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venerdì 26 agosto 2011

Letteratura antica, il Ramayana.


Gli antichi poemi
di Pierluigi Montalbano

Oggi inizieremo un’indagine sulle principali opere letterarie del passato. Ogni giorno pubblicherò la traccia di un poema nella speranza che i lettori trovino spunti per approfondire le tematiche e trovare i collegamenti.
Buona lettura.
Molti dei nostri giovani, ai quali non sono certo sconosciuti i nomi dell’Iliade e dell'Odissea, forse penseranno che questi siano i poemi epici più antichi, composti prima di ogni altro dagli autori del passato. In realtà, già molto tempo prima, altre opere, altri poemi c'erano stati lasciati dalle popolazioni dell'Asia, dove la civiltà ebbe la sua culla, le sue origini: ci furono lasciati dai cinesi, dagli assiri, dai babilonesi, dagli indiani. Si tratta di poemi straordinariamente favolosi, dove sono narrate vicende spesso remote delle nostre tradizioni, e a volte così affascinanti da farsi leggere d'un fiato: scimmie che sradicano monti per costruire un ponte immenso sul mare, smisurati giganti che lottano contro gli scimmioni divorandoli a venti, a trenta insieme, uomini capaci di spezzare un arco alto quanto un grattacielo.
Fiorì nell'India antichissima, molti secoli a.C, una civiltà che si espresse mirabilmente attraverso le arti: civiltà in cui fu preponderante l'aspetto religioso, come accade ad ogni altra di quei tempi.
I sacerdoti costituivano una casta di privilegiati, di dominatori, e le arti medesime, l'architettura, la scultura, la poesia, ebbero carattere sacro, furono espressione della riverenza di quel popolo alla moltitudine delle sue divinità. Vennero allora edificati templi maestosamente barocchi, ossia fastosi, adorni di bizzarri elementi decorativi, di animali dall'aspetto sinistro, agghiacciante. Si scolpirono nel marmo mostruose figure di dèi, e i poeti intrecciarono intorno a leggende sacre la tela di sterminati poemi. Uno di questi, forse il più antico, è il Ramayana, scritto in sanscrito, la lingua da cui derivano le attuali parlate indiane, al modo stesso in cui gli attuali idiomi neolatini (francese, spagnolo, italiano…) sono una derivazione della lingua di Roma.
È probabile che al nucleo originario del Ramayana, che la tradizione attribuisce a un poeta leggendario, Valmiki, si sia aggiunta durante i secoli l'opera di altri scrittori più recenti. Ma l'atmosfera favolosa non ha perduto nulla, poiché non si limita alle pagine più antiche, ma si estende a tutti e sette i libri in cui si articola l'immenso poema.
Il Ramayana deriva il nome dal suo protagonista, il principe Rama: il titolo significa infatti “ le gesta di Rama”. Nei tempi favolosi di cui si narra, una vasta regione al Nord del Gange era felicemente governata da un sovrano con quattro figli. Rama, il più forte dei fratelli, era destinato a distruggere una mala razza di giganti che recavano molestie al paese, e perché gli fosse di aiuto nell'impresa, gli dei avevano creato un popolo di scimmie semicivili, capace di strappare le cime dei monti e di squarciare la terra. Ottenuta sui giganti la prima vittoria e liberato un santone dalle loro offese, Rama è stato condotto al palazzo di un gran re, padre della bellissima Sita.
“Chi saprà tendere l'arco che io possiedo”, aveva proclamato il sovrano, “andrà sposo alla principessa”. Rama vuole provare e afferra l'arco con una mano sola, lo tende, lo spezza. Orribile è il fragore che se ne leva, pari a quello di un macigno che precipita nel profondo di una valle. Rama va dunque sposo a Sita, e sarebbe anche successo al padre, se le malvagie trame della sua matrigna non l'avessero privato del trono. Ma egli non si scoraggia, e si ritira a vivere con la sposa in una selva lontana. Là una mostruosa donna, sorella del re dei giganti, cerca di strapparlo alla consorte, ma Rama non si piega né si impaurisce, e mozza alla gigantessa il naso e gli orecchi. Poi, con l'aiuto del fratello Laksmano, che sempre lo accompagna, tiene testa a 14.000 giganti corsi alla vendetta, e li uccide tutti. Ràvana, loro re, ricorre allora all'inganno e rapisce la dolce Sita, portandola prigioniera nella sua isola.
Chi potrà contenere il furore tremendo di Rama?
Ecco giungere in suo aiuto il popolo degli scimmioni, che gettano enormi macigni sul mare e sradicano piante, per congiungere l'isola con le rive dell'India. Perfino gli dei, creatori di quella razza, guardano stupiti l'opera immane. Divampa quindi l'ultima battaglia. Le scimmie combattono al fianco di Rama mentre i giganti tentano invano la difesa. Uno di essi, montagna d'ossa e di polpe, fa strage degli scimmioni e li trangugia a grappoli. I giganti però sono sterminati, Ràvana è trafitto da Rama che riabbraccia la sua sposa e viene infine consacrato re.
Fin qua il riassunto del poema, ma non si coglierebbe l’ispirazione religiosa se non notassimo che Rama non solo è un eroe, un uomo, ma l'incarnazione di Visnu, il dio della forza che muove l'universo, mentre in Sita è incarnata la dea delle messi.
Accanto a queste divinità principali, si muove nell'opera una folla di dèi minori, come Agni che presiede al fuoco, e Hanuman figlio del vento. Lo stesso Brahama, creatore del mondo, appare al poeta per esortarlo a comporre il Ramayana. Quest’opera comprende circa 24.000 strofe e risale al X a.C. In India, quando ricorrono particolari feste religiose, alcune parti si leggono ancora oggi, e molti scrittori si sono ispirati al Ramayana nei secoli seguenti.

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