Il Potere Marittimo: gestire l’economia dei mari è affare
per pochi.
Storia degli Stretti, i choke point, e dei Paesi che si contendono il controllo di questi colli di bottiglia marittimi.
Articolo di Pierluigi Montalbano.
Fonte: Limes, gerarchia delle onde, limesonline.com, 07/19
Indice:
1. Il Potere Marittimo 2. Storia della Talassocrazia 3. Da Roma a Pearl Harbor 4. Londra 5. Giappone 6. India 7. Russia 8. Oceano Atlantico 9. Commerci Marittimi 10. Connessioni Sottomarine 11. Cina 12. Gibilterra 13. Istanbul 14. Canale di Suez 15. Gibuti, Bab al-Mandab nel Golfo Persico 16. Stretto di Hormuz 17. Malacca 18. Taiwan 19. Canale di Panamà
1. Il Potere Marittimo
Condizione indispensabile per governare la terra è prevalere
sulle acque. Controllare il mondo oceanico, inabitabile e assai più vasto delle
terre emerse, significa prevalere sul resto del mondo. Per esercitare il
controllo delle acque non è necessario presidiare l’intera distesa marina, è
sufficiente vigilarne i nodi strategici, ossia i cosiddetti choke points, ossia
gli stretti, chiamati anche punti di strangolamento o colli di bottiglia. Chi
amministra gli stretti può decidere di chiudere o aprire le arterie
dell’economia globale. Per fare ciò occorre occupare militarmente le postazioni
determinanti per dissuadere chi vuole forzare i blocchi navali. Già da secoli
sono stati individuati 7 punti di strangolamento marittimo naturali: Dover nel
Canale della Manica, Gibilterra, Malta, il Canale di Suez, Malacca, San Lorenzo
in Canada e il Capo di Buona Speranza. A questi si aggiungono quelli più o meno
artificiali come Panama, Dardanelli, Hormuz, Taiwan e Bab-al-Mandab che unisce
il Mar Rosso con l’Oceano Indiano. Dopo la battaglia navale dell’ottobre 1805 nella baia di Trafalgar, fra Cadice e
Gibilterra, in cui l’ammiraglio Nelson sbaragliò le flotte francesi e spagnole,
i due primattori geopolitici sono stati l’Inghilterra e gli USA, ma oggi nella
gerarchia del mare si è inserita la Cina, e non solo militarmente. Nel Pacifico
c’è da ricordare la battaglia di Midway del giugno 1942 quando gli americani
posero fine alle velleità imperiali giapponesi. Storicamente, ci sono due
tipologie di potenze marittime, quelle che si battono per proteggere le rotte
mercantili ma non hanno la forza sufficiente per imporsi sul mondo, come Atene,
Cartagine, Venezia e, più recentemente, Olanda e Inghilterra, e quelle degli
imperi terrestri che si spingono sui mari per imporre una talassocrazia, ad
esempio l’antica Roma, e negli ultimi secoli Russia, Germania, USA e Cina. La
gerarchia non si decide nei duelli nave contro nave, l’obiettivo è proteggere
le coste e, al contempo, dominare le rotte di superficie tracciate dai traffici.
Ciò comporta pattugliare le ZEE, ossia le zone economiche esclusive, estese
fino a 200 miglia dalla linea di costa, sfruttando le risorse naturali del
fondo marino e installare strutture artificiali per consolidarne la propria
sovranità. Poi occorre controllare le
acque strategiche profonde dove corrono i sommergibili nucleari lanciamissili,
arma più letale delle vulnerabili portaerei perché oltre all’invisibilità
possono contare su armi di distruzione istantanea di massa. Importante è
considerare che il 99% delle comunicazioni civili e militari sono trasmesse
attraverso cavi subacquei. Chi vuole esercitare la supremazia deve anche
controllare gli approdi terrestri dove fluisce il traffico fra uno stretto e
l’altro, luoghi dove la distinzione fra infrastrutture militari e civili è
sottile e il camuffamento è praticabile con facilità. Naturalmente, per
estendere il controllo serve anche una potente flotta aerea, con l’appoggio di
unità navali portaerei utilizzabili come base logistica mobile. L’egemonia degli
USA non è messa in dubbio da nessuno, con 11 portaerei e 14 sottomarini
nucleari che completano una flotta navale e aerea formidabile. Unico avversario è oggi la Cina, una nazione
che ha un rapporto millenario con il mare e che ha iniziato a utilizzare le
rotte marittime come ferrovie sugli oceani grazie al presidente Mao che nel
giugno 1958 convinse la commissione militare a istituire la protezione armata
della flotta. Oggi la Cina è protagonista indiscussa dei commerci via nave
contando 7 scali sui primi 10 del pianeta per movimentazione di merci, e
programmando la costruzione di 12 portaerei e decine di sommergibili atomici
entro il centenario della repubblica di Mao che sarà nel 2049. Il baricentro
del trasporto navale si è spostato dall’Atlantico al Pacifico, connesso via
Indiano al Mediterraneo, una nuova via marittima della seta con infrastrutture
affidate a ingegneri e maestranze cinesi, con porti dove collocare reti in
fibra ottica, postazioni informatiche, centri di raccolta dati e sistemi di protezione
con installazioni che si evolvono in basi militari dichiarate o camuffate.
Pechino sta penetrando in Medio Oriente e nel Mediterraneo grazie alle
postazioni africane e greco-balcaniche, in aree dove la pressione americana è
meno intensa e i focolai di guerra non sono spenti. A ciò si contrappone il
comando americano dell’Indo-Pacifico, con i suoi 2 mila aerei, 200 navi e
sottomarini e 400 mila uomini concentrati in Giappone, Corea del Sud,
Australia, Filippine, Singapore e Regno Unito. In questo scenario come si pone
l’Italia? La nostra marina militare è la terza flotta in Europa dopo quelle
britannica e francese, con una vocazione oceanica che vede nella costruzione
dell’unità anfibia multiruolo Trieste, prevista per il 2022, una portaerei da
33 mila tonnellate che affiancherà la portaerei Cavour come piattaforma di
comando. Purtroppo i copiosi investimenti destinati alla nostra flotta non
corrispondono al rilancio economico dell’Italia sul mare e la nostra ideale
posizione al centro del Mediterraneo anziché rivelarsi attrattiva di scambi e
commerci, palesa la lacuna di cultura marinara, in passato fiore all’occhiello
del nostro paese. Invece di attrezzarci per intercettare i container che
viaggiano dall’Asia all’Europa perdiamo contato con le rotte nordeuropee che
ruotano su Rotterdam, Anversa e Amburgo e ci facciamo umiliare anche dal porto
marocchino di Tanger Med, a ridosso di Gibilterra, che cresce a dismisura
insieme ad altri che vanno dall’Algeria all’Egitto e fino a Israele. Dal 38%
del controllo delle merci mediterranee mosse su container del 2014 siamo scesi
al 20% del 2018. I nostri porti si fanno a guerra commerciale danneggiandosi
reciprocamente, e le baruffe allontanano gli investitori. Non siamo nemmeno in
grado di sapere se le nostre banchine sono troppe o poche.
2. Storia della Talassocrazia.
Dai romani agli inglesi, e ora americani e cinesi, dotarsi
di una sensibilità rivierasca trasformando il mare in primaria fonte di
sostentamento economico e predisporre una potente flotta in grado di garantire
la sicurezza delle proprie coste è un’impresa che può condurre all’egemonia
universale. Se pensiamo a Roma, Cartagine, Atene e alle moderne nazioni che
fanno delle rotte marittime lo strumento per globalizzare il mondo, e
conquistarlo, possiamo capire che porre gli oceani al centro del pensiero muove
il baricentro della politica estera. Chi domina le sue correnti possiede un
netto vantaggio offensivo e difensivo sugli altri. Le vie di comunicazione del
mare non hanno necessità di costruzione né di manutenzione, solo di capacità
nautiche e di una serie di competenze che da millenni sono studiate dai condottieri dei grandi
imperi. La talassocrazia è il controllo dei mari, la possibilità di privare gli
avversari dei rifornimenti, di regolare il transito di merci e uomini, di
amministrare le conversazioni che passano nei cavi sottomarini. Gli insuccessi
storici sono celebri, fin dall’inizio del V secolo a.C. quando il persiano
Dario si affidò a fenici, egizi e ioni per manovrare la sua flotta. Più tardi,
nel 480 a.C., suo figlio Serse allestì una flotta di migliaia di triremi per
sconfiggere i greci d’Attica e del Peloponneso, ma mise al comando ammiragli
stranieri dell’impero e, diretta verso il Pireo, perse un terzo delle
imbarcazioni nella guerra dello Stretto di Salamina. Gli unici persiani a bordo
erano arcieri e fanti, incapaci di dare ordini efficaci ai comandanti. Da quel
momento i persiani si limitarono a finanziare il naviglio spartano senza
prendere parte ai conflitti. Attestiamo nel 405 a.C. la vittoria sulla lega
Delio-Attica. Il più grande fiasco talassocratico dell’antichità fu quello di
Dario III nella battaglia di Gaugamela, quando nel 331 a.C. fu sconfitto dai
macedoni di Alessandro Magno che posero sostanzialmente fine all’impero
persiano. Più recentemente, 300 anni fa, la Francia non fu più fortunata. Per
rivaleggiare con le grandi marine europee abbandonò il legame con i mercantili
olandesi e vinse qualche battaglia, ad esempio contro gli inglesi a Bèvèziers
nel 1690 e contro gli americani nel 1781 a Chesapeake, ma con Napoleone cambiò
strategia è abbandonò la costruzione di nuove navi per dedicarsi alle guerre
terrestri. In pochi anni le ambizioni francesi si infransero contro la Marina
Britannica che a Capo Trafalgar nel 1805 affondò totalmente la flotta
napoleonica ponendo fine alle velleità francesi. Anche lo Zar Pietro il Grande
nel 1695 ordinò di preparare una flotta per conquistare la supremazia nel Mar
Baltico e acquisì ingegneri navali britannici per diventare competitivo. Fondò
sul mare la nuova capitale, San Pietroburgo per mostrare la propria idea di
status marittimo, ma gli sforzi si rivelarono vani, il suo impero fu chiuso sul
Baltico dallo strapotere inglese e non riuscì nemmeno a entrare nel
Mediterraneo attraverso i Dardanelli. I russi non sono mai riusciti a diventare
una potenza marittima e in epoca sovietica si limitarono alla difesa. La
Germania fece un tentativo di talassocrazia alla fine dell’Ottocento producendo
moderni vascelli e sottomarini d’avanguardia e usandoli nella prima guerra
mondiale ma, popolata da cittadini cresciuti lontano dalla costa, continuò ad
avere un formidabile esercito ma fu ripetutamente sconfitta sui mari, come
nella battaglia dello Jutland del 1916 e contro l’alleanza anglo-americana
nell’Oceano Atlantico durante la II guerra mondiale. Stessa sorte della Cina,
nonostante a più riprese nei secoli le dinastie Song, Yuan e Ming regnarono
sulle coste asiatiche, e con l’ammiraglio Zengh He giunsero nel 1400 con sette
spedizioni fino alla penisola arabica e al Corno d’Africa. Successivamente, i
regnanti cinesi abbandonarono i mari, forse preoccupati dalle invasioni
provenienti dalle steppe, costruirono la grande muraglia e privilegiarono
l’esercito. Nel mare, fino alla fase attuale, i giapponesi li hanno sempre
bloccati. Ritornando al lontano passato, i primi della storia a convertirsi in
navigatori furono gli ateniesi, una stirpe di agricoltori e artigiani. Invasi
dai persiani achemenidi che ne incendiarono l’acropoli, nel 480 a.C. si
gettarono in mare per salvarsi. Dopo la vittoria a Salamina ricostruirono le
mura di Atene e raddoppiarono con quelle che li collegavano al porto del Pireo
isolandosi dall’Attica. La sovrappopolazione che seguì questa scelta di ridurre
drasticamente i confini della città causò una serie di problemi, uno su tutti
un’epidemia di tifo. La peste colpì al cuore la più evoluta e ricca città
greca, nel 430 avanti Cristo, proprio in quel V secolo che aveva visto Socrate,
Platone, Fidia, Pericle e il Partenone costituire l’età d’oro della Grecia. Le
conseguenze furono terribili: l’epidemia portò al collasso la società ateniese,
cuore pulsante della cultura ellenica, e giocò un ruolo essenziale nella
sconfitta della polis nella celeberrima guerra contro Sparta, aprendo le porte
alla dominazione macedone. Pericle stesso, il principale capo politico e
stratega ateniese, trova la morte a causa di essa, e le due cose, causeranno la
fine dell’egemonia di Atene sulla Grecia. Nei tre anni che seguirono, circa un
terzo della popolazione, fino a 100.000 persone, fu sterminata dalla malattia. I sopravvissuti decisero di passare a una
strategia navale, rifiutandosi di combattere sulla terra per sfidare i nemici
unicamente nell’Egeo. Sconfitti i persiani, in pochi decenni la flotta ateniese
arrivò a controllare le linee di comunicazione mediterranee centro orientali
divenendo, di fatto, il primo sistema talassocratico della storia, fino a
quando Alessandro Magno nel 338 a.C. pose fine a questa supremazia. Atene
rimase comunque una città marinara, anche in epoca romana.
3. Dall'antica Roma a Pearl Harbor
Invincibile potenza terrestre, Roma iniziò a pensare al mare
dopo aver sconfitto Pirro, quando si profilava lo scontro con i punici per la
supremazia nel Mediterraneo. Nel 279 a.C. riunì gli ingegneri navali di
Taranto, Napoli e Cerveteri per affinare le capacità cantieristiche. A proprio agio con le triremi, i romani
presero come modello le pentere di Siracusa perché assai capienti e adatte a
ospitare la fanteria. Nel 260 a.C. affrontarono i cartaginesi a Milazzo adottando
un espediente che agganciava le navi nemiche, il corvus, per ingaggiare un
combattimento corpo a corpo. Tuttavia questo ingombrante gancio squilibrava le
imbarcazioni e causò l’affondamento di gran parte della flotta di ritorno da
una campagna africana. Gli antichi autori latini raccontano che in quella
tempesta si rovesciarono 280 navi e morirono 30 mila uomini. Polibio
approfondisce la questione e scrive che Roma decise di approcciarsi con più
cautela al mare, e da allora ci fu un attento coordinamento tra fanti e marinai
che portò a una serie di vittorie che da quella di Mionesso del 190 a.C. fino
allo sbarco a Utica del 146 a.C. sancirono la distruzione di Cartagine e, per
la prima volta nella storia per una potenza, lo status di dominatrice
dell’intero Mediterraneo. Roma divise il mare nostrum in settori di competenza,
con flotte a Miseno, Ravenna, in Egitto, in Siria, in Numidia, nel Mar Nero,
nell’Oceano Atlantico, nella Manica, sul Reno e sul Danubio. Escluse dai
commerci qualunque imbarcazione nemica e si fece garante unico del commercio
internazionale. Per 500 anni fu sancita la Pax Romana, che produsse effetti
benefici fino al V secolo quando i barbari precipitarono il Mediterraneo nel
caos recidendo le vie di navigazione. Questa situazione perdurò per mille anni,
fino all’emergere della potenza anglosassone nel XVI secolo con la dinastia
Tudor. Nel 1534 Enrico VIII ruppe con il papato per ricavarsi un ampio spazio
di manovra e dal 1558 Elisabetta I investì ingenti risorse per la costruzione
della flotta che avrebbe affrontato l’invasione spagnola. La monarchia inglese
scelse gli oceani per fuggire da un continente in subbuglio e confiscò i
monasteri cattolici, saccheggiandoli per fornire pietre, legno e bronzo per la
costruzione dei velieri. In due secoli Londra ascese a massima potenza navale
del mondo, industriandosi affinché in Europa non nascesse una nuova potenza in
grado di affrontare il mare con mire espansionistiche. Si specializzò nel
controllo dei tracciati marittimi tramite la regolamentazione degli stretti, i
choke point, i punti di strangolamento o colli di bottiglia nei quali era
necessario transitare per approdare nei floridi mercati costieri. Dopo la Pax
Romana ci fu la Pax Britannica, mai messa in dubbio fino alla I guerra
mondiale. Tutto cambiò, poi, nella II guerra mondiale. Nel secolo precedente, intanto, emergeva una
nuova potenza marittima, l’incredibile talassocrazia giapponese. Fu un colpo di
fulmine, e i nipponici passarono repentinamente da una condizione feudale nel
1850, caratterizzata da uno stato chiuso da oltre due secoli agli stranieri per
il timore di contaminazioni da essi e dal mare che li portava, a un nuovo
approccio verso gli oceani per garantirsi la sopravvivenza. Costruirono una
formidabile flotta per importare le risorse utili a sostenere lo sviluppo
industriale. L’imperatore Meiji affidò il comando navale ai samurai di Satsuma,
stanziati nell’isola di Kyùshù, che puntando sull’orgoglio di una generazione
di giovani abituati a un tasso di povertà che li costringeva a condizioni di
vita terribili, sovvertirono la paura del mare in desiderio di scrutare
l’orizzonte e affrontare senza paura il futuro. Trovarono il coraggio di
lanciarsi in un mondo sconosciuto, contando sulle proprie doti di resistenza,
ubbidienza e baldanza. La flotta divenne un formidabile strumento per l’azione
imperiale, e in pochi anni i nipponici stroncarono i sogni nautici di due
future superpotenze, sbaragliando i cinesi nel 1895 a Weihaiwei e nel 1905 i
russi a Tsushima, costringendo Pechino e San Pietroburgo sulla terra. Nel 1941
umiliarono gli americani a Pearl Harbor, l’anno dopo gli inglesi a Hong Kong e
Singapore e si mostrarono pronti ad affrontare gli USA per il controllo dei
mari prima di capitolare a Midway nel 1942, nel cuore dell’Oceano Pacifico.
