giovedì 31 maggio 2012
Pietre e ambiente...il connubio dei megalitici
Architettura rurale
di Pierluigi Montalbano
Scrive Braudel: “è stato il mare a creare le terre e le pietre, e l'acqua di mare ha lasciato ovunque la traccia del suo lento lavoro: al Cairo i calcari sedimentari di grana fine bianco latte permetteranno al cesello dello scultore di dare la sensazione del volume giocando su incisioni profonde solo qualche millimetro; le grandi placche di calcare corallino dei templi megalitici di Malta; la pietra di Segovia che si bagna per lavorarla più facilmente; i calcari delle enormi cave di Siracusa; le pietre d’Istria portate a Venezia; e tante rocce della Grecia, della Sicilia, della Sardegna, sono tutte nate dal mare. Se l'attenzione si sposta sulle terre che circondano il mare, si arriva a parlare, come avviene oggi, di Lago Mediterraneo, e di puntare l'attenzione su quei territori di pietra che negli anni hanno dato riparo e ristoro a chi fuggiva dal mare per evitare tempeste, malattie e guerre”.
Da uno sguardo allargato al paesaggio del Mediterraneo, restringiamo il nostro orizzonte e fermiamoci alle pietre della Sardegna. Le architetture del paesaggio rurale caratterizzano l’isola, e pur non lasciando nomi di architetti da ricordare, sono un libro aperto in cui si può leggere una storia millenaria. L'architettura rurale è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo tutta l’isola: la morfologia del posto, il clima, l'economia e la tecnologia. Rossella Barletta, descrivendo l’architettura rurale salentina, afferma che muretti a secco, terrazzamenti e paiare sono costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale. La tecnica deriva dalla pratica. Le stesse parole possono descrivere i muri a secco della Sardegna: sono architetture consolidate che non presentano segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall'esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Essendo collegati all'ambiente, i materiali sono quelli del luogo, pietre su pietre, senza collanti. Muretti a secco, terrazzamenti, costruzioni a forma di capanna, tombe e pozzi che costituiscono un mare di terre e pietre. Dovunque si vada, in Sardegna come in Puglia, si vedono pietre che si aggregano, si cercano, si compongono, come fossero calamite.
Questa realtà si adatta a molte terre del Mediterraneo. La casa a cono, riparo fisso o temporaneo, nata dall'ingegnosità strumentale dei contadini che utilizzavano le pietre strappate alla terra per costruire un riparo per se e per gli animali, si trova fin dall'antichità in tutti popoli del Mediterraneo. L'architettura di pietre a secco ha avuto certamente origini differenziate per quanto riguarda gli usi. Non si esclude, infatti, che le costruzioni a tholos richiamano strutture funerarie presenti in Grecia e nell'isola di Pantelleria. L'architettura a secco della Sardegna precede certamente quella della Grecia e della Turchia, ma non quella dell'Egitto e delle lontane coste occidentali del nord Europa, ma un fil rouge di pietra lega le capanne che davano riparo ai contadini della Mesopotamia nel III millennio a.C. ai nostri nuraghi a corridoio.
Come per la Puglia, sono almeno due gli elementi che contraddistinguono il paesaggio sardo: uno è di origine vegetale e riguarda la vite e l'ulivo, l'altro è di ordine morfologico e riguarda la roccia calcarea e basaltica che, in alcune aree, affiora a tal punto da non lasciare il minimo spazio al terreno coltivabile, conferendo all'ambiente un senso di diffusa aridità, e di pregnante ostilità, adatto esclusivamente ad attività legate alla pastorizia. Laddove la sedimentazione calcarea si presenta sotto forma di grigia pietraia, diventa il principale e naturale segno anagrafico, in grado di incidere sul carattere degli abitanti e sulle loro sorti economiche e sociali. Il predominio della roccia, generando un suolo povero di risorse, carente di idrografia superficiale, e un clima particolarmente caldo in estate, pur regalando squarci paesaggistici suggestivi, soprattutto in ambito costiero, è stato un ostacolo alle tradizionali forme di economia agricola. Con queste condizioni sfavorevoli, è facile immaginare come la necessità di conquistare lo spazio agricolo per impiantare attività economiche produttive sia stato il pensiero fisso dei contadini. Dovettero innescare una lotta con l'ambiente fisico che, a sua volta, influenzò il tipo di popolamento, le sue vicende storiche, il rapporto di classe, la dinamica demografica e, nel tempo, il declino della vita rurale e l'esodo migratorio dalla campagna improduttiva. Solo pensando al faticoso lavoro manuale di ciascun contadino, si capisce la resistenza alle avversità di chi decide di bonificare un terreno sassoso, livellare depressioni e formare terrazzamenti coltivabili. Ci si può facilmente rendere conto del divario economico e culturale che separa l'azienda agricola moderna dalla famiglia contadina del passato, abituata a produrre e consumare in famiglia quel poco che un terreno, per sua natura aspro e tenace, riusciva a dare. La Barletta scrive: “superata la sorpresa dinanzi a tanta presenza di pietra, l'occhio coglierà un altro significativo aspetto: in Sardegna come in Puglia l'uomo ha dato dignità storica ad un materiale freddo e muto, su cui ha riportato graficamente le impressioni del clima culturale e politico vissuto, per trasmettere e prolungare nel tempo il ricordo delle varie fasi della sua presenza”.
Investite di questa singolare funzione, le pietre identificano le vicende delle genti che hanno abitato il territorio fin dalla preistoria. Attraverso i sassi è facile individuare e seguire un percorso archeologico, megalitico, medievale e moderno, e sostare nelle principali aree da cui sono state dissepolte pietre dall’inestimabile valore documentario come i dolmen, i menhir e tutto il materiale litico crollato dalle alte torri nuragiche. Si rimane rapiti al cospetto delle maestose mura, innalzate dalle primordiali popolazioni; ripercorrere i sopravvissuti spezzoni di carrarecce; curiosare nei villaggi rupestri; scrutare le chiese romaniche e le austere torri costiere corrose dalla salsedine; incantarsi di fronte alle maestose torri nuragiche; ammirare la pazienza degli artigiani che incastonarono con millimetrica precisione le pietre dei pozzi sacri. Mediante l'osservazione dei vari “segni” delle civiltà che si avvicendavano, si possono interpretare i modi di intendere e di rappresentare la fede, la difesa, il piacere del bello, il senso della funzionalità e della praticità, il rispetto sacrale che si è rivolto all’acqua, al fuoco, alle altre risorse della natura e alla fauna. Accanto ai monumenti, bisogna annoverare quelle tipiche espressioni della civiltà contadina realizzate con pietre non lavorate: i muretti a secco. La studiosa pugliese racconta che cercare di sgombrare completamente un campo dalle scaglie di pietra, sarebbe come pretendere di esaurire la sabbia lungo un lido del mare, ma i contadini riuscìrono a sfruttarlo al meglio, talvolta guadagnando preziosi fazzoletti di terra da coltivare, altre volte ottenendo materia prima da utilizzare per varie funzioni. Per un innato senso del riuso, raccolsero le pietre divelte e le accumularono in un angolo per distribuirle ordinatamente in una geometria di muretti e terrazzamenti quale impedimento al terreno di franare e, allo stesso tempo, ostacolo insuperabile per gli animali che potrebbero distruggere le coltivazioni. Altre volte decisero di costruire dimore rurali e riuscirono a fare sgorgare l'acqua nascosta sui massi convogliandola sui campi e rinvigorendo i frutti del loro faticoso lavoro. L’arcaica architettura delle pietre a secco è costituita dai muretti di campagna e dalle tipiche abitazioni, denominate pinnettas, ancora solide e spesso affiancate da forni, aie, pozzi e altre strutture che testimoniano l'autosufficienza della famiglia rurale. Le pietre, ritenute generalmente ostacolanti, sono servite, invece, per costruire sia strutture divisorie sia forme insediative, connotative e identitarie del paesaggio secolare sardo. Attraverso le pietre, gli abili maestri artigiani risolsero l'esigenza di procurarsi un riparo stabile per sé e per gli animali, dimostrando rispetto e forte attaccamento verso la terra.
Questi esempi di architettura minore, spesso incivilmente danneggiati e oggetto di colpevole indifferenza pubblica, dovrebbero essere tutelati e valorizzati, conservandoli attraverso una costante manutenzione, ripristinandoli anziché sostituirli con mattoni prefabbricati. Il motivo non è solo sentimentale ma tecnico perché svolgono una funzione importantissima per l'habitat. La loro struttura consente alla terra di non franare a causa del dilavamento provocato dalla pioggia e, allo stesso tempo, alla vegetazione di essere protetta e difesa dall'azione del vento. Inoltre l'assenza di legante tra le pietre è causa di porosità ed evita gli eccessivi ristagni d'acqua che costituirebbero un pericolo sia per lo sviluppo delle colture adiacenti sia per la tenuta del muro stesso. Gli interstizi tra una pietra e l’altra, infatti, consentono di trattenere l'umidità accumulata nel terreno durante la stagione piovosa o originatasi dalla condensazione dell'atmosfera, e di tramutarla in riserva di acqua a cui attingono durante l'estate rispettivamente il terreno, gli arbusti spontanei e le specie animali che in essi dimorano. Spesso i filari di pietra sono disposti con le lastre inclinate verso l'interno per permettere lo scorrimento della brina nella pietraia interna di riempimento. Le radici delle piante tendono a essere rivolte verso le pareti proprio perché il terreno vicino a queste è rifornito di umidità, pertanto quando si abbattono i muretti si annullano questi delicatissimi meccanismi, necessari alla salvaguardia dell'ecosistema.
Nelle immagini:
Un muretto a secco sardo
Scorcio della muraglia megalitica di Monte Baranta
Il muro di Monte Baranta...umanizzato
Una Pajara pugliese
Le foto sono protette da copyright
mercoledì 30 maggio 2012
Bronzetti Falsi
Nel 2009 il Museo Archeologico di Cagliari organizzò una mostra di una serie di bronzetti falsi realizzati nell'Ottocento e spacciati per autentici. Molti di questi sono pubblicati nei libri degli archeologi del passato. E' evidente la loro falsità, la si evince dalla ricchezza sproporzionata degli accessori, dalla mancanza di eleganza e dall'aspetto delle superfici. Hanno un valore notevole (nonostante siano falsi) perché appartengono ad una collezione.
Il mio suggerimento è di fare un giro al Museo Archeologico di Cagliari per vedere i bronzetti autentici. Sono alti al massimo 30 cm e sono molto espressivi e affascinanti. Rappresentano capi tribù e guerrieri con i capelli raccolti in trecce ma anche gente comune con l’offerta alla divinità e la mano destra alzata in segno di saluto. Se siete fortunati (non sempre sono esposti) riuscirete a vedere anche i falsi bronzetti dei primi del 1800, quelli nelle immagini, che godettero fama di autenticità per circa 80 anni. Furono creati da artigiani sardi che copiarono gli originali e ci misero del loro, creando bizzarre creature con molta fantasia. Questi bronzetti fantasiosi ci sono molto familiari perché simili ai personaggi dei cartoni animati giapponesi. Di solito I bambini di sono più affascinati dai falsi, che dai veri bronzetti.
martedì 29 maggio 2012
Navigazione nuragica e navicelle bronzee
In relazione all'appuntamento di Venerdì 1 Giugno al Museo Archeologico di Sinnai, ore 18.30, sono lieto di comunicare che, oltre alla programmata visita guidata lungo le vetrine espositive del Museo, sarà allestita una mostra sulla navigazione nuragica. Colgo l'occasione per pubblicare l'articolo riguardante gli studi sul tema.
Osservazioni e riflessioni sulle appendici delle navicelle nuragiche
di Gerolamo Exana (Associazione Archistoria - Sinnai)
Presenti unicamente nelle navicelle bronzee a fondo piatto a sezione trapezoidale, e interpretate come “peducci” dalla gran parte degli studiosi, si prestano facilmente ad altre interpretazioni quando queste sono riprodotte in situazioni tutt’altro che confacenti alla funzione di piedistalli.
La funzione di peducci infatti ha un senso fino a quando questi si ritrovano sistematicamente disposti alla base dello scafo in numero di 4 nei vertici di un rettangolo o di un rombo immaginario;
ma questa non è la situazione reale.
Nell’osservazione delle appendici si notano espressioni che vanno dalle piccole prominenze appena abbozzate, rotte o consumate, alle chiare forme intatte di elementi piani a forma di rettangolo o trapezio, sviluppati obliquamente verso il basso o anche sullo stesso piano del fondo. E’ in questa espressione di “chiare ed esplicite” forme che lo studio deve essere concentrato, in quanto risultato della migliore espressione tecnico artistica del maestro che ha voluto fissare in un oggetto bronzeo ciò che fù di queste antiche navi.
