Tihuanaco, la civiltà precolombiana che prende il nome dalle rovine dell'antica città omonima, nei pressi della sponda sud-orientale del lago Titicaca, in Bolivia. Nel sito si possono ammirare due monumenti megalitici: la "Porta del Sole" e la "Porta della Luna".
di Matteo Riccò
Tihuanaco (o Tiwanaku) è uno splendido sito archeologico sudamericano di età pre-incaica, ubicato nella Bolivia orientale, sull’altipiano di Kimsachata, sulla sponda meridionale del lago Titicaca.
Il nome Tiwakanu (che di seguito sarà lo spelling preferenziale) significherebbe: “la pietra al centro dell’universo” e ci è stato tramandato dagli indiani Aymara, abitanti della regione in antichità come oggi, tramite le memorie del conquistador spagnolo Cieza de Leon, che visitò primo il sito nel 1549 e che ha il merito (o forse meglio dire: la responsabilità) di avere per primo celebrato sia la monumentalità del luogo (invero esagerandola) sia la sua assoluta antichità. Intervistando le sue guide Inca circa i costruttori di Tiwanaku e sulla fine che questi avessero fatto, il Conquistador ebbe infatti una risposta molto interlocutoria: non ne sapevano praticamente nulla, in quanto la città era già abbandonata da secoli prima che gli Inca instaurassero il proprio impero sulle Ande. A tale proposito, bisogna comunque ricordare che, all’arrivo degli Spagnoli in Sud America, l’egemonia incaica sull’area boliviana fosse cosa relativamente recente: ancora nel XIII secolo, gli Inca erano solo uno dei tanti popoli diversi che abitavano l’antico Perù, e la loro sfera di influenza non andava molto oltre l’area dell’odierna Cuzco. Complici le pagine di Cieza de Leon, una serie di ricercatori esplorò le rovine nel corso dei
secoli seguenti, in particolare quando, cacciati gli Spagnoli fra 1820 e 1830, il continente sudamericano divenne liberamente accessibile a viaggiatori nordamericani ed europei. Vale la pena di ricordare che durante il dominio spagnolo l’accesso alla regione andina fosse severamente vietato a chi non fosse un suddito della corona spagnola, e che in Sud America di fatto non esistessero università al di fuori di quelle direttamente patrocinate dalla corona o da questa autorizzate, e strategicamente depotenziate, al fine di mantenere costantemente in uno stato di sottomissione la popolazione delle Colonie (J Lynch, Simon Bolivar; Yale Univ Press 2007). Fra i visitatori moderni di Tiwanaku vale la pena di ricordare Ephraim Squier (anni ‘60 dell’ottocento) che ebbe il merito di realizzare le prime rappresentazioni visive delle rovine, ed il demerito di contribuire alle crescenti leggende ingigantendone (e di molto) le dimensioni (si veda questo disegno:https://upload.wikimedia.org/…/TiahuanacoGateEGSquier1877.j…e a confronto una foto del reale monumentohttp://www.museumsyndicate.com/item.php?item=37464 ), e l’archeologo tedesco Alphons Stuebel, che nel 1876 realizzò la prima pianta dettagliata del sito - includendo in essa però solo una parte ridotta delle rovine, comprendenti l’Apakama una piramide tronca alta 16 metri e avente lato di circa 260 m, il complesso templare di Pumapunko e la c.d. “Plataforma Lítica” che comprende la maggior parte dei monumenti “megalitici” del sito archeologico, ed il tempio semi-sotterraneo.
La fama di Tiwanaku crebbe improvvisamente nel 1892, quando gli archeologi von Grumbkow e Max Uhle ne produssero le prime rappresentazioni fotografiche, ed ancora di più dopo il 1929, quando il ricercatore austriaco Arthur Posnansky eseguì i primi rilievi scientifici della città (Kolata AL et al, 1993-1996-2003), documentandone con ampia iconografia non solo l’estesa rovina (dettaglio sul quale dovremo tornare), ma anche la sostanziale estensione al di là delle rovine all’epoca evidenti, dando inizio ad un processo di rivalutazione che continua ancora oggi: prima del 2000 si riteneva che Tiwanaku fosse solo un centro cerimoniale, oggi viene considerata il centro rituale di una galassia di piccoli villaggi agrari interconnessi in una specie di struttura metropolitana che, all’apice del proprio potere, doveva contare circa 1 milione di abitanti. Una cifra enorme, non solo per l’epoca ma per tutto il monto antico in generale.
Arthur Posnansky presentò in modo sistematico i suoi risultati nel 1945 nell’opera “Tihuanacu, the Cradle of American Man”, rapidamente diventata un “classico” dell’archeologia alternativa in quanto in essa viene avanzata (sarebbe più corretto dire “azzardata”) la prima datazione di Tiwanaku, stimata nel 13.000 a.C.
Anticipando che le moderne metodiche di datazione, sia relativa che assoluta, hanno stimato la fioritura di Tiwanaku fra il 500 a.C. e il 500 d.C., e che l’area fu popolata da una cultura compatibile con i reperti locali non prima del 1.500 a.C., potremmo chiederci come Posnansky sia arrivato a questa datazione “impossibile”, origine dell’incredibile fortuna moderna di Tiwanaku fra i cripto-archeologi.