4. Londra
Mentre leggete queste righe, una delle due nuove portaerei
britanniche da 65 mila tonnellate, della classe Queen Elisabeth, effettua i
test nel mare nelle acque dell’Indo-Pacifico, comprese le prove del caccia F35b
destinato al suo ponte. Il Regno Unito ha un bilancio per la difesa fra i più
alti del mondo, insieme a USA, Cina, Giappone e Francia. Londra è cosciente del
fatto che la sicurezza marittima dell’area è compromessa dai problemi
geopolitici degli stati rivieraschi per le minacce poste dalla pesca illegale, dalla
pirateria e dai traffici di droga e migranti. Come gli USA, il regno unito non
mette bocca sulle dispute del Mar Cinese, ma non transige sui diritti di
navigazione e impone il rispetto dell’embargo petrolifero verso la Corea del
Nord. La marina britannica è di stanza a Singapore, Bahrein e Oman e l’ultima
crisi scoppiata a Hong Kong ha acuito il
dilemma strategico di Londra divisa fra il desiderio di commerciare con Pechino
e il timore della crescente forza navale, e quindi politica, cinese. Recentemente,
in appoggio al gruppo di scorta della Royal Navy, francesi, olandesi e
americani hanno inviato potenti mezzi per mantenere rapporti solidi dopo la
Bretix, in attesa della partecipazione di altri incrociatori e fregate europee
alle future operazioni nell’area fra Pacifico e Oceano Indiano. In un mondo che
cambia a ritmi forsennati, il mare sembra essere esente da mutazioni, tuttavia,
le società mercantili globalizzate sono coscienti dell’importanza strategica
dell’elemento marittimo e investono enormi cifre per gestire le arterie
economiche lungo le quali è trasportato il 90% degli scambi mondiali, e per
accaparrarsi i fondali sottomarini da cui, ricordiamo, proviene un terzo del
petrolio e del gas consumato globalmente. Altrettanto importante per un’umanità
in costante crescita demografica è la fonte proteica delle acque pescose.
Conseguentemente, la sicurezza marittima è diventata un parametro
imprescindibile per la protezione della vita umana. Ciò che conta è il
mantenimento del libero accesso per un profitto collettivo e una competizione
sana e cooperativa. Gli scambi marittimi si sono sviluppati a tal punto da non
poter essere interrotti senza grave danno per tutti. Per garantire la sicurezza
degli approdi internazionali e delle distese oceaniche, le marine da guerra di
tutti gli stati si impegnano con missioni di non facile sostenibilità. In
questo, raggiungono due finalità: esercitano l’autorità degli stati
partecipanti e aprono a collaborazioni in caso di tensioni aeromarittime. Con
una distinzione fra pace e guerra divenuta sempre più vaga alla fine della
guerra fredda, il mondo ha bisogno di marine militari chiamate a svolgere una
vasta gamma di incarichi, dalla sorveglianza a compiti di polizia, dal soccorso
umanitario al contrasto di traffici illeciti, fino a combattimenti con
operazioni aero-marittime e aero-terrestri. Gli assetti navali devono quindi
disporre di addestramento e mezzi
polivalenti atti ad affrontare ogni tipo di missione. Naturalmente, sottomarini
e portaerei conducono un’opera decisiva di freno ad azioni avverse, e le marine
rappresentano il cuore della libertà d’iniziativa che consente, oggi, di avere
a disposizione ogni tipo di merce fino al proprio domicilio.
5. Giappone
La pressione cinese sulle vie marittime dell’Indo-Pacifico
coinvolge e disturba l’economia giapponese, basata sull’export. La strategia
navale di Tokyo mira a proteggere gli stretti di Miyako, Luzon e Malacca perché
da lì transitano beni di consumo, energia e risorse per l’edilizia. Già dalla
fine del XIX secolo il paese fu trasformato in una potenza commerciale di
livello globale e dopo le ben note tragiche vicende di guerra del XX secolo il
Giappone sta cercando di rafforzare le relazioni con gli USA per contrastare la
baldanza della Cina. La modernizzazione del paese per riuscire a competere con
i rivali europei è sfociata in una crescita economica e demografica senza
precedenti, e l’aumento della richiesta di risorse naturali indisponibili
nell’arcipelago nipponico ha convinto Tokyo a rivolgersi a Taiwan, Corea,
Manciuria e Cina. All’inizio del XX secolo, per evitare di subire una
colonizzazione era necessario creare una fiorente economia e inizialmente fu
occupata Taiwan. Poi fu sconfitta la Russia e annessa la penisola coreana, e
l’ultima idea fu quella di creare lo stato fantoccio di Manciukuò e invadere la
Cina continentale. L’idea di vincere una guerra navale contro gli USA in
estremo oriente determinò il crollo delle mire espansionistiche. Dopo la
batosta dell’ultimo conflitto mondiale, con i bombardamenti atomici subiti a
Hiroshima e Nagasaki, la strategia navale nipponica cambiò radicalmente. Per
contenere l’avanzata dell’Unione Sovietica furono stretti accordi con gli USA
per il dispiegamento di truppe americane nell’arcipelago. Inoltre, furono
coltivate relazioni cordiali con gli stati del Sud-Est asiatico e con la Cina,
che consentì l’accesso alle immense risorse di carbone e petrolio necessarie
per alimentare l’impressionante crescita economica degli anni Settanta, ma lo
shock petrolifero del 1973, in seguito al quale gli americani chiesero agli
alleati di unirsi a loro in un embargo contro i paesi dell’Opec, causò il
raffreddamento dei rapporti con gli USA perché Tokyo non avrebbe retto alle
conseguenze negative dell’aumento dei prezzi del petrolio. D’altro canto gli
USA capirono che la partecipazione giapponese all’embargo avrebbe ridotto la
capacità di Tokyo di contenere la pressione dell’Unione Sovietica determinando
l’indebolimento del fulcro della sua proiezione nel Pacifico Occidentale. E’
questa la fase della celebre “diplomazia delle risorse”, un pilastro della
geopolitica giapponese che consentì l’approvvigionamento di petrolio dai Paesi
Arabi e Iran, tollerato dagli Usa in cambio della neutralità di Tokyo di fronte
ai fatti di sangue fra USA e OPEC. Inoltre, il collasso dell’URSS determinò,
conseguenzialmente, la fine delle alleanze fra USA, Giappone, Corea del Sud,
Cina e altri paesi asiatici. La necessità di ripensare la geopolitica nipponica
giunse con gli incidenti di Piazza Tienanmen del 1989, i testi nucleari cinesi
del 1994, la propaganda antigiapponese di Pechino, i timori circa la gittata
dei missili nord coreani Taepodong e le
rivolte del 2010 e 2012. Nel corso di un ventennio, Tokyo ampliò l’area delle
operazioni di autodifesa nel Mar Cinese Orientale, nel Mar del Giappone e fino
all’Indo-Pacifico, con l’introduzione dei missili baistici Thaad e Aegis e con
operazioni della marina militare per riconquistare alcuni territori insulari
dell’area. Inoltre, più recentemente, furono stretti accordi di strategia
marittima con Australia e India. La recente militarizzazione del Mar Cinese da
parte del leader cinese Xi Jinping, ha convinto Tokyo a rafforzare le capacità
militari dei suoi partner nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano svolgendo
attività di addestramento congiunto con le marine di Filippine, Vietnam e altri
stati dell’Asia sud orientale. Il Giappone, inoltre, ha fornito tecnologie di
sorveglianza e motovedette alle Guardie
Costiere alleate, e stringendo una forte alleanza con gli USA. Allo stesso
tempo ha installato sistemi missilistici sulle isole dello Stretto di Miyako e
pattugliando con sottomarini tutto il Mar Cinese. A orientare questa nuova
strategia marittima del Giappone è stata, dunque, soprattutto la pressione cinese.
6. India
L’India è consapevole dell’importanza strategica
dell’apparato di sicurezza marittima. Fin dal 1600 i mercanti europei fondarono stazioni commerciali lungo la costa
indiana, fino a impoverire il paese stravolgendolo e trasformandolo in terreno
di scontro fra potenze perché nell’Oceano Indiano transitano terzi del petrolio
e metà del traffico container mondiale. Negli Anni Ottanta l’esercito indiano
era impegnato per sedare le attività terroristiche dello Sri Lanka e le
tensioni con il Pakistan, potenze dotate di arsenali nucleari che
destabilizzano il quadrante del Mar Rosso.
In questo scenario si è resa necessaria la protezione delle isole del
Golfo del Bengala e del Mare Arabico. All’Oceano Indiano si può accedere solo
attraverso il Capo di Buona Speranza, Hormuz, Malacca e il Canale di Mozambico,
tutti “imbuti marittimi” facilmente controllabili da chi esercita le attività
militari locali. Tutti sappiamo che i britannici usarono l’India come base per
esercitare il proprio dominio dalle coste dell’Africa Orientale a quelle
dell’Asia Occidentale. D’altro canto, la nascita del Pakistan ha determinato la
perdita del controllo sulle rotte terrestri settentrionali che conducono ai
grandi mercati dell’Asia Centrale, e di conseguenza quasi tutto il commercio
indiano passa per le vie meridionali, ossia quelle del mare. I conflitti
continui con Cina e Pakistan impedirono al governo indiano di dotarsi di una
flotta adeguata e fino al 1965 fu il Regno Unito che forniva le navi militari,
ma la rottura dei rapporti con Londra determinò l’alleanza di Nuova Delhi con i
sovietici, fornitori dei sommergibili di classe Foxtrot. Nel 1971 gli USA
appoggiarono il Pakistan contro l’attuale Bangladesh, all’epoca Pakistan
Orientale, ma nelle operazioni belliche la marina statunitense pensò di
condurre la sua portaerei Enterprise fin dentro il Golfo del Bengala accendendo
forti tensioni con il governo indiano, e, infatti, tre anni dopo, Delhi fece il
suo primo test nucleare e reclamò il ritiro di tutte le navi straniere
dall’Oceano Indiano. L’invasione sovietica in Afghanistan amplificò l’alleanza
con l’India e Mosca fornì armamenti come gli incrociatori Kasin, i sottomarini
Kilo, gli aerei TU-142 M e un sottomarino a propulsione nucleare. L’India
incrementò la sua flotta con sottomarini HDW classe 209, aerei Jaguar e Dornier
Do 228 e una seconda portaerei, la INS Viraat, equipaggiata con i caccia
Harrier V/STOL. Il crollo dell’URSS spinse il governo indiano a progettare e
produrre in proprio nuove navi da guerra come la Delhi. Nel 1998 furono
eseguiti 5 test nucleari, determinando aspre reazioni dai paesi vicini e
pesanti sanzioni dagli USA, ma la diplomazia indiana strinse una nuova alleanza
con Washington scortando attraverso le Stretto di Malacca le navi americane impegnate
in Afghanistan. Nell’ultimo decennio, la marina dell’esercito popolare di
liberazione cinese compare nell’Oceano Indiano per scongiurare atti di
pirateria e da quel momento pattuglia l’area con 31 navi operative. Attualmente
Pechino è uno dei finanziatori principali della costruzione di infrastrutture
nelle zone costiere più povere. Porti, oleodotti e basi militari cinesi hanno iniziato ad
allarmare l’India, e in quest’ottica è da inquadrare l’avvicinamento con gli
USA tramite l’accordo nucleare del 2005 e l’acquisizione di armi ed
equipaggiamenti americani. Questa alleanza strategica è stata firmata da Barack
Obama a Dehli il 26 gennaio 2015. Attualmente la potenza marittima indiana è
espressa sia dalla marina militare sia da quella mercantile, con cantieri
navali moderni connessi con l’immenso entroterra attraverso una florida rete
commerciale che riduce i costi logistici e stimola i traffici economici. Al
momento l’India dispone di 1750 navi commerciali, e la potenza navale militare,
con le sue 140 unità armate operative, garantisce la sicurezza di tutto
l’apparato economico costiero. Si tratta di 22 corvette, 13 fregate, una
portaerei dotata di caccia Mig-29, vari
sottomarini e un gruppo di navi da guerra anfibie e mezzi da sbarco. A questo
apparato si aggiungono 500 aerei da combattimento. Inoltre, l’anno scorso c’è
stato l’acquisto di droni Sea Guardian per il pattugliamento delle coste,
aiutati dai 51 dispositivi optoelettronici sistemati presso le infrastrutture
portuali. Fortunatamente al momento gli accordi con le altre potenze che hanno
maturato interessi corposi nella regione dell’Oceano Indiano, ossia Cina,
Pakistan e USA, sono buoni e consentono navigazioni sicure in Sri Lanka e nelle
Maldive, le rotte più importanti del mondo. Inoltre, Delhi è riuscito a
stringere accordi preziosi con gli alleati degli Stati Uniti, soprattutto
Giappone, Australia, Singapore e Arabia Saudita. L’auspicio del governo è
quello di riuscire in futuro a sviluppare le capacità necessarie per attuare
autonomamente i propri interessi di protezione del territorio, senza
l’assistenza degli stati stranieri.
7. Russia: sommergibili e missili.
L’obiettivo principale della strategia marittima russa è la
difesa del territorio con l’utilizzo dei sottomarini nucleari muniti di missili
balistici. Il controllo delle acque territoriali e la protezione delle coste si
concretizzano semplicemente nel tenere lontane le marine straniere. La Russia
ha creato zone marittime denominate bolle d’interdizione, nelle aree del Mar
Baltico, nel Mar Nero e nel Mediterraneo Orientale. I sistemi missilistici sono
assai sofisticati e coprono fino al Bosforo. La flotta navale è costituita da
piccole navi equipaggiati con missili Kalibr che possono essere lanciati dalle
zone d’interdizione, non è necessario spingersi in mare aperto. Il Pacifico non
è di interesse strategico perché sono sufficienti le alleanze con Cina e
Giappone. Le grandi navi da guerra sovietiche sono un lontano ricordo perché le
risorse sono state impiegate per rinnovare la flotta sottomarina, attualmente
la più potente del mondo insieme alla statunitense. Per ciò che riguarda il
Mediterraneo, sono presenti delle basi in Siria, terrestri e navali, in grado
di contrastare le portaerei USA e i vari gruppi navali stranieri. Gli sforzi sulla
nuova produzione si concentrano nel convertire le navi in piattaforme
missilistiche. Fra i sottomarini si distinguono il Severodvinsk della classe
Jasen Project 885 e la classe Kilo Project 636.3, entrambi dotati di armi per
la protezione costiera. Ci sono poi i sommergibili classe Oscar Project 949A e
Akula Project 971M dotati dei moderni sistemi missilistici Kalibr e Oniks a
lungo raggio e alta precisione. C’è da dire che vari incidenti gravi hanno
compromesso la portaerei Kuznecov e il sottomarino Losarik Project 210 che
probabilmente saranno smantellati, ma la questione della condizione tecnica dei
vascelli, dei malfunzionamenti e dell’inaffidabilità degli apparati tecnologici
ha riguardato anche la flotta USA, quindi siamo davanti a un problema diffuso
che porterà a notevoli cambiamenti nelle flotte navali di tutto il pianeta.
Difficilmente Mosca sfiderà gli USA per la supremazia nell’Atlantico, preferirà
difendere il proprio territorio e tenere sotto tiro missilistico chi si
avvicina ai siti sensibili. La Russia ha incrementato notevolmente la sua
presenza navale nell’Artico aprendo nuove basi e costruendo una nuova classe di
rompighiaccio, tuttavia continuerà a essere prevalentemente una potenza
terrestre , mantenendo un ruolo secondario
nelle attività marinaresche. La Marina resta importante a scopi politici
perché può influenzare le forze straniere con visite nei porti ed
esercitazioni.
8. Il potere marittimo nell’Oceano Atlantico.
Insieme al Pacifico, l’Oceano Atlantico è il mare che
consente agli USA di detenere il primato commerciale e politico nel pianeta.
Allo stesso tempo è l’elemento che li connette all’Europa. Vinta la guerra
fredda anche sui mari settentrionali, gli Stati Uniti si sono trovati mezzo
secolo fa nell’inedita condizione di non doversi guardare da alcun pericolo
proveniente dall’Atlantico. Trascurando la missione fondativa della NATO,
creata per proteggere il Nord Atlantico, erano riusciti nell’impresa titanica
di neutralizzare l’oceano più bellicoso del mondo, come solo gli inglesi avevano
fatto prima di loro. Le grandi potenze che si affacciano sul Mare del Nord,
ossia Germania e Gran Bretagna, poterono dismettere le basi atlantiche per
spostarle in Europa settentrionale e dedicarsi a contrastare la Russia.