Come in tutti i campi infatti le realizzazioni artistiche possono essere caratterizzate da espressioni di “particolari” appena abbozzati o fortemente stilizzati che possono deviare l’osservatore dalla giusta interpretazione.
Lo studio attento e meticoloso permette comunque di individuare fra le varie espressioni quelle che sono chiara ed evidente forma voluta dal maestro più realista, che riassume nella propria realizzazione tutti gli input meno precisi e realistici delle altre espressioni.
Esempi sulla dubbia funzione dei peducci sono i casi in cui poggiando su un piano orizzontale una navicella con due appendici presso una estremità, si viene a creare la situazione di scafo inclinato.
Situazione di dislivello indesiderata, soprattutto se lo scopo dell’artista era quello di realizzare un modello con peducci o piedini atti a migliorare o stilizzare la stabilità del modello su un piano.
Non solo, spesso poi, si tratta di scafi a fondo piatto con superfici abbastanza larghe tali da non richiedere l’ausilio di peducci. Ancor più se queste navicelle erano destinate ad essere appese.
da notare:
-scafo con fondo notevolmente piatto in cui le appendici non influiscono sulla stabilità.
-peducci orizzontali? se fossero piedini sarebbero rivolti verso il basso.
Le seguenti osservazioni costruttive possono aiutare a comprendere quale possa essere la reale funzione delle appendici;
nello sviluppo si è cercato di non escludere nessuna ipotesi:
Osservazioni a favore della funzione di “peducci”:
-in molti casi sono rappresentati in numero di quattro disposti secondo i vertici di un rettangolo o di un rombo, sollevando lo scafo in modo eguale su tutto lo sviluppo nei riguardi di un piano sottostante.
Osservazioni a favore di altre funzioni:
-ammesso che le navicelle venivano attrezzate di anello per essere appese, a che cosa servivano allora i peducci?
-perché compaiono solo nelle navicelle a fondo piatto sez. trapezoidale e mai in quelle a sez. curvilinea ?
-spesso i peducci sono rappresentati solo in numero di due
-i soli due oltre che al centro compaiono spesso in prossimità delle estremità snaturandone la posizione più logica per la funzione di peduccio
-spesso i due peducci sono inclinati verso il basso di circa 45° e quindi tengono sollevato e inclinato il piano del fondo in corrispondenza del loro innesto
-la loro presenza non è necessaria in quanto spesso il fondo presenta caratteristiche di grande stabilità in quanto piano e abbastanza largo
-le appendici spesso sono rappresentate come pinne di forma pseudo trapezoidale, sviluppate maggiormente in larghezza e lunghezza che nello spessore … un peduccio invece prediligerebbe una forma a bastoncello a sezione tonda o anche quadra, o se vogliamo arricchirlo di stile, a mo’ di zampa.
-uno scafo a fondo piatto è meno stabile di uno scafo a fondo curvo e quindi può necessitare maggiormente di accorgimenti che lo stabilizzino. A parità di scafo esso è dotato di maggiore superficie galleggiante e di conseguenza è soggetto maggiormente ai movimenti di rollio e beccheggio.
Elenco delle ipotesi sulla loro funzione:
-stabilizzatori del rollio nei casi di posizione a rettangolo, a rombo e a coppia singola in prossimità delle estremità
-stabilizzatori del beccheggio nei casi di posizione a rombo (con appendici alle estremità)
-stabilizzatori del rollio nei casi di posizione centrale allo scafo
-stabilizzatori della direzione in supporto dell’unico propulsore remo – timone. Essi (se inclinati verso il basso) impedirebbero la perdita della direzione impressa dal rematore posto su un lato in corrispondenza della poppa (vedi anello scalmiera presente solo nelle navicelle a sez. trapezoidale)
-sistemi per facilitare il disincaglio nei bassi fondali in quanto permettono allo scafo di mantenere un margine di galleggiamento dovuto alle appendici distanzianti dal fondo. Inoltre con delle leve agendo sulle appendici si può ottenere lo spostamento dello scafo
-supporti per lo spiaggiamento della nave tramite sollevamento o traino
-protezioni dello scafo contro urti accidentali (in questo caso i “peducci” andrebbero persi senza creare falla all’imbarcazione in quanto, come osservato in alcuni bronzetti, applicato “esternamente” tramite un’unica barra passante sul fondo.
-speroni per il danneggiamento delle navi avverse
Esempi di “alette stabilizzatrici passive antirollio” utilizzate nei natanti di oggi:
Esempi di alette stabilizzatrici attive:
Osservazioni sulla ipotetica propulsione remiera delle imbarcazioni a fondo piatto marginato:
Esse si caratterizzano per la mancanza dell’albero e della frequente presenza dell’”anello scalmiera” sul lato fiancata presso la poppa.
Il remo in questo caso agiva come propulsore, e la spinta di questo nascendo da un lato appena dietro la metà dello scafo compensava la tendenza alla rotazione dello scafo nel caso il remo fosse posizionato al centro o direttamente all’estremità della poppa.
Inoltre avvicinando o allontanando il remo dallo scafo si modificava la direzione dell’imbarcazione.
Non avendo carena a sezione a curva che conferisse allo scafo un maggiore pescaggio, una certa resistenza allo sbandamento e quindi una buona tenuta della direzione , la presenza di appendici inclinate verso il basso poteva dare supporto alla direzione impostata dal “remo – timone”, impedendo la traslazione o scarroccio e o rotazione indesiderata dello scafo piatto
Conclusioni:
Le navi a fondo piatto sono probabilmente imbarcazioni di media – piccola stazza di costruzione più semplice, condotte da un solo rematore timoniere, sistematicamente prive di alberatura e adatte per acque calme o sottocosta, con bassi fondali, come lagune, stagni o estuari di fiume. Necessitano di stabilizzatori del rollio in quanto per loro natura (piccola stazza , fondo piatto, ampia superficie di galleggiamento e basso pescaggio) soggette ai minimi movimenti della superficie del mare.
Osservazioni sul comportamento idrodinamico degli scafi:
Per le prove sono stati realizzati 5 modelli di scafo, perfettamente identici fra loro in scala 1:25.
Essi riproducono il tipico scafo delle navicelle a fondo piatto e sezione trapezoidale munito di appendici,
questi si differenziano unicamente per il numero e la disposizione delle appendici.
ciò ha permesso di evidenziare le differenti caratteristiche comportamentali individuali che ne derivano dalla presenza e diversa disposizione di queste.
I cinque modelli rappresentano le seguenti tipologie di scafo attrezzati di appendici:
A) Scafo a fondo piatto privo di appendici
B) Scafo a fondo piatto con 1 coppia di appendici ad 1/3 dello scafo in prossimità di una estremità (nei modelli bronzei esistono esemplari con appendici in prossimità sia della prua che della poppa
C) Scafo a fondo piatto con 2 coppie di appendici disposte rispettivamente una a 1/3 dello scafo in prossimità della prua e una a 1/3 dello scafo in prossimità della poppa
D) Scafo a fondo piatto con 2 coppie di appendici disposte rispettivamente una coppia a ½ dello scafo e una coppia lungo l’asse longitudinale dello scafo alle estremità della prua e poppa
E) Scafo a fondo piatto “convesso” con 1 coppia di appendici ad 1/3 dello scafo in prossimità della prua
E’ in fase di realizzazione:
F) Scafo a fondo piatto con una coppia di appendici disposte a ½
G) Scafo di maggiori dimensioni a sezione curvilinea
Test eseguiti sui 5 modelli:
prova di comportamento sul movimento di rollio
prova di comportamento sul movimento di beccheggio
risultato dei test:
A) Scafo a fondo piatto privo di appendici
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio intenso e prolungato nel tempo
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio veloce
B) Scafo a fondo piatto con 1 coppia di appendici ad 1/3 dello scafo in prossimità di una estremità (nei modelli bronzei esistono esemplari con appendici in prossimità sia della prua che della poppa
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio moderato e limitato nel tempo
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente veloce
C) Scafo a fondo piatto con 2 coppie di appendici disposte rispettivamente una a 1/3 dello scafo in prossimità della prua e una a 1/3 dello scafo in prossimità della poppa
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio molto lento con pochi atti di rollio
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente veloce
D) Scafo a fondo piatto con 2 coppie di appendici disposte rispettivamente una a ½ dello scafo e una lungo l’asse longitudinale dello scafo alle estremità della prua e poppa
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio molto lento con pochi atti di rollio
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente lento
E) Scafo a fondo piatto “convesso” con 1 coppia di appendici ad 1/3 dello scafo in prossimità della prua
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio più veloce del modello B ma con meno atti di rollio
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente veloce
F) Scafo a fondo piatto con una coppia di appendici disposte a ½
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio molto lento con pochi atti di rollio
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente veloce
G) Scafo di maggiori dimensioni a sezione curvilinea
Risposta al movimento di rollio: movimento di rollio mediamente lento con pochi atti di rollio
Risposta al movimento di beccheggio: movimento di beccheggio mediamente lento
Conclusioni:
Le prove hanno evidenziato una “certa” influenza della presenza di “appendici” sul comportamento dello scafo piatto a sezione trapezoidale in acqua.
Nello specifico la loro presenza aumenta la stabilità dello scafo piatto nei confronti del movimento di rollio e beccheggio
Nelle prove il modello G a sezione “curvilinea” di maggiori dimensioni o stazza si comporta con una discreta tenuta del rollio e del beccheggio, a dimostrazione che, come rappresentato dai modelli bronzei, le navi a fondo piatto a sezione trapezoidale dovevano essere corrette o stabilizzate con delle appendici in quanto per la loro conformazione e minore stazza, più soggette ai movimenti di rollio e beccheggio.
In particolare la sezione trapezoidale dello scafo a fondo piatto crea un momento di brusco cambiamento di assetto in fase di rollio in quanto le superfici della carena formano due angoli d’azione nei confronti del liquido sostenente che non consentono di assorbire, addolcire e limitare i movimenti di rollio come si verificherebbe invece in uno scafo a sezione curvilinea e di maggiore stazza.
lunedì 28 maggio 2012
Il vino nel mondo nuragico
3000 anni fa i sardi brindavano con il vino nel Nuraghe Arrubiu
di Giancarlo Ghirra
Non è il caso di ricamarci sopra scenari politici o filosofie della storia, ma sapere che i sardi nuragici praticavano con successo (e gioia) la coltivazione della vite non dispiace in un'era storica, la nostra, che vede un crescente successo dell'enologia made in Sardinia. C'è scienza antica dietro la fortuna dei vitigni autoctoni, come conferma Gianni Lovicu, ricercatore nell'istituto regionale che sino a poco tempo fa si chiamava Cras e ora è stato ribattezzato Agris. L'esperto di tecnologia insieme all'archeologo Mario Sanges, della Sovrintendenza di Nuoro e Sassari, sono i protagonisti della terza delle Serate di Archeologia a Casa Cabras di Orosei.
Un pubblico folto li ascolta mentre demoliscono alcuni falsi miti: «Fino a qualche decennio fa era opinione comune fra tutti gli studiosi del settore - esordisce Sanges - che l'arrivo in Sardegna del vino, e della coltivazione della vite, risalisse alla fase iniziale della colonizzazione fenicia (IX-VIII a.C.). Fortunate campagne di scavo condotte con i più moderni sistemi di indagine archeologica, coadiuvate da sofisticate analisi scientifiche, hanno consentito di retrodatare a partire dalla fine del XV a.C. la certezza della presenza in Sardegna della vite e del vino».
