Sardegna. Romani a Bannari, l’attuale Villa Verde (Pau)
Articolo di Vitale Scanu
I romani non hanno mai apprezzato la nostra Sardegna
millenaria al di là dell’aspetto utilitaristico, di sfruttamento senza limite o
di deportazione per condannati “ad minas”, cioè ai lavori forzati in miniera.
Roma non ha lasciato in Sardegna neanche uno straccetto di monumento
all'altezza del suo nome.
E’ quell’isola che il signor Cicerone Marco Tullio (sospettato numero uno dell’assassinio di Cesare), mai messo piede in Sardegna, definiva “mala insula”. Quell’isola che perfino il grande san Girolamo definiva “insula excerpta”, regione dimenticata e desolata, che neanche Gesù Cristo si è degnato di considerare. Mai la nostra isola è stata vista come un deposito singolare, non clonabile, di una cultura da millenni antecedente a Roma, alla quale aveva parecchie cose da insegnare e raccontare. Una civiltà ricca di grandi valori, “endemica”, nata ed evolutasi nella solitudine dei millenni senza prestarsi niente da nessuno. L’unico prestigioso periodo storico che ancora oggi riempie la Sardegna di fierezza e di
vanto (foto 1, Putifìgari, una millenaria domus de janas).Dopo aver vomitato anche l’anima durante il tragitto in mare
su quei gusci di noce, dalle spiagge si sguinzagliavano rapaci dappertutto per
razziare l’impossibile: frumento, legumi di ogni genere, vino, animali da
lavoro e da macello, pelli conciate, frutta, lumache, asparagi selvatici, pesci
dal sapore unico per preparare il “garum” (specie quelli che chiamarono e sono
rimasti, per antonomasia, “sardine”), sfruttamento della preziosa ossidiana
(denominata da Plinio “lapis opsianus”), manufatti a basso costo, tessuti di
orbace impermeabile per l’esercito (notare che nella piccola Bannari, ancora
alle soglie del 2000, lavoravano 32 telai domestici, secondo lo storico
Casalis), argento, piombo e tanti prodotti minerari, oggetti di terracotta,
schiavi per i lavori più umili… , una quantità spropositata di bronzetti
nuragici che fondevano per fare spade e giavellotti (foto 2, arciere di
Usellus, ora perduto), e grano, moltissimo grano, tanto che si dovettero
allargare i magazzini annonari della capitale per la grande quantità dei
raccolti. Gli schiavi, così a basso prezzo erano classificati “venales”, ossia
di poco pregio, “a barattu”. E se uno di essi crepava, "vile
damnum!", poco male! Con tutto ciò, era lo stesso Cicerone che qualificava
i sardi come “latrones mastrucati”, ladri con la mastruca… Simpatico!
Zoomando in particolare sulla nostra zona “di parte Usellus”, il compianto prof. Attilio Mastino, rettore dell’università di Sassari, docente specialista di storia romana, ci dà una indicazione precisa della strada centrale romana da Olbia a Karalis, che “in origine doveva correre all’interno, dalle Aquae Ipositanae (Fordongianus) verso la colonia augustea di Usellis e da qui continuare lungo le pendici orientali del monte Arci (ossia nella zona del nostro villaggio nurgico di Brunk’e s’Omu), verso le Aquae Neapolitanae (Santa Maria de is aquas di Sardara)”. Salendo verso Scaba Pomposa, sulla destra, è possibile ancora oggi scoprire le crepidini di questo percorso che era chiamato “via per compendium”, ossia scorciatoia da Usellus verso le acque termali di Sardara e poi verso Neapolis, a sud di Oristano (foto 3, cartina delle strade romane in Sardegna, dove è bene evidenziato il tragitto Usellis-Neapolis, costeggiante il monte Arci).
Fra le trace della presenza romana nel nostro circondario, abbiamo una moneta dell’imperatore Salvius Otho, trovata nelle campagne di Bannari (foto 4, moneta di Salvius Otho). Amico di merende di Nerone, l’imperatore Otho regnò per tre mesi: eletto dai pretoriani il 15 gennaio, si uccise il 16 aprile del 69 d. C.. Siamo quindi nella prima metà del II secolo dopo Cristo.
Ai tempi dei miei studi ginnasiali ad Ales, durante una
passeggiata in comitiva sul monte Arci,
in zona Santa Prisca trovammo una bella lampada di terracotta poi
rimasta nell’archivio del mio amico Marco Serra, con inciso il noto chrismon
paleocristiano (foto 5, lampada paleocristiana in terracotta).
E’ interessante l’interpretazione etimologica che dà al nome
Bannari il prof. Raffaele Sardella (professore di paleontologia alla Sapienza
di Roma), secondo cui questo nome deriverebbe da un radicale fenicio, ban hari,
che significa fuggire da, fuggitivi, estromessi. Basandoci poi sulla pronuncia
dialettale di questo toponimo, bãini, si potrebbe ipotizzare anche un perfetto
collegamento col verbo greco bainéin (andare, transitare, attraversare) che
sottende un significato di "passare per…". Preziosa concordanza col
significato fenicio. Forse Bannari fu denominata così per essere un luogo di
transito sulla via della ossidiana Pau-Usellus?