Tuttavia, se il Pacifico è il teatro in cui l’America può vincere la sfida con
la Cina, l’Atlantico è quello in cui essa può perdere il primato marittimo. Già
nel novembre 1781, George Washington affermava che senza una decisiva forza
navale non si poteva fare nulla di glorioso e definitivo, e il suo successore
John Adams ribadì nel suo primo discorso presidenziale che il potere navale è
la difesa naturale degli Stati Uniti. Tuttavia ci vollero 150 anni per
smarcarsi dalla supremazia atlantica britannica. La questione vide tre atti, il
primo dei quali già nel 1812 quando le navi inglesi occuparono Tangier Island
nella baia di Chesapeake per risalirla e dare alle fiamme la città di
Washington. La crisi venezuelana del 1898 fu il secondo momento di distacco
dagli inglesi. L’operazione fu conclusa solo nel settembre 1940, agli albori
della II guerra mondiale, quando gli americani si impegnarono a salvare Londra
dall’assedio nazista in cambio delle basi britanniche presso i propri confini:
Terranova, Bermuda, Bahamas, Giamaica, Santa Lucia, Antigua e Guyana. C’è da
dire che esclusa l’Italia, tutti gli altri stati fondatori della Nato hanno
vocazione atlantica, ed è forte il loro interesse nell’installazione di basi
militari dotate di sensori, imbarcazioni e aerei capaci di coprire l’intero
spicchio settentrionale dell’Oceano, dall’Islanda alle Azzorre, alla
Groenlandia, alla Norvegia e alla Scozia. La conquista dell’Atlantico è stata
incruenta, le guerre più sanguinose si sono svolte nel Pacifico. Gli eroi sono
gli ammiragli dell’altro Oceano, quello che li divide dall’Asia, e forse è per
questo che gli USA hanno oggi ridotto all’osso il controllo degli snodi
cruciali delle operazioni sottomarine russe: Kinloss in Scozia, Olavsvern in
Norvegia Keflavik in Islanda, Valkenburg nei Paesi Bassi, Lajes Field alle
Azzorre e alcune strutture nella Nuova Scozia canadese. Dopo la guerra fredda
la Nato ha ridotto da 230 a 90 il numero delle fregate impegnate, e ha
dimezzato il numero di aerei e sottomarini. Gli USA hanno dirottato le risorse
risparmiate nell’Atlantico verso i conflitti antiterroristici seguiti al
tragico evento dell’11 settembre 2001.
Ad esempio, i marinai stanziati in Europa sono passati da 15 mila agli
attuali 8 mila, metà dei quali in Italia. La Nato ha accompagnato questa
dismissione americana e oggi assistiamo alla totale rimozione del Nord
Atlantico dai radar euroamericani. I rivali ne hanno approfittato subito perché
l’Atlantico pur essendo privo di risorse economiche, a parte il pescato, è
decisivo per l’attrazione delle potenze del pianeta per i traffici commerciali.
Nel Pacifico, infatti, oggi transita solo un quinto delle merci mondiali. E
oggi, la Cina si affaccia all’Atlantico per testare la reazione USA. Investe
nell’estrazione di materie prime in Groenlandia, svolge attività di ricerca in
Islanda, Svezia e Norvegia, possiede una stazione scientifica alle Svalbard,
conduce operazioni militari nel Baltico con la flotta russa, investe nel porto
di Tangeri per avvicinarsi allo Stretto di Gibilterra, ha convinto il
Portogallo ad aderire alle nuove vie della seta, invia alti funzionari a Capo
Verde e alle Azzorre, dove tratta per ottenere la disponibilità della pista di
atterraggio di Lajes Field. L’obiettivo di Pechino sembra quello di pareggiare
le azioni di disturbo americane nel Mar Cinese, con la differenza che la Cina
non schiera forze belliche preferendo la diplomazia, al contrario degli USA che
fanno pressione militare. In tutto ciò. La Russia inizia a far sentire la
propria presenza lontano da casa, nelle acque e nei cieli atlantici: sorvoli
nell’Islanda, missioni navali nel sud dell’Atlantico, attività sottomarine in
acque scozzesi, svedesi e finlandesi, e al largo del Golfo del Messico, senza
dimenticare lo sforzo bellico in Siria con navi, aerei e sottomarini. Ciò che dovrebbe
preoccupare gli ammiragli americani è il fatto che il Nord Atlantico è lo
sbocco naturale dello schieramento militare russo, concentrato nella penisola
di Kola, nel Mare di Barents, oltre il circolo polare, in posizione remota per
essere meglio protetto. Fortunatamente la Russia non è giudicata prossima a
muovere guerra in Europa, men che meno negli oceani. La minaccia russa
costituisce uno strumento aggiuntivo per Londra e Copenaghen per tenere a sé le
periferie atlantiche: Scozia, Irlanda del Nord, Groenlandia e Far Oer, tutti
avamposti essenziali per controllare le rotte marittime. Recentemente, gli
Stati Uniti sembra si siano accorti del disequilibrio e nel 2018 hanno
riattivato in Virginia la II Flotta, nel porto di Norfolk dove dispongono della
base navale più grande del mondo con 6 delle loro 11 portaerei. La II Flotta ha
uno staff di comando che ha autorità su qualunque nave nella propria area di
responsabilità, ossia l’Atlantico occidentale, e la condivide con la VI Flotta
per l’Atlantico Orientale e con la III Flotta di stanza in California. Questo
dispiegamento navale militare garantisce, tra le altre cose, la protezione dei
26 cavi internet che allacciano gli Stati Uniti all’Europa, all’Africa, al
Sudamerica e ai Caraibi. Difenderli dai sabotaggi significa garantire ai
territori interessati accesso a un servizio globale e, al contempo, alimentare
il concetto della supremazia americana sui mari.
9. I commerci marittimi
La quasi totalità delle merci viaggia, oggi come in passato,
sull’acqua. Il commercio è l’attività che da sempre consente alle comunità di
sopperire alla mancanza di cibo e delle materie prime essenziali per la
sopravvivenza, è la linfa della storia. La vicenda umana è storia del commercio
ed è storia di mare, delle imbarcazioni che lo solcano, di ciò che trasportano,
degli equilibri strategici che gli scambi contribuiscono a determinare. Oggi
sono trasportati per mare circa 15 miliardi di tonnellate di marci, il 75% del
commercio internazionale. Fino alla prima età romana, il commercio era un
affare locale, ma già dalla Roma Imperiale, ossia dai primi secoli dopo Cristo,
gli storici documentano l’apparizione di prodotti di lusso di provenienza
cinese, specie sete e spezie, trasportati lungo la via della seta, la prima
direttrice trans euroasiatica conosciuta. I mercanti guadagnano con la vendita
svariati multipli del valore dei beni, e li reinvestono in nuovi commerci. Con
la caduta di Roma si ha il collasso della via della seta che viene ricucita
solo all’epoca di Marco Polo, nel tardo medioevo. Con il mercante veneziano si
assiste al consolidamento dei rapporti tra impero mongolo ed Europa e la
ripresa della trans nazionalità dei flussi. Da allora a oggi, i paesi coinvolti
devono occuparsi di garantire la sicurezza a merci e uomini, e la stabilità
politico-militare è il tratto saliente del commercio internazionale. Tuttavia,
c’è da aggiungere che dal VII secolo d.C. i mercanti musulmani concorrono
all’espansione dell’Islam dalla sua culla arabica. Le loro navi dominano gli
scambi nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, dall’Indonesia alla Spagna
Moresca. Un grande salto qualitativo e quantitativo avviene dal 1500, con le
grandi scoperte geografiche. L’apertura della via occidentali alle Indie amplia
a dismisura il potere economico dell’Europa con portoghesi, spagnoli, olandesi
e inglesi che drenano le risorse dalle colonie alle terre europee. Si assiste
al cambio di vita e di alimentazione degli europei, dettato da prodotti come
patata, pomodoro, caffè, zucchero, tabacco e cioccolato. Al contempo, il prezzo
delle spezie crolla. Nell’Ottocento, la forza del vapore spinge l’economia
dell’impero britannico e la rivoluzione industriale alimenta il flusso delle
materie prime e la ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Nei primi anni del Novecento,
grazie alla rete di telecomunicazioni, gli abitanti di Londra potevano ordinare
per telefono, mentre sorseggiavano il loro tè del mattino a letto, prodotti
provenienti dall’intero globo e farseli recapitare. L’invenzione della stiva
refrigerata farà la fortuna di Argentina e Uruguay perché consentiva di
trasportare la carne di manzo sudamericano, e al salto quantitativo si
accompagnava quello qualitativo, agevolato dalla velocità ed economicità dei
trasporti. Tra le due guerre mondiali c’è una forte riduzione dei traffici
commerciali, ma già dagli anni Cinquanta
una serie di fattori conduce a una nuova esplosione degli scambi. La
riduzione dei costi delle telecomunicazioni e del trasporto merci marittimo fu
la molla determinante per una nuova globalizzazione. Le chiamate internazionali
nel 1955 costavano l’80% in meno del ventennio precedente, e nel 2005 si è
arrivati al 95%. Oggi sono sostanzialmente gratuite. Nel 1989, alla caduta del
muro di Berlino, le esportazioni erano tornate ai livelli del 1913, prima del
conflitto che innescò la grande depressione.
Dal 2001, con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del
Commercio, lo sviluppo di molte economie emergenti ha portato al raddoppio del
Pil (prodotto interno lordo) mondiale, e raffrontandolo al 1945 siamo giunti a
undici volte in più. La globalizzazione ha nel commercio marittimo la sua
infrastruttura portante, e negli ultimi 10 anni il commercio mondiale, malgrado
la recessione, è cresciuto da 12 mila a 20 mila miliardi di dollari. Il commercio
marittimo è passato dai 2 miliardi di tonnellate nel 1970 agli 8 miliardi del
2010 e ai 12 miliardi di tonnellate del 2020. Il grosso dei commerci lo fanno i
container e le navi carburanti che da soli coprono il 70% dei volumi
trasportati. Il commercio tra economie ricche ed economie povere si va
ribaltando perché i secondi non svolgono più il ruolo di miniere a cielo
aperto. Ad esempio il commercio tra Cina e Africa subsahariana è passato dal
miliardo di dollari del 1992 agli oltre 120 miliardi attuali. Il fulcro di
questo riequilibrio è proprio la Cina, basti pensare che la rotta commerciale
transatlantica nel 1995 totalizzava 3 milioni di container, quella
euro-asiatica 4 e quella transpacifica 8, oggi la relazione tra le tre grandi
direttrici è invertita, infatti, per l’Atlantico passano 8 milioni di
container, nell’Oceano Indiano-Mediterraneo, via Suez, 25 e per il Pacifico 28.
Nella classifica delle economie marittime, la Cina è al primo posto, seguita da
Singapore, mentre l’Olanda è al 6° posto, gli USA all’8°, gli Emirati al 13° e
poi abbiamo Sri Lanka al 16°, Marocco al 17° e Panama al 30°. Considerato che
le merci cinesi sono prevalentemente prodotti finiti/assemblati per conto
terzi, emerge un sistema commerciale in cui l’Europa svolge, rispetto al made
in China, il duplice ruolo di approdo finale e snodo di transito verso
l’America, e ciò rende problematica la posizione delle economie europee nella
contesa Cina-Usa che danneggia doppiamente l’Europa ostacolandone le
esportazioni con le barriere commerciali
e privando l’industria e la logistica europea degli introiti derivanti dal
ruolo di cerniera fra Oriente e Occidente. Porti e flotte sono la spina dorsale
del commercio marittimo e riflettono l’evoluzione degli equilibri economici e
strategici che presiedono agli scambi intercontinentali. Oggi abbiamo 4
tendenze principali: aumento della capacità di carico delle navi (misurata in
TEU, ossia in numero di container), forte selezione degli armatori,
protagonismo del capitale cinese e arabo, decollo della portualità asiatica.
Gli ingenti investimenti necessari all’adeguamento delle flotte favoriscono le
alleanze fra operatori e al momento ci sono tre grandi multinazionali che
raccolgono il 95% dell’offerta di stiva mondiale: 2M con 7.7 milioni di TEU,
Ocean Alliance con 6.2 milioni di TEU e The Alliance con 3.6 milioni di TEU.
C’è una considerazione interessante da fare: nel 1970, due terzi dei vascelli
erano registrati nei paesi sviluppati, ossia Usa, Europa e Giappone; oggi, solo
meno di un terzo del naviglio appartiene a quei paesi, anche perché la Cina è
considerata economia emergente. Inoltre, nel 2019 ben sette dei primi 10 scali
per quantità di container movimentati erano cinesi con Shangai 1°, Ningbo 3°,
Shenzen 4° e Guangzhou 5°, Hong Kong 7°, Quingdao 8° e Tianjin 9°. Poi ci sono
Singapore 2°, il sudcoreano Busan 6° e Gabal ‘Alì 10° degli Emirati. I porti
non asiatici fino al 20° posto sono Rotterdam 11°, Antwerp in Belgio 13°, Los
Angeles 17° e Amburgo 19°. Determinante in tal senso è stato l’investimento
cinese nella portualità per la priorità strategica assegnata da Pechino ai
commerci marittimi. Per la sua posizione sulla rotta euro-asiatica è di rilievo
l’area logistica e portuale di Suez con un miliardo di tonnellate trasportate.
10. Le connessioni fisiche sottomarine sono controllate da
potenti multinazionali.
Uno dei grandi traguardi del genere umano fu il progresso
repentino agevolato dall’invenzione del telegrafo. Già nel 1855 contavamo su
oltre 100 mila km di rete sulla terraferma. Per i britannici, l’ostacolo
insuperabile per il suo dominio universale era l’acqua perché numerosi
tentativi fallirono miseramente fino a quando fu trovato il materiale adatto a
proteggere i cavi in mare: la guttaperca malese, una macromolecola vegetale simile
al caucciù. Nel 1851 fu posato nei fondali il primo cavo telegrafico che
collegava Dover e Calais, e da allora fu una corsa alla connessione guidata
dagli imprenditori britannici. Tutte le imprese navali e sottomarine divennero
insignificanti se paragonate al progetto di unire il due mondi: Europa e
America. Nel 1861 salpò da New York la James Adger, diretta a Terranova e con a
bordo perfino Samuel Morse. Il progetto era di stendere i cavi sul fondo del
mare, ossia trasformare il mare in terra, il passaggio dell’evoluzione umana in
cui si percepisce di più la forza della globalizzazione. Tuttavia, ogni avvicinamento tra nazioni è
un’arma a doppio taglio: il telegrafo atlantico unisce i due continenti ma
avvicina i britannici agli schiavisti americani. Inoltre, grazie alle
comunicazioni istantanee, c’è un enorme vantaggio in termini militari per i
vari comandanti. Nel congresso del 1857 sul finanziamento del cavo, i senatori
del Sud criticano il segretario di stato
per quella diavoleria che piace tanto a New York e Boston per le potenzialità economiche.
Qualcuno deve pagare la progettazione, e il costo del progresso comprende anche
la costruzione e la manutenzione dei cavi sottomarini. Chi controlla i cavi ha
potere di vita o di morte dell’economia globale. Dal 1870 inizia l’età d’oro
della connessione telegrafica globale tra America, India, Sud-est asiatico,
Australia, Brasile e Sudafrica. I cavi rafforzano le comunicazioni tra colonie
e madrepatria, svolgendo un ruolo essenziale nell’imperialismo. Chi governa le
comunicazioni dispone di risorse a basso costo, a partire dalla guttaperca, e
ha la strada spianata nei negoziati sui diritti fondiari con i governi. Nel 1870 nasce il gruppo tedesco dei fratelli
Siemens che contrasta il gruppo britannico del magnate Pender e nel 1884 rompe
il suo monopolio. La lungimiranza degli
inglesi la rende in tempo di guerra padrona dei cavi come lo era dei mari.
L’importanza dei cavi non sfugge certo agli americani e nel 1901 i suoi
giuristi si interrogano sul ruolo dei governi e sulle controversie di
comunicazione che possono sorgere in caso di conflitti. La talassocrazia
americana deve essere affiancata dalla cavocrazia, al riparo dalle influenze
decisionali delle imprese e dei governi stranieri. Nell’estate 1914 la nave
Alerts taglia nel Canale della Manica 5 cavi sottomarini cruciali per i
collegamenti con la Germania, utilizzati per le comunicazioni riservate. Alla
fine della prima grande guerra si sviluppa il sistema radiofonico degli USA che
diminuisce sensibilmente il vantaggio britannico. Ogni uomo d’affari americano
deve poter disporre di una comunicazione mondiale, e i suoi canali devono
essere diretti, affidabili, economici, privi di censura e privi di ritardi. In
tutto ciò si scopre che la guttaperca non possiede capacità isolanti eterne e
viene progressivamente sostituita da nuovi materiali, fino alla fibra ottica.
Dal telegrafo al telefono, dalla radio a internet, dalla guttaperca alla fibra
ottica Tat-8, il sistema di cavi sottomarini per le trasmissioni di dati oggi
coinvolge la quasi totalità del traffico internazionale delle comunicazioni,
con 380 cavi in servizio per un totale di ben oltre 1 milione di km. Ora, la
domanda è: chi possiede i cavi? Si tratta di consorzi costituiti da numerose
aziende con providers e giganti digitali come Google, Facebook, Microsoft e
Amazon che investono cifre pazzesche per avere il controllo delle
infrastrutture. I costruttori di cavi sono altrettanto importanti: la francese
Alcatel, la giapponese Nec corporation, la cinese Huawei Marine, la britannica
Global. Tuttavia, il ruolo dei cavi per le comunicazioni è stabilito da
trattati che agiscono sulla cyber sicurezza perché la vulnerabilità e la
possibilità di spiare internet sono questioni assai delicate. Il sabotaggio dei
cavi è lo scenario di maggiore interesse per guerre tecnologiche perché una
volta localizzati, distruggere o rubare parti di cavi sottomarini è semplice.