Il dottor Sanges sostiene che proprio 3.500 anni fa si intensificarono i rapporti dei Sardi con il mondo miceneo, come dimostrano contenitori di ceramica utilizzati per la conservazione dell'olio, ma anche del vino. Ne sono state ritrovate diverse, e in luoghi diversi: dal nuraghe Antigori di Sarroch al complesso nuragico di Santu Pauli di Villamassargia, dalla grotta santuario di Pirosu Su Benazzu di Santadi al Nuraghe Arrubiu di Orroli, che l'archeologo conosce particolarmente bene per aver partecipato da protagonista alla campagna di scavi. Oltre a narrazioni mitiche, come quelle riguardanti Aristeo, sono stati rivenuti dagli archeologi acini carbonizzati e pollini, brocche e anfore. Notevoli quelle a forma di askos, cioè di otre, fra le quali brilla anche per raffinatezza estetica la straordinaria brocca askoide a due colli (uno dei quali costituito da una grande protome bovina) proveniente dalla fonte sacra nuragica di Sa sedda ‘e sos carros di Oliena. «Tutto ciò prova - secondo Mario Sanges - che il vino era già prodotto ed esportato nei tempi preistorici». Successivamente, in era fenicia, punica e poi romana, la Sardegna diventa un luogo di produzione e smercio. «Due laboratori enologici in eccezionale stato di conservazione, con vasche per la pigiatura, bacili, basi e contrappesi dei torchi, nonché recipienti di vario uso, in ceramica e vetro - precisa Sanges- erano presenti nei livelli di riutilizzazione degli spazi in Età romana nel grande complesso del Nuraghe Arrubiu di Orroli». Lo scavo ha permesso di recuperare anche una certa quantità di vinaccioli carbonizzati, rivelatisi appartenenti a un vitigno ancora coltivato nell'Isola, denominato a seconda delle diverse località «Bovale sardo» o «Muristellu».
Sono tanti, in realtà, i vitigni nati in Sardegna. Fra loro il più famoso è sicuramente il cannonau, per secoli impropriamente ritenuto proveniente dalla Spagna. A smentire questo falso mito è stato ed è con le sue ricerche Mario Lovicu: «Il cannonau - spiega con profusione di cifre e dati - è il vitigno più coltivato in Sardegna e uno dei più coltivati al mondo: è stato riconosciuto simile al Garnacha spagnolo, al Grenache francese e al Tocai rosso friulano. Molti studiosi hanno affermato che il vitigno sarebbe originario della Spagna proprio per la similitudine con il Garnacha e con il«Can(n)onazo» di Siviglia, vitigno spagnolo di origine andalusa. In realtà, un'analisi più puntuale e completa delle fonti documentali ha permesso di evidenziare che il nome spagnolo del vitigno, Garnacha, ma anche quello con cui è internazionalmente conosciuto, Grenache, vengono dall'italiano Vernaccia, un chiaro segno della provenienza non iberica del vitigno».
Per di più non esiste un vitigno canonazo di Siviglia, dal quale è stato fatto derivare il cannonau. Nessun autore spagnolo parla di questa varietà, banalmente frutto di un errore di stampa: «Soltanto una serie di citazioni errate - spiega il dottor Lovicu - ha finito per dare un'errata origine spagnola al cannonau, del quale si parla in Sardegna in un atto notarile nel 1549, mentre la prima citazione del Garnacha come vino rosso in Spagna è di un dizionario del 1734». Si scopre insomma che le ipotesi classiche sull'origine di alcuni vitigni coltivati in Sardegna si fondano su un pregiudizio culturale, non sostenuto da una rigorosa analisi delle fonti. «Tutto ciò - precisa il ricercatore- ha determinato un'attribuzione di origine al cannonau perlomeno discutibile. A questo vitigno, e al muristellu, è stata attribuita un'origine spagnola che un esame puntuale delle fonti e i ritrovati della biologia molecolare riportano invece in Sardegna. «Insomma - sostiene Mario Lovicu - si può ipotizzare che il cannonau sia stato esportato dalla Sardegna, dove è nato, in Spagna, e non viceversa».
Mario Lovicu e l'archeologo Mario Sanges, riportano dunque nell'Isola le origini di un vitigno che era stato regalato agli spagnoli. Torna in una Sardegna che lo sudioso di tecnologie identifica in un centro di domesticazione, una terra in cui la vite selvatica (vitis vinifera), è stata coltivata dall'uomo, ottenendo una produzione di uva abbondante, tanto da consentire l'esportazione del vino sardo nel bacino del Mediterraneo. E non di un solo vino. In Sardegna sono ben 26 i vitigni dei quali il ministero delle Risorse agricole autorizza la coltivazione, ma il numero di quelli utilizzati in piccole realtà è assai più elevato. Si arriva a cento: tanti erano stati censiti dall'Angius 150 anni fa. Certo, il cannonau è uno dei più noti, ma non si possono dimenticare altri, antichissimi, come il muristellu, del quale Mario Sanges, nel corso dei suoi scavi, ha trovato vinaccioli nel Nuraghe Arrubiu di Orroli.
La Città del Vino nuragica scoperta nella Valle del Tirso.
di Valeria Pinna
Conoscevano i segreti del vino fin dall'età nuragica. E nella terra, culla storica della vernaccia, forse era scritto nel Dna. Già 3200 anni fa, gli antenati degli oristanesi erano veri maestri con uva e fermentazioni. Ma erano anche abili nella pesca, nella lavorazione dei metalli e del legno. Tante conoscenze e abilità manuali venute fuori inaspettatamente dal cuore della valle del Tirso.
Da quei cumuli di terra, spostati dalle ruspe che si danno da fare per realizzare il ponte di Brabau (eterna incompiuta, in costruzione da circa 30 anni per collegare Oristano a Torregrande e alla costa di Cabras). E che hanno avuto la grande fortuna di portare alla luce un prezioso insediamento del Bronzo. Scoperta da capogiro per gli archeologi che, fino a oggi, sugli usi e sulle abitudini quotidiane dei nuragici avevano viaggiato «un po' con la fantasia, ma adesso abbiamo finalmente testimonianze certe: dai pezzi di legno intagliati ai semi di uva e di fico, fino ai pezzi d'osso», ha commentato il soprintendente Alessandro Usai, mentre illustrava il tesoro scoperto casualmente due anni fa. Reperti che potrebbero realmente riscrivere la storia del vino e della civiltà alimentare nell'Oristanese. In località “Sa Osa”, a due passi dal fiume Tirso, è stato ritrovato un insediamento risalente all'età nuragica: «Un sito atipico - dice il soprintendente illustrando il valore del ritrovamento - perché non c'è nulla di monumentale in superficie che lo richiama. Non ci sono resti di nuraghi, perciò non saremmo mai andati a scavare là». Poi, un pizzico di fortuna ha fatto sì che la storia travagliata del ponte di Brabau si intrecciasse con quella degli antichi popoli. «Ci siamo trovati davanti a una scoperta unica - ha aggiunto lo studioso - che troverà spazio nella letteratura internazionale: le pubblicazioni su questo materiale faranno il giro del mondo nei prossimi decenni». Il sito risale alla piena età nuragica, è contemporaneo del nuraghe che si trova nei pressi del Rimedio vicino al ponte Tirso, ritrovato anch'esso durante lavori di costruzione di una strada. «Evidentemente in quell'epoca c'erano diverse comunità nuragiche insediate nelle campagne della zona - ha spiegato Usai -, popoli che vivevano di caccia, pesca, raccolta di frutti e agricoltura». Si tratta di un insediamento interessante sotto il profilo geografico per la vicinanza al fiume e al mare ed è costituito da fosse scavate nel terreno. I cosiddetti «fondi di capanna» sopra i quali si edificava con materiali deteriorabili che, infatti, non sono arrivati fino ai giorni nostri. Sono rimaste, però, le fosse e i pozzi con le tracce dei gesti e delle attività compiute tanti secoli fa. Alcuni, lontani parenti delle discariche, erano utilizzati per depositare rifiuti come cocci, conchiglie e ossa di animali. Altri per contenere scorte di acqua e vari materiali. Erano scavati in profondità, anche sotto il livello del mare.
Uno di questi si è rivelato una sorta di pozzo delle meraviglie per gli studiosi del passato. Una fossa di un metro di diametro e quattro metri di profondità (ma gli studiosi intendono provare a scendere ancora). Ed è stata l'umidità del sottosuolo il vero segreto per conservare i materiali in condizioni uniche e farli arrivare pressoché intatti nelle mani della squadra di archeologi. «Abbiamo trovato molti vasi interi e frammenti grandi che sarà facile rimettere insieme» ha spiegato Usai. All'interno un terriccio fangoso liquido che passato al setaccio ha consentito di ritrovare «frammenti di lische di pesce e anche i pesi delle reti - va avanti - a dimostrazione che la pesca avveniva già allora secondo tecniche precise». Sono stati trovati pezzi di legno grezzo e lavorato, «legni intagliati, fatti su misura per comporre qualche altro oggetto». Ancora, lucerne e piccoli vasi dal carattere votivo e simbolico, quelli che gli studiosi definiscono «manufatti miniaturistici». Conservati nel fango si sono mantenuti benissimo centinaia di semi legumi, di cereali, di olive «che danno lumi sulle abitudini alimentari» e semi di uva e fichi «che documentano l'uso del vino in Sardegna già in quell'epoca antichissima».
Finora si era pensato che il vino fosse stato portato nell'Isola dai fenici o dai micenei, adesso la scoperta sotto il ponte di Brabau cambia radicalmente lo scenario. La Sardegna può essere considerata terra madre del vino e addirittura, anche in età nuragica, c'era una notevole ricchezza e varietà di uve. Ma soprattutto c'era una diffusa conoscenza dei segreti del vino. «La concomitanza della presenza di semi di uva e di fico fa supporre che già allora fosse seguito un sistema in uso fino a pochi decenni fa in Sardegna per rendere più alcolico il vino - ha precisato l'archeologo Raimondo Zucca - Al mosto venivano aggiunti i fichi secchi in modo da conservare meglio il vino e aumentarne il tasso zuccherino e alcolico». Gli archeologi hanno in programma altre analisi anche per conoscere meglio l'origine dei vitigni, ma sono bastati i semi nascosti nel fango per accendere l'interesse sull'argomento anche all'estero. Si sta sviluppando sempre più, infatti, quella particolare branca dell'archeologia che studia proprio i vini e l'alimentazione antica. Ma, le scoperte di Sa Osa potrebbero suscitare interesse anche nel circuito dell'enoturismo, attirando gli appassionati di vino di tutto il mondo, come testimoniato dall'imprenditore vinicolo di Cabras Paolo Contini.
Alla luce di questo immenso valore storico, i lavori degli studiosi capitanati dal soprintendente Alessandro Usai devono andare avanti. Il ponte di Brabau potrebbe aspettare ancora prima di spogliarsi della fascia di incompiuta, ma «una scoperta di tale portata merita l'attenzione di tutti noi. Sarebbe un reato fare finta di nulla», hanno ribadito il presidente della Provincia Pasquale Onida e l'assessore ai Lavori pubblici Franco Serra. Da qui l'impegno delle istituzioni a reperire altre risorse per completare la squadra di archeologi (magari coinvolgendo anche gli operatori delle cooperative dei beni culturali), e consentire alla ricerca scientifica di aggiungere qualche altro prezioso tassello alla misteriosa e sorprendente storia dei nuragici nella valle del Tirso.
La Grecia sulla Scena Enologica Mondiale
Ecco un elenco di tutti i tipi di uva coltivati correntemente in Grecia. Alcune di queste varietà sono state salvate dall'abbandono e quasi certa estinzione da previdenti imprenditori locali. Vorrei chiedere ai lettori del blog di focalizzare l'attenzione sul "Liatiko". A mio parere si tratta di una pianta addomesticata e sviluppata strutturalmente a Creta, e portata in varie parti del Mediterraneo dai commercianti del Bronzo medio e recente. Diventa "Marsala" a Mozia-Lilibeo e "Malvasia"...in Sardegna.
Uve Bianche
Aidani: Coltivata a Santorini e altre isole dell'Egeo. Ha un caratteristico bouquet floreale.
Assyrtiko: Una delle migliori varietà di uva da vino coltivata in Grecia. Si trova in abbondanza nelle isole dell'Egeo e specialmente a Santorini, infatti copre circa il 65% della coltivazione su quest'isola dal suolo vulcanico e rappresenta la base per la A.O. (denominazione d’origine). Produce vini di pronunciata acidità che a volte viene ammorbidita con l'aggiunta di Savatiano durante la vinificazione. I vini hanno aromi fruttati e vengono prodotti in una varietà di stili.
Attiri: Coltivata principalmente nelle isole dell'Egeo, si trova in minori quantità anche nel nord della Grecia e nel Peloponneso. L'A.O. Rhodes (Rodi) si ottiene con quest'uva tagliata solitamente con uva Assyrtiko.
Debina: Varietà indigena di Zitsa, nell'Epiro, con la quale si producono le varietà sia ferma che frizzante dell'A.O. Zitsa. L'elevata altitudine dei vigneti trasmette freschezza e aromi fruttati ai vini prodotti con quest'uva.
Kakotrigis: Si trova esclusivamente sull'isola di Corfù.
