, beta, gamma, delta, in cui l’alfa ha la forma adagiata di immediata impronta fenicia (come nell’oinochoe del Dipylon) riportabile a un «modello antichissimo di alfabeto euboico, che potremmo definire pre-pitecusano» (p. 481). Il medesimo tipo di alfa adagiato si riscontra graffito nell’iscrizione etrusca al (“dono”) del cinerario della tomba 21 Benacci-Caprara (Bologna) (p. 481).
11  Lo spillone fu rinvenuto nel corso dello scavo del 1993 in una delle «fossette […] interpretabili come luoghi di offerte votive» (P. BERNARDINI, Necropoli della Prima Età del Ferro in Sardegna cit., p. 355) che circondavano alcune tombe, esplorate tra il 1990 e il 1993, appartenenti alla necropoli con tombe a pozzetto a inumazione singola (scavi G. Ugas 1984), una delle quali (tomba 3) restituì una statuetta in bronzo di un personaggio stante armato di lancia.
12 N. IALONGO, Il santuario nuragico di Monte S. Antonio di Siligo (SS) cit., pp. 396-398 sembra ritenere i diversi aritmogrammi dotati del medesimo valore numerale («simboli che rappresentano entrambi, seppure con rese differenti, un valore identificabile con la cifra 5», p. 397), il che è improbabile se non ammettendo l’assunzione di valori diversi in contesti e ambiti cronologici differenti. Si noti che l’aritmogramma a circolo avrebbe un valore 100 ad esempio nel lingotto di Santa Anastasia con peso di kg 9,005 corrispondente a circa 400 multipli dell’unità ponderale del peso di Abini (ivi, p. 397).



2 commenti:

  1. Nelle sagge parole di Christopher A. Rollston: "In sum, modern forgeries have been produced for some time. Forgers have means, motive, and opportunity; however, epigraphers and palaeographers also have a substantial counter-arsenal. At this juncture, methodological doubt and rigorous protocols are desiderata. Caveat Eruditus".

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