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martedì 23 agosto 2011

Ancient boat, bronze age - I relitti di Punta Iria e Ulu Burun -


Relitto di Punta Iria
Nel settembre 2008 si è svolto sull'Isola di Spetses, nel Golfo dell'Argolide, un convegno internazionale per lo studio del tardo Bronzo: “The Point Iria Wreck”, interconnessioni nel Mediterraneo nel 1200 a.C., dedicato al relitto di Punta Iria, una nave cipro-micenea della fine del Xlll a.C.
Ai lavori, diretti dal professor Spyros lakovides, membro dell'Accademia di Atene, hanno partecipato Eugenios Yannakopoulos, Segretario Generale del Ministero della Cultura, Nikos Tsouchlos, Presidente Fondatore dell'Hellenie Institute of Marine Archaeology, e Haralambos Pennas, direttore della seconda Eforia di antichità bizantine nonché degli scavi di Punta Iria.
Gli archeologi dell'Hellenic Institute of Marine Archaeology (HIMA), responsabili della ricerca, hanno fornito i loro resoconti:
. C. Agouridis, sulla scoperta e lo scavo
. Y. Lolos ha presentato le sue analisi stilistiche e storiche sul carico di ceramica
. Y. Vichos ha offerto le sue considerazione sulle rotte e le condizioni nautiche nell'ambiente attorno alla Punta Iria all'epoca del naufragio.
. A. Kyrou ha esaminato l'evidenza di punti d'appoggio e di insediamenti costieri preistorici nel Golfo dell'Argolide.
. V. Karageorghis ha discusso vari aspetti degli scambi commerciali tra Cipro e l'Occidente durante il XIV e il Xlll a.C., sottolineando la crescente importanza di Cipro a scapito del mondo elladico.
. C. Pulak ha concluso i lavori con un resoconto degli ultimi studi sullo scafo del relitto di Uluburun.
I lavori sono stati abbinati all'apertura nel Museo di Spetses di una mostra sui materiali provenienti dal relitto, e all'edizione del relativo catalogo con testi in greco e inglese.
Il relitto di Punta Iria fu avvistato negli anni Sessanta dal subacqueo veterano Nikos Tsouchlos nel Mare Egeo lungo la costa orientale del Golfo dell'Argolide, davanti alla punta da cui ha preso il nome; al ritrovamento seguirono ricognizioni e scavi effettuati dall'Hellenic Institute of Marine Archaeology (HIMA) dal 1991 al 1995. Il tratto di costa in cui la nave è naufragata è ancora oggi pericoloso per la conformazione montuosa e per la presenza dell'isolotto antistante di Psili, che insieme creano una zona di venti potenti e variabili nonché di forti correnti.
La nave giaceva a una profondità dai 12 ai 27 metri, ad una quindicina di metri dalla riva; il sito si presentava come un cumulo di pithoi (grandi giare da trasporto), anfore e vasetti che copriva un'area di circa 100 metri quadrati. Fu questa scoperta che spinse Tsouchlos ad interessarsi dell'archeologia subacquea egea, e che portò infine alla formazione dell'HIMA. Nel 1991 fu effettuata una campagna di ricognizione; dal 1992 al 1994 si organizzarono delle campagne di scavo sulla zona di massima concentrazione dei reperti.
Il materiale rinvenuto venne portato al Museo di Spetses dove furono eseguiti accertamenti, pulizie e processi di conservazione. I rapporti di scavo vennero regolarmente pubblicati nella rivista dell'HIMA, Enalia, in greco e in inglese, e negli atti di vari simposi internazionali.
Il carico della nave comprendeva 25 vasi da trasporto e da utilizzo comune, con tre provenienze: Cipro, Creta e il mondo Elladico. Al Tardo Cipriota IIC/IIIA appartiene un gruppo di otto vasi, tra i quali tre pithoi senza maniglie e parte di un quarto, tutti con decorazione a rilievo attorno alla spalla, oltre a tre brocche di varie dimensioni. I pithoi trovano confronto tutt'attorno al Mediterraneo tra il XIV e il Xlll a.C., come vasi da trasporto per eccellenza sia per l' olio d'oliva che per la frutta.
Un altro gruppo di otto vasi si identifica, in base alla forma, come materiale cretese, specificamente del Tardo Minoico IIIB 2, ed è composto interamente da vasi a staffa alti circa 40 cm. Questo tipo di vasi era di solito usato per il trasporto dell'olio d'oliva, e la loro distribuzione nei siti del XIV e il XIII a.C. si estende dalla costa levantina e da Cipro fino alla Sardegna e alla Sicilia.
Il terzo gruppo di ceramica rappresenta la fase micenea del Tardo Elladico IIIB, e comprende 9 vasi, di cui tre vasi semplici, profondi, senza maniglie di tipo elladico tradizionale, insieme ad un'anfora che porta due simboli incisi sulle maniglie, probabilmente connessi alla scrittura Ciprominoica 1.
Inoltre ci sono alcuni vasi di ceramica fine come il krater profondo a beccuccio e frammenti di due ciotole, una delle quali con decorazione dipinta.
Altre quattro ciotole di ceramica comune farebbero parte del vasellame di bordo. Un tale assemblaggio di vasi da trasporto riflette appunto le interconnessioni commerciali e culturali internazionali esistenti in quest'epoca attraverso il Mediterraneo orientale. Insieme ai dati provenienti dai relitti di Uluburun e di Capo Gelidonya (nave del XII a.C. più piccola impiegata in scambi di piccolo cabotaggio) ci aiutano a delineare l'evoluzione degli scambi economici del Mediterraneo.
Anche per il relitto di Punta Iria si pone la questione della nazionalità della nave, ma ancora una volta il miscuglio di oggetti rinvenuti a bordo, sia del carico che di uso comune, indica che il commercio marittimo era sicuramente gestito da gruppi eterogenei.
Delle attrezzature di bordo si sono recuperate tre ancore, di cui una trapezoidale di piroxenite con un foro, pesante 43 kg. Le altre due dispongono di tre fori e sono una di arenaria (kg 26) e l'altra di una scura roccia vulcanica (kg 34); è possibile che queste fossero troppo piccole come ancore di sostegno, ma che invece facessero parte della zavorra. La mia ipotesi è che potesse trattarsi di pietre multiuso con possibile funzione di unità ponderale, visto che il peso dei lingotti ox-hide in rame è quasi identico.
Comunque, solo una può con sicurezza essere connessa con il carico di questa nave, poiché ritrovata nell'area di concentrazione dei reperti. Altri oggetti trovati nei dintorni della zona di scavo, quali anfore ed ancore di epoche e provenienze diverse, confermano la natura insidiosa di questo tratto di costa.
I resti dello scafo sono limitati a dei piccoli frammenti lignei, uno dei quali reca un foro semicircolare realizzato artificialmente: indizio modesto, ma forse sufficiente, di un sistema di costruzione a mortase e tenoni. In base alla disposizione dei reperti sul fondale e alla loro consistenza, si ipotizza che la nave misurasse circa 10 m di lunghezza, e che, supponendo che il carico al momento del naufragio fosse più grande, portasse un carico di almeno tre tonnellate.