La spiegazione è piuttosto semplice. Ora: una cosa che stupisce osservando sia la città che la sua pianta è che Tiwanaku sembri un susseguirsi di spazi artificiali aperti sul nulla. Spiccano in particolare due monumenti, due porte monumentali, oggi denominate secondo l’ipotesi dello stesso Posnansky “La porta del Sole” (https://en.wikipedia.org/wiki/Tiwanaku…) e “La porta della Luna” (https://en.wikipedia.org/wiki/Tiwanaku…). Vale la pena di ribadire, a scanso di equivoci, che nei documenti precedenti la visita di Posnansky, le due porte fossero denominate molto diversamente, e semplicemente “Porte megalitiche” o “Porte Monumentali”, e come tali lo stesso Posnansky le definisse inizialmente nella sua documentazione fotografica (http://bilddatenbank.khm.at/viewArtefactImageLarge…).
L’Autore tuttavia notò che una delle due strutture presentasse (e presenti tutt’oggi) un bassorilievo particolarmente pregevole, al cui centro si trova una figura antropomorfa (https://en.wikipedia.org/wiki/Gate_of_the_Sun…), il cui capo essendo avvolto da 24 raggi, o piume, o comunque segni lineari, identificò con il Dio del Sole. Poiché la molto più spoglia porta della Luna si trova in opposizione a questa, Posnansky le battezzò “Porta del Sole” e “Porta della Luna”, rispettivamente. Fin qui nulla di male. Se non che la Porta del Sole non si allinea affatto con il Sole, e (più o meno) di conseguenza la Porta della Luna non si allinea per niente con la Luna. Posnansky, che durante gli studi viennesi aveva ricevuto una formazione marinara comprendente estesi rudimenti di astronomia, calcolò che la porta del Sole si sarebbe allineata con il Sole (e quindi la Porta della Luna con la Luna) all’incirca nel 13.000 a.C., da cui una datazione ipotetica di “15.000 anni prima della nostra era”. Riporto quest’annotazione perché, molti anni dopo, scoprendo il testo di Posnansky e di riflesso riscoprendo Tiwanaku, il “padre” della teoria degli Antichi Astronauti, Erich Von Daeniken, avrebbe distrattamente riportato come presumibile data di fondazione del sito il “15.000 BCE” cioè “il 15.000 a.C.” e suoi emulatori, citando Von Daeniken e non Posnansky, ma sapendo di un errore di 2.000 a.C. nella citazione, hanno più recentemente alzato la datazione al 17.000 a.C. (!) - il che non cambia di molto il problema, ma solleva più di un dubbio su come operino molti Autori altrimenti molto celebrati che promuovono la tesi degli Antichi Astronauti.
Prima di dettagliare le conseguenze della datazione proposta da Posnansky, vale la pena di spiegare che essa sia sbagliata non tanto perché determina una “datazione impossibile” (alla fine, una datazione è impossibile quando l’evidenza la dimostra tale: Evans impiegò una vita a dimostrare che i suoi scavi cretesi risalissero al 2000 a.C., e Schliemann lottò per anni contro archeologi contemporanei, soprattutto francesi, che attribuivano i suoi reperti ad un non meglio precisato insediamento di età bizantina), ma perché parte da un presupporto sbagliato. Preambolo essenziale è soprattutto ricordarsi che i nostri tentativi di ricostruire i principi degli allineamenti astronomici dei monumenti antichi sono spesso e volentieri limitati dall’assenza di espliciti riferimenti documentali. Esempio tipico Stonehenge, la cui impostazione è stata per oltre un secolo ritenuta funzionale all’identificazione del Solstizio d’Estate (da cui tutta una simbologia ed una ritualità moderna che ha fatto le fortune del turismo locale), fino a che la scoperta (per altro piuttosto casuale) che alcune pietre fossero state spostate nel XVIII secolo, altre ancora prima da alcuni pastori, altre ancora rimosse durante i lavori di costruzione dell’acquedotto, non ha spinto gli archeologi a capire che in realtà essa marcherebbe (con molta probabilità) il Solstizio d’Inverno... In altri termini, prudenza dovrebbe insegnare che la presenza di un simbolo solare su una porta monumentale, per quando renda molto probabile un suo significato astronomico, non significa automaticamente che essa debba allinearsi con il Sole, men che meno in una certa data.
Ma al di là di questo, la figura rappresentata sulla “Porta del Sole” non è il Sole, ma il Dio Viracocha, di cui “abbiamo una diapositiva” (https://en.wikipedia.org/wiki/Viracocha…), Divinità che negli strati storici più antichi era associata con il mare e le acque e che, con ogni probabilità, era nume tutelare della Città andina e che tuttora viene celebrato nei canti popolari degli indiani Aymara durante le loro cerimonie. A tal proposito, Posnansky va comunque scusato: quando scriveva, cioè nel 1929, le uniche tradizioni note circa Viracocha erano quelle incaiche, e nella tradizione incaica Viracoca è effettivamente associato con il Sole secondo un processo di assimilazione mitografico abbastanza lineare.
Nella stratigrafia narrativa più remota, dimostrata anche dalle pitture su vasellame a noi pervenute, Viracocha è infatti il Dio delle acque, creatore del Sole, della Luna, degli astri celesti e per farla breve del setting universale, cui in un secondo momento avrebbe aggiunto l’altrettanto mirabile creazione della Prima e della Seconda umanità. La Prima Umanità sarebbe stata rappresentata da giganti di pietra privi di cervello che avrebbero vagato per il creato portando solo caos e distruzione, spingendo lo stesso Dio a distruggere tutto tramite un diluvio, da cui avrebbe salvato (esistono diverse versioni) O la sua seconda creazione, la Seconda Umanità, tratta da pietre più piccole e dotata di intelligenza, o i suoi tre figli, Inti, Mama Killa e Pachamama, da cui poi sarebbe derivata la corrente umanità. Alla Seconda Umanità, camuffato come viandante, Viracoca nei secoli seguenti avrebbe poi trasmesso ogni conoscenza.