Un’altra traccia
semantica che potrebbe collegare col nome Bannari (bãini) sono gli etimi
tardo-latini medioevali bannire (o bannàre), bannitio, bannus… nomi che
sottendono (e ancora concordano con gli etimi riportati sopra) un atto
giudiziale, una deportazione. Bannari, in questa accezione, significherebbe un
luogo riservato ai bannati dall’autorità giudiziale, quelli sottoposti a un
banno, che scontano una pena o sono condannati a un esilio. Non è inverosimile
pensare che, quando, per ordine del ministro plenipotenziario dell’imperatore
Tiberio (14-37 d.C.), Seiano, quattromila ebrei furono deportati in Sardegna
(secondo Tacito. Svetonio, Dione Cassio, Giuseppe Flavio), per lavorare nelle
miniere del Sulcis, qualcuno di essi, passando necessariamente per Usellis sia
stato impacchettato per Bannari per incrementare i lavori agricoli, di fresca
conoscenza dei nostri avi nuragici emigranti da Brunk'e s'Omu. Un indizio
potrebbe essere il cognome Scema, così diffuso nella nostra comunità, che ci
consegna un’assonanza con la parola ebraica
s h e m à (“shemà, Israel”,
ascolta, Israele). Chissà quante volte i nostri compaesani bannaresi avranno
sentito questa espressione “shemà, Israel!” nelle riunioni religiose dei vicini
ebrei. Una parola diventata poi cognome, quasi un fossile di una presenza viva.
Così pure la parola “cenàbara”, fossile della “cena pura” ebraica delle
celebrazioni vesperali del venerdì.
Altra preziosa indicazione ci viene da una moneta, sempre a
Usellus . “Nel diritto di questa si legge: ‘Quintus Antonius Marci Filius
Coloniae Usellis duumvir’. Nel rovescio: ‘Decurionum decreto’, con l’aratro come
simbolo della Colonia di Usellis. Questo Q. Antonio è quel pretore della
Sardegna nell’anno 670 di Roma, che fu ucciso da Filippo, legato di Silla
(82-79 a.C.), perché seguitò la fazione di Mario (’L. Philippum legatum ad
sardos, (Silla) misit, qui pulso occisoque Antonio praetore, marianae factionis
insulam occupavit’ – cfr De Rebus Sardois, l. I, p30). "Quinto Antonio
dunque, per cui era coniata la moneta, o era duumviro onorario della Colonia di
Usellis, 82 anni prima di Cristo, o lo era effettivo prima che diventasse
pretore: a questa data rimonta quindi la fondazione di questa città” di Usellus
(G. Spano, “Bullettino Archeologico Sardo” 1864, p 77 ).
Ricordiamo che Uselis era, in Sardegna, la seconda delle due uniche “coloniae” romane, dopo Turris Libissonis (Porto Torres), nodo strategico e amministrativo al centro dell’isola. Un'importanza strategica, logistica, militare e amministrativa di prim’ordine. Uselis, oggi Usellus (30 chilometri da Forum Traiani, Fordongianus, 7 da Bannari) è la nota Colonia Iulia Augusta Uselis, menzionata da Tolomeo, documentata dagli antichi scrittori sardi, nonché dalla lastra bronzea datata 158 d.C., rinvenuta a Cagliari presso il casinò Laconi dal generale La Marmora nel 1828 (foto 6, la Tabula patronatus di Usellus, lastra bronzea del 158 d.C. - foto 7 e 8, tratti di strade romane a Usellus; la 7, in località S. Reparata, in direzione Bannari).
Infine, se osserviamo un momento i santi patroni venerati
nei nostri paesi, notiamo che sono quasi esclusivamente santi del periodo
paleocristiano, in prevalenza di militari martiri, importati verosimilmente da
Roma a Usellus per mezzo dei soldati e dei congedati militari qui “deducti”:
oltre agli apostoli Pietro e Bartolomeo, ci sono Simeone, Maria Maddalena,
Luxorio (IV s., graduato militare martirizzato a Forum Traiani, Fordongianus,
durante una delle persecuzioni di Diocleziano, 303-311), Prisca (III s.),
Sebastiano (III-IV s.), Lucia (III s.), Barbara (IV s.), Reparata (III s.),
Greca (IV-V s.), Antioco (medico, africano di nascita, esiliato in Sardegna per
ordine dell’imperatore Adriano, 177-138), Giorgio (III-IV s.). Bannari aveva
per patrona Santa Maria. I titoli patronali delle parrocchie, create dalla
pietà popolare, segnano il momento in cui il santo è particolarmente venerato,
è… di moda, per così dire. I titoli delle parrocchie quasi mai vengono cambiati
lungo i secoli, e sono, quindi, segno significativo e valido dell’ancestrale
data di nascita di una comunità. Facile dedurre come queste date riguardino e
coinvolgano anche la piccola comunità di Bannari, che da sempre è esistita in
simbiosi con Usellus come frazione e quasi una sua “dépendence”, sia sotto
l’aspetto civile che religioso.
Queste interpretazioni concorderebbero bene, secondo me, con
l’ipotesi che il nome Bannari (in dialetto bãini) non sia che l’esito di un
concetto di passaggio, di transumanza. Sono, nel contempo, tutti indizi della
frequentazione romana a Bannari fin dai primissimi tempi dell’era cristiana.
Senza soluzione di continuità col suo passato nuragico plurimillenario.
CI TERREI A PRECISARE CHE LA MONETA RAFFIGURATA IN QUESTO ARTICOLO NON È’ STATA CONIATA SOTTO L’IMPERATORE OTHO, MA SOTTO AUGUSTO, QUINDI CIRCA 60 anni PRIMA. SI TRATTA DI UN DUPONDIO DI AUGUSTO (due assi).
RispondiEliminaINFATTI M. SAVIUS OTHO DOI QUESTA MONETA, NON E’ IL FUTURO IMPERATORE OTONE, MA BENSÌ’ SUO NONNO CHE AVEVA LO STESSO IDENTICO NOME. IL NONNO INFATTI, SOTTO L’IMPERATORE AUGUSTO, ERA UN MAGISTRATO MONETALE, MA NON DIVENTO’ MAI IMPERATORE.
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