Relitto di Ulu Burun
Nel 1982 il pescatore di spugne Mehemet Cakir scopre a Uluburun, a 8,5 km a Sud Est di Kas nel sud della Turchia, il relitto di una nave dell’età del bronzo.
L'Istituto di Archeologia della nautica (INA) nella campagna di scavo tra il 1984 e il 1994 ha portato alla luce uno dei più ricchi e più grandi assemblaggi di oggetti assemblati del Bronzo Tardo trovati nel Mediterraneo. Il natante giace su un ripido pendio roccioso a una profondità fra 44 e 52 m, con frammenti sparsi fino a 62 m. La datazione dendrocronologia di un piccolo pezzo di legna da ardere o paglioli suggerisce una data del 1306 a.C. per il naufragio della nave.
I primi esiti datarono quindi il relitto al XIV a.C. il periodo di Amenophe IV, Akenaton.
Il carico della nave, uno scafo reale, è costituito principalmente materie prime:
. dieci tonnellate di rame in forma di 354 piastre, sardo e cipriota
. quattro tonnellate di lingotti in rame ox-hide sardi
. una tonnellata di stagno proveniente da Bretagna e Cornovaglia
. 120 lingotti discoidali a "panelle" di provenienza incerta
. una tonnellata di resina di terebinto stivata in 150 vasi cananei
. 175 lingotti di vetro, di forma discoidale in blu cobalto, turchese e un esempio unico di lavanda (elementi commercializzati dalla costa siro-palestinese)
. tronchi di ebano egiziano (Dalbergia melanoxylon)
. tre uova di struzzo (contenitori di liquidi)
. alcune zanne di elefante intere e frammentate
. una dozzina di denti di ippopotamo
. opercula da Murex Seashells (un ingrediente per ottenere l’incenso)
. vari gusci di tartarughe carapaces (sound-box per strumenti musicali a corda)
. nove grandi vasi ciprioti finewares, contenenti tracce di melograni e olio d'oliva
. quattro bicchieri artigianali raffiguranti teste di arieti e, in un caso, una donna
. brocche e calderoni in bronzo e rame, mal conservati
. gioielli cananei, inclusi bracciali e collane d'oro
. rottami di oro e argento in quantità
. sigilli Siriani, Assiri, Cassiti e Sumeri.
. oggetti d'oro egiziano, electrum, argento e pietre preziose varie
. uno scarabeo in oro con il cartiglio della regina egizia Nefertiti
. migliaia di perline di vetro, agata, corniola, quarzo e ambra del Baltico
. due contenitori d’avorio per cosmetici a forma di anatre
. una tromba scolpita da un corno d’ariete
. un dente di ippopotamo
. strumenti in bronzo: trapani, scalpelli, assi e una sega
. frecce, pugnali, spade in bronzo e asce in pietra
. piombo e una linea di aghi per la riparazione di reti
. un arpione e un tridente in bronzo indicativi di una pesca dalla nave
. due tavole in legno di ebano per scrivere (dittici), ciascuna costituita da una coppia di foglie e una cerniera d'avorio. Sono incassate per contenere delle superfici di cera per gli scritti. Queste schede rappresentano il più antico esempio del loro tipo.
. una statuetta del Dio Bes in bronzo rivestita parzialmente in oro (simile a quelle siro-palestinesi), forse utilizzata come simbolo della divinità che proteggeva la nave. Bes, la cui immagine era un potentissimo amuleto, era un Dio benefico e genio familiare dell’Antico Egitto che si diffuse poi nel Mediterraneo. Divinità della gioia, della musica e della danza, allontanava dalla casa i malfattori e i geni malefici; i sardi lo avevano molto caro, come si nota nelle sculture che lo raffigurano, grottesco ma non mostruoso.
Altro culto importato dall’Egitto in Sardegna fu quello di Osiris, Isis, Serapis nei quali i sardi ritrovavano egittizzate le loro divinità; quindi non dobbiamo meravigliarci di trovare molte raffigurazioni nelle tombe delle città sarde e negli oggetti d’ornamento. Evidentemente gli originali di tutti questi manufatti in stile egizio erano stati portati nella nostra isola dai guerrieri Shardana che avevano avuto rapporti con l’Egitto.