Secondo la tradizione, e su questo c’è buon accordo, Viracocha sarebbe nato nel lago Titicaca (o nelle grotte che si trovano vicino alle sue sponde), e sarebbe quindi sparito nell’Oceano Pacifico, per non tornare mai più. Orbene: in quechua, il nome completo di Viracocha (i.e. Titsi Huiracocha) significa “origine del grasso/della ricchezza/della spuma del mare”. Anche accettando che Titsi Huiracocha sia un prestito da un diverso e più antico linguaggio locale, presumibilmente affine a quello degli odierni indiani Aymara, l’etimologia conserva un’associazione stretta con il mondo acquatico, in quanto Wila Quta significa “lago di sangue”. Come le acque del lago Titicaca al sorgere del Sole. Riassumendo, si capisce bene come: (1) Viracocha in realtà non sia il Dio del Sole, o comunque non lo fosse nella stratigrafia più remota; (2) il suo mito contenesse tuttavia elementi in grado di promuoverne la progressiva identificazione con l’astro solare, e segnatamente la comparsa sulle sponde del lago Titicaca, ad ORIENTE rispetto agli Inca (ma non rispetto a Tiwanaku!) (http://ngm.nationalgeographic.com/…/fe…/images/mp_full.5.jpg), e la scomparsa sulle sponde del Pacifico, cioè ad OCCIDENTE (sempre in prospettiva incaica), da cui l’incolpevole confusione fatta da Posnansky e tutto il castello di carte eretto su questa assimilazione.
Ma perché una datazione simile ha rappresentato terreno di caccia dei sostenitori degli “Antichi Astronauti” (o loro emulatori)? Bene: oggi accettare l’esistenza di siti monumentali umani risalenti al 10.000 a.C. o giù di lì ha superato la fase di sorpresa e di rigetto apodittico, ed inizia ad essere progressivamente accettata dalla ricerca archeologica. Pensiamo a Gobekly Tepe e a Catal Huyuk (mi si scuserà se ho saltato qualche umlaut, ma la tastiera di Windows non aiuta), la cui datazione più alta è appunto compresa fra 10,000 e 8.000 a.C., rispettivamente. C’è un problema però: sia Gobekly Tepe che Catal Huyuk si trovano dalla “parte giusta” dell’Atlantico. Nel 1929, ed in verità ancora negli anni ‘90, si riteneva che la colonizzazione del continente Americano fosse cosa relativamente recente, non più tarda del 10.000 a.C. circa - datazione imposta dalla fine dell’ultima glaciazione (già datata da Agassiz nel corso del XIX secolo) che, abbassando il livello dei mari, avrebbe consentito il passaggio dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering. Post hoc, ergo propter hoc: se l’archeologia ci dice che le culture amerindie note sono giunte nel continente NON prima del 10.000 a.C., e Tiwanaku è significativamente più antica, gli amerindi odierni non sono i discendenti dei costruttori di Tiwanaku. Anzi: probabilmente non hanno avuto con essi alcun rapporto, anche se nelle sue opere più tardi Posnansky arriverà ad ipotizzare un contatto fra la fine della cultura primordiale di Tiwanaku e gli albori di tutte le altre culture amerindie, facendo quindi della “sua” cultura di Tiwanaku la cultura madre di tutto il Sud America.
Ma chi erano allora questi precursori degli Aymara? A questo punto entra in gioco una citazione molto nota all’inizio del secolo (oggi paradossalmente molto meno) relativa ai primi contatti fra Inca e Conquistadores. Il già citato Pedro Cieza de Leon, Pedro Sarmiento de Gamboa e Juan de Betanzos raccontano che molti abitanti delle Ande li avrebbero inizialmente accolti come emissari del dio Viracocha a causa della carnagione bianca, assimilata a carattere distintivo della divinità, e della presenza di barba, carattere somatico che gli stessi indiani assimilavano con le divinità: è cosa ben nota, infatti, che i popoli amerindi non abbiano che scarsa peluria faciale (quando ne hanno).
Nonostante questa tradizione fosse tramandata dai soli autori citati, ancorché di prima mano - situazione quindi ben diversa dalla vicenda del Serpente Piumato mesoamericano, che invece è attestata anche da tradizioni native - ancor prima di Posnansky, molti ricercatori anglosassoni ricamarono di un’origine “nordica” delle divinità andine. In altre parole: a portare la civiltà e la cultura ai popoli mesoamericani sarebbero state genti Indogermaniche, che poi - in perfetto evemerismo, sarebbero stati trasfigurati in divinità.
Se sentite puzza di nazionalsocialismo esoterico non state sbagliando.
Secondariamente, abbiamo i Chachapoyas. Di questo popolo probabilmente non avete mai sentito parlare. Si tratta di una delle (non) poche civiltà precolombiane annichilite dalla conquista incaica giusto prima dell’arrivo dei conquistadores. Bene. Secondo il già citato Cieza de Leon, i Chachapoya erano
“molto più bianchi e molto più attraenti della media di tutti i popoli che ho visto nelle Indie”.