Nel 2007 alcune navi di pescatori vietnamiti hanno rubato centinaia di km di
cavi che connettevano Thailandia, Vietnam e Hong Kong con il sistema Asian
Pacific Cable Network, mettendo il Vietnam a forte rischi di isolamento. Altri eventi sono stati insabbiati perché
coinvolgevano sottomarini russi e cinesi, quindi Pakistan, Egitto, Giappone,
Europa e Cina hanno avviato il progetto Peace mirato alla protezione dei
sistemi. Nel giugno 2019 Huawei, a seguito delle mosse del dipartimento del
commercio statunitense, ha deciso di vendere la sua quota di maggioranza al
colosso cinese Hengtong Optic-Electric, una società quotata in borsa che ha fra
gli azionisti la potente agenzia Sasac, controllata direttamente dal governo
cinese. Tra i 20 mila dipendenti di Hengtong ci sono più di un migliaio di
membri del partito. Lo scontro tra Usa e Cina per il controllo dei cavi è uno
scenario che causerà fibrillazione nei mercati azionari e discussioni sulle
strategie militari dei governi.
11. Cina, la via della seta marittima.
Pur se il corridoio artico è per ora un’utopia, le ambizioni
imperiali della Cina passano attraverso la crescita dell’economia blu, ossia
l’attuazione di una cintura marittima che collega le rotte oceaniche a quelle
terrestri. La via della seta marittima è il volano con cui il presidente Xi
Jinping vuole trasformare il suo paese in una potenza capace di sviluppare,
proteggere, gestire e controllare i mari. Belt and Road Initiative (BRI) è
l’ambizioso programma del governo cinese che vuole finanziare con oltre 1000
miliardi di dollari diversi investimenti infrastrutturali in ogni angolo del
pianeta: Africa, Europa, India, Russia, Indonesia. L'iniziativa, fortemente
voluta da Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, è stata
lanciata nel 2013. In una recente carta cinese per il rilevamento, la mappatura
e la geoinformazione, le diramazioni di questa cintura blu collegano la costa
della Repubblica Popolare con l’Europa, solcando il Mar Cinese Meridionale, lo
Stretto di Malacca, l’Oceano Indiano, lo Stretto di Bab al-Mandab, il Canale di
Suez per entrare nel Mare Mediterraneo. Questa carta non individua un approdo
finale, e le sue estremità puntano verso l’Artico a nord e verso l’Australia a
sud. La rotta comprende il passaggio verso l’Europa settentrionale e le
Americhe. Questa cintura blu non è predefinita ma un’iniziativa flessibile che
muta in base all’interesse nazionale cinese. Secondo l’ONU, circa l’85% del
commercio mondiale è trasportato via mare, e un terzo passa per il Mar Cinese
Meridionale. La dipendenza dai commerci marittimi si sviluppa su tre interessi
cinesi: l’esportazione di prodotti, l’importazione di energia e la sicurezza
alimentare. La Cina è il primo paese al mondo per importazioni di petrolio, e
attraverso lo Stretto di Malacca e il Canale di Panama transita il 50% degli
alimenti destinati alla Repubblica Popolare. Lo sviluppo della via della seta
marittima si basa sugli investimenti nelle infrastrutture portuali straniere,
come testimonia la partecipazione alla costruzione e all’operatività di 42
porti in 34 paesi, dallo Sri Lanka al Pakistan, da Gibuti al Pireo in Grecia, dai
Paesi Bassi a Vado Ligure in Italia. I due colossi cinesi coinvolti in queste
attività sono Cosco Shipping e China Merchants che gestiscono i terminal del pianeta con l’installazione di parchi
tecnologici, zone di cooperazione economica e telecomunicazioni globali ad
opera di Huawei e Zte. Tutto ciò contribuisce alla qualità del know-how cinese
nel campo della ricerca scientifica e dello studio dei bacini d’acqua lontani
dai confini nazionali. L’intensificazione delle attività navali dell’esercito
popolare di liberazione (EPL) è la diretta conseguenza dei maggiori
investimenti cinesi all’estero. La Cina, oltre alla costruzione di avamposti
per proteggere i suoi interessi da minacce in teatri instabili, rifornisce di
armi, carburante e cibo tutte le navi dirette a Occidente. Dopo aver avviato un
progetto per la realizzazione di 10 portaerei da dislocare lungo le rotte, ha
completato i test sulla Liaoning e sulla Shandong, per assumere maggiore
autorevolezza nella gestione dei mari. Anche se la Cina è storicamente una
potenza terrestre, per alimentare la coscienza marittima nazionale rievoca le
fiorenti dinastie Tang, Song, Yuan e Ming che imperarono tra il 1350 e il 1650.
I viaggi dell’ammiraglio Zheng He, nel cinquantennio a cavallo del 1400, sono
celebri per lo sbarco in Africa e per le esplorazioni nell’emisfero meridionale
terrestre, ma a differenza dei navigatori occidentali l’ammiraglio non
colonizzò i paesi visitati. Instaurò relazioni commerciali e invitò gli
ambasciatori stranieri alla corte dell’imperatore per mostrare che questi
regnava su tutto quello che era sotto il cielo. Lo stesso Xi Jinping,
intelligentemente, ha associato le gesta di Zheng all’immagine pacifica delle
nuove vie della seta. Le aspirazioni marittime del’impero cinese, dopo una decadenza
secolare, collassarono nel 1911 a causa delle invasioni via mare delle potenze
occidentali e del Giappone. Per i cinesi, la divinità protettrice e guardiana
della navigazione è Mazu, conosciuta anche come Tianfei e Tianhou, ed è alla
base dei culti nella Cina meridionale e nel Sud Est asiatico. Oltre 10 mila
templi sono intitolati a questa dea in 40 paesi, e il principale si trova
sull’isola di Meizhou, nello Stretto di Taiwan. La statua originale di Mazu, è
portata periodicamente in pellegrinaggio a Kuala Lumpur, Malacca, Singapore e
nelle Filippine. L’attuale incapacità di Pechino di controllare completamente
il Mar Cinese Meridionale impedisce lo sviluppo della via della seta marittima
perché le continue dispute con Giappone, Filippine, Brunei, Malaysia, Vietnam e
Taiwan “distraggono” l’attenzione e non impediscono il passaggio di navi
statunitensi pur se al momento nulla fa pensare a un attacco americano. Lo
snodo strategico più ambito è il collo di bottiglia dello Stretto di Malacca,
oggi presidiato dalla Marina USA. Le raccomandazioni di sicurezza alle navi
portacontainer del Dragone che passano in questa zona sono di allerta massima
per due motivi: attacchi dei pirati e ostacoli commerciali da parte del governo
americano. Per ovviare a questo problema Pechino sta sviluppando corridoi
infrastrutturali on Myanmar, Pakistan, Malaysia e Indonesia pur se il contesto
geopolitico dell’area non è dei migliori a causa degli attentati dei ribelli
baluci e dei gruppi etnici armati locali. La Malaysia si oppone ai progetti
cinesi e Kuala Lumpur ha congelato la costruzione della East Coast Rail Link,
la linea ferroviaria che aggirerebbe il passaggio dallo Stretto di Malacca,
costringendo Pechino a rinegoziarne i costi. Difficilmente sarà realizzato il
canale di Kra in Thailandia che consentirebbe di navigare dal Mar Cinese
Meridionale al Mar delle Andamane e fino all’Oceano Indiano riducendo di almeno
due giorni il tragitto attuale. L’impatto ambientale e la conseguente stabilità
del paese sarebbero a rischio perché il canale frammenterebbe il territorio. In
tutto ciò, l’Indonesia potrebbe cogliere l’opportunità di ottenere fondi
speciali da Pechino per collegare le oltre 17 mila isole del suo arcipelago,
offrendo alla Cina una possibilità di passaggio verso Ovest. Le forze armate
cinesi potrebbero realizzare un avamposto a Ream, in Cambogia, aumentando
l’influenza nel Mar Cinese Meridionale e a ridosso dello Stretto di Malacca. Il
porto di Hambantota nello Sri Lanka è lo scalo privilegiato della via della
seta marittima nell’Oceano Indiano ma Dehli cerca di respingere le pressioni
per non essere accerchiata dalla Cina. I
due paesi vogliono fare affari con Pechino ma non permettono l’installazione di
infrastrutture e basi militari. Gibuti è la porta d’accesso cinese all’Africa,
e qui la Repubblica Popolare dispone della sua unica base militare all’estero e
della ferrovia diretta verso Addis Abeba, in Etiopia. Da Gibuti, Pechino
osserva i flussi commerciali diretti verso il Canale di Suez dove gli USA
potrebbero interdire la navigazione. La Cosco fa parte del consorzio che
gestisce il terminal container di Port Said e la Cina ha tutto l’interesse ad
alleggerire la dipendenza da Suez. Gli
investimenti cinesi in Israele, Algeria, Marocco, Tunisia e, recentemente, Libia,
ambiscono a sviluppare approdi nel Mediterraneo perché la destinazione
privilegiata della via della seta è proprio l’Unione Europea. Il vecchio
continente ricade nella sfera d’influenza statunitense , e la Cina cerca di
scardinarla con investimenti infrastrutturali e acquisizioni. Inizialmente i
cinesi scelsero il Pireo come base portuale da connettere all’Europa
occidentale con un corridoio ferroviario passante per i Balcani, ma le
inadempienze al diritto comunitario hanno determinato rallentamenti nella
costruzione dei binari in Ungheria e il progetto si è arenato. Questa
circostanza ha favorito l’Italia che, dopo aver firmato l’adesione alla BRI (la
Belt and Road Initiative di cui ho parlato all’inizio dell’articolo) e concluso
qualche accordo economico, spera di valorizzare il ruolo di porti come Trieste
e Genova lungo i flussi economici marittimi e accrescere gli scambi commerciali
con la Cina, pur se la presenza di basi militari USA nella Penisola ostacolano
la penetrazione della Repubblica Popolare.
Il presidente cinese Xi ha
definito l’America Latina un’estensione naturale della BRI e hanno aderito al
progetto Panama, Uruguay, Cile, Trinidad, Bolivia, Antigua, Guyana, Costa Rica,
Venezuela e Barbados per incassarne gli investimenti. L’esplorazione
dell’Atlantico è collegata anche alla via della seta polare perché il passaggio
a nord-est sarebbe più breve, meno costoso e proteggerebbe in parte gli
interessi cinesi dall’intervento degli USA. Tuttavia questo tragitto presenta
vari inconvenienti a causa del ghiaccio e i sottomarini cinesi non dispongono
delle tecnologie adeguate alla navigazione artica. Inoltre, si dovrebbe
costeggiare il Giappone e passare in acque territoriali russe, e anche se oggi
i rapporti tra Cina e Russia sono ottimi per la comune rivalità con gli USA,
gli equilibri potrebbero cambiare vanificando le ambizioni marittime cinesi.
12. Gibilterra
Lo Stretto di Gibilterra, con le sue 8 miglia di separazione
fra Punta Tarifa in Spagna e Punta Cires in Marocco, è uno dei principali colli
di bottiglia del sistema globale dei traffici marittimi. dall’Africa. La Rocca,
britannica dal 1713, è l’unico accesso naturale al Mare Mediterraneo, ed è il
luogo dove la cooperazione fra Londra e Washington si esprime al massimo grado.
Ogni anno in questo passaggio transitano circa 100 mila imbarcazioni, mentre
l’altro fondamentale choke point mediterraneo, il Canale di Suez, si ferma a 20
mila. Controllare Gibilterra significa
poter verificare in maniera diretta il flusso navale da e per le Americhe. La sua
importanza è esplosa dopo l’apertura di Suez nel 1869, che ha rivoluzionato il
sistema mondiale delle linee marittime di comunicazione, diventando
l’imprescindibile snodo euro africano per le tratte intercontinentali fra gli
oceani Atlantico, Pacifico e Indiano. Il Regno Unito, forte della sua sovranità
sulla Rocca, conserva le chiavi del suo accesso occidentale, ma lo Stretto è
nella piena disponibilità strategica della superpotenza statunitense poiché le
forze aeronavali USA possono accedere alle installazioni inglesi e da lì
operare in virtù dell’alleanza con i britannici. Oltre lo Stretto, in Africa,
c’è un altro alleato di ferro di Washington, il Marocco, che dal 2004 è stato
accolto nella prestigiosa schiera dei principali alleati non NATO. Tuttavia, la
questione marocchina è interessante perché la rapida e tumultuosa crescita
della portualità locale, avviata da re Maometto VI, sta riscrivendo i rapporti
di forza. Inoltre, la crescente presenza
cinese con immensi investimenti in tecnologia, commerci e logistica, potrebbe
evolvere verso l’acquisizione della portualità locale, per garantire la
continuità delle rotte globali voluta da Pechino nell’ambizioso progetto della
via della seta marittima. Oggi, lo sperone roccioso che da il nome al passaggio
marittimo, è l’ultimo rimasto fra la catena di avamposti logistico-militari che
ha difeso per secoli l’impero britannico. Con Dover, Alessandria d’Egitto, il
Capo di Buona Speranza e Singapore, Gibilterra era una delle 5 chiavi che
potevano chiudere il mondo. Fin dal 1713, anno in cui fu firmato il Trattato di
Utrecht, il Mare Mediterraneo è rimasto sostanzialmente un lago controllato dai
britannici. Con l’apertura del Canale di Suez la sua importanza strategica è
addirittura aumentata. Il governo di Sua Maestà, negli ultimi tre secoli, ha
protetto i propri commerci nel Mediterraneo, minacciati dall’azione di pirati
barbareschi e corsari europei. Al contempo, la Royal Navy ha posto un
formidabile cuneo fra gli arsenali atlantici e mediterranei delle flotte rivali
di Spagna e Francia. Nell’Ottocento, Gibilterra fu stazione di rifornimento per
le navi impegnate lungo la rotta da e per il Capo di Buona Speranza. Con
l’apertura di Suez divenne sentinella della nuova tratta marittima con l’India.
Postazione ideale al tempo della guerra fredda per supportare le attività
aeronavali Nato e paralizzare le aspirazioni imperiali sovietiche, l’area è da
sempre teatro di grandi esercitazioni della Royal Navy. Nel 1982 l’ammiraglio
Woodward salpò da Gibilterra alla volta dell’Atlantico meridionale per scalzare
gli argentini dalle isole Flakland. Nel 1983 fu chiuso il suo arsenale navale
e, ritirata la guarnigione di 30 mila uomini di stanza con compiti di
protezione, questo fazzoletto di terra di appena 5 km quadrati si è reinventato
polo di attrazione finanziario e turistico. Tuttavia, continua a essere
operativo in casi particolari come, ad esempio, quando nel 2019 una squadra di
militari del 42° commando dei Royal Marines ha assaltato una petroliera
iraniana che navigava nelle acque territoriali della Rocca prima di entrare nel
Mediterraneo. La Grace 1 era salpata dal
Golfo Persico e, dopo aver circumnavigato l’intero continente africano, avrebbe
dovuto consegnare il greggio al regime del presidente al-Asad, all’epoca sotto
sanzioni europee. L’ordine di attacco giunse dall’amministrazione americana,
impegnata nello stesso frangente a esercitare la massima pressione contro
Teheran per disinnescarne le velleità egemoniche nel Golfo. L’azione dei
Marines fu possibile grazie alla base navale, l’aeroporto e le strutture
logistiche presenti ancora oggi a Gibilterra. Unità da guerra statunitensi
approdano con regolarità nella Rocca sin dall’Ottocento, e fu proprio a
Gibilterra che il generale Eisenhower pose il suo quartier generale per
coordinare le manovre d’invasione anglo-americane dell’Africa francese. Più
recentemente la Rocca ha offerto protezione alle unità americane impegnate
nell’operazione Desert Storm e in Libia nel 2011. Per Washington la postazione
è utile anche per rifornire e riparare i suoi grandi sottomarini nucleari, ed è
importante sottolineare che le autorità britanniche non impongono ai comandanti
americani l’obbligo di comunicare in anticipo l’imminente arrivo di un
sottomarino a Gibilterra. Madrid non si è mai rassegnata alla perdita della
fortezza, considerata un simbolo dell’unità nazionale e della Reconquista,
quando divenne guardiana della Penisola Iberica contro le invasioni dei
musulmani. Nel 1779 fu tentato un grande assedio, per terra e per mare, e durò 4
anni, proprio ai tempi della guerra d’indipendenza americana. In tutto si
contano quindici tentativi di assedio, con l’ultimo datato giugno 1969 con la
chiusura del confine terrestre con la Spagna decisa dal regime franchista. In
occasione del referendum Bretix, nel giugno 2016, ben il 96% degli elettori di
Gibilterra votò contro l’uscita dall’Europa. C’è da aggiungere che mai i suoi
abitanti hanno espresso il desiderio di passare sotto la Corona Spagnola. Gli
strateghi di Sua Maestà considerano la Rocca come punto di raccordo
post-imperiale per le rotte intercorrenti fra le isole britanniche e il Canale
di Suez, che resta la principale via per l’Oriente. I forti segnali che Londra
invia sull’importanza di Gibilterra sono frequenti, ad esempio il primo dispiegamento
della portaerei Queen Elisabeth è avvenuto nel 2018 proprio nelle sue acque,
così come la regolarità con cui si svolgono esercitazioni delle unità della Royal Navy. Intanto, in
Marocco, sul versante meridionale del collo di bottiglia, cresce a dismisura il
porto di Tanger-Med, posto 50 km a est di Tangeri, proprio in prossimità di
Punta Cires, dove lo Stretto di Gibilterra si fa più angusto. Oggi è al quarto
posto della classifica degli scali mediterranei dopo Valencia, Pireo e
Algeciras, e movimenta circa 4 milioni di Teu, unità di misura calcolata in
numero di container. Entro il 2025, questo porto controllato da Marsa Maroc e
Apm Terminal, a loro volta controllate dal colosso danese Maersk, dovrebbe
movimentare 10 milioni di Teu, entrando tra i primi 20 scali del mondo. Una
sorta di nuova Anversa, attuale numero due in Europa, impiantata sulla costa
nordafricana. Attraverso una poderosa rete ferroviaria, Rabat vuole trasformare
il mega porto in un grande hub della logistica euro africana, e così trainare
lo sviluppo della regione marocchina sfruttando le 4 zone di libero scambio
locali. Renault, ad esempio, sta producendo lì 300 mila veicoli l’anno, mentre
i cinesi di China Communications Construction stanno realizzando una città
dell’high-tech che ospiterà 200 aziende cinesi. Nel porto di Tanger-Med ci sarà
anche il colosso digitale Huawei che ha realizzato un centro logistico
regionale da cui potrà monitorare i flussi navali e commerciali dello Stretto.