Lagorthi: Un vigneto molto promettente, seppur coltivato in minima quantità, tipico del nord est del Peloponneso.
Malvazia: Coltivata in piccole quantità sull'isola di Paros. Durante il medio evo invece, il vino dolce prodotto con quest'uva veniva esportato in abbondanza da Creta. Il nome attuale venne imposto dai veneziani ai tempi delle Repubbliche Marinare, i quali cambiarono il nome delle città marittima di Monemvasia in Malvazia.
Moshofilero: Usata per produrre vini "Blanc de Gris" a causa del colore rosato dell'acino. La controparte tedesca di questo vitigno è il Gerwutztraminer. Quest'uva raffinata cresce ad altitudine elevata nella parte centrale del Peloponneso. L'A.O. Mantinia ha un distinto bouquet fruttato ed ha elevata acidità.
Muscat: Questi vini, prodotti in una varietà di stili che vanno dal secco al vino da dessert, ritengono un pronunciato aroma reminiscente dell'uva. Coltivata a Cefalonia, Rodi, Samos e Patra – viene usata in uno degli A.O. prodotti in queste zone.
Robola: Uva caratterizzata da un ricco aroma. Coltivata principalmente sull'isola di Cefalonia, è una delle uve da vino più costose prodotte in Grecia.
Roditis: Vigneto coltivato abbondantemente in tutta la Grecia. La pelle degli acini può essere bianca oppure rosso pallido e viene usata negli A.O. Patra and Anhialos. La qualità del Roditis aumenta con l'altitudine alla quale viene coltivata.
Savatiano: A causa del tipico sapore scipido, quest'uva costituisce la base tradizionale del famoso vino resinato Retsina. In anni recenti però, sono stati introdotti drammatici cambiamenti nella vinificazione di quest'uva, principalmente grazie al l'applicazione di tecnologie enologiche moderne. Vitigno più coltivato in Attica e Euboea, rappresenta il 15% della produzione totale di uva per vino coltivata in Grecia.
Sideritis: Vitigno coltivato nei pressi di Patra, nel nord del Peloponneso.
Tsaoussi: Questa uva viene coltivata nell'isola di Cefalonia e usata in tagli con uva Robola.
Vertzami: Una varietà secondaria coltivata principalmente a Lefkada.
Vidiano: Vitigno cretese che da miglior risultati quando coltivato ad alta quota.
Villana: Varietà di uva bianca coltivata per la maggiore nel nord e all'interno di Creta e usata per produrre l'A.O. Peza. I vini prodotti con questa uva generalmente sono ricchi di aromi floreali.
Varietà internazionali: Chardonnay, Semillion, Grenache Blanc, Sauvignon Blanc e Ugni Blanc.
Chardonnay è probabilmente il più popolare fra i vitigni internazionali e i vini vengono di solito invecchiati in barile e, a volte, vi vengono anche lasciati fermentare.
Uve Rosse
Aghiorgitiko: Il nome deriva dall'antica città di San Giorgio, oggi conosciuta come Nemea. Vitigno nativo di questa zona, da la migliore uva da vino in tutto il sud della Grecia. Le caratteristiche organolettiche cambiano a seconda dell'altitudine alla quale i vigneti vengono coltivati, col risultato di produrre vini in una varietà di stili. I vini giovani hanno un approccio olfattivo fruttato e, quando vengono invecchiati in botte, sviluppano un bouquet ricco e corposo.
Kotsifali: Questa varietà viene coltivata esclusivamente ad Archanes e Peza. Si tratta di un'uva molto dolce e quasi priva di colore e viene usata principalmente in tagli con uva Mandilaria.
Krasato: Un vitigno indigeno parte dell' A.O. Rapsani in Salonicco.
Liatiko: Una volta questa era l'uva base del vino Malvazia. oggi viene coltivata nelle zone centrali e orientali di Creta e nelle isole Cicladi dove viene usata nella produzione degli A.O. Dafnes e Sitia. Il nome deriva probabilmente dal nome greco di luglio, il mese in cui quest'uva primaticcia matura.
Limnio: Antico vitigno nativo dell'isola di Limnos dove è conosciuto anche col nome di Kalambaki. Coltivato anche a Chalkidiki viene usato come base per l'A.O. Playies Melitona. Produce un vino dal colore profondo e distinto aroma dell'uva originale.
Mandilaria: Uva molto comune nelle isole dell'Egeo e a Creta. Viene usato nei tagli degli A.O. Paros, Archanes, Peza. Viene invece vinificata da sola per l'A.O. Rhodes (Rodi), dove a volte viene chiamata Amorgiano.
Mavrodaphne: Uva coltivata solamente ad Achaia e Cefalonia – produce vini dolci che vengono normalmente invecchiati in botte per molti anni.
Messenikola: Uva coltivata nell'area di Salonicco con lo stesso nome. L'A.O. Messenikola è stato assegnato nel 1994.
Negoska: Uva usata come componente minore dell'A.O. Goumenissa. Contribuisce ad abbassare l'acidità e i forti tannini dell'uva Xynomavro.
Stavroto: Uva usata da taglio nella terza varietà dell'A.O. Rapsani – nota anche come Ambelakiotiko.
Sykiotis: Produce circa il 10% dell'uva da vino coltivata ad Anhialos – produce vino fermo e secco.
Xynomavro: Compete con Aghiorgitiko per il primato fra le uve rosse greche. Produce gli A.O. Naoussa e Amindeo oltre ad essere la base per gli A.O. Goumenissa e Rapsani. L'invecchiamento in botte ne aumenta la qualità – i vini hanno acidità pronunciata, colore brillante e ricchi aromi.
Varietà internazionali: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Grenache Rouge, Refosco, Merlot, Sangiovese e Syrah. Cabernet Sauvignon è la varietà con aroma più distinto e spesso viene invecchiato in botte. Il Grenache ha un alto potenziale alcoolico. Il Refosco viene coltivato nel Peloponneso occidentale ed ha un caratteristico colore rosso rubino.
domenica 27 maggio 2012
Tofet (tophet), cimiteri per bambini dell'età del Ferro.
I Tophet, cimiteri per bambini
di Pierluigi Montalbano
Si tratta di santuari caratteristici dell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tophet.
Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos, all’interno del quale c’è la deposizione di urne in ceramica e stele in pietra. Generalmente si trova a nord dell’abitato in una posizione periferica e non viene mai spostato: qualora si dovessero fortificare le città si arriva a modificare il percorso delle mura per non spostare il tophet. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti, agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma ma dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.
È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”, che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tophet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine vennero eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture.
Ci sono diversi passi che parlano di tophet e di figli che vengono offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i mediterranei non li chiamavano così, è stata una nostra associazione. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.
Ad esempio nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco per i loro Dei i figli e le figlie loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo figliolo secondo gli abominevoli rituali delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli d’Israele”. Un rituale dunque non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo, dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle dell’eccidio, e si seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”.
Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne Valle di Ben Innom, ma Valle della strage”.
Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui hanno trovato a Cartagine queste urne con centinaia di bambini incinerati, hanno attribuito il luogo a quello di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa teoria del sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980 la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini, ma di sacrifici di persone per placare l’ira delle divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.
Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale misterioso”.
Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso Gerusalemme dove i Fenici si diceva "passassero per il fuoco" i bambini. Dalla valle di Ben Innom (come si dice nel Vecchio Testamento) il tofet passerà, nella letteratura storico-archeologica, ad indicare tutti i santuari simili rinvenuti successivamente in area occidentale. Naturalmente ciò fornì il pretesto per stigmatizzare questa usanza da parte degli israeliti, i quali fecero di tutto per proibire tale rito. In realtà il termine "passare per il fuoco" è stato sempre strumentalizzato per porre in cattiva luce i fenici, mentre con tutta probabilità si tratta di un rito di passaggio, del "salto" di un fuoco da parte di un bambino, accompagnato da un adulto, il quale con questa "prova" accedeva a tutti gli effetti tra i membri attivi della comunità. Si tratta di una straordinaria analogia col fuoco di S.Giovanni al solstizio d'estate. È simile a quando si salta un falò in spiaggia, retaggio di un antico rituale di passaggio all'età adulta.
Come si può facilmente vedere la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali.
Secondo Moscati nei tophet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Un gran numero di iscrizioni ritrovate nei tophet riportano delle formule rituali sempre uguali: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Questa formula viene poi cambiata mettendo prima il nome della divinità.
Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.
Ad oggi non sappiamo se ogni stele sia legata ad un urna in particolare, ne se le offerte erano rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o piccoli tempietti con all’interno la rappresentazione della divinità.
In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.
Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa del Dio). In qualche caso un “idolo a bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito del VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.
Le zone più importanti del territorio cartaginese sono il Cap Bòn e il litorale (Sael), che hanno restituito strutture puniche dalle quali siamo risaliti alla fisionomia dell’area in età antica. Le città più importanti sono Utica e Sousse. Il sito principale di Cap-Bon è Kerkouàne, munito di fortificazioni con torri costiere che servivano per gli avvistamenti. Altri siti importanti sono: Ràs Fortàss, Ràs ad-Drèk e Kelìbia. Oltre questi abbiamo santuari e necropoli.
Nelle immagini i tophet di Mozia e Cartagine
sabato 26 maggio 2012
Macomer, scoperta straordinaria.
Macomer, sotto il Castello le tombe di età nuragica
di Tito Giuseppe Tola
MACOMER. C’era veramente un castello sull’altura che sovrasta la ex Carlo Felice all’uscita di Macomer, ma non solo. Come nella collina di Hissarlik Heinrich Schliemann si trovò di fronte a più strati che corrispondevano a differenti periodi della storia di Troia, anche a Macomer gli archeologi dell’Università di Sassari hanno trovato una serie di stratificazioni risalenti a diverse epoche, da quella più recente post-medioevale del 1600, a quella più antica nuragica del XV secolo avanti Cristo. La scoperta che gli archeologici considerano più interessante riguarda le modalità di sepoltura. Nell’area di scavo sono state infatti ritrovate diverse tombe nuragico-puniche nelle quali il corpo del defunto era deposto di fianco, anziché supino come nelle “tombe di gigante” e in posizione fetale, qualcosa di simile alla tomba rinvenuta nel 1981 a San Cosimo di Gonnosfanadiga dal professor Giovanni Ugas. «È l’unico precedente – ha spiegato l’archeologa Maria Antonietta Tadeu, che ha seguito gli scavi per la Soprintendenza di Sassari, – la differenza col ritrovamento di Macomer sta nel fatto che a San Cosimo si ferma tutto al periodo del Bronzo Antico (1900-1800 a. C.), mentre a Macomer si è continuato a seppellire in questo modo per circa mille anni». Durante gli scavi realizzati dall’Università di Sassari e da Castra Sardiniae sono stati fatti dei ritrovamenti importanti. Oltre alle mura del castello, sono state trovate diverse porcellane e un «biberon» nuragico sempre in terracotta. I risultati della seconda campagna di scavi, finanziata da la Fondazione Banco di Sardegna, sono stati presentati ieri nel corso di una conferenza stampa. Di notevole importanza il ritrovamento delle mura del castello di Macomer del quale si aveva notizia solo dai documenti e dalla tradizione.
fonte: lanuovasardegna.gelocal.it
Nell'immagine: Tamuli, i betili di Macomer.
venerdì 25 maggio 2012
" Il Popolo Shardana". Presentazione libro in Veneto.
Associazione "Un Ponte fra Sardegna e Veneto" di Noale, presentazione libro di Marcello Cabriolu.
di Elisa Sodde
Marcello Cabriolu, 38 anni appena compiuti, Sardo doc, è uno degli studiosi di storia ed archeologia della Sardegna più in voga del momento. Collaboratore della Soprintendenza ai Beni Archeologici di Cagliari ed Oristano, ha già all’attivo due testi e numerosissimi articoli su testate giornalistiche. Collaboratore da circa quattro anni della rivista bilingue Làcanas diretta da Paolo Pillonca (autore tra le altre di numerosissimi testi del cantante sardo Piero Marras), da anni Marcello insegna per l’Auser e per diverse Associazioni culturali, tiene conferenze e convegni sull’archeologia e la storia della Sardegna, accompagna studiosi e scrittori durante le presentazioni dei loro libri e si adopera affinché la civiltà Shardana venga inserita nei capitoli ministeriali d’insegnamento delle scuole elementari, medie e superiori. Al momento è in tutte le librerie con il suo testo Il Popolo Shardana – la cultura, la civiltà, le conquiste (Domus De Janas Editore) nel quale rivede con un’ottica originale il ruolo e le connivenze che la civiltà dei Sardi del II millennio a.C. ebbe con tutto il Mediterraneo Orientale, ed in particolar modo il ruolo di predominanza ed alleanza che gli Shardana riuscirono ad intessere con i più grandi Faraoni d’Egitto. Attualmente collabora con diversi istituti scolastici ed è all’opera con la preparazione di altri due testi, il primo dei quali uscirà a breve sempre edito dalla Domus De Janas Editore.