Su queste basi, nel corso degli anni ‘30 e ‘40 si ipotizzò (per farla breve) che il Sudamerica avesse ricevuto, in tempi remotissimi e precedenti l’arrivo degli amerindi, la colonizzazione da parte di “uomini bianchi”, responsabili della costruzione di Tiwanaku e di chissà quali altri siti ancora sconosciuti, una civiltà evidentemente molto avanzata vista la grandiosità delle rovine, e che un evento cataclismatico (forse il diluvio associato al mito di Viracocha) li avesse quindi spazzati via, lasciando solo i Chachapoya come loro remoti e dimentichi eredi. Prima di mettervi ad urlare allo scandalo, vale la pena ricordare che, ancora nel 1800, i sudditi di Sua Maestà Britannica avessero ipotizzato l’esistenza di una civiltà megalitica, nata nelle isole britanniche e da questa diffusasi in tutto il mondo, che prima degli anni ‘20 del ‘900 fosse diffusa l’idea che i faraoni fossero discendenti di popoli “nordici” emigrati in Egitto a lì portare la civiltà, e così via.
In realtà, per entrambe le “anomalie” di cui sopra, e cioè la presenza di “divinità” con barba e baffi e popolazioni indigene di pelle bianca, la moderna ricerca scientifica ha trovato spiegazioni piuttosto convincenti. All’epoca di Pasnosky, si credeva che i popoli amerindi fossero nel complesso omogenei, ed ascrivibili ad un colossale effetto fondatore determinato dalla migrazione attraverso lo stretto di Bering di un ristretto numero di coloni asiatici verso la fine delle glaciazioni. Oggi il quadro che viene considerato più attendibile è estremamente più complesso: i dati archeologici odierni hanno prima di tutto retrodatato la colonizzazione umana, spostandola ad un periodo compreso fra il 13.000 a.C. ed il 16.000 a.C., suggerendo un suo più articolato decorso. Mentre in passato si riteneva cioè che la migrazione fosse stata di fatto unica, una specie di lunghissima marcia attraverso il Nord America e poi sempre più a sud, oggi si tendono ad identificare più ondate migratorie sovrapposte, comunque accomunate dall’origine est-asiatica. Non solo: la più moderna ricostruzione della colonizzazione del Sud America suggerisce che essa sia stata estremamente precoce (meno di 1000 anni sarebbero cioè passati fra l’arrivo dei primi amerindi in meso-america e la colonizzazione di Cile ed Argentina), svolgendosi lungo la dorsale andina. O per meglio dire, dapprima lungo le coste, sfruttando il mare più pescoso del mondo: la costa Pacifica del Sud America che la fredda corrente di Humboldt rendeva e rende tuttora il paradiso di qualsiasi pescatore, anche molto improvvisato. Il tutto non sarebbe avvenuto “una volte a per sempre”, ma con il susseguirsi di ondate migratorie che già di principio erano estremamente eterogenee fra loro. In altri termini, la ricostruzione moderna è che ai primi e più remoti strati migratori se ne sia quindi sovrapposto uno più recente ed omogeneo, con i più diffusi caratteri antropometrici odierni, permettendo la sopravvivenza delle caratteristiche dei precursori solo in alcune sacche come i Paiute in Nord America o gli Aché in Paraguay. O forse gli stessi Chachapoya, a riguardo dei quali - altra ironia della sorte, oggi si tende ad accettare come scientificamente verosimile la vicinanza culturale con i popoli che effettivamente avevano eretto Tiwanaku.
Per concludere: la ricostruzione di Pasnosky, per quanto esordendo da rilievi in qualche modo innocenti, risentiva e sosteneva un colonialismo culturale allo stato brado, il cui cadavere in via di decomposizione è stato largamente saccheggiato nel corso degli ultimi 30 anni dai sostenitori della teoria degli Antichi Astronauti, spesso inconsapevolmente (e spesso consapevolmente) giocando sull’ignoranza diffusa circa le basi archeologiche di alcune civiltà “non mainstream”, come quella di Tiwanaku.
Che, come detto poc'anzi, fiorisce a partire da un periodo comunque remoto - ma non così remoto come vorrebbero i teorici degli Antichi Astronauti, e cioè dal 1.500 a.C. circa, acquisendo caratteri specifici fra 500 a.C. e 500 d.C., per poi spegnersi più o meno rapidamente.
Lasciando perdere (almeno per ora) le ipotesi più o meno fantascientifiche relative alla costruzione ed alla ragione di essere di Tiwanaku (tranquilli: ci torneremo fra poco), vediamo di fissare qualche elemento tecnico e storico.
Per quanto ne sappiamo, a determinare la fioritura della cultura di Tiwanaku sono tre fattori strettamente correlati: la diffusione della cultura intensiva del mais e della patata, e condizioni climatiche favorevoli, tutti eventi che per la regione periferica del lago Titicaca grossomodo corrispondono al range temporale sopra citato.
Partiamo dall’ambiente: il lago Titicaca si trova su un altipiano a 3812 m sul livello del mare. Si tratta di un contesto climatico estremo, caratterizzato da temperature che possono scendere di diversi gradi sotto lo zero anche nel corso della stagione estiva, e che solo nelle immediate vicinanze del lago diventano tollerabili e appropriate per la crescita della vegetazione ed un’agricoltura intensiva. In un periodo compreso fra il 3.500 a.C. e il 1.500 a.C. (date ricostruite sia a livello botanico che genetico che archeologico), gli indiani Aymara (o i loro precursori) riuscirono tuttavia ad addomesticare la patata, selezionando varietà in grado di crescere anche in presenza di basse temperature, e varietà di mais adattate alla sopravvivenza sugli altipiani. Il mais consente di produrre birra, una bevanda che, nelle popolazioni antiche, ha un significato ed una funzione pratica che va ben oltre la percezione moderna: la birra consente infatti di introdurre un surplus calorico essenziale per consentire la sopravvivenza in presenza di basse temperature, condizione che incrementa in modo esponenziale le esigenze metaboliche, specie quando sia richiesto un intenso sforzo fisico. Non aspettatevi, ovviamente, una moderna birra a doppio malto (e ci mancherebbe, visto che gli andini non possedevano il luppolo). Anzi: il chicha è un prodotto che molti birrofili faticherebbero ad ingurgitare. Contemporaneamente, i proto-Aymara svilupparono una tecnologia agricola sorprendentemente semplice ed altrettanto efficiente. In pratica, suddivisero il terreno dell’altipiano in prossimità di Tiwanaku in una colossale scacchiera (ovviamente ciò non accadde in una sola volta) tramite una rete di canali di irrigazione. Non aspettatevi però i classici canali agricoli europei o nordamericani. Parliamo di fossi molto larghi e relativamente poco profondi, che a loro volta si suddividevano in un reticolo ancora più fitto. L’acqua contenuta dai canali era in continuità con il lago Titicaca, contribuendo a diffondere l’area microclimatica favorevole, MA il lago non rappresentava l’origine dell’irrigazione, quanto il punto di sfogo, che invece era costituito dai ghiacciai circostanti. E qui entra in gioco il clima, come sempre quando si parla di Sud America.