La presenza cinese in Marocco colpisce per l’immane distanza geografica che
separa Rabat da Pechino, e testimonia l’ambizione progettuale del Dragone che
mira entro il 2049 a compiere il sorpasso sul rivale statunitense.
13. Istanbul, Turchia, il canale che separa Europa e Asia, da
chi è controllato?
Gli stretti turchi sono l’interfaccia che collega Mosca e
Ankara. Bosforo, Dardanelli e Dodecaneso decidono l’accesso russo al
Mediterraneo, e Cipro ha un ruolo strategico nei collegamenti. La Russia non ha
mai controllato i choke point turchi eppure il Bosforo è la rampa di proiezione
commerciale e militare nel Mediterraneo e verso l’Oceano Indiano. Allo stesso
tempo, questi colli di bottiglia sono le gole che limitano l’accesso della
superpotenza perché dal Ponto Eusino la Turchia può imbrigliare la Russia nel
Mar Nero, infliggendole costi altissimi. Questi rischi sono regolati dalla
Convenzione di Montreux del 1936 quando fu deciso il regime giuridico del
Bosforo e dei Dardanelli. La Cina è spettatrice di questa partita e mira a
impedire modifiche al trattato. La questione degli stretti nel Mar Nero è al
centro dell’attenzione russa fin dal 1696, quando Pietro il Grande inaugurò la
prima nave da guerra in quelle acque. I
cosiddetti mari caldi, Mediterraneo e Oceano Indiano, sono un obiettivo
geopolitico imprescindibile per una potenza terrestre priva di sbocchi su mari
aperti navigabili tutto l’anno. Inoltre, controllare il Canale di Istanbul è la
miglior garanzia difensiva contro la penetrazione nel Mar Nero delle
superpotenze navali Usa e UK. Ogni giorno, decine di petroliere russe solcano
il Bosforo e i Dardanelli dirette verso la raffineria indiana di Vadinar, e
questa stessa rotta viene seguita dalle navi da guerra russe impegnate in Siria
e nel Mediterraneo. La rotta delinea un asse marittimo Kaspijsk-Tartus (in
Siria) che Putin intende estendere al Mar Rosso, al Golfo Persico e all’Oceano
Indiano. La Convenzione di Montreux è per Mosca garanzia di protezione e
sicurezza, pur se limita il numero, il tonnellaggio e la tipologia di navi che
i paesi del Mar Nero possono trasferire nel Mediterraneo. Il trattato, infatti, regolamenta anche il
passaggio di navi militari dei paesi non litoranei, e impedisce di mantenere
oltre i 21 giorni qualunque nave militare che superi le 15 mila tonnellate.
Dalla prospettiva russa, i benefici di queste garanzie difensive superano di
gran lunga gli ostacoli all’offesa. I colli di bottiglia euro asiatici sono la
massima posta in gioco di uno scontro geopolitico secolare tra turchi e russi,
con risultati disastrosi per questi ultimi. Fu lo stesso Molotov a riconoscere
che fu l’aggressività di Stalin a spingere la Turchia fra le braccia della
Nato. C’è da dire che dal trattato di Montreux del 1936, Ankara ha governato
gli stretti in modo più favorevole ai russi che agli americani. Ad esempio, nel
1974, durante la crisi di cipriota con gli USA, la Turchia consentì il
passaggio di due portaerei sovietiche in palese contrasto con la convenzione
firmata, e nel 2008, durante la guerra di Georgia, Ankara fermò all’imbocco dei
Dardanelli una nave ospedale americana diretta verso Batumi in quanto il
tonnellaggio era superiore ai limiti fissati dalla Convenzione. Dalla
prospettiva USA, questi colli di bottiglia sono regolati da un regime che
impedisce loro di introdursi nel “lago russo” come, invece, fanno nel “lago
cinese”, dettaglio non trascurabile visto che sul Mar Nero si affacciano tre
paesi della Nato: Turchia, Bulgaria e Romania. La fortificazione del Mar Nero
da parte dei russi pone, dunque, un problema geopolitico non trascurabile agli
americani. Tuttavia, la questione al momento non sembra rivestire un’importanza
decisiva nell’equazione strategica americana perché la superiorità navale di
cui godono nel Mediterraneo è sufficiente a imbottigliare i russi nel Mar Nero.
Inoltre, Mosca non dispone della forza militare per sferrare un attacco anfibio
a un paese costiero della Nato, e neppure per occupare l’Ucraina. Gli americani
sembrano convinti che tramontata l’illusione euro asiatica saranno i turchi
stessi a offrirsi di contenere il loro rivale. Il Bosforo e i Dardanelli, per i
turchi sono di importanza sentimentale, oltre che geopolitica. Sono lo scenario della loro conquista, il
palcoscenico sul quale gli ottomani hanno esibito la loro maestosità, l’organo
vitale dell’impero, l’ultimo simbolo della potenza dei sultani. Fu vedendo le
navi britanniche alla fonda del Bosforo, nel novembre 1918, l’ufficiale Mustafa
Kemal Ataturk pronunciò il suo hadìt più celebre: “Se ne andranno come sono
venute”, e ordinò ai suoi uomini di morire per difendere la patria ottomana
dall’invasore europeo. Gli eredi di Fatih Sultan Mehmet hanno controllato gli
stretti turchi dal 1453 al 1918 e li hanno governati secondo la legge
dell’impero ottomano. Il Sultano poteva interdire la navigazione nello Stretto
alle navi straniere, precludendo l’accesso al Mar Nero, un lago ottomano
vergine, casto e puro. Nel 1774 i russi vinsero una guerra e fu firmato il
trattato di Kucuk Kaynarca con cui era loro consentito di insediarsi
stabilmente sulla costa eusina e annettere la Crimea. Da allora, le navi
militari russe potevano puntare verso i mari caldi e nel 1833 la Russia ottiene
condizioni ancora più favorevoli con il trattato di Hunkar Iskelesi che
stabiliva la libera circolazione di tutto naviglio russo verso il Mediterraneo.
L’armistizio di Mudros del 1918 e il trattato di Losanna del 1923 sottraggono
ai turchi il controllo degli stretti dopo mezzo millennio. Tuttavia, dopo i
disastrosi effetti della prima guerra mondiale, con la Convenzione di Montreux
del 1936 si raggiungeva un nuovo equilibrio e i turchi poterono riprendere un
parziale controllo degli stretti. Paradossalmente, gli stretti oggi rivestono
un’importanza marginale nella strategia marittima turca, e un ruolo cruciale in
quella terrestre. Ankara, e il presidente Erdogan, guardano al Bosforo e ai
Dardanelli come un ponte fra Europa e Asia, e investono cifre faraoniche nelle
infrastrutture costruite sopra e sotto lo Stretto. A ciò si aggiungono i
capitali impiegati per la realizzazione dei porti militari a Cipro, progettati
per coordinare le attività delle navi da perforazione nel bacino energetico
cipriota. C’è, infine, la questione legata al controllo del Dodecaneso,
l’arcipelago della Grecia, compreso tra l'Asia Minore, l'isola di Creta a Sud,
le Cicladi ad Ovest e l'isola di Samo a Nord. Chiudendo lo stretto del
Dodecaneso è possibile imbottigliare la Turchia nell’Egeo, spezzare la
continuità di quest’ultimo e il Mediterraneo, e rendere impossibile la difesa
di Cipro. Dalla prospettiva di Erdogan, dunque, gli stretti turchi sono tre, e
uno sfugge totalmente al suo controllo. Su richiesta di Atene, gli USA stanno
aumentando la loro presenza aeronavale a Creta, in Tessaglia e a Dedeagac
(Alessandropoli), e hanno installato una base militare a Scaranto (Kerpe),
proprio di fronte alla costa turca, tutte dinamiche che rivelano una crescente
pressione americana sull’Egeo, particolarmente nel terzo stretto turco, per
combattere “l’influenza maligna della Russia”. Se il proposito è quello di
arginare la Russia, l’effetto immediato è quello di bloccare la proiezione
marittima della Turchia. Ankara e Mosca, i due rivali storici, a questo punto
si vedono alleati nel guardarsi dall’impetuosa irruenza americana, e oggi
condividono tre priorità geopolitiche: arginare la pressione USA, rompere il
blocco americano e assicurarsi una direttrice di espansione verso l’Oceano
Indiano. Per Mosca, il controllo diretto
delle di queste arterie vitali è la prospettiva ideale, e nell’aprile 2016,
mentre Erdogan chiedeva una maggior presenza Nato nel Mar Nero, Putin ha
annunciato la sua intenzione di portare a termine il lavoro lasciato incompiuto
da Nicola II, ossia restaurare la cristianità a Costantinopoli e liberare gli
stretti dai turchi. Prospettiva inaccettabile dagli USA che hanno i mezzi per
prevenire il verificarsi di tale scenario. Se la Russia provasse a liberare gli
stretti, gli americani reagirebbero attuando un intervento che priverebbe la
Russia dell’accesso al Mediterraneo, che la Turchia, invece, garantisce. Inoltre,
Erdogan invia continui segnali positivi ai russi, ad esempio quando a novembre
2018 ha consentito il transito di un sottomarino russo diretto a Tartus, in
violazione di Montreux. Per Mosca, dunque, l’opzione più vantaggiosa è che gli
stretti continuino a essere controllati dai turchi. A ciò si aggiunge che
l’Anatolia offre ai russi un terreno molto fertile, e 4 turchi su 5 sono
convinti che gli USA siano la principale minaccia alla propria sicurezza,
mentre solo 1 su 5 vede pericoli provenire dalla Russia. La crescente intesa fra turchi e russi
diventa evidente quando si osserva dalla prospettiva del “quarto stretto”,
Kanal Istanbul, una via d’acqua parallela al Bosforo, abbondantemente
finanziata dagli americani per la possibilità di introdursi nel Mar Nero, che
diverrà operativa dal 2023 e renderà il centro di Istanbul un’isola-città in
grado di ridurre gli introiti dell’export petrolifero russo. Erdogan intende
dirottare verso il nuovo canale il transito delle petroliere per far pagare un
cospicuo dazio per il passaggio. Pochi mesi fa Erdogan ha dato a Putin un
assaggio del metodo che intende adottare, facendo passare da 2 giorni a 16
giorni il tempo medio di attesa per le navi dirette verso il Mar Mediterraneo e
viceversa. Si è formata una coda di 55 navi russe in attesa di impegnare il
Bosforo con a bordo 51 milioni di barili di petrolio. L’entrata in funzione di
Kanal Istanbul porterebbe a una modifica della Convenzione di Montreux per
includervi la nuova infrastruttura. La questione vedrebbe la Russia reagire e
denunciare la Turchia di taglieggiamento, in palese contrasto con lo spirito
del trattato. C’è da considerare che da espediente per consentire agli
americani di introdursi nel Mar Nero, Kanal Istanbul sta diventando, invece, lo
strumento con il quale i turchi mettono in scacco sia i russi sia gli USA. Per
allentare gli attriti, Mosca vuole realizzare una base navale turco-russa a
Cipro, utile all’apertura dei porti mediterranei della Turchia alle navi da
guerra russe. Per raggiungere lo scopo, Mosca ha offerto alla Turchia un
cospicuo numero di missili S-400 e S-500, e alcuni aerei da guerra. Questo
nuovo assetto militare dispiegato lungo la costa anatolica metterebbe in
discussione i rapporti di forza nel Mediterraneo, insidiando la superpotenza statunitense
e sancendo l’uscita dall’orbita americana della Turchia. A quel punto, però, si
sarebbe messa in casa il suo potenziale carceriere e gli Stati Uniti sono
determinati a svelare questo bluff di Erdogan che ripeterebbe, così, l’errore
di Stalin.
14. Canale di Suez
Inaugurato nel 1869, grazie alla sua invidiabile posizione,
il Canale di Suez è l’anello di congiunzione tra il Mar Mediterraneo e le rotte
nelle acque indo-pacifiche. La sua
centralità favorisce flussi economici senza precedenti e ha restituito nuova
giovinezza al Mediterraneo, un bacino che sembrava essersi chiuso dopo la fine
dell’impero bizantino e la scoperta delle Americhe. Dopo il suo raddoppio, nel
2015, ha rapidamente scalato le gerarchie dei choke point del nostro pianeta.
Il suo controllo è da sempre in mano a USA e UK ma altre nazioni importanti
come Francia, Russia, Cina e Italia cercano in tutti i modi di essere
protagonisti dei flussi commerciali che passano da questo collo di bottiglia.
Dai quasi 200 km del suo corridoio passa il 10% del commercio mondiale, ossia
18 mila navi container che ogni anno trasferiscono circa miliardo di tonnellate
tra merci e prodotti petroliferi. Uno dei vantaggi del canale è quello di poter
essere progressivamente allargato e approfondito, come dimostrano i recenti
lavori di ampliamento che hanno raddoppiato i numeri ottenuti nel decennio
precedente. I mercati più connessi sono quelli dell’India e dell’Estremo
Oriente ma è in aumento il traffico che arriva dall’area del Golfo Persico.
Naturalmente gli europei sono gli attori più interessati alla fruizione del
Canale. A livello commerciale le
Americhe sono poco interessate al mantenimento del canale perché solo il 9%
delle esportazioni petrolifere del Golfo che passano per Suez sono dirette
verso il Nuovo Continente. Le connessioni con l’Asia passano prevalentemente
attraverso il Pacifico, il Capo di Buona Speranza e il Canale di Panama. Il
raddoppio del segmento di 35 km del tradizionale percorso, avvenuto nel 2015,
consente alle navi di passare in entrambi i sensi e porta alla previsione che
dal 2023 saranno almeno 100 le imbarcazioni a transitare, contro le 50
precedenti, e i tempi di transito saranno di 10 ore, contro le 15 attuali,
mentre i tempi di attesa all’imbocco saranno di 3 ore anziché 18. Il costo dei
lavori di ampliamento è di circa 10 miliardi di dollari. Al raddoppio del
canale si aggiunge l’istituzione di una Zona economica speciale, una zona
franca (Suez Canal Economic Zone, Scz), un’area di quasi 500 kmq dotata di
ingenti agevolazioni fiscali, burocratiche e doganali mirata allo sviluppo di
attività d’impresa legate al commercio, dall’industria alle comunicazioni e
alla logistica delle unità navali in transito. All’interno di questa zona stanno
già operando la Cina e la Russia con impianti di logistica e produzione
manifatturiera. Le aree industriali delle due potenze sono alle due estremità
del Canale. I russi sono a Port Sa’id e spingono dal Mediterraneo verso il Mar
Rosso. I cinesi sono in prossimità del porto di ‘Ayn Suhna, vicino alla città
di Suez, e spingono per entrare nel Mare Mediterraneo. Il forte indebitamento
estero dell’Egitto, l’instabilità monetaria, la disoccupazione giovanile e
l’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità sono gravi problemi e si
spera di risolverli proprio con gli investimenti nel Canale. Gli introiti annui
dalle navi in passaggio sono di circa 5 miliardi ma si punta ad arrivare a 15
miliardi nel 2023 grazie alla Scz, con ricadute sui consumi e sull’occupazione.
Oggi l’Egitto ha perso la centralità politica nel mondo arabo ed è diventato un
comprimario dell’ingombrante vicino saudita. Una proiezione futura potrebbe
essere il controllo della situazione nello Yemen, all’imbocco del Mar Rosso,
tassello essenziale insieme a Gibuti per la protezione dei flussi commerciali
diretti verso Suez. Inoltre, l’Egitto dipende fortemente di tre colossi della
politica mondiale: Usa per gli aiuti economici, Cina per gli investimenti
infrastrutturali e Russia per le armi. In cambio di tali appoggi Suez ha ceduto
il controllo del canale agli americani e le zone industriali a Pechino e Mosca.
Il mantenimento di passaggio sicuro serve agli americani per garantire la
stabilità, soprattutto energetica, degli alleati europei. Inoltre, per
Washington, oltre al contenimento di Russia e Cina nelle zone dei Dardanelli e
Gibilterra, è importante controllare il rubinetto di Suez dalle intrusioni
cinesi. Gli USA offrono al Cairo, annualmente, circa 1.5 miliardi di dollari di
aiuti, e ne proteggono il regime, a prescindere dalla sua natura politica. D’altro
canto, attraverso Suez passa il 60% delle esportazioni cinesi verso l’Europa, e
una compagnia cinese, la China State Construction Engineering Corporation, sta
cooperando nella realizzazione della nuova capitale amministrativa egiziana, 45
km a est del Cairo, con un investimento di ben 45 miliardi di dollari. Pechino
ha anche avviato la costruzione di un percorso terrestre di riserva attraverso
Israele, una ferrovia da Eliat a Tel Aviv che costerà 8 miliardi di dollari.