Dopo il Convegno sulla Civiltà Shardana curato dall’Associazione Culturale Un ponte fra Sardegna e Veneto lo scorso 13 maggio a Noale (VE), a cui Marcello Cabriolu ha preso parte in qualità di relatore appassionato ed appassionante, insieme al cartoonist Enzo Marciante, la Presidentessa Elisa Sodde ha realizzato con lui una breve intervista in cui lo studioso parla degli Shardana, del suo libro e degli sviluppi che esso ha avuto nella sua regione, la Sardegna.
Marcello, oggi, per la prima volta, hai potuto presentare la tua “creatura”, Il Popolo Shardana – la cultura, la civiltà, le conquiste, oltre il mare, cioè fuori dalla tua Sardegna: come è arrivata l’idea di scrivere questo libro?
Questo libro è il risultato dell’accorpamento dei dati provenienti dalle indagini sul territorio combinati con le nozioni apprese all’Università. Questo perché i due risultati spesso e volentieri non combaciano. Le ricerche archeologiche in Sardegna sono ancora agli albori e questo crea delle profonde discrepanze nell’analisi dei contesti. Ecco che si manifesta l’esigenza di scrivere e documentare effettivamente la realtà in modo che anche i non addetti al settore possano conoscerla e fruirne.
Nel tuoi studi arrivi ad un’elaborazione quasi opposta a quelle fatte finora. Sostieni che i Sardi uscirono dalla Sardegna, varcarono il Mediterraneo e giunsero nelle terre d’Oriente, in particolare in Egitto. In realtà si è sempre pensato e studiato di una Sardegna come terra di conquistati e non di conquistatori. Come sei arrivato ad elaborare invece una tesi così contrastante?
I Sardi della preistoria già navigavano circa 10.000 anni prima di Cristo, in quanto possedevano risorse quali l’ossidiana ed il sale utili per molte altre popolazioni e attraverso il mare le esportavano. Se vogliamo fare un esempio, ossidiana proveniente dal Monte Arci è stata trovata in tutto il Mediterraneo Occidentale, dall’arco ispanico-franco-ligure fino alla grotta di Fumane, in Veneto. O ancora nell’Europa balcanica fino alle foci del Danubio. È inverosimile pensare che nel momento in cui, molto tempo dopo, si svilupparono le altre civiltà quali Egizi e Hittiti, che non avevano un’abile marineria e non potevano quindi soddisfare autonomamente le proprie esigenze commerciali, i Sardi abbiano disimparato a navigare e quindi a commerciare. Anzi, l’archeologia e l’analisi dei contesti ci riferiscono che nel momento in cui il Mediterraneo è sconvolto da processi bellici e da monopoli sulle rotte commerciali, i Sardi raggiungono l’apice culturale ed il benessere economico testimoniato dalle colossali produzioni metallurgiche e dalla incredibile produzione edilizia. La presenza di edilizia dello stesso tipo, del tutto similare ma con datazioni relative successive, nel Mediterraneo centrale ed in quello Orientale, getta delle basi sicure per affermare che il movimento culturale e tecnologico è avvenuto dal 1600 al 900 a.C. dal Mediterraneo Occidentale verso l’oriente e non viceversa.
Senza nulla togliere alla curiosità dei tuoi lettori, puoi darci una prova o una testimonianza di quello che asserisci?
Semplicemente perché il fittile, ovvero i beni materiali sia ceramici che metallurgici, oltrechè l’edilizia, che accompagnavano i contesti delle zone del Levante popolate dagli Shardana, sono stati giudicati cronologicamente successivi al fittile e all’edilizia corrispondente ritrovati in Sardegna in quantità enormi e giudicati inequivocabilmente come locali.
E per quanto riguarda nello specifico le strutture abitative o edilizie in genere? Quali sono le testimonianze dall’altra parte del Mediterraneo?
L’archeologia colloca ufficialmente i nuraghi evoluti e le forme edilizie legate ad essi, rese con una tecnica a sacco (ndr. un doppio filare di macigni peduncolati assemblati con malta e pietrisco), dal Bronzo Finale a quello Recente (ndr. 1330 – 1000 a.C.). Le strutture e la cultura materiale presenti sulle Isole Eolie e sulla costa orientale della Sicilia riconducono senza ombra di dubbio a quelle sarde ma con datazioni che vanno dal 1100 al 900 a.C., così come le analoghe strutture rinvenute a Creta, a Cipro, nell’Anatolia centrale e nella costa del Mediterraneo Orientale.
Mentre per quanto riguarda l’Egitto?
Alcuni studiosi hanno elaborato che i primi Faraoni venuti in contatto con i Sardi abbiano preteso le loro elaborazioni edilizie sia nelle strutture civili che in quelle funerarie, come ad esempio l’ipogeo che accolse la sepoltura di Tutmosis III. Di riflesso in Sardegna possiamo vedere tantissimo materiale che con precisi cartigli testimonia il contatto con questo sovrano.
Da come parli, e dalle numerose immagini che compongono il tuo libro, si intuisce che tu conosca il territorio sardo molto a fondo. Evidentemente, per la preparazione di questo lavoro hai esplorato l’isola in lungo e in largo, quasi palmo a palmo: credi che rimanga ancora molto da scoprire in Sardegna?
Dovremmo essere arrivati a scoprire finora appena dal 5% al 10% del patrimonio archeologico realmente esistente sull’isola. Al momento, grazie allo studio dei modelli insediativi, possiamo collocare, sull’intera superficie dell’isola che è di 24.000 kmq circa, 8000 Nuraghi, 3000 insediamenti capannicoli, 2000 Domus de Janas, 500 Tombe dei Giganti ed un centinaio di pozzi sacri sparsi per tutto il territorio. Se dovessimo dividere la somma di tutti questi monumenti per la superficie totale della Sardegna risulterebbe un valore pari o prossimo ad una struttura ogni 2 kmq circa. Ma in numerosissime regioni sarde – e diversi studi tengono conto di ciò – l’insieme delle strutture è tale da raggiungere la concentrazione di una struttura ogni 25 ha, contando cioè in media un quadrato di 500 mt per 500 mt.
Tutto ciò è davvero straordinario. Tuttavia si tratta di una realtà ancora sconosciuta ai più (purtroppo!): infatti, quando si pensa alla Sardegna, non viene subito in mente l’archeologia, né la sua storia. Diciamo che fino a un decennio fa determinate scuole di pensiero avevano quasi un monopolio storico, che imputava tutti i processi storici e culturali della Sardegna ad una matrice esterna, mentre invece un’attenta revisione storica e una rilettura delle indagini un po’ più obiettiva e meno legata a scuole di pensiero, promossa ultimamente sia da individui privati che da correnti di studiosi, ha ridipinto un quadro differente da quello descritto finora. Allo stesso tempo ha solleticato l’interesse dei Sardi verso le proprie origini.
Sardegna non solo mare, quindi… Il mare dovrebbe essere il diversivo stagionale ad un’altra attività economica principale, quella appunto legata allo sfruttamento di questi monumenti. Si potrebbe risvegliare un interesse sia in chiave culturale che in chiave economica, portando nell’isola un turismo differente senz’altro, ma forse più attento alla valorizzazione di questo territorio. In virtù anche del fatto che la fruizione del mare è limitata ad una sola stagione, quella estiva, mentre quella dei monumenti archeologici potrebbe interessare tutto il resto dell’anno.
Sarebbe sicuramente auspicabile un cambiamento in tal senso. Hai detto dell’importanza di risvegliare nei Sardi l’interesse per le proprie origini, ciò potrà avvenire anche grazie a studi come il tuo. Qual è stata l’accoglienza ricevuta dal tuo libro a livello accademico e quale la rilevanza a livello regionale?
L’accademia è composta da varie correnti di pensiero: una in particolare, che imputa le origini di certune culture e dei relativi prodotti ad una matrice esogena, non condivide per nulla questo tipo di elaborazione. Un’altra corrente invece, pur non accettando tutto come oro colato, non si discosta più di tanto dall’elaborazione che ho fatto sui soggetti e sulle relative azioni. Sostanzialmente il libro ha avuto un ottimo riscontro tra il pubblico, esaurendo in meno di un anno la prima edizione. A tal punto che la Regione, forse interessata dal prodotto, ha acquisito per sé stessa un numero congruo di copie da distribuire sia negli organi istituzionali interni sia nei vari eventi internazionali di promozione a cui la Sardegna partecipa.
Sei stato il primo ad aver portato gli Shardana nei programmi scolastici ministeriali delle scuole elementari: per la prima volta, infatti, in alcune scuole Sarde il popolo Shardana viene studiato al pari di tutte le altre civiltà del Mediterraneo. Credi che questo sia importante per i Sardi ed in particolare per le generazioni future?
Altri prima di me hanno parlato degli Shardana, ma forse per paura o forse perché era ancora troppo presto, nessuno aveva mai pensato di compiere il passo coraggioso di introdurre l’argomento all’interno delle scuole, tanto da farlo comparire come parte del programma scolastico al pari di tutte le altre civiltà contemplate dai libri di testo. Vorrei precisare che questo processo formativo non è avvenuto esclusivamente con i bimbi della scuola primaria, ma su questa scia anche alcuni docenti di storia e filosofia delle scuole superiori mi hanno sollecitato affinchè questi argomenti si trattassero nei loro istituti. Tengo a sottolineare il fatto, tra l’altro, che ciò che principalmente mi ha spinto a portare gli Shardana nelle scuole non è stato il motivo economico, essendo stata la mia collaborazione completamente gratuita, ma il fatto che sono fermamente convinto che questo passo fosse assolutamente necessario e fortemente richiesto dagli studenti stessi, ovvero da quelle nuove generazioni che sentono forte il loro orgoglio di essere Sardi e che con questo nuovo studio hanno una marcia in più per credere ancor più in sé stessi ed in quello da cui provengono. Credo quindi che questa nuova integrazione allo studio delle civiltà antiche non sia importante ma importantissima. Dare ai nostri giovani le stesse sensazioni che provano i coetanei Greci ed Egizi nel sapere e nel veder riconosciuto universalmente che i propri antenati furono latori di cultura. Pensate un po’ con quale spirito questi ragazzi approcceranno ora il futuro, il divenire adulti a seguito di una diversa consapevolezza di sé stessi.
Quindi hai trovato validi riscontri tra gli insegnanti?
Fondamentalmente sì, sia tra gli insegnanti che nel corpo dirigente sia nei circoli culturali locali.
Hai avuto dei collaboratori in questo progetto? Qualcuno che vuoi ringraziare in particolar modo?
Sì, se non fosse stato per due insegnanti in particolare questo progetto non si sarebbe mai potuto realizzare. Sto parlando dell’insegnante elementare Patrizia Incani e del docente di storia e filosofia Stefano Soi, nonché dei dirigenti scolastici che hanno dato la disponibilità a trattare questi argomenti nelle loro scuole e sono: la Dr.ssa Salvatorina Vallebona, per il plesso elementare di Via Virgilio a Sant’Antioco; il Prof. Giuseppe Melis dell’Ist. Magistrale Statale “Baudi di Vesme” di Iglesias; il Prof. Ubaldo Scanu del Liceo Scientifico “G. Asproni” sempre di Iglesias; ed infine la Prof.ssa Tonina Puggioni del Liceo Scientifico “E. Lussu” di Sant’Antioco. E poi un ringraziamento particolare và a mia moglie, Federica Selis, valida collaboratrice ma soprattutto studiosa di antropologia culturale, la quale non solo ha favorito l’elaborazione di ipotesi realistiche nella ricostruzione storica, ma mi ha aiutato a capire quali canali usare affinchè tale elaborazione potesse penetrare nei vari strati sociali e umani.
In questo momento a cosa stai lavorando: nuove pubblicazioni in corso d’opera?
Almeno due. Entrambi lavori di imminente pubblicazione. Il primo ad indirizzo divulgativo riguarda una guida ai monumenti archeologici della Sardegna e il secondo ad indirizzo scientifico culturale riguarderà l’arte nelle sue molteplici forme e i riscontri che questa ha avuto sia in epoca passata nel Mediterraneo sia in epoca presente nel nostro vivere quotidiano.