Noi Europei siamo stati spesso bersagliati dai mutamenti climatici: sia Goldsworthy che Heather, nei loro recenti lavori sulla caduta dell’Impero Romano, hanno evidenziato come lievi mutamenti climatici sopravvenuti fra III e IV secolo possa aver sostenuto le grandi migrazioni e compromesso la redditività dei terreni agricoli in Occidente. Tuttavia, il clima europeo è stabilizzato da due grandi e potentissimi fattori: il Mar Mediterraneo da una parte, e la Corrente del Golfo dall’altra. Il Sud America è una storia completamente diversa. Il clima di Mesoamerica e Sud America è soggetto a periodiche, diremmo quasi cicliche, variazioni. La labilità, e quindi di riflesso l’incredibile ricchezza, delle culture proto-cittadine sudamericane sono strettamente correlate a questi fattori: aree, come quella di Tiwanaku, che per per secoli avevano favorito lo sviluppo agricolo, improvvisamente diventavano aride o comunque poco ospitali, spingendo gli abitanti ad abbandonare tutto cercando una nuova patria - che è poi il tipico mito fondatore di tutte (ma proprio TUTTE) le culture amerindie della dorsale andina. In questo momento, per esempio, stiamo passando attraverso una fase di scioglimento dei ghiacciai andini, iniziata circa cento anni fa, dopo che per circa 300 anni abbiamo assistito ad una loro espansione. Questa fase è favorevole allo sviluppo agricolo nell’area di Tiwanaku, in quando l’acqua reflua dai ghiacciai ricade nei canali di scolo portando con sé sostanze nutritizie che, quindi, si depositano sul fondo degli stessi. Alla fine di agosto, che corrisponde all’inizio della primavera andina, i contadini dovevano quindi dragarli a mano, gettando il materiale sui campi. Più o meno inconsapevolmente fertilizzandoli. Studi di archeologia sperimentale hanno dimostrato che queste procedure incrementano la redditività dei campi per unità di superficie fra il 15 ed il 35%, prolungando la stagione del raccolto fra le 2 e le 4 settimane. In pratica, quasi un raccolto in più all’anno. Il risultato fu, allora come in questo scorcio di secolo, un notevole surplus alimentare, in grado di sostenere una rapida crescita demografica delle comunità locali che, nel giro di circa un millennio, andarono ad occupare diffusamente tutta l’area dell’altipiano e poi progressivamente quasi tutta l’odierna Bolivia. Anche in questo, va detto, Pasnosky aveva ragione: Tiwanaku rappresentava effettivamente la cultura madre di tutta l’area andina.
A questo punto, molto probabilmente (è bene ricordare che tutte quelle che di qui in avanti si citano sono ovviamente estrapolazioni) accadde un fenomeno riscontrabile in TUTTE le culture agricole che raggiungono questo stadio evolutivo. La necessità di unire le forze per mantenere i canali di irrigazione efficienti spinse gli abitanti ad una cultura collaborativa: lo stesso fenomeno si riconosce nell’Egitto predinastico e nella Mesopotamia pre-sumerica. E come nel Mondo Antico, anche nell’area andina i riti religiosi furono un collante estremamente forte per le varie comunità. Alla fine di Agosto, quando l’inverno finisce e poco prima (o poco dopo) l’inizio dei lavori di manutenzione dei canali, le comunità agricole Aymara si riuniscono in riti in cui alcuni lama vengono sacrificati agli dei della fertilità allo scopo di stimolarne il ritorno sulla terra - all’atto pratico, per distribuire nella popolazione un surplus di lipidi e proteine che consentano di sostenere le intense attività fisiche associate agli incombenti lavori agricoli. Il rito viene compiuto in una struttura particolare, una specie di fossa di forma quadrata, le cui pareti sono costituite da pietre incastrate in una struttura a mosaico. Si tratta di un tipico topos architettonico andino, che si esalterà nei templi di Tiwanaku e sarà fatto proprio dagli Inca (l’architettura inca è infatti molto spoglia in termini musivi, anche e soprattutto se confrontata con l’arte azteca e maya, mentre celebra la raffinata capacità di incastrare fra loro le pietre). Qui vedete una foto tratta in occasione di uno di questi riti (http://www.fotografiaindigena.cl/…/up…/2012/10/leal_3big.jpg) (che per la cronaca oggi sono solitamente svolti sotto l’egida della Chiesa Cattolica, che negli ultimi secoli ha strategicamente eretto le proprie chiese sulle rovine dei luoghi di culto Aymara…).