Dal punto di vista della Russia, il Canale di Suez è il passaggio obbligato
verso l’Oceano Indiano, ed è per questo che il Cremlino mantiene ottimi
rapporti militari e commerciali con l’Egitto. Con l’offerta di armi e la
costruzione di una centrale nucleare ad al-Dab’a, i russi hanno ottenuto nel
2018 una concessione di 50 anni nell’area industriale Scz. Naturalmente,
qualche investimento milionario arriva anche dalla Turchia, dai sauditi e dagli
Emirati. Il Canale di Suez festeggia i suoi 150 anni di vita ma la storia dei
tentativi di unire il Mar Rosso al Mediterraneo è un’idea assai più antica, a
partire dal tempo dei faraoni. Il primo progetto di taglio dell’istmo di Suez è
merito dei veneziani, minacciati nel Cinquecento dalla scoperta portoghese del
Capo di Buona Speranza, con l’inaugurazione della nuova via per le Indie.
L’ascesa dell’impero ottomano pose fine al progetto e alle velleità di Venezia.
Un nuovo impulso arrivò con Napoleone ma gli inglesi boicottarono in tutti i
modi i tentativi della Francia. Il successo dell’iniziativa è da attribuire a
Ferdinand de Lesseps, diplomatico francese, fondatore nel 1859 della Compagnia
del Canale di Suez. In dieci anni riesce nell’impresa. Gli egiziani, a lavori
in corso, nel tentativo di ottenere condizioni contrattuali favorevoli, si
indebitano per milioni di franchi, e il rischio di bancarotta del Cairo
fornisce agli inglesi l’opportunità di entrare nel progetto. Nel 1875,
acquistano dagli egiziani il 44% delle azioni della Compagnia per 4 milioni di
sterline. Nel 1882 Londra assorbe nei suoi domini quel che resta della
sovranità egizia. Nel 1888 il Trattato di Costantinopoli sancisce la neutralità
del Canale consentendo il passaggio, in pace e in guerra, alle navi di
qualsiasi nazionalità. Poco prima della seconda guerra mondiale, nel 1936, si
stipulava il Trattato Anglo-Egiziano che stabiliva il ritiro delle forze armate
britanniche dall’Egitto, tranne quelle di stanza nel Canale di Suez. L’Italia
contestò la legittimità del possesso britannico della Compagnia del Canale e ne
diventò il secondo acquirente. Nella seconda guerra mondiale, per non perdere
il proprio impero, gli italiani portarono un’offensiva verso Suez ma perdono la
guerra lasciando campo libero agli inglesi. La crisi del Canale arriva nel
1956, con il cosiddetto Terzo Mondo che rivendica i propri diritti e sfida le
potenze europee francesi e britanniche sul controllo dei choke point vitali per
il mantenimento delle vie di comunicazione. A quel punto entrarono in campo gli
americani con Eisenhower che umilia Londra e chiude la vicenda al di là di ogni
apparente successo del generale Nasser, capo dell’Egitto dopo il golpe armato
del 1952. Da allora, per la progressiva crisi della Russia, l’allineamento
americano dell’Egitto di Sadat e l’alleanza con l’ex nemico Israele, gli Stati
Uniti resteranno protettori del Cairo. Negli ultimi anni, il cambiamento
climatico e l’avvio di progetti infrastrutturali alternativi a Suez minacciano
di sovvertire l’ordine esistente. Ma
sono allarmi infondati perché la rotta artica è ancora lontana dall’esprimere
le sue potenzialità, la Russia non pare intenzionata a forzare la mano, altre
vie marittime che collegano l’Estremo Oriente all’Europa non esistono, e le
rotte di Buona Speranza e quella del Pacifico via Panama non sono competitive. Rimangono
i collegamenti via terra ma sono da suddividere per destinazione e per
tipologia di merce da trasportare. Nell’immediato le vie percorribili sono
l’oleodotto Sumed tra il Mar Rosso e Alessandria, e la ferrovia israeliana che
va da Eliat al Mediterraneo. Ci sarebbero i percorsi ibridi terra-mare come
quello che dall’India raggiunge la Russia attraverso il Mar Arabico, lo Stretto
di Hormuz, l’Iran e l’Azerbaigian, ma rallentano la movimentazione delle merci.
La Transiberiana deve essere rimodernata ma i costi sembrano più alti dei
ritorni. Il primato di Suez, dunque, sul
piano commerciale rimarrà almeno per i prossimi vent’anni, e il suo futuro
dipenderà da quanto durerà la supremazia americana e dall’eventuale avvento
della Cina quale potenza principale in questo scenario marittimo.
15. Gibuti, lo stretto fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano
Bab al-Mandab, o porta del lamento, è il punto focale
dell’area dove si concentrano gli interessi delle più importanti potenze
marittime. Posto fra Mar Rosso e Oceano Indiano, comprende il Golfo di Aden e
parte del Mar Arabico. Questo stretto, ampio solo 27 km, separa il Corno
d’Africa dl Medio Oriente ed è l’anticamera del Canale di Suez. Nel porto
transitano ogni giorno 60 navi che trasportano 5 milioni di barili di
idrocarburi, si tratta del 20% del flusso commerciale globale. L’alternativa a
Bab Al-Mandab è affrontare il periplo dell’Africa con costi e tempi altissimi.
E’ il collo di bottiglia più pericoloso del mondo perché nella sua area di passaggio
vivono 350 milioni di abitanti e la situazione di instabilità politica è
accentuata dalle organizzazioni terroristiche di Somalia e Yemen. Ciò ha
determinato un massiccio afflusso di truppe e mezzi militari occidentali,
asiatici e mediorientali perché in quel passaggio si movimentano merci per 750
miliardi di dollari ogni anno. Tutti vogliono partecipare al controllo del
minuscolo stato di Gibuti, il terzo più piccolo dell’Africa dopo Gambia ed
eSwatini. Questa ex colonia francese è diventata indipendente dal 1977 ed è
sprovvista di risorse naturali e capitale umano in grado di sostenere la
propria crescita economica. L’economia è regolata dall’affitto percepito dalle
basi militari e dalle infrastrutture portuali che vedono la presenza di USA,
Cina, Francia, Giappone, Italia, Germania e Spagna, con oltre 10 mila unità. In
15 minuti d’auto si attraversa la città di Gibuti e si passa dalla base cinese
a quella statunitense, in nessun altro luogo al mondo i due rivali sono cosi
vicini. Il Pentagono ha sistemato la sua base a Camp Lemonnier, occupando 600
acri di terreno ed è uno snodo cruciale per le comunicazioni secretate,
l’intelligence, la logistica e le operazioni di Africom, Centcom, Eucom e dello
Special Operations Command dell’intero continente africano, dotato di 4 mila
militari. A pochi km dal porto c’è la più imponente e trafficata base per droni
USA fuori dall’America, l’aeroporto di Chabelley. Questa presenza militare si è
fatta sentire nell’ottobre 2016 con un bombardamento punitivo contro le stazioni
radar dei ribelli Hùtì in Yemen dopo che questi avevano bersagliato con missili
antinave un cacciatorpediniere della Marina USA in navigazione. Le visite degli
ambasciatori mondiali a Gibuti si fanno sempre più frequenti, soprattutto dopo
l’apertura della base di Pechino in città, annunciata come struttura logistica
ma, in realtà, perfettamente in grado di assolvere alle funzioni di base
militare. Si stima che Pechino detenga l’80% del debito pubblico dello stato
africano e che lo possa impiegare come arma di ricatto per acquisire l’area di
supporto logistico dei container (Tcd) assestando un duro colpo al cuore della
potenza militare americana nell’Africa Orientale. Per la Cina, l’avamposto di
Gibuti è un tassello fondamentale nel processo di espansione militare,
commerciale e diplomatica all’estero. E’ una postazione ideale da cui
monitorare le tratte navali che scorrono lungo il Corno d’Africa, un bastione
intermedio lungo la via della seta marittima. Questa grande arteria fluisce
attraverso il Mar Cinese Meridionale e l Stretto di Malacca e taglia l’Oceano
Indiano verso ovest prima di dividersi in due sezioni, una verso il forziere
energetico del Golfo Persico e l’altra verso il Canale di Suez e i ricchi
mercati europei. Pechino investe una quantità immensa di capitali nell’area, ad
esempio ha costruito la ferrovia Gibuti-Addis Abeba, un acquedotto di acqua
potabile dall’Etiopia per rifornire la popolazione gibutina e il Doraleh
Multipurpose Port, un terminal crociere che raddoppia le capacità logistiche
dello scalo africano. In cambio ha ottenuto un molo riservato nel porto di
Doraleh in grado di accogliere qualsiasi unità navale della Marina al largo del
Corno d’Africa. Concepita come struttura logistica per le navi cinesi, con
compiti antipirateria, oggi la base cinese assolve a ben altre funzioni:
raccolta dati per l’intelligence, evacuazione di civili dalle zone di
conflitto, supporto alle operazioni antiterrorismo e missioni dei caschi blu di
cui è il primo fornitore alle Nazioni Unite. Fra le altre nazioni interessate a
Gibuti abbiamo la Francia che schiera il secondo contingente militare dell’area
con 1500 uomini, una squadriglia di caccia Mirage, elicotteri ed
equipaggiamento pesante da combattimento. Parigi è, inoltre, gestisce una base
navale per il sostegno logistico alla Marina Nazionale ed è la formale
tenutaria dell’aeroporto di Chabelley, da cui operano i droni statunitensi. A
luglio 2019 si è svolta la campagna Clemenceau della portaerei nucleare Charles
de Gaulle che ha condotto l’ammiraglia della flotta francese da Tolone fino a
Singapore, con scenografiche esercitazioni navali con le Marine alleate di USA,
Giappone, Australia e India, con uno scalo nella base navale di Gibuti e
annesso tour della portaerei da parte del presidente della repubblica Ismail
Omar Guelleh. Anche il Giappone e l’India hanno avviato negoziati per
appoggiarsi alle infrastrutture di Gibuti e pattugliare le linee di
comunicazione marittime dirette verso Suez. La base giapponese è la prima mai
realizzata all’estero da Tokyo dopo la seconda guerra mondiale, e sarà di
grande aiuto per tutelare i cospicui investimenti nipponici in Africa e
proteggere i nazionali all’estero. Anche l’Italia ha una sua base logistica,
attiva dal 2013 per l’assistenza alle unità navali impegnate nelle missioni
antipirateria e alle truppe di terra impegnate in Somalia con compiti di
stabilizzazione. L’Italia è al terzo posto per gli investimenti nell’area, dopo
Cina ed Emirati Arabi, e ciò perché c’è in ballo la necessità di vigilare in
maniera diretta sul segmento più instabile della fitta rete di rotte navali che
ci collegano al resto del mondo, in particolare a quelle dell’Indo-Pacifico.
L’Italia ha necessità di acquisire dall’estero le materie prime e i prodotti
energetici necessari ad alimentare lo sforzo produttivo, e tre dei suoi partner
commerciali via mare sono Cina, India e Arabia Saudita, tutte raggiungibili
dalla rotta che passa per il porto di Bab al-Mandab.
16. Golfo Persico, lo Stretto di Hormuz
L’Iran, una repubblica democratica islamica, in una fase di
crescente conflittualità dovuta alla pressione delle superpotenze nel Mar
Rosso, cerca di evitare la perdita di potere nel Golfo Persico contrastando le
iniziative di Abu Dhabi e Qatar, protagoniste dei traffici nello Stretto di Hormuz.
Le tensioni tra USA e Iran hanno portato gli americani a dislocare un gruppo
navale d’attacco e una squadra aerea nel Golfo Persico per fiaccare l’economia
iraniana e rafforzare la deterrenza verso Teheran. Le petroliere iraniane fuori
lo Stretto di Hormuz sono sotto minaccia continua dei bombardamenti
statunitensi e l’estate scorsa si è sfiorata la guerra quando l’Iran ha
abbattuto un drone USA di sorveglianza RO-4° che provenendo da Hormuz era
sconfinato nello spazio aereo di Teheran. Lo Stretto connette il Golfo Persico
con quello di Oman e con l’Oceano Indiano, e il flusso giornaliero di petrolio
su nave è di 12 milioni di barili, circa 600 milioni di euro di valore. Si
tratta di un terzo del petrolio trasportato nel mondo. Una crisi militare
farebbe schizzare verso l’alto il valore del petrolio e determinare gravi danni
all’economia globale. L’area è anche strategica per la sicurezza di Teheran
perché l’Iran usa Hormuz per far recedere gli USA dalle loro politiche
minacciose, ad esempio quella di azzerare l’export petrolifero. Per la
repubblica islamica rischi e opportunità convivono nello Stretto, e Teheran
veste i panni del garante o del sabotatore secondo le situazioni. Di fatto, le
politiche che finiscono per essere adottate risultano dal compromesso tra le
opposte fazioni. Politici e studiosi iraniani sanno bene che Hormuz costituisce
un notevole vantaggio geopolitico e spingono per sfruttarlo per proiettare il
potere regionale. Per far ciò è necessario dominarlo militarmente. Anche nel
passato questa strategica via d’acqua era elemento costante delle azioni per
avere la meglio sugli avversari. Il re Serse, all’inizio del V secolo a.C.,
dispiegò una flotta di 800 navi nel Golfo per lanciare la sfida alla Grecia.
Più recentemente, gli iraniani furono impegnati in guerre secolari per
scacciare dal Golfo i portoghesi (1515-1623) e i britannici (1850-1860) che
disturbavano l’influenza commerciale nelle coste vicine. Quando a fine Ottocento le truppe iraniane
furono inviate a Herat per sopprimere le rivolte locali e restaurare il
controllo di Teheran sull’odierno Afghanistan, le debolezze nello stretto e nel
Golfo Persico consentirono agli inglesi di invadere il porto di Busheir. Alla
conferenza di Parigi di metà Ottocento, l’Iran fu obbligato a cedere Herat per
riprendere il controllo del suo fianco sud.
Teheran vede in Hormuz una risorsa nazionale da incorporare nelle
strategie politiche per contrastare la pressione americana, per accreditarsi
come garante della sicurezza dell’area e per proiettare i suoi commerci verso
l’esterno. Lo Stretto misura 180 km e
nel punto più stretto ha due corsie di navigazione di appena 3 km navigabili
più altri 3 km di fascia cuscinetto, un vero e proprio imbuto ideale per
agguati marittimi e per posizionare mine antinave o sferrare rapidi attacchi
letali con massicci lanci di razzi dalle coste e droni bomba per le navi
nemiche che provassero a violare l’area.
A tal fine l’Iran ha prodotto nuove generazioni di armi e messo a punto piccoli
sottomarini teleguidati, invisibili ai radar. Queste armi non possono competere
con le tecnologie occidentali, ma insieme creano una capacità di guerra che si
amplifica nell’esiguo spazio operativo di Hormuz. Per dare un’idea concreta,
America e alleati impiegherebbero oltre tre mesi solo per sminare le acque del
corridoio operativo. Vi sono state 25 interazioni rischiose fra le marine USA e
iraniana negli ultimi 5 anni, e questo costante contrasto impedisce agli
americani di consolidare un ordine regionale ad essa favorevole. Dal 1993, la
repubblica islamica applica le norme della Convenzione delle Nazioni Unite sul
diritto del mare (Unclos) firmata nel 1982, per ostacolare il passaggio di navi
da guerra statunitensi e sottomarini nel braccio di mare antistante le sue coste.
Secondo Teheran queste navi minacciano la sua sicurezza nazionale di stato
costiero. Nel 2016 dieci marinai americani furono arrestati dopo essere entrati
nelle acque territoriali iraniane. Ogni giorno, tutte le navi USA devono
rendere conto alla Marina iraniana quando attraversano Hormuz, e ciò contrasta
apertamente con il fatto che la Marina iraniana è stata designata dagli USA
come organizzazione terroristica. A ciò si aggiunge che Teheran invita le
potenze rivali dell’America, ossia Russia e Cina, a svolgere esercitazioni
militari congiunte. Queste operazioni aiutano l’Iran a porre dei paletti a
Washington e ad attenuarne la pressione. L’uso del pugno di ferro ha una doppia
finalità: affermare la propria sovranità e mostrare responsabilità nel garantire
una sicura navigazione in quelle acque. Hormuz è la sola via per raggiungere
l’Iran per mare ma, nonostante i suoi 637 km di coste sul Mare d’Oman, la
repubblica islamica non hai finanziato la costruzione di porti e infrastrutture
nell’area e dunque resta dipendente dallo Stretto per i suoi commerci esteri.
L’unico scalo iraniano sul Mare d’Oman, Chabahar, è in fase di sviluppo con il
concorso dell’India. La povertà degli abitanti e la scarsità di risorse fatto
salvo il petrolio, alimenta i contrasti tra il popolo e le politiche di
Teheran. Inoltre, vaste aree a nord est di Hormuz insistono sulle rotte del
traffico internazionale di oppio ed eroina che dall’Afghanistan puntano verso
l’Europa. Non sorprende che lo scontento popolare sia a livelli preoccupanti.