Progetti futuri?
Continuare a scrivere, a studiare per poi riportare i risultati dei miei studi. E avere la possibilità di poterli trasmettere a chiunque li voglia conoscere.
Nella foto da sinistra: Enzo Marciante, Elisa Sodde, Marcello Cabriolu
Fonte: Tottusinpari.blog.tiscali.it
giovedì 24 maggio 2012
Le origini dell'addomesticamento del cavallo.
Ucraina. Scoperte le origini dell’addomesticamento del cavallo
di Martina Calogero
L’origine del cavallo domestico risale a circa centosessanta mila anni fa, è stata unica (e non complessa, come si è pensato fino ad ora) e proviene dalle steppe euroasiatiche occidentali, mentre la sua diffusione nel mondo sarebbe cominciata dal territorio che corrisponde all’attuale Ucraina. Lo studio, effettuato da un’equipe di ricercatori del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge e presentata sulla rivista «Pnas», spiega che le zone della moderna Ucraina, del Kazakhstan e della Russia occidentale avrebbero accolto i primi nuclei di cavalli domestici. E non è un caso se nell’area ricade anche la patria dei cosacchi, una popolazione famosa per la sua abilità equestre.
Da anni gli scienziati dibattono sul problema dell’addomesticamento del cavallo, che secondo alcune ipotesi sarebbe potuto anche essere multiplo, visto che molte linee materne mostravano un corredo genetico diverso. Invece, gli esperti, grazie a un database contenente 300 campioni genetici equini, hanno stabilito una sola origine dell’Equus ferus, nelle steppe eurasiatiche occidentali, che nella diffusione di questo animale in Eurasia, ha fatto registrare parecchi incroci, soprattutto con cavalle allo stato brado, da parte degli allevatori. E così si spiegherebbero le diverse linee genetiche materne.
La più antica specie del cavallo “moderno”, denominato Equus stenonis, tornò alla luce in Italia, e si ritiene originato dal Plesippus tra la fine del Terziario e l’inizio del Quaternario. Nello stesso periodo nell’America meridionale il Plesippus si stava evolvendo nell’Hippidion, un animale dalle gambe relativamente corte, con un naso piuttosto lungo che visse a lungo nelle pampa sudamericane, ma alla fine si estinse. Anche tutti gli altri cavalli nordamericani si estinsero, verosimilmente a causa di una malattia infettiva; nondimeno si pensa che gli uomini possano avergli dato la caccia fino all’estinzione, poiché la comparsa dell’uomo in America è avvenuta all’incirca nella stessa epoca che vide l’estinzione di gran parte dei grandi mammiferi americani. Infatti il cavallo ricomparve in America solo alla fine del XV secolo sulle imbarcazioni degli esploratori europei.
Fonte: Archeorivista
di Martina Calogero
L’origine del cavallo domestico risale a circa centosessanta mila anni fa, è stata unica (e non complessa, come si è pensato fino ad ora) e proviene dalle steppe euroasiatiche occidentali, mentre la sua diffusione nel mondo sarebbe cominciata dal territorio che corrisponde all’attuale Ucraina. Lo studio, effettuato da un’equipe di ricercatori del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge e presentata sulla rivista «Pnas», spiega che le zone della moderna Ucraina, del Kazakhstan e della Russia occidentale avrebbero accolto i primi nuclei di cavalli domestici. E non è un caso se nell’area ricade anche la patria dei cosacchi, una popolazione famosa per la sua abilità equestre.
Da anni gli scienziati dibattono sul problema dell’addomesticamento del cavallo, che secondo alcune ipotesi sarebbe potuto anche essere multiplo, visto che molte linee materne mostravano un corredo genetico diverso. Invece, gli esperti, grazie a un database contenente 300 campioni genetici equini, hanno stabilito una sola origine dell’Equus ferus, nelle steppe eurasiatiche occidentali, che nella diffusione di questo animale in Eurasia, ha fatto registrare parecchi incroci, soprattutto con cavalle allo stato brado, da parte degli allevatori. E così si spiegherebbero le diverse linee genetiche materne.
La più antica specie del cavallo “moderno”, denominato Equus stenonis, tornò alla luce in Italia, e si ritiene originato dal Plesippus tra la fine del Terziario e l’inizio del Quaternario. Nello stesso periodo nell’America meridionale il Plesippus si stava evolvendo nell’Hippidion, un animale dalle gambe relativamente corte, con un naso piuttosto lungo che visse a lungo nelle pampa sudamericane, ma alla fine si estinse. Anche tutti gli altri cavalli nordamericani si estinsero, verosimilmente a causa di una malattia infettiva; nondimeno si pensa che gli uomini possano avergli dato la caccia fino all’estinzione, poiché la comparsa dell’uomo in America è avvenuta all’incirca nella stessa epoca che vide l’estinzione di gran parte dei grandi mammiferi americani. Infatti il cavallo ricomparve in America solo alla fine del XV secolo sulle imbarcazioni degli esploratori europei.
Fonte: Archeorivista
mercoledì 23 maggio 2012
Appuntamenti culturali per il fine settimana
Venerdì 25 maggio, ore 18.30, sala convegni del Museo Archeologico di Sinnai, Via Colletta.
L’Associazione Culturale Archistoria, con il patrocinio dell’amministrazione comunale di Sinnai, organizza una conferenza-dibattito sul tema: “La miniaturizzazione in epoca nuragica: bronzetti e navicelle”. Relatore Pierluigi Montalbano. Ingresso libero. Al termine sarà offerto un rinfresco.
Clicca qui per il link dell'evento:
Sabato 26 Maggio, ore 18.00, Biblioteca Comunale di Uta, Via Fresia. La Consulta dei Giovani di Uta organizza un convegno sul tema “Antichi Popoli del Mediterraneo”. Il tema è esposto nell’ultimo libro di Pierluigi Montalbano. L’autore, con l’ausilio di immagini, illustrerà la storia dei commerci marittimi nel Mediterraneo, con particolare approfondimento agli avvenimenti dell’Età del Bronzo. Ingresso libero, dibattito finale e rinfresco.
Clicca qui per il link dell'evento:
Abstract del libro:
Nei miti greci ed egizi troviamo la descrizione degli antichi padri che al termine dell’ultima glaciazione crearono la più evoluta civiltà del passato. I personaggi descritti sbarcarono da un luogo lontano, indistinto, collocato nel mare, in grandi isole poste oltre i confini del mondo conosciuto. Gli antichi papiri egizi li ricordano come Haou-Nebout, mentre per i greci si tratta dei leggendari Pelasgi, il popolo generato dalla terra allo scopo di creare la razza umana. Più tardi, nelle età dei metalli, queste genti assumono una fisionomia più concreta e lasciano tracce evidenti costruendo città con spettacolari palazzi. Per 1000 anni solcano il Mare Mediterraneo con le loro navi commerciali, sono conosciuti con il termine “Minoici”. L’esplosione del vulcano Santorini, avvenuta nel XVII a.C., causa la loro decadenza, e nuovi popoli si affacciano nel Mediterraneo e ripercorrono le stesse rotte commerciali: i “Micenei”. Nel 1274 a.C. a Qadesh e nel 1175 a.C. nel Delta del Nilo, si consumano le ultime speranze dei faraoni Ramessidi di mantenere il dominio armato nel Vicino Oriente. Nuove genti, abili nella navigazione e nel combattimento corpo a corpo, distruggono le città degli Ittiti, dei Mitanni e dei Cananei, e si insediano nelle province egizie determinando il crollo dei grandi imperi. Sono ricordati con un nome che, ancora oggi, rimane misterioso e suscita rispetto: “Coalizione dei Popoli del mare”. Questi guerrieri s’insediarono nel Vicino Oriente e fondarono città, riscuotendo tributi dal popolo e ripristinando le antiche rotte commerciali. Frequentarono le coste fondando approdi e globalizzando il mondo mediterraneo. Migliorarono le tecnologie dei locali, rifornirono di metalli i sovrani e dominarono per 400 anni il panorama politico. I testi li chiamano filistei, sardi, cretesi, ciprioti, tiri, gibliti, sidoni, siculi, tirreni. Nel libro “Antichi Popoli del Mediterraneo” sono chiamati “Levantini”.
martedì 22 maggio 2012
Cartagine
Cartagine, l'impero nordafricano
di Pierluigi Montalbano
Un’area importante nel I Millennio a.C. è quella del Magreb, in particolare della Tunisia, con Cartagine, una città fondata dai Tiri nel 814-813 a.C. che riesce, a partire dal VI a.C., a imporre la propria supremazia nel Mediterraneo Centrale e Occidentale. I rapporti con l’oriente diventano sempre più labili e i cartaginesi decidono di stabilire proprio in questa città nord-africana la base per il futuro.
Vicinissima all’odierna Tunisi, svolge il ruolo che nella Spagna Atlantica fu svolto da Cadice. L’area è urbanizzata, sede di un vasto agglomerato residenziale nonché dei vari consolati dei principali Stati, pertanto è difficile individuare le tracce del passato. Il mito di fondazione risale al 814-813 a.C.. Si parla di Elissa (la Didone greca), una principessa tiria, sorella del re Pigmalione di Tiro e sposata con Acherbas, il sacerdote più importante del tempio di Melqart. Pigmalione, per appropriarsi del tesoro del tempio, uccide il cognato Acherbas ed Elissa, che non vuole finire sotto il controllo del fratello, decide di allontanarsi da Tiro. Prende con sé il tesoro del tempio e i rappresentanti delle famiglie più importanti e fonda una nuova colonia in Occidente, Cartagine appunto. Fa una prima tappa a Cipro dove imbarca 80 fanciulle destinate al culto della dea Astarte, la principale divinità di Cipro, che divengono le sacerdotesse di un culto ben attestato nel mondo mediterraneo e punico, la prostituzione sacra, attività che si svolgeva all’interno del tempio. Era una funzione sacra ma allo stesso tempo economica, quella che vedeva come oggetto l’incremento del tesoro del tempio. Elissa arriva nella costa tunisina, in mano ad una popolazione indigena forte, i libici (gli attuali “berberi”).
La principessa incontra re Iàrba, capo dei libici, con il quale contratta la possibilità di fondare una colonia acquistando, con uno stratagemma, un territorio abbastanza grande. Aveva pattuito una grandezza pari alla pelle di un bue e fece tagliare delle sottili strisce di pelle unendole poi in lunghezza ottenendo una striscia lunga circa 400 m equivalente ad un’area pari ad un ettaro. Esisteva già Utica (città antica) e i rapporti con gli indigeni non furono idilliaci: Iàrba voleva sposarla per controllare la colonia, diventata importante, ed Elissa finse di voler sacrificare alla memoria del marito prima di sposarsi, poi rifiutò il matrimonio e preferì suicidarsi lanciandosi nelle fiamme piuttosto che consegnare la città in mano al re.
Questo mito dimostra che Cartagine nasce come città importante, fondata dalla principessa di Tiro con l’apporto del tesoro del tempio di Melqart. Per diversi secoli Cartagine mantenne un legame forte con Tiro e inviò regolarmente la decima come tributo poiché c’era la volontà di mostrarsi figlia di Tiro. L’elemento indigeno non venne mai completamente integrato, vi fu sempre la distinzione fra l’origine orientale della città e i libici.
Nel territorio di Cartagine abbiamo l’abitato, con tracce dell’VIII a.C. nella piana costiera, racchiusa alle spalle da una serie di colline che nella prima fase vengono destinate alle necropoli (VIII-VI a.C.). La stessa tipologia di urbanizzazione avvenne a Cagliari con l’abitato situato nella zona di Santa Gilla e la necropoli nella collina di Tuvixeddu. Le colline di Cartagine sono Byrsa, Junòn, Duimèt e Dermech. L’abitato arcaico è stato scavato da diverse missioni tedesche (sovrintendente fu Rakob). Presenta un impianto ortogonale di vie perpendicolari che precede di vari secoli l’impianto greco. Le case sono semplici e i muri sono rozzi, con zoccolo in pietrame brutto cementato con malta di fango e pavimenti in terra battuta. Gli scavi presentano strati sovrapposti e gli archeologi, quando scavano questa tipologia, si trovano davanti a strutture difficili da interpretare perché i vari muri si incastrano fra loro.