Secondo le ricostruzioni odierne, Tiwanaku non sarebbe quindi sorta per impulso di un unica élite e men che meno per iniziativa di un leader carismatico (come Tehotihuacan in Messico, per esempio), ma come risultato della coalescenza di più nuclei agricoli che, unendo sempre di più le forze, avrebbero cercato di rendere disponibili agli dèi luoghi di culto sempre più grandiosi in modo da fornire sacrifici sempre più efficienti nel promuoverne la benevolenza (tema critico nel mondo americano, in cui le divinità sono spesso colleriche e violente, anche se l’area andina è cosa ben diversa da quella mesoamericana). In effetti, le strutture cultuali di Tiwanaku rispondono a tutti i riti degli Aymara moderni, in scala ingigantita. E tutte le sculture rinvenute, facendo comunque alcune premesse essenziali, sono perfettamente coerenti con l’ipotesi di due culti distinti ma non separati: il culto degli antenati, e quello delle divinità del raccolto, da Viracocha ai monoliti dispersi sul territorio (http://www.banjotours.com/…/Posnansky-Monolito-Bennet-Fotos…).
Se quindi la logica che sta dietro a Tiwanaku è razionalmente comprensibile, per molto tempo aspetti legati alla sua costruzione hanno creato non pochi problemi. Non solo il sito è caratterizzato da una pianta urbana apparentemente molto ordinata (http://www.atlantisbolivia.org/tiwanaku_files/kalasasaya.jpg), con strade, piattaforme e porte monumentali, allineate con una prospettiva ai limiti dell’Euclideo ed apparentemente aperte sul nulla (e quindi estremamente suggestive), ma il tutto costruito con quella che pare una roccia straordinariamente resistente - eppure modellata con non poco dettaglio e non trascurabili qualità artistiche.
Relativamente la raffinatezza degli allineamenti, va prima di tutto smontato un mito: non conosciamo il livello scientifico raggiunto dagli antichi predecessori degli Aymara, ma le ricerche comparative dimostrano che raggiungere un grande livello di precisione geometrica non impone necessariamente il ricorso a strumenti tecnici complessi. Di fatto, un gioco (raffinato, certo, ma nemmeno troppo) di corde permette di determinare angoli di qualsiasi genere ed allineamenti molto raffinati, e l’uso di canali permette di determinare in modo preciso se una piattaforma sia stata accuratamente livellata pur senza disporre di qualsiasi moderna strumentazione. Tecniche, per altro, indipendentemente scoperte e documentate in molte culture antiche - dall’antico Egitto, alla Mesopotamia, passando per il medioevo occidentale fino ad alcune comunità isolate dell’Anatolia e del Nord Africa moderno. Rimane tutta la simbologia della pianta geometrica del sito, della quale non dirò nulla semplicemente perché nulla sappiamo: non essendo pervenuto alcun testo scritto né alcuna tradizione orale relativa agli antichi costruttori di Tiwanaku, tutto ciò che riguarda questa cultura deve essere ricostruito retrospettivamente - ed il rischio di incorrere in errori madornali è sempre dietro l’angolo. A ciò si aggiunga un aspetto che trasse in inganno Posnansky, ed ancor più Von Däniken ed emulatori: lo stato delle rovine di Tiwanaku risente di secoli e secoli di spoliazione delle rovine. Abbandonata dai suoi antichi frequentatori (e dopo vedremo perché, forse, ciò accadde), Tiwanaky su saccheggiata da tutte le comunità circostanti. L’ultima spoliazione avvenne fra 1600 e 1700, quando gli Spagnoli strapparono via statue e strutture varie (persino porte monumentali ancor più splendide della già citata Porta del Sole) per integrarle in opere civili e religiose. Nelle comunità circostanti, statue di Viracocha sono state ad esempio convertite in rappresentazioni dei Santi Pietro e Paolo, e molte statue degli antenati, già parzialmente abbattute dagli abitanti di Tiwanaku, vennero riciclate nelle pareti di case e fortezze. In altri termini, ciò che oggi vediamo è solo una frazione di ciò che c’era - per cui, ricostruire la finalità delle strutture oggi evidenziabili senza considerare quanto rimosso rischia di portare ad errori (colposi, ma pur sempre errori). Riprendiamo l’immagine della “Porta del Sole” (e non fraintendete: l’immagine è volutamente presa in angolazione utile ad allinearla con l’astro http://3.bp.blogspot.com/…/n7-fHTm…/s400/aymara-tiwanaku.jpg): noterete che la porta non sorga in mezzo al nulla (dall’alto si nota anche meglio http://www.crystalinks.com/tiwanakugooglearth.jpg): è quindi tutto da dimostrare che la porta si aprisse verso il nulla (e quindi verso l’orizzonte) come oggi.