La maggior parte dei beni personali e degli oggetti di bordo, come strumenti, ancore e lampade ad olio, indica che parte dell’equipaggio era formato da cananei e ciprioti. Tuttavia si nota anche la presenza di alcuni reperti micenei: un paio di sigilli, tre spade, due pettorali con perline di vetro, coltelli curvi, rasoi, scalpelli, sfere in ambra di tipo miceneo, una trentina di pezzi di ceramica fine, una spilla in bronzo e uno scettro cerimoniale con testa in pietra simile ad uno in bronzo trovato in Romania.
Questi manufatti suggeriscono i collegamenti tra la nave, o almeno con alcune delle persone a bordo, e le terre di tutto il Mediterraneo e dell’Europa. Il grande numero di strumenti musicali trovati a bordo indica che, verosimilmente, venivano eseguite delle danze rituali in onore della Dea. Le numerose armi indicano che l’equipaggio era pronto a qualunque tipo di attacco. Che rotta aveva seguito?
Probabilmente la nave aveva fatto scalo in una delle città sarde, forse Tharros, dopo un viaggio effettuato oltre lo stretto di Gibilterra dove aveva imbarcato la tonnellata di stagno e altri oggetti di provenienza africana. A Tharros imbarcò altre mercanzie. L’ambra trovata nel relitto proveniva dal Baltico via mare, o lungo le rotte fluviali del centro Europa. Le armi (lance e spade) sono identiche a quelle conservate nei musei di Sassari e Cagliari. Così i gusci d’uovo di struzzo forati. Il carico fu completato con lingotti di rame del tipo Ox-hide lavorati in Sardegna (il rame poteva anche essere cipriota, ma lavorato da fabbriche sarde, i marchi e la forma originale lo suggeriscono).
È rilevante l’abbinamento fra percentuali 10:1 di rame-stagno (esattamente la proporzione utilizzata per ottenere il bronzo) e la presenza della resina di terebinto, utilizzabile per il metodo della fusione a cera persa.
La stessa nave aveva a bordo dei passeggeri importanti. Personalmente concordo con gli studiosi americani che definiscono il relitto “Nave reale” e, d’accordo con Melis, ritengo si potesse trattare di ambasciatori dei Popoli del Mare che si recavano in Egitto, alla corte di Amenophe IV e di Nefertiti.
È lecito pensare che l’invito era arrivato grazie ai Shardana della Guardia Reale. La sosta presso Akenaton servì a rafforzare i legami fra le due potenze e forse a convincere Amenophe ad instaurare il culto monoteistico dell’Unico Dio. La nave si diresse poi verso la penisola anatolica, dove avrebbe consegnato il carico di rame e stagno utile alla produzione delle armi per un grande esercito.
Inserisco una nota su Akenaton per l’importanza religiosa che rivestiva.
Akenaton, che si chiamava Amenophe IV ed era figlio di Amenophe III, fu il primo eretico della storia. Abolì il culto di tutti gli dei in favore dell'unico dio Aton, rappresentato dal disco solare con i raggi che terminano con delle manine per dare la vita. Dedicò un tempio ad Aton a Karnak (i sacerdoti di Amon glielo permisero perché pensavano che Aton fosse una forma del dio Amon) ma quando capirono che Aton era un dio diverso, che non era mai rappresentato in forma umana, tramarono contro Akenaton che scappò a Tell-el-Amarna a 260 km a sud del Cairo. L'antica religione fu poi restaurata da Tut ank Aton che divenne Tut ank Amon.



Nell'immagine in alto (link: www.travel.webshots.com) il carico del relitto di Ulu Burun, dove si nota il particolare sistema di stivaggio dei lingotti ox-hide.

L'immagine in basso è di www.worldvisitguide.com

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