A scavo effettuato, per valorizzare l’area si deve decidere come conservare la struttura e bisogna far cadere la scelta su cosa mettere in evidenza. Dopo aver scelto la fase che si vuole rendere fruibile si ricoprono le altre e il visitatore si troverà davanti una zona ben evidenziata relativa ad un determinato periodo. Durante gli scavi sono stati individuati materiali mediterranei sia di produzione che di importazione. I materiali eubòici e nuragici mostrano la collaborazione fra questi e i tiri. In periferia ci sono gli impianti artigianali per la lavorazione della ceramica, dei metalli e del pesce che sono tenuti lontani dall’abitato per questioni di scorie, calore, gas, rumori e odori. Questo stesso sistema è diffuso nel mondo mediterraneo e punico, e ancora oggi vediamo che tutte le società cercano di costruire le zone industriali lontano dal centro abitato.
Col passare del tempo l’abitato si allarga e va ad occupare le aree delle necropoli arcaiche, che precedentemente erano occupate dal quartiere artigianale. Le necropoli si spostano verso l’esterno e le più recenti sono infatti all’estrema periferia degli abitati.
Intorno al V a.C. l’abitato si sviluppa verso sud e arriva fino all’area del tophet; successivamente l’espansione interessa anche le altre direzioni. La città arcaica, ubicata in prossimità della costa, è stata scavata da varie equipe di tedeschi (Rakob, Neemayer) e da una missione olandese con a capo Dauteck. Gli scavi hanno operato in ampie aree andando ad intaccare la stratigrafia in profondità. Per rendere fruibili i vari strati si è pensato di ricostruire i vari periodi andando a ricoprire gli scavi con pietrame di vari colori per evidenziare i vari periodi (ad esempio l’area di Magone). In pratica ogni livello ha pietrisco di diverso colore. Anche a Nora hanno fatto una ricostruzione simile.
In tutti gli scavi di Cartagine sotto gli strati bizantini, romani e punici sono venute fuori strutture più antiche: lacerti mediterranei e materiali vari che mostrano già dall’VIII a.C. un commercio intenso con i nuragici e con i greci. L’impianto urbanistico ortogonale è collegabile con l’area sui colli nella quale si trova la Byrsa che in età arcaica era occupata da numerose tombe. La Byrsa nel V a.C. viene raggiunta da un quartiere artigianale, sono visibili infatti tracce di impianti metallurgici con scorie di lavorazione, frammenti di fornace e tuyer. Nel II a.C. la zona è raggiunta dall’urbanizzazione. Secondo le fonti la Byrsa era la sede dell’acropoli. Appiano racconta che i romani nel 146 a.C. conquistarono la città combattendo casa per casa e distruggendo tutto. Considerato che i cartaginesi avevano perso già due guerre contro i romani dobbiamo ritenere che ebbero le capacità per risollevarsi e riorganizzare un’economia fiorente.
Dopo l’abbandono degli ultimi cartaginesi avvenuto in seguito alla sconfitta nella III guerra punica, Roma decise di spianare la Byrsa per edificare il nuovo foro della città, proprio per romanizzare l’area. In età Augustea si decise di ristrutturare la città e Cartagine divenne la città più importante dell’Africa. Quando i romani tagliarono la sommità della collina per ampliare l’area della Byrsa, gettarono i detriti a valle, ricoprendo con uno strato alto sette metri che sigillò le strutture puniche, quelle dell’ultima fase dell’urbanizzazione. L’ambiente abitativo è quindi ben conservato.
Le strutture puniche più recenti sono state usate solo per circa 50 anni, e oggi possiamo studiare la tipologia dell’edilizia popolare di quell’epoca. Una missione archeologica francese ha scavato la zona e sotto tonnellate di detriti è stato ritrovato il quartiere cartaginese della Byrsa. Secondo Appiano le case erano alte fino a sei piani con alzato in mattoni crudi e soffitti in legno. Le case presentano una pianta caratteristica: si affacciano su una corte centrale interna dalla quale prendono luce, aria e acqua grazie alle cisterne nelle quali confluiva l’acqua piovana che veniva canalizzata. L’ingresso è collegato alla corte attraverso un corridoio. La fronte della casa, quella sulla strada, era occupata da alcuni vani che generalmente erano destinati alle attività economiche, dunque aperti al pubblico o agli animali. Gli ambienti interni al pianterreno erano quelli di vita: cucina e locali per vivere, mentre la notte si andava nei piani alti per dormire.
Le case erano costruite su uno zoccolo in pietra grossa e alzato in mattoni crudi cementati con malta di fango. I muri erano intonacati con calce, anche per garantire che l’acqua piovana non si infiltrasse nelle camere. Gli alzati probabilmente erano progressivamente più sottili perché dovevano reggere un peso minore. Le scale mostrano la presenza della zona notte. La copertura del tetto con lastre di pietra a doppio spiovente convogliava l’acqua piovana in canalette che la indirizzavano poi verso la cisterna. Lo smaltimento delle acque reflue avveniva con dei canali che confluivano nella strada dove lo scarico era assicurato da pozzetti. Ogni casa aveva la sua cisterna realizzata con intonaco idraulico e spigoli stondati per una più agevole pulizia. Se vi era un banco roccioso sotto la casa veniva scavato un vano per ottenere la cisterna, altrimenti si scavava il terreno e si costruiva un muretto con blocchetti, a loro volta rivestiti in argilla. Le cisterne erano chiuse con lastre a piattabanda e avevano un pozzetto per attingere l’acqua. L’intonaco con il quale si rivestiva l’interno della cisterna era grigio perché era costituito da malta, inerti e piccoli carboncini per aumentare l’impermeabilizzazione. In alternativa si utilizzava il cocciopisto, materiale utilizzato anche per il tipico pavimento punico. Per ottenerlo si miscelavano degli inerti, calce e frammenti di ceramica che sono quelli che danno il colore rosato. Le strade, ortogonali, erano in terra battuta e per recuperare la pendenza presentano scale, quindi non erano percorse da carri. Le fonti parlano di una Cartagine del II a.C. in forte declino ma i riscontri archeologici, a partire dalle strutture portuali, descrivono una realtà completamente diversa e mostrano una città fiorente.
Attorno alla città bassa si sviluppano le necropoli. Le più arcaiche sono quelle di Byrsa, Dermech, Duimès, Santamonica e Odeòn. Come per Tharros, Ibiza e Cagliari, la necropoli è quella che è stata depredata per prima perché proprio in questi luoghi si trovano materiali integri e spesso pregiati. Soprattutto nel corso del 1800 gli scavi avevano ideali differenti da quelli odierni: si cercavano materiali esotici, c’era un gusto antiquario, l’archeologia era una specie di caccia al tesoro.
Un personaggio importante a Cartagine era Padre Delacr, un sacerdote che alla fine dell’Ottocento ha scavato centinaia di tombe ma, non essendo archeologo, decontestualizzava i reperti per cui oggi è difficile ricostruire i contesti. Verso la metà del 1800 sulla Byrsa è stata impiantata una cattedrale, governata dai “padri bianchi” e Delacr era uno di questi. La Tunisia era colonia francese e l’archeologia era indirizzata soprattutto dal governo francese, per cui gli italiani non parteciparono agli scavi; solo intorno al 1970 qualche missione si è occupata di scavi negli strati romani. Purtroppo i metodi di scavo erano poco sofisticati e per portare alla luce i sarcofagi si sbancavano i fianchi delle colline, determinando la distruzione di molte tombe; abbiamo recuperato molti materiali ma si è persa completamente la possibilità di ricostruire i contesti perché sono stati smontati tutti gli ambienti che portavano all’imbocco della camera. Se la tomba si trovava a 5 metri di profondità si procedeva allo smontaggio di tutto ciò che si trovava sopra.
Oggi l’area è urbanizzata ed è difficile vedere tombe, tranne che nella zona della Byrsa. Altro studioso importante è Paul Gockler, francese, che scavò moltissimo ma morì prima di riuscire a pubblicare i ritrovamenti. Ci restano i suoi appunti di scavo del 1915 nei quali si notano disegni, corredi, maschere, gioielli, bottoni, amuleti e tanti altri dettagli che purtroppo non è possibile riconoscere con certezza proprio a causa della mancata pubblicazione di un testo che riordinasse gli appunti. In origine le tombe della Byrsa si trovavano sul piano di calpestio ma lo spianamento fatto dai romani le ha coperte con tonnellate di terra e oggi le troviamo in profondità. Gli scavi del 1900 erano eseguiti a trincea con la terra disposta nei fianchi.
Uno dei tipi più antichi è la tomba a fossa, scavata nel terreno. Mentre in tutto l’Occidente in età arcaica e fino al VI a.C. il rituale di sepoltura è l’incinerazione, a Cartagine fin dalle prime attestazioni funerarie vediamo il prevalere dell’inumazione. Non sappiamo ancora il motivo di questa particolarità. Forse l’influenza dell’elemento indigeno, che praticava appunto l’inumazione, spiega questa caratteristica, ma i libici deponevano i defunti in posizione fetale e ricoperti con ocra rossa mentre le tombe cartaginesi mostrano scheletri generalmente in posizione supina con le braccia lungo i fianchi o sul petto. Tra le tombe più antiche troviamo anche qualche incinerazione secondaria accompagnata dal corredo, forse si tratta di individui ancora legati alla tradizione della madre patria. Troviamo in queste tombe oggetti di gusto orientale e perfino degli avori. La copertura delle tombe è realizzata con lastre giustapposte, a schiena d’asino.
Un altro tipo di sepoltura diffuso è quello della tomba a camera. Non sono come quelle di Ibiza, scavate nella roccia, ma simili alle spagnole, costruite al fondo di una grande fossa, soprattutto le più antiche. Dal V a.C. invece vengono direttamente scavate nella roccia anche a Cartagine. Le più profonde raggiungono i 30 metri. Sono simili a quelle di Cagliari e prevedono un pozzo verticale con imbocco di forma rettangolare. Sulle pareti lunghe, nei bordi, ci sono delle sporgenze laterali (riseghe) e specie di gradini (pedarole) che consentivano la discesa agli addetti all’inumazione. La bara era invece calata con delle funi. Alla base c’era la camera con la deposizione. Non sappiamo bene a cosa servissero le riseghe dei pozzi perché le tombe venivano riempite e le sporgenze non hanno una funzione pratica. Nei casi più semplici ad ogni pozzo corrisponde una camera, ma a volte abbiamo più camere sovrapposte, aperte nel lato breve del pozzo, che era rettangolare. All’interno possiamo trovare sarcofagi monolitici in marmo con copertura a lastre o a cassone con tetto spiovente di tipo greco.
Sopra le tombe venivano messe delle lastre a schiena d’asino per reggere la forte spinta provocata dalla terra di riempimento. A volte il soffitto era realizzato in legno pregiato ma nulla si è conservato. Un altro tipo è la tomba a cassone, costituita da blocchi in pietra e lastre poste a coltello a formare il cassone. Anche queste sono al fondo di grandi fosse e ospitavano inumazioni.
In alcune tombe tarde troviamo dei sarcofagi di tipo greco, con cassone parallelepipedo e coperchio a doppio spiovente conformato come un timpano, come il frontone del tempio greco.
Due sarcofagi che si distinguono fra gli altri, pur essendo anch’essi a cassone monolitico, presentano sul coperchio un personaggio maschile e uno femminile, forse due sacerdoti. Quello maschile ha la mano alzata in segno di saluto, o di benedizione, come quelli di Ahiram di Biblo. Il personaggio femminile presenta una veste particolare con tracce di policromia blu, nera, gialla e arancio. Come la rappresentazione della divinità nella Cueva d’es Cuyeram, mostra ali ripiegate sul corpo che nel mondo punico distinguono l’iconografia di Iside. Si è ipotizzato che la tomba sia di una sacerdotessa di una divinità femminile, raffigurata nei suoi abiti cerimoniali.
In superficie le tombe erano segnalate da stele funerarie che presentano una nicchia, un’edicola, nella quale è rappresentato un personaggio, una divinità. Si nota spesso l’influenza greca con colonne ioniche e altri elementi iconografici caratteristici. Essendo i pozzi riempiti, quindi invisibili dalla superficie, in molti casi ci sono cippi o stele funerarie che indicano la presenza delle tombe.