Anche la sorprendente precisione nell’allineamento delle strutture e delle pietre all’interno delle stesse costruzioni è stata ampiamente mitizzata, definita come tanto raffinata da sfidare qualsiasi capacità tecnica moderna, ed è sempre una conseguenza indiretta del grave degrado in cui Tiwanaku si trovava nel XIX secolo. Se per esempio vediamo come si presentasse la “Porta del Sole” all’epoca di Posnansky, si noterà come essa fosse in pessimo stato di conservazione, e le sue stesse proporzioni siano molto meno monumentali di quanto la vulgata voglia tramandare (https://upload.wikimedia.org/…/Georges_B._Von_Grumbkow_-_Al…), e come il livello di rilievo sia in realtà molto variabile anche all’interno dello stesso monumento (ma questo è perfettamente comprensibile,https://commons.wikimedia.org/…/File:Puerta_monol%C3%ADtica…). Se poi ci spostiamo sugli altri elementi monumentali, si noterà come l’adesione fra le pietre non sia realmente così uniformemente eccezionale “tanto da non far passare un coltello” (cit.) (http://l7.alamy.com/…/tiahuanaco-or-tiwanaku-semi-subterran…) e che comunque, ove esso in effetti sia ammirabile (http://www.planisfero.com/s/cc_images/cache_37987574.jpg…) è spesso e volentieri tale dopo i lavori di restauro eseguiti dopo la sua scoperta (https://upload.wikimedia.org/…/Edificio_de_la_segunda_Epoca…) (http://bilddatenbank.khm.at/viewArtefactImageLarge…). Anche la celebre statua del dio dei raccolti all’arrivo di Pasnosky non si trovava affatto dove oggi viene solitamente celebrata (in barba ai raffinati allineamenti ed alle ancor più celebrate geometrie ricostruite sulla base di queste immagini e tanto pubblicizzate dai media moderni) (https://hiddenincatours.com/…/2014/05/IMG_6380-2-640x509.jpg). In altri termini, piaccia o no, gran parte del superbo allineamento dei massi che compongono le opere di Tiwanaku sono risultato delle opere di restauro eseguite, forse con troppo zelo, a partire dal 1900. In altre parole, fare estrapolazioni fondate su questi elementi è come avanzare ipotesi storiche sulle ricostruzioni eseguite da Evans a Cnossos: tempo perso.
Il che, ovviamente, nulla toglie alla grandiosità artistica di questo sito, ma impone di riscalarne la natura e l’eccezionalità, anzi: l’implausibilità in assenza di “aiuti” dall’esterno.
Aiuti che vengono spesso tirati in ballo in quanto, da un lato, la massa delle pietre sarebbe tale da rendere implausibile la loro movimentazione da parte di popolazioni primitive e, dall’altro, la loro compattezza sarebbe tale da impedirne la lavorazione con strumenti antichi.
Partiamo dal primo punto. Tanto per cominciare, spesso i teorici degli Antichi Astronauti che parlano di Tiwanaku mai sono stati in situ o, quando vi hanno messo piede, analizzano le immagini che presentano senza mettere a riferimento qualcosa che permetta di apprezzarne la reale scala. Abbiamo già visto prima come, ad esempio, la Porta del Sole sia mirabile, affascinante - ma a conti fatti abbia dimensioni relativamente contenute. Idem la Porta della Luna e le grandi statue monolitiche. Giusto per citare temi cari ai sostenitori degli antichi astronauti: non parliamo delle enormi pietre utilizzate per erigere gli obelischi o lo djed delle Grandi Piramidi. La più massiccia pietra di Tiwanaku è rappresentata da quella da cui fu tratta la Porta del Sole, ed essa non supera le 100 tonnellate. Molti obelischi egiziani, a titolo di confronto con un’altra civiltà pre-industriale e priva di macchinari evoluti, pesavano ben oltre le 130. La maggior parte delle pietre utilizzate è in fascia fra 1 e 4 tonnellate. Il peso di un paio di SUV (l’Audi Q5 pesa ad esempio 2 tonnellate).
Si tratta cioè di materiale che anche una cultura piuttosto primitiva avrebbe potuto modellare con sufficiente pazienza utilizzando anche soltanto strumenti di pietra e appropriata sabbiatura per la levigazione delle superfici. E’ vero, di contro, che molti rilievi sulle superfici richiedessero l’uso di strumenti metallici - ma qui i sostenitori degli Antichi Astronauti commettono un secondo errore. E’ infatti abitudine occidentale credere similari o comunque correlate le civiltà andine e quelle mesoamericane. Tutt’altro. Dal punto di vista delle conoscenze metallurgico, le civiltà andine erano infatti relativamente avanzate, a contrario di quelle mesoamericane, avendo raggiunto uno stadio prossimo a quello dell’età del bronzo mediterraneo (https://www.zum.de/whkmla/sp/1011/pope/sje2.html#III4), e questo stadio era stato già raggiunto intorno al IV secolo a.C. Inoltre, il bronzo utilizzato dagli andini era caratterizzato da un’elevata concentrazione di rocce arsenicali, che (stando a quanto riportato dai manuali tecnici) dotava i relativi artefatti di maggiore resistenza all’usura. A ciò si aggiunga un dettaglio solitamente ignorato dai teorici degli Antichi Astronauti: ancora oggi, nel sito di Tiwanaku sono disperse pietre lavorate per la loro integrazione nelle strutture templari, in vario stato di lavorazione che consente di ipotizzare un ciclo lavorativo iniziante con il conferimento in situ di massi semi-lavorati, che quindi procedevano all’interno dei grandi cantieri sulle basi delle necessità, ricevendo le lavorazioni in una specie di catena d montaggio. Almeno su questo non ci sono particolari misteri.
L’andesite usata a Tiwanaku è però di due tipologie principali, verde e rossa (a tale proposito vi rimando alle opere divulgative di Jago Cooperhttp://www.britishmuseum.org/…/lost_kingdoms_of_south_ameri…). Mentre la prima è ampiamente disponibile nelle vicinanze di Tiwanaku, e quindi non creava grossi problemi interpretativi, la seconda si trova esclusivamente su una penisola del vicino lago Titicaca, in prossimità dell’odierno sito di Copacabana: la scoperta di questa origine ha ovviamente rinfocolato le ipotesi più eterodosse.