Sull’altro fronte, gli Emirati rivendicano le tre isole iraniane che si
affacciano a nord dello Stretto: Abu Musa, Grande Tunb e Piccola Tunb. Invase
dai britannici nel 1903, furono restituite all’Iran nel 1971 ma gli Emirati
rivendicano la loro proprietà, e spingono affinché gli americani intervengano
per dirimere la questione. Naturalmente Teheran vuole evitare ogni confronto
con gli USA perché una crisi sulla questione sarebbe assunta a pretesto per
occupare le tre isole minando la propria sovranità territoriale. La strategia
di Teheran è quella di sfruttare i vantaggi di Hormuz senza incorrere nei
costi, e l’alta tensione che si registra nell’area viene continuamente
stemperata dai messaggi di pace che il Consiglio supremo di sicurezza invia
alle superpotenze. Il comandante in capo della Marina, l’ammiraglio Khanzadi,
afferma che lo Stretto ha un senso se resta aperto e che tagliare l’export di
petrolio non implica sigillare lo Stretto. L’equilibrio fra minacce e segni di
distensione è difficile da attuare, e la Repubblica islamica può usare Hormuz
come strumento di deterrenza di fronte alla continua pressione da parte
statunitense semplicemente aumentando i rischi di rappresaglia. L’Iran
concepisce la sicurezza regionale in Medio Oriente come un sistema di elementi
interdipendenti, in grado di attivare circoli virtuosi o viziosi a seconda
delle scelte politiche. Si tratta di aumentare la tensione per costringere gli
altri a un tavolo per trovare il modo di ridurla. La chiave di successo di
Teheran è il dispiegamento del dispositivo militare dalle posizioni di
controllo a quelle di combattimento, per porre una minaccia credibile ai
rivali. Nel suo continuo oscillare tra il ruolo di garante dello Stretto a
quello di attore destabilizzante, la Repubblica islamica può mantenere
inalterati i traffici commerciali, cooperare con l’Oman per aumentare la
sicurezza, ridurre la velocità dei passaggi aumentando le ispezioni a campione,
fare terrorismo psicologico, incrementare i costi dei pedaggi, rallentare il flusso
di petrolio con operazioni navali o con l’interdizione temporanea del passaggio
delle petroliere, affondare le navi, minare le acque e, all’occorrenza,
sbarrare il passaggio. E’ per questo che l’insistenza americana nell’aumentare
la pressione nell’area rischia di fare disastri.
17. L’egemonia euroasiatica passa per lo Stretto di Malacca.
Anello di congiunzione tra gli oceani Indiano e Pacifico, e
choke point dello strategico Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Malacca è un
crocevia commerciale ricco di risorse energetiche e ittiche, ed è il nodo nel
quale si intreccia il confronto fra Usa e Cina, con India e Giappone che non
mollano la presa. La pirateria e il terrorismo islamico sono minacce che
aumentano la pressione nell’area, direttrice naturale della via della seta
marittima (Belt and Road Initiative) voluta da Xi Jinping e adottata dal resto
dei paesi del sud est asiatico. In quell’imbuto Pechino fa passare l’80% delle
importazioni di greggio e il 60% dell’interscambio
con il resto del mondo, ma passa anche il 90% del traffico di Giappone e Corea.
Lo Stretto di Malacca è lungo 800 km e largo meno di 3 km nel Canale di
Phillips, passa tra Sumatra e Malacca, sfocia nello stretto di Singapore e poi
conduce in Thailandia e nel Mare delle Andamane, dove l’India ha installato il
suo Comando Militare esterno. Circa 100 mila navi ogni anno, e il 40% delle
petroliere, transitano da Malacca. Fin dal 1551, con la conquista portoghese,
controllare lo Stretto era prova del dominio sui mari, e nel 1750 la penisola
passò agli olandesi per poi cedere il primato nel 1824 ai britannici. Nella
seconda guerra mondiale fu occupata dal Giappone e persa negli anni seguenti. I
Trattati del 1958, del 1972 e del 1982 siglano un’amministrazione
internazionale con benefici effetti su tutto lo scacchiere geopolitico.
Naturalmente i paesi che si affacciano sullo Stretto sono consapevoli che in
caso di guerra loro si troverebbero nel bel mezzo. La stabilità dell’area sconta, tuttavia, una
generale diffidenza che ha inciso sulle capacità di assicurare a tutti la
libertà di navigazione, tanto che nel 2005 l’arteria fu inserita dalla
Compagnia Lloyd nella lista delle aree ad alto rischio assicurativo. Pirateria
e atti terroristici sono quasi scomparsi perché le intelligence governative dei
vari paesi collaborano, ma lo stato di allerta non diminuisce di livello e
l’ammodernamento bellico di Cina, Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei va
verso gli standard cinesi e americani. Pechino ha sinora acconsentito al
controllo USA, ma ne incassa i dividendi in termini di sicurezza. Intanto la
Cina costruisce nell’area oleodotti, autostrade, ferrovie e terminal portuali
capaci di darle accesso al Golfo del Bengala aggirando Malacca e, al contempo,
crea porti sicuri per le proprie navi. Una delle infrastrutture più efficaci è
la ferrovia che collega la Thailandia meridionale al porto malese di Kuantan e
giunge poi a Port Klang tagliando in due il paese da est a ovest. Lo Stretto di
Malacca è punto focale di un’area che richiede ingenti fondi esteri per attuare
riforme infrastrutturali funzionali al suo sviluppo economico e demografico. Un
mare di opportunità nelle quali la Cina si è gettata con veemenza. Pienamente
consapevole della propria vulnerabilità nelle linee di comunicazione oceaniche
e nei colli di bottiglia, Pechino promuove scambi commerciali che alimentano la
stabilità regionale e lo sviluppo interno attraverso due obiettivi: proteggere
le vie commerciali e proiettare potenza aumentando la propria presenza nel
bacino. Naturalmente paesi come Thailandia, Malaysia e Cambogia riescono a
strappare condizioni favorevoli dalla competizione tra Cina e Usa, e guardano a
India e Giappone come alternative in caso di problemi finanziari. Gli Stati
costieri hanno competenza nel pattugliamento di Malacca ma la capacità di
proiettare potenza degli americani non fa eccezione nel sud est asiatico che
dispone di un buon numero di basi attrezzate in Giappone, Guam, Filippine,
Corea del sud, Thailandia e Corno d’Africa. Questi presidi offrono sufficienti
garanzie agli USA, infatti il choke point di Malacca (con il benestare degli
americani) può essere controllato tramite accordi anche da altri paesi,
soprattutto perché l’interesse commerciale di Washington per Malacca è
inferiore a quello degli altri attori coinvolti. Ad esempio, lo Sri Lanka cade
nella sfera d’influenza indiana e ha il debito pubblico in mano cinese. In
cambio ha concesso a Pechino per 99 anni il controllo del terminal portuale di
Hambantota. Gli statunitensi non contrastano queste alleanze perché sono
impegnati per la difesa di un Indo-Pacifico libero e aperto Per attuare questo piano strategico hanno
consolidato una rete di collaborazioni che assicura piena mobilità. L’India, al
contempo, è impegnata a intessere relazioni economiche importanti con tutti i
paesi del sud-est asiatico e rafforzare le sue installazioni nella zona perché
per Malacca passa il 40% dei suoi traffici. Il Giappone, che condivide con la
Corea la dipendenza energetica dallo Stretto di Malacca, cerca di influenzare
paesi come Bangladesh, Sri Lanka e Myanmar con cooperazione tecnica e
forniture, offrendosi come alternativa finanziaria alla Cina. Anche il Regno
Unito in pieno Bretix stringe accordi con Singapore, Malaysia, Australia e
Nuova Zelanda e partecipa alle operazioni di sicurezza nell’area insieme agli
USA. L’Indonesia è il principale paese del sud-est asiatico per estensione
territoriale e sotto il profilo demografico ed economico, nonché primo paese al
mondo per popolazione musulmana. Possiede altri stretti, oltre Malacca, meno
convenienti e poco frequentati, come Lombok e Sonda, ma li utilizza come volano
per moltiplicare le possibilità di produrre ricchezza per le zone costiere
periferiche che subiscono l’ingombrante presenza dei traffici di Malacca. La
Cina investe molto in queste due aree e le infrastrutture cinesi hanno
rafforzato gli scambi con gli altri attori regionali, mitigando le dispute
territoriali e garantendo la navigabilità anche intorno allo Stretto di
Malacca.
18. Taiwan, l’isola ribelle, ma Cina e USA se la contendono e sono pronte a
scatenare l'inferno.
Il valore strategico di Taiwan non è facilmente
individuabile. Questa carenza ne ha fatto un luogo emarginato dai grandi
circuiti degli equilibri di potenza globali. La Cina non se ne è curata per
secoli, gli imperi coloniali l’hanno considerata una terra da spopolare, gli
avventurieri l’hanno considerata un rifugio senza leggi, i giapponesi una volta
avuta la volevano vendere, i vincitori della 2° guerra mondiale l’hanno
deliberatamente lasciata nel limbo, gli americani l’hanno regalata ai
nazionalisti quando faceva loro comodo e poi offerta su un piatto d’argento ai
comunisti quando conveniva di più, le Nazioni Unite hanno lasciato la
situazione irrisolta senza attribuirgli un valore strategico per la sicurezza
globale. Taiwan è il luogo in cui si nota il massimo attrito fra USA e Cina, e
in caso di guerra l’isola non avrebbe scampo. Il presidente Xi Jinping minaccia
continuamente l’isola con la forza e mina la democrazia a Taipei per cercare di
annetterla alla Repubblica Popolare Cinese. Geologicamente Taiwan fa parte
della cintura di isolotti che si sono formati dallo scontro, ancora in atto,
fra la placca oceanica del Pacifico e la piattaforma continentale asiatica.
Sono zone vulcaniche e sismiche che hanno
creato una serie di mari interni. Antropologicamente e anticamente, sulle isole
maggiori si sono formate comunità autoctone, e a causa dell’isolamento si nota
una cristallizzazione dello sviluppo. Successivamente, il loro destino è stato
sempre deciso da migrazioni e dall’asservimento a civiltà più evolute, in grado
di sviluppare tecniche nautiche in grado di superare bracci di mare sempre più
ampi. E’ successo per le comunità giapponesi, per gli aborigeni australiani e
per quelli di Taiwan. Le isole sono diventate perfette basi di appoggio
commerciale e militare, avamposti per ulteriori espansioni verso altre terre
continentali. La propensione agli spostamenti lungo i fiumi e le zone costiere
ha da sempre caratterizzato le popolazioni asiatiche, e Taiwan è uno degli
spazi in cui si spostarono i cinesi della costa meridionale, in particolare gli
Hakka del Fujian, che parlavano una lingua simile a quella degli aborigeni.
Erano pescatori, commercianti e cacciatori di cervi. L’isola si presenta di
forma ellittica, con acque poco profonde e uno Stretto costellato da piccoli
arcipelaghi dotati di porti e zone militarizzate. La costa occidentale di
Taiwan presenta una fertile pianura che invita agli sbarchi facilitandone
l’approdo e offrendo buone possibilità di stanziamenti. E’ proprio questa la
zona in cui è prevista l’eventuale invasione perché è vulnerabile ad attacchi
aerei, sbarchi dal mare e bombardamenti missilistici. La totalità delle
infrastrutture industriali sarebbe cancellata in poche ore. Il resto dell’isola
è montagnosa e si affaccia a strapiombo sul Pacifico, ma non è isolata perché i
legami con la terraferma sono forti, con dinamiche sociali, economiche e
organizzative. Il territorio è di circa 30 mila kmq e ospita 25 milioni di
abitanti, prevalentemente cinesi. In passato, durante la fase degli imperi
storici, nessun imperatore si era preoccupato dell’isola e dei suoi abitanti. I
Portoghesi, giunti nel 1544, la chiamarono Ilha Formosa, fecero sbarcare alcuni
gruppi di marinai che furono decimati dagli indigeni e dalla malaria, e non si
fecero più vedere. Gli spagnoli e gli olandesi
aprirono basi di rifornimento e si fecero la guerra a vicenda. Nel 1662
la Compagnia delle Indie amministrò una parte dell’isola istituendo un sistema
fiscale, scuole e chiese. Migliaia di cervi furono abbattuti, causando il
risentimento delle tribù locali che si rifiutarono di pagare le tasse ed
effettuarono raid nelle piantagioni. Gli olandesi della Compagnia eliminarono
il problema semplicemente sterminando la popolazione con periodiche spedizioni
punitive e rimpiazzandole con altre già assoggettate. Dopo la caduta della
dinastia Ming nel 1644 ad opera della futura dinastia Qing, gli olandesi furono
allontanati dall’isola e le loro basi utilizzate fino al 1875 quando la
dinastia divise l’isola in due prefetture, nord e sud, amministrate dalla
provincia di Fujian e limitò fortemente l’immigrazione. Il Giappone aveva
cercato in tutti i modi di stabilire la sovranità su Taiwan fin dal 1592 ma le
spedizioni erano sempre fallite. Riuscì
nell’intento solo nel 1894 sconfiggendo la Marina Cinese e ottenendo la
sovranità perpetua su Taiwan e sulle isole Penghu con il Trattato di
Shimonoseki. I cinesi locali cercarono di opporsi con delle sollevazioni armate
ma subirono in 7 anni ben 14 mila morti. Alla fine i locali si convinsero a
collaborare e nella seconda guerra mondiale combatterono nelle unità
giapponesi. Alla caduta del Giappone,
nel 1945, il generale Chiang Kai- shek, leader dei nazionalisti e nemico
giurato dei comunisti cinesi di Mao Zedong, si trovò ad essere riconosciuto
come legittimo governante della Cina e iniziò a ricevere supporto e fondi dagli
americani, dopo che negli anni precedenti aveva avuto il sostegno della
Germania nazista. In sintesi, Taiwan non fu liberata da nessuno, semplicemente
l’Agenzia delle Nazioni Unite affidò l’ex-colonia giapponese
all’amministrazione della Repubblica di Cina e al governo militare di Chiang.
Negli anni seguenti vi furono disordini in piazza contro la corruzione e
l’inefficienza cinese ma nel giro di pochi giorni le sommosse finirono nel
sangue di 30 mila persone fra cui studenti, medici, avvocati e capi della
protesta. Da allora, e fino al 1987, fu istituita la legge marziale. Intanto,
nel 1949 i comunisti di Mao conquistarono Pechino e proclamarono la Repubblica
Popolare Cinese, dichiarando estinta la Repubblica di Cina e illegittimo il
regime militare di Chiang. Il leader
nazionalista raccolse i resti del suo esercito e trasferì a Taiwan tutto
l’apparato burocratico, le riserve auree statali, gli aerei, le navi e l’intera
collezione antiquaria che gli imperatori cinesi di tutte le dinastie avevano
accumulato nei secoli sia nella Città Proibita di Pechino sia nel palazzo
imperiale di Nanchino. Dall’isola pretese di avviare le operazioni di
riconquista della Cina ma il piano fu abbandonato sul nascere. Dal 1952 Taiwan
fu territorio amministrato dalla potenza occupante, ossia gli Stati Uniti,
diventando la sede del Kuomintang (Kmt), ossia il partito nazionalista, dove
confluirono tutti i cinesi che non accettarono il regime della Cina Popolare,
soprattutto il ceto capitalista formatosi in Cina con la penetrazione
commerciale occidentale. Molto ricco, potente ed esperto, Chiang trasformò
l’isola in baluardo della politica imperialista e anticomunista statunitense in
Asia. Con gli aiuti americani (dollari, armi e strategie), con un’efficiente
struttura amministrativa creata dai giapponesi e il massiccio inserimento di
soldati e forza lavoro, il Kmt modernizzò le attività tradizionali e riavviò il
settore industriale. Naturalmente,
giunse a Taiwan anche una folta schiera di gerarchi del Partito e delle Forze
armate che pratico' azioni deplorevoli di corruzione e avidità, mettendosi in
luce per la mancanza di scrupoli. Nei piani di Chiang, la permanenza sull’isola
doveva essere transitoria in vista dell’abbattimento del governo comunista
cinese, e a ciò partecipavano anche gli USA che con il presidente Truman
schierarono la VII Flotta nello Stretto di Taiwan per proteggere il Kmt e difendere
il proprio territorio in quanto potenza occupante tutti i territori ancora
sotto la sovranità giapponese. Tra 1950 e 1965 il Kmt continuò a dichiararsi
unico erede della Repubblica di Cina e unico sovrano dell’intera Cina e della
Mongolia. La svolta avvenne nel 1971 con il clamoroso riavvicinamento fra Cina
e Usa e, soprattutto, con il voto dell’Onu che tolse a Taiwan il seggio in
favore della Repubblica Popolare Cinese.