Uno dei contesti più importanti di Cartagine è il tophet. Fu scoperto casualmente nel 1921, è stato sottoposto a numerosi interventi di scavo mai pubblicati in modo esaustivo. A Cartagine, diversamente al consueto posizionamento a nord degli abitati, il tophet è ubicato a sud, a Salammbò, vicino ai porti. I tophet sono un fenomeno della zona centrale mediterranea: li troviamo in Tunisia (Cartagine e Suss), in Sicilia (Mozia, Lilibeo e Solunto) e in Sardegna (Cagliari, Nora, Sant’Antioco, Monte Sirai, Tharros). Sono completamente sconosciuti in Oriente, a Cipro, a Ibiza e in Spagna. Si pensa quindi ad una influenza culturale antica di matrice cartaginese, precedente alla conquista armata. Quello di Cartagine fu scoperto nel 1921 da un cercatore di pietre che vendeva le stele agli antiquari. Due appassionati (Icard e Gielly) lo seguirono negli spostamenti e scoprirono i luoghi dai quali il cercatore prelevava i materiali. Nella zona si succedettero numerosi studiosi che indagarono la parte dell’area compresa tra le strade. Ancora oggi ignoriamo l’esatta estensione del tophet perché l’area è fortemente urbanizzata e non è stata ancora completamente scavata. La stratigrafia si presenta complessa. Vi è una successione, alta vari metri, di strati che contengono migliaia di stele e urne ma non c’è una separazione netta fra le fasi in quanto il tophet è stato frequentato senza soluzione di continuità, con continui scavi per collocare altre urne. Ciò costituisce un problema perché un sito rimaneggiato determina l’incomprensione degli strati.
Il primo scavo fu di Icard e Gielly nel 1922, successivamente l’indagine fu svolta da Lapeyre 1934-36 e Carton, poi Cintas 1944-47 e infine, negli anni Settanta, fu il turno di Stager, 1975-79.
Lo scavo del 1922 fu fatto con delle lunghe trincee che scoprivano la distesa di urne e stele. Migliaia di manufatti furono portati alla luce ma non si riuscì ad abbinare le stele alle varie urne. Alcuni articoli pubblicati in quegli anni cercarono di spiegare la stratigrafia ma i contrasti fra i due appassionati e le autorità tunisine causarono l’interruzione degli scavi. Quando non c’era più spazio si ricopriva con terra lo strato esistente e si sovrapponevano altre stele e altre urne. La datazione accettata dagli studiosi è quella dell’americano Kelsey che scavò, pochi anni dopo Icard e Gielly, con l’inglese Harden, esperto nella datazione delle ceramiche.
La datazione delle stratigrafie antiche segue un metodo che si basa sulle ceramiche, poiché le monete sono utilizzate solo in tempi più recenti (dopo il V a.C.), il vetro fu introdotto in età romana e il metallo poteva essere rifuso. La maggior parte dei contenitori domestici e funerari era in ceramica, e si rompeva facilmente, soprattutto se doveva essere riscaldata col fuoco. L’argilla è un materiale che riscaldato a certe temperature diventa indistruttibile nel tempo ed era alla portata di molte famiglie dell’epoca. La datazione dei cocci avviene su base comparativa, nel senso che negli ultimi 200 anni l’archeologia ha documentato delle sequenza cronologiche relative che hanno portato ad individuare delle successioni temporali e dei luoghi di origine della produzione e delle decorazioni. Il confronto fra contesti indica la cronologia. Comparando i materiali del contesto si può dedurre quando si è formato lo strato perché i materiali più recenti sono l’indizio della datazione. I materiali antichi si definiscono “residuali”. La cronologia relativa è quella che dice che uno strato viene prima di un altro, la cronologia assoluta determina la datazione dello strato, il periodo. I vari studiosi che si alternarono a Cartagine hanno proposto datazioni leggermente differenti. Harden nel 1925 distingue tre strati principali: Tanìt I, Tanìt II e Tanìt III. Il primo strato, Tanìt I, presenta le più antiche urne, quelle del VII a.C., che si trovano scavate nella roccia o entro ciste litiche, nello strato più basso. Non ci sono stele, solo poche urne protette da cumuli di pietre o in cavità della roccia. Datato intorno al VII a.C. si caratterizza per l’assenza di monumenti lapidei. Lo strato Tanìt II, VI-IV a.C., vede tante stele e cippi. L’ultimo strato si data al 150 a.C., data della distruzione di Cartagine da parte dei romani, e vede la presenza di un numero enorme di urne e stele, ma di diverso tipo.
Negli anni Trenta un sacerdote, Lepeyre, scavò un terreno di proprietà di Carton che morì poco dopo l’acquisto della proprietà e non poté pubblicare gli scavi.
Meglio documentato è lo scavo del Cintas che fece due campagne. La prima, nel 1944, venne effettuata nella parte nord, in un’area dove la stratigrafia non era completa, mancavano gli strati più bassi perché il tophet aveva raggiunto la zona estrema del temenos (nome del recinto sacro che chiude il tophet). Lo studioso individuò il muro di recinzione costituito da una serie di lastre, quindi conosciamo il limite nord del santuario, mentre ignoriamo i limiti degli altri punti cardinali. Nella seconda campagna, quella del 1946, individuò una struttura alla quale diede il suo nome, la Cappella Cintas. Si tratta di un edificio con una cameretta centrale circondata da muretti di piccole dimensioni che la dividono da altri piccoli vani. C’era un deposito di fondazione che presentava materiali arcaici particolari, molto diversi fra loro, sia di importazione greca che locali. Cintas, basandosi sulle fonti classiche e sulla tipologia di un’anfora, pensò ad una fase antica di fondazione di Cartagine e ipotizzò il XII a.C. ma studi recenti hanno dimostrato che quell’anfora cicladica ritrovata, è del 750 a.C. Comunque questo edificio è un unicum nei tophet e ancora non siamo in grado di interpretarlo in maniera certa. Sempre Cintas ha individuato un breve tratto del temenos del tophet, costituito da una serie di lastroni piazzati verticalmente.
Dopo il Cintas operò lo Stager che negli anni Settanta, a seguito di un appello dell’Unesco che coinvolse molte missioni internazionali (tedesche, danesi, inglesi, italiane, americane, polacche e francesi), iniziò gli scavi a Cartagine e accettò la distinzione in tre fasi proposta da Harden. A oggi sono state pubblicate solo una parte delle stele e mostrano diverse tipologie. Stager riprende la stessa stratigrafia del Cintas con Tanìt I, II, III, ma con datazioni differenti divise in nove sottogruppi. Tanìt I ha poche urne deposte in piccole cavità, datate 730-600 a.C. Tanìt II 600-400 a.C. vede la comparsa dei cippi con stele a trono. Tanìt IIb VI-III a.C. ha cippi con stele a sommità triangolare e edicola. Tanìt III arriva al 146 a.C.
Altri esempi sono le stele costituite da un’edicola o dal frontespizio di un tempio con all’interno la raffigurazione della divinità. Le stele ad edicola presentano divinità sia aniconiche (betilo o idolo a bottiglia), che iconiche, con figure antropomorfe, più spesso femminili, vestite o nude. Non sappiamo se volessero rappresentare templi, ma dal VI al IV a.C. ci sono edicole che presentano elementi architettonici che rimandano all’Egitto: sul basamento ci sono pilastri (non colonne) sormontati da una trabeazione con sopra una modanatura sgusciata a gola egizia come coronamento. Nell’architettura templare punica si riprendono i caratteri egiziani ma nelle stele manca l’aggetto frontale (che però viene ripreso lateralmente). Sopra le modanature ci sono delle semplici fasce o serpenti, simboli solari egiziani come urei discofori con in testa un disco solare (fregi ad urei), simboli astrali come falce lunare o sole alato
Tutte le stele e i cippi erano tridimensionali e si trovavano nel secondo strato del tophet, in Tanìt II. Verso il IV a.C. c’è un cambiamento della tipologia con l’introduzione di stele che perdono la tridimensionalità e mostrano una lavorazione a bassorilievo o un’incisione solo sulla faccia a vista (Tanìt III). Abbiamo semplici lastre suddivise in registri, sormontate da un timpano con acroteri (elementi greci). Nei registri troviamo iscrizioni, fregi, animali, segni di Tanìt, caducei e altri simboli come sole alato, capitelli ed elementi vegetali.
Il bètilo, la pietra sacra, è rappresentata come un pilastro con sommità tronca o arrotondata. Può essere singolo o associato (diadi o triadi betìliche) e a Soùssa ci sono 5 bètili affiancati. Altro simbolo femminile è la “losanga”, raro ma non a Cartagine. Le figure maschili si rifanno al mondo iconografico orientale, quelle femminili al mondo egizio.
A Cartagine abbiamo anche notizie di un tempio di Eshmun ma non ci sono tracce. Solo le fonti ne parlano ma quando la Byrsa fu spianata dai romani questo tempio fu distrutto completamente.
Un’altra fonte, Appiano, ci parla di un tempio di Apollo (il Reshef punico) saccheggiato dai romani al momento della presa della città. Sul tetto c’erano foglie d’oro. I tedeschi hanno forse individuato questo tempio ma si tratta di poche tracce. La ricostruzione proposta dalla missione tedesca mostra un edificio con pronao, cella e penetrale (in un piano più basso) diviso in tre ambienti. Nei vani più interni sono state trovate una serie di crètule o bulle, palline di argilla cruda utilizzate per sigillare i documenti, che si sono conservate solo perché i romani bruciarono l’edificio, causando l’indurimento della pasta. All’epoca i templi avevano una funzione sacra accompagnata da quella economica, da quella amministrativa e di archivio. I documenti ufficiali erano conservati nei templi e a Cartagine tutto il materiale scrittorio (papiri egiziani) veniva scritto, arrotolato, legato con cordicelle e sigillato con le cretule. Sono manufatti che presentano su una faccia l’elemento iconografico (navi, palmette, decorazioni) e sull’altra un dorso di scarabeo, simbolo solare egiziano. Ogni sigillo era impresso con gli scarabei (anelli o timbri) tutti differenti fra loro, di proprietà delle famiglie delegate a governare le città. C’erano varie scene con Iside che allatta Orus o con altre immagini. Le cretule del tempio di Cartagine portano impressa una doppia immagine (all’esterno il segno del sigillo e all’interno quello del papiro). Le cretule erano conservate nei templi, insieme ai documenti.
A sud della città ci sono i porti. Uno rettangolare esterno, utilizzato come struttura mercantile, e uno circolare, più interno, con funzioni militari e all’interno un isolotto per l’ammiragliato. I romani riuscirono a far breccia nelle mura di fortificazione adiacenti le strutture portuali. Il porto militare poteva contenere quasi 200 navi. Nel III a.C. venne realizzata un’importante opera con i due nuovi porti. L’archeologia ha fornito dati opposti a quelli delle fonti che parlano di una Cartagine fiaccata dai romani. Intorno al 150 a.C. il porto poteva contenere quasi 200 navi da guerra e la città doveva essere ricchissima. Catone aveva dunque ragione quando nei discorsi al senato di Roma avvertiva che Cartagine era potente e bisognava preoccuparsi. Sia nell’isolotto che nella parte perimetrale del porto c’era un colonnato con degli spazi che permettevano di portare a secco le navi nella stagione invernale. Sono rimaste tracce di opere murarie e scivoli lignei.
Anticamente c’era un porto lagunare arcaico, ubicato in quello che oggi è lo stagno di Tunisi, a sud della città. Scavi recenti hanno dimostrato l’esistenza di un canale scavato che andava dallo stagno fino ai piedi della Byrsa. Non sono ancora state fatte indagini approfondite ma si è scoperto che il canale venne interrato e furono costruiti i due nuovi porti. Il porto militare era chiuso con catene ed era accessibile solo da quello rettangolare. Bisogna tener conto che la navigazione d’altura era un’attività esclusivamente estiva, pertanto durante la stagione fredda le navi erano tirate in secca negli appositi spazi ricavati nelle strutture. L’edificio dell’ammiragliato era composto da una parte bassa con i vani per le barche e una parte alta per i militari.
Le fortificazioni arcaiche sono state indagate dagli scavi tedeschi che hanno individuato due muri riferiti alla cinta antica. Nel V a.C. venne impiantato un nuovo sistema composto da una serie di torri, unite da bastioni, che circondava la città, soprattutto sul lato a mare. Negli anni Cinquanta sono state individuate delle trincee con palizzate, interpretate come una difesa realizzata con materiali deperibili, lignei. Cartagine, era difesa da una fossa regia per proteggersi da eventuali attacchi delle popolazioni indigene, i berberi libici, che avevano una propria identità culturale. Questi subirono l’acculturazione punica ma mantennero anche la propria connotazione. Quando Cartagine, nella colonizzazione di Sicilia e Sardegna, trasferisce parte della popolazione libica nei nuovi territori, solo i rappresentanti sono cartaginesi doc. Nella cultura punica sarda interagiscono, quindi, elementi tiri e libici che si integrano ai locali.
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