Il conferimento via terra di massi di grandi dimensioni è stato a lungo oggetto di ampio dibattito: ricordiamoci che non soltanto i massi di andesite rossa oggi presenti in situ si trovano verso il limite superiore del range, potendo superare le 10 tonnellate (e, con i dovuti e già riportati caveat, anche di molto), ma è ugualmente vero che molte delle pietre che oggi vediamo nel sito archeologico sono risultato di lavorazioni eseguite in loco (come nel caso della Porta della Luna), da cui stime molto maggiori circa il blocco originario.
Considerato che gli antichi abitanti delle Ande non disponevano della ruota, né di animali da soma più grandi del lama, e che (soprattutto) l’uso di slitte è reso impossibile dalle caratteristiche del terreno, negli anni sono state avanzate le ipotesi più fantasiose, come l’uso di tecniche di levitazione - ma non necessariamente così eterodosse. Nell’ultimo decennio, ricerche sperimentali condotte da ricercatori di UPenn (http://www.penn.museum/…/expedit…/pdfs/47-2/reed%20boats.pdf) hanno proposto una spiegazione tanto semplice quanto ragionevole: le pietre semi-lavorate sarebbero state imbarcate dalla cava a Copacabana su barche di canne intrecciate e da lì trasportate fino alla sponda meridionale del lago Titicaca. Sbarcate, sarebbero state fatte procedere sul terreno facendole rotolare su se stesse da parte di squadre di indigeni. L’aspetto più interessante dell’indagine condotta dal gruppo coordinato da Alexei Vranich e Paul Harmon è che, lungo il tragitto che le pietre avrebbero dovuto compiere, tutt’oggi si trovano dei massi in andesite rossa, compatibili per dimensioni e conformazione, spezzatisi a metà durante il tragitto e lì lasciati in mezzo ai campi. Le squadre di lavoro avrebbero operato per distinti segmenti del percorso, corrispondenti ai villaggi: quando Vranich e Harmon tentarono di riprodurre il conferimento dei massi, ebbero la sorprendente scoperta che la serratissima competizione esistente fra i villaggi dispersi lungo il tragitto spingesse gli abitanti a moltiplicare gli sforzi per accelerare il rotolamento dei massi, riducendo i tempi di viaggio più di qualsiasi altro stimolo esterno.
Tutta questa mole di lavoro ragionevolmente richiedeva l’esistenza di qualcuno che progettasse e pianificasse le opere e le attività lavorative - ma nel mondo pre-incaico di Tiwanaku non c’è traccia di un re o di qualcosa di simile. Sembra invece che, al vertice della società di Tiwanaku vi fosse una casta costituita dai sacerdoti, la cui capacità di coordinare e pilotare le attività lavorative delle singole comunità agricole avrebbe consentito la fioritura dell’area boliviana.
Tutto ciò fino ad una data molto precisa, e cioè la fine del VI - VII secolo d.C.
In quel periodo si sarebbe verificato un fenomeno climatico simile a quello odierno: lo scioglimento dei ghiacciai andini.
Scioltisi i ghiacciai, sarebbe venuto meno il rifornimento per i canali di irrigazione. Venuto meno il rifornimento dei canali di irrigazione, anche la capacità di espandere il microclima lacustre e soprattutto il fertilizzante naturale proveniente dai canali di scolo sarebbero stati severamente compromessi.
Se la nostra ricostruzione è corretta, questo fenomeno si sarebbe verificato nel corso di almeno un paio di secoli, ma il suo impatto sugli abitanti dell’area di Tiwanaku sarebbe stato inizialmente contenuto, acquisendo caratteri di esplosività solo verso la fase terminale, quando l’eccessiva crescita demografica avrebbe portato al punto di rottura capacità agricole severamente inficiate.
A ciò sarebbe seguita una fase di instabilità sociale, forse sfociata in vere e proprie rivolte (molte delle statue di Tiwanaku, ivi comprese quelle monolitiche, all’arrivo dei ricercatori moderni si trovavano abbattute, frantumate o sepolte: tutti segni che solitamente si associano con una rivolta religiosa), o forse con il semplice abbandono dei culti locali.
Frantumatosi il collante rappresentato dalla religione e dalla venerazione di Viracocha e delle divinità dei raccolti, Tiwanaku avrebbe smesso di essere ciò che era stata dalla sua fondazione: la pietra al centro del mondo, un punto aggregante per le diverse comunità locali. Che, più o meno di punto in bianco, si sarebbero infine parcellizzate, tornando ad un’esistenza più semplice, ad un’agricoltura di sussistenza di scala estremamente locale, incapace di sostenere programmi edilizi o architettonici che nei secoli precedenti avevano sostenuto lo sviluppo di quei popoli.
Il resto è sbrigativamente detto: i templi abbandonati sarebbero andati incontro alla progressiva degenerazione determinata da fattori climatici, dai terremoti, e più semplicemente dalla sistematica spoliazione (degli Spagnoli abbiamo già detto). Così che, all’arrivo degli Inca, questi ultimi - che già di per sé avevano l’abitudine di dire “prima di noi, il diluvio” e si premuravano di cancellare in modo sistematico qualsiasi memoria storica - non furono in grado di ricostruire nulla dei monumenti di Tiwanaku, confinandoli ad un passato remoto e mitico che fu quindi condiviso con gli Spagnoli e da questi al mondo moderno, fino all’inizio di una più accurata ricerca archeologica.
Spero di non avervi annoiato troppo: l’archeologia meso e sud-americana è una passione che sto coltivando solo negli ultimi mesi, ma devo confessare che l’argomento Tiwanaku mi ha particolarmente affascinato e coinvolto.
Grazie dell’attenzione.
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