Chiang lo rifiutò e sprezzante dichiarò che nel cielo non c’era posto
per due soli. La Repubblica di Cina fu espulsa dalle Nazioni Unite e da tutte
le agenzie internazionali. Di fatto gli unici trattati validi sono quello di
Shimomoseki del 1895 che trasferisce la sovranità di Taiwan e delle isole
Penghu dall’impero cinese al Giappone, e il Trattato di Pace di San Francisco
del 1951 con il quale il Giappone rinuncia alla propria sovranità su tali
isole. Tutti gli atti informali tra il 1895 al 1951 non sono validi perché
Taiwan era parte del Giappone. Pur di non ammettere la vittoria del Partito
comunista cinese, gli Stati Uniti che ancora sostenevano Chiang, preferirono
non invitare nessun cinese alla firma del Trattato. La cessione di Taiwan cadde
nel limbo quando entrò in vigore il Trattato di San Francisco, e come spesso
accade sarà un seme per un conflitto futuro. Dopo la morte di Chiang Kai-shek
nel 1975,sale al potere Yen Chia-kan e poi suo figlio Chiang Ching-kuo,
riconfermato nel 1984. In questo periodo il presidente cinese Deng Xiaoping
iniziò una fase di liberalizzazione economica cercando di integrare la Cina nel
mercato globale e invitando Taiwan alla fine delle relazioni ostili e a
riunificare le due parti dello Stretto, Messaggio che recentemente ha ripetuto
Xi Jinping. Anche l’allora presidente statunitense Jimmy Carter si adoperò per
allentare le tensioni fra Cina e Taiwan, firmando un decreto sulle relazioni
fra USA e l’isola che garantiva il sostegno americano alla sicurezza dello
Stretto, favoriva le relazioni di scambio e apriva nuovi sbocchi ai capitali di
Washington per produrre beni di consumo a un costo più basso e profitto più
alto. La ripresa di normali rapporti diplomatici e di importanti accordi
economici fra Cina e USA contribuì allo
sviluppo economico di Taiwan, con la riduzione delle forniture di armi americane
all’isola e vincolava la Cina alla riunificazione pacifica e a lungo termine
con Taiwan. Nel 1987 tutto ciò portò all’abolizione della legge marziale, al
riconoscimento del diritto di sciopero e a scongiurare una guerra civile
dichiarando chiusa la fase di mobilitazione nazionale per la soppressione della
sovversione comunista, ma già nel 1995 i rapporti dei due stati tornarono a
inasprirsi per le manovre delle navi di Pechino al largo delle coste taiwanesi.
Dal 2000 al 2008 le elezioni decretarono la vittoria del Partito progressista
del presidente Chen Shui-bian, non gradito a Pechino per le sue posizioni
indipendentiste. Le elezioni successive premiarono di nuovo il Kmt ma il nuovo
presidente Ying-jeou basò il suo programma su tre no: all’unificazione,
all’indipendenza e all’uso della forza, e riuscì ad allentare la tensione con
la Cina. Nel 2016 le nuove elezioni premiarono la candidata del Partito
Progressista Tsai Ing-wen che con una linea fortemente indipendentista ha fatto
di nuovo alzare la tensione. La popolazione ha percepito il rischio e nelle
elezioni del 2018 ha riportato il Kmt alla maggioranza. Tsai si è dovuta
dimettere dalla presidenza del Partito ma grazie alla fiducia degli Stati Uniti
che non hanno mai visto di buon occhio un riavvicinamento con la Cina è
riuscita ad acquisire nuovi armamenti americani per oltre 3 miliardi di
dollari. Nel frattempo, il Kmt è paradossalmente l’unico partito che condivide
con Pechino la visione di una sola Cina e recentemente si è reso disponibile ad un avvicinamento ma
a differenza di ciò che hanno accettato Hong Kong e Macao, appena usciti da un
dominio coloniale, ossia accettare la formula “un Paese e due sistemi”, Taiwan
pretende di essere un lembo di territorio cinese, nonostante alcune concessioni
fondamentali come quella di poter mantenere le proprie Forze armate. Se Taiwan
dovesse accettare questa formula, la Repubblica di Cina cesserebbe di esistere
e Taiwan diventerebbe una regione amministrativa a statuto speciale della
Repubblica Popolare Cinese. A questa soluzione i taiwanesi preferiscono
l’indipendenza, soluzione che non piace alla Cina e tantomeno agli americani.
Questi ultimi preferiscono lo status quo perché riescono a controllare sia i
cinesi sia Taiwan per i propri interessi. La questione di Taiwan, in senso
strategico, ha quindi il valore di essere un pretesto per scatenare un
conflitto tra USA e Cina. Le flotte americane chiudono il cerchio intorno alla
Cina fingendo di difendersi mentre riarmano Taiwan con mezzi e strumenti
completamente inutili per la difesa dell’isola, solo per fare soldi e provocare
il rivale cinese. Le Forze armate di Taiwan sono state ridimensionate e
riequilibrate, con una taglio all’esercito a favore di marina e aviazione. Nell’esercito abbiamo 130 mila soldati divisi
in tre corpi d’armata e 5 corpi di guarnigione. Fra i mezzi si contano mille
carri armati M60 e M48, oltre duemila carri per trasporto truppa, centinaia di
blindati e missili, tutti di produzione americana. L’aeronautica conta 53 mila
uomini e 500 aerei. La Marina ha 40 mila effettivi, 120 navi e 4 sommergibili,
tutti di produzione USA. La loro missione è preservare la sicurezza e la
ricchezza dell’Isola ma in caso di attacco cinese la guerra terminerebbe senza
che Pechino muova nemmeno un soldato perché i sistemi sono aggiornati al secolo
scorso. La Cina ha un arsenale missilistico in grado di eliminare in pochi
minuti la capacità di risposta di Taiwan, tutti i centri industriali e quelli
urbani della pianura. La vulnerabilità è accentuata dal fatto che gli USA si
limitano a campagne internazionali anticinesi dipingendo Pechino come la Cina
cattiva, espansionista, aggressiva, antidemocratica e insensibile ai diritti
umani, minacciando tutti i Paesi a non intrattenere rapporti con la Cina. Gli
americani descrivono Taiwan come un’isola strategica perché impedisce a Pechino
il totale controllo del Mar Cinese Meridionale, a vantaggio di tutte le potenze
che sarebbero tagliate fuori dai commerci e dai rifornimenti, ad esempio il
Giappone. Il Rapporto 2019 al Congresso dell’agenzia di Intelligence Militare
afferma che Pechino sta incrementando le proprie forze terrestri, aeree e
navali per invadere Taiwan ma, in realtà, guardando con occhio attento le carte
di un atlante, si capisce subito che in Asia, con le basi militari a Okinawa,
Corea del Sud, Filippine e altre, è l’America a minacciare le rotte marittime
con le sue portaerei con centinaia di velivoli imbarcati, incrociatori
missilistici e sommergibili nucleari. La paranoia della minaccia cinese è ormai
diventata la vera minaccia alla sicurezza globale e si spera che non accada che
qualcuno creda di vedere qualcosa che è “programmato” a vedere e premerà il
bottone sbagliato nel momento sbagliato. In realtà nel canale di Taiwan non
passano le grandi rotte per il Giappone e a malapena ci sono quelle per la
Corea, e la negazione della libertà di navigazione nello Stretto è, invece, lo
strumento per rendere difficile e pericoloso il passaggio tra i Mari Cinesi
Meridionale e Orientale. La minaccia per gli USA è che la Cina, conquistando
Taiwan, avrà terminato l’unificazione del proprio continente e potrà rivolgersi
a oriente, al Pacifico, mentre oggi per raggiungerlo deve passare per una serie
di strettoie come Taiwan, le isole Ryùkyù, le Filippine, la Malaysia, l’Indonesia
e l’Australia. Per andare verso l’Africa deve navigare oltre lo Stretto di
Malacca e altri. Se Taiwan diventasse cinese, il limite delle acque
territoriali e delle zone esclusive si sposterebbe notevolmente, e si
risolverebbero anche i contenziosi sulle isole dei mari cinesi. Nemmeno i
taiwanesi sanno più ciò che vogliono perché la riconquista della madre patria
non è più un obiettivo, il Kmt sta ormai scomparendo e la quasi totalità della
popolazione si dichiara favorevole allo status quo, ossia a fare i propri
interessi con la Cina e con l’America fingendo di essere un paese indipendente.
E in ciò, Pechino e USA non ostacolano questo processo. La realtà è che la
responsabilità maggiore della tensione non è della Cina o di Taiwan, ma degli
Stati Uniti, che valutano l’incremento della potenza militare cinese come un
preparativo per un’espansione globale. Dal canto suo, la Cina pensa alle
prospettive da qui a cinquant’anni e ha la possibilità di controllare il gioco
degli USA, e non ha nessuna intenzione di invadere Taiwan perché lo Stretto non
è determinante per la sua visione del globo. Vada come vada per la Cina e per
gli americani e i loro alleati, Taiwan non è più un problema per nessuno e se
la Cina decidesse di conquistarla probabilmente la restituirebbe agli aborigeni
delle montagne.
19. Panamà, la creatura degli Stati Uniti
E’ passato oltre un secolo da quel 1914 che vide
l’inaugurazione del Canale artificiale più celebre del pianeta. Oggi la Cina ha
convinto la Repubblica di Panama a tagliare i rapporti con Taiwan e ad
allacciarli con Pechino per entrare nelle nuove vie della seta marittime. Lungo 80 Km, è attraversato da 15 mila navi
ogni anno e la sua importanza è amplificata dal fatto che dà accesso al Golfo
del Messico e di lì al cuore degli Stati Uniti, principale utente del canale
per la riduzione dei tempi e dei costi di dispiegamento della Marina tra
Atlantico e Pacifico, e per l’effetto moltiplicatore della proiezione
commerciale globale. Se gli USA non avessero ritenuto necessario un canale
interoceanico, forse la Repubblica di Panamà non sarebbe stata fondata. L’élite
locale era gelosa dei vantaggi commerciali dell’istmo e la spinta
indipendentista nei confronti della Colombia fu sostenuta dal presidente
Theodore Roosevelt nel 1903 quando la ribellione panamense fu aiutata dalla
Marina statunitense che si schierò contro quella colombiana di Bogotà. Due
settimana dopo l’indipendenza, Panamà e USA firmarono il Trattato Hay-Bunau
Varilla che permise di iniziare i lavori, conclusi il 15 agosto 1914. La
Repubblica centroamericana lo ha
riscattato i 31 dicembre 1999 in base agli accordi Torrijos-Carter del 1977. Le
capacità costruttive degli americani ebbero la meglio sulle difficoltà di
realizzazione, perché prima di loro gli scozzesi e poi i francesi fallirono
nell’impresa con immense perdite finanziarie e, soprattutto, con 10 mila uomini
che persero la vita durante i lavori, anche a causa della malaria e della
febbre gialla. Nell’Ottocento fu avviato il tentativo di unire i due oceani
attraverso un canale tracciato sfruttando il Lago Nicaragua ma l’instabilità
politica e le continue eruzioni del vulcano Concepciòn indussero Roseevelt a
cambiare strategia. L’alternativa
nicaraguense ha ripreso vita nel 2013, quando è stata approvata una concessione
di 50 anni per costruire il canale a favore di Hknd, l’impresa di un magnate
cinese, ma con l’apertura dei rapporti diplomatici e commerciali tra Panamà e
Repubblica popolare cinese è difficile che Pechino si impegni in un’impresa
dagli esiti incerti in termini economici e di fattibilità. Al momento, per
molti commerci il vero rivale di Panamà è uno dei suoi ispiratori: il Canale di
Suez. Il primo personaggio a pensare al canale per collegare i due oceani fu
l’imperatore Carlo V nel 1534, vent’anni dopo la scoperta del Pacifico da parte
di Ferdinando Magellano. L’obiettivo era quello di aprire una via oceanica per
velocizzare il commercio fra Madrid e la colonia del Perù, la cui conquista fu
organizzata proprio da Panamà. La zona era uno snodo strategico per il transito
di oro e argento, e per vincere la concorrenza del Portogallo il sovrano chiese
il costo dell’ambizioso progetto, ossia asciugare l’istmo, ma rinunciò perché
la spesa sarebbe stata insostenibile. Stesse problematiche incontrò nel 1699 la
Scozia che si affacciò all’istmo progettando di realizzare la Nuova Caledonia,
ma per la reazione spagnola e l’alta mortalità abbandonò l’idea. Per un
secolo l’impresa rimase nei pensieri di esploratori e uomini d’affari, tra cui
l’italiano Alessandro Malaspina, ma il piano rimase lettera morta. Nel 1825, gli americani aprirono il Canale
Erie da Albany a Buffalo, lungo i fiumi Hudson e Niagara, ben 584 Km di
progetto soprannominato “la pazzia di Clinton” dal nome del governatore dello
Stato di New York. All’epoca era il secondo canale più lungo del mondo e diede
alla città un vantaggio incolmabile sulle altre città costiere orientali. Poi,
nel 1948, ci fu la scoperta di vari filoni d’oro in California, e la difficoltà
di attraversare gli USA per via terrestre convinse il presidente James Polk a
istituire viaggi per mare. Gli ostacoli terrestri erano le rigide temperature
invernali, le difficoltà nel garantire la sicurezza delle carovane e la
mancanza di una ferrovia transcontinentale. Purtroppo il doppiaggio di Capo
Horn allungava tremendamente i tempi. Nel 1855 fu completata la Panama Railway,
la ferrovia che collega i due estremi dell’istmo, che consentiva ai cercatori
d’oro di sbarcare a Chagres, giungere a Panama City e proseguire in nave fino a
San Francisco. L’interesse per l’istmo, la vittoria nella guerra contro il
Messico e la risoluzione delle
controversie con il Regno Unito sul confine dell’Oregon, convinsero gli
americani a intraprendere il percorso che li avrebbe portati ad acquisire una
proiezione mondiale. Nel 1898, in
occasione della guerra contro la Spagna, per partecipare al conflitto di
Santiago di Cuba, la corazzata Oregon dovette navigare 66 giorni per doppiare
Capo Horn, rafforzando il convincimento che aprire il Canale di Panama e controllarlo
militarmente era una condizione ormai necessaria per controllare i due oceani.
Il canale fu inaugurato dal presidente Wilson, ma fu Roosevelt a orientare la
scelta dal Nicaragua a Panamà e sostenere il movimento indipendentista locale,
artefice e alleato essenziale per la realizzazione dell’opera. Oltre a
consentire il passaggio delle navi della Marina da un oceano all’altro, Panamà
ha dato forma alle navi stesse perché la loro costruzione era subordinata al
passaggio nello stretto canale. Fino al 1999, l’area marina di Panamà ha
ospitato il Southern Command fino al suo trasferimento a Miami, con un
contingente di 20 mila uomini. La presenza militare fu determinante durante la
guerra fredda, soprattutto a livello intellettuale perché qui furono addestrati
all’anti comunismo e alla contro insurrezione molti dei protagonisti delle
dittature militari in America Latina, il boliviano Hugo Banzer , il
guatemalteco Efraì Rìos Montt, la giunta argentina, Roberto d’Aubuisson,
ideatore degli squadroni della morte nel Salvador, fino al generale panamense
Manuel Noriega. Trenta anni dopo, la parabola di Noriega è ancora utile per
interpretare la storia di Panamà, divenuta sovrana del Canale quando il
mantenimento era divenuto antieconomico e poco strategico per Washington,
protetto militarmente dalla IV Flotta e finanziariamente dal dollaro USA che ha
valore equiparato al Balboa, l’altra valuta ufficiale della repubblica. Panamà
conserva un ruolo di rilievo nel traffico di droga per la sua vicinanza
geografica ai principali coltivatori di coca e per le sue caratteristiche di
paradiso fiscale, meta ideale per i proventi dei narcos. La seconda maggior
utilizzatrice del canale è la Cina, pur se aveva preoccupazioni di politica
interna visto che Panamà fino al 2017 era tra i pochi paesi rimasti a
riconoscere ufficialmente il governo di Taiwan e non quello di Pechino. Con Xi Jinping la Cina comunista ha isolato
la Repubblica di Cina e ha concluso gli accordi con Panamà riguardo la Belt and
Road Initiative (Bri), ossia le nuove vie della seta marittime. L’accordo di
libero commercio con Panama si aggiunge a quelli già siglati con Cile, Perù e
Costa Rica. L’America Latina non è per il momento prioritaria per la Cina, ma
il caso Panamà è diverso, potenzialmente minaccioso per gli USA perché è ponte
fra due oceani e piattaforma verso la Colombia, principale alleato di
Washington. L’offensiva diplomatica cinese panamense ha colto di sorpresa Trump
e gli USA, basti pensare all’ambasciatore John Freely che venne a sapere, per
giunta casualmente, che Panamà avrebbe interrotto i rapporti con Taiwan
(alleato statunitense) e avviato quelli con la Repubblica popolare cinese solo
20 minuti prima dell’annuncio ufficiale. La minaccia è soprattutto tecnologica
visto che nel 2019 la Huawey ha installato a Panamà una free zone digitale
cofinanziata dalla Banca di Cina con un centro dati che segue quello inaugurato
nel 2018 a Colòn, sulla costa atlantica. Verosimilmente, i dati elaborati a
Panamà dall’azienda tecnologica di Shanzen saranno a disposizione di Pechino,
ed è scontato che sarà ampliato il raggio del suo spionaggio. C’è da dire che
le prime pressioni statunitensi sono state fruttuose perché tre anni dopo
l’apertura dei rapporti diplomatici la Cina non ha ancora trovato una sede definitiva
per la propria ambasciata. Recentemente, il presidente panamense Laurentino
Nito Cortizo, ha dichiarato di aver chiesto agli USA di essere più attenti alla
regione perché mentre loro sono distratti c’è un altro paese che sta facendo
passi avanti, riferendosi
inequivocabilmente alla Cina. Naturalmente Washington non starà a
guardare, sarebbe paradossale se sul Ponte delle Americhe sventolasse la
bandiera cinese.
Indice:
1. Il Potere Marittimo
2. Storia della Talassocrazia
3. Da Roma a Pearl Harbor
4. Londra
5. Giappone
6. India
7. Russia
8. Oceano Atlantico
9. Commerci Marittimi
10. Connessioni Sottomarine
11. Cina
12. Gibilterra
13. Istanbul
14. Canale di Suez
15. Gibuti, Bab al-Mandab nel Golfo Persico
16. Stretto di Hormuz
17. Malacca
18. Taiwan
19. Canale di Panamà