Il paradigma di Wagner sulla lingua sarda deve essere rovesciato come una clessidra.
Articolo di Bartolomeo Porcheddu
«Da che punto guardi il mondo, tutto dipende» è il testo
di una strofa della canzone “Depende” scritta da Jarabe de Palo e tradotta in
italiano da Jovanotti con “Dipende”. Il punto di osservazione è molto
importante perché, come dice Zucchero Fornacciari, solo la Marchesa che cammina
sugli specchi può dire “vedo nero”, guardando quasi in perpendicolare
l’immagine riflessa sotto la sua gonna. Un altro interlocutore posizionato di
fronte a lei non è in grado di vedere altrettanto, poiché punta lo specchio da
un’altra angolatura o prospettiva.
Allo stesso modo, se rovescio una clessidra riempita di sabbia, sono i granelli che io vedo in quel momento sopra il cono inferiore che vanno per primi a depositarsi alla base dell’oggetto capovolto. Quando Max Leopold Wagner giunse in Sardegna dalla Germania per studiare la lingua sarda, non tenne conto che egli, in quel momento, rappresentava un paese ricco e noi Sardi uno povero, perché la
clessidra del tempo si era rovesciata a loro favore, che da ultimi erano passati a primi.Wagner ottenne la docenza all’Università di Berlino nel
1915 per poi insegnare a Napoli e a Roma. Nella sua vita ebbe la fortuna di
incontrare un suo amico-mecenate che lo aiutò finanziariamente nelle sue
ricerche. Tra il 1918 e il 1960 compose e pubblicò le sue opere sulla lingua
sarda: La stratificazione del lessico sardo (1928); Osservazione sui sostrati
etnico linguistici sardi (1933); La lingua sarda. Storia, spirito e forma
(1950); Dizionario Etimologico Sardo /1960-64).
Wagner intraprese quindi il suo viaggio attraverso i
paesi dell’Isola come erano soliti fare in quel tempo gli antropologi che dalla
industrializzata Gran Bretagna e dalla ricca Germania viaggiavano nei paesi
sottosviluppati. Egli era giunto in Sardegna con una preparazione linguistica
invidiabile, che solo pochi a livello europeo potevano vantare. Conosceva bene
diverse lingue, aveva viaggiato tanto e possedeva una raccolta di dati
incredibile per poter fare un raffronto scientifico con altre realtà.
In terra sarda egli si avvalse della collaborazione degli
storici del tempo, come Ettore Pais, che credevano che Cagliari fosse fondata
dai Cartaginesi, il nome di Olbia di etimologia greca e Gurulis Nova (Cuglieri)
ugualmente di fondazione greca. Per i letterati del luogo e per Wagner la
storia in Sardegna iniziava con la conquista cartaginese della parte centro
meridionale dell’Isola, eludendo quello che Polibio raccontava nelle sue
“Storie”.
Polibio infatti scrive: «Tra il 247 e il 241 a.C.
Amilcare Barca approdò in Sardegna dalla Sicilia, ma fu giustiziato dai suoi
mercenari che si erano ammutinati. Dopo questo fatto, i mercenari uccisero
tutti i Cartaginesi nell’Isola di Sardegna, finché non litigarono con i nativi.
I Sardi li cacciarono dall’Isola e li spinsero in Italia. Così i Cartaginesi in
Sardegna furono sconfitti prima dai loro stessi mercenari, poi questi ultimi
dai Sardi (Polibio, Storie, Liber I, 79).
Appare a questo punto difficile capire il rapporto tra
Cartaginesi e Sardi e le risultanze linguistiche che potrebbero esserne
conseguite da una così breve e precaria occupazione, finita in modo così
misero. Ma Wagner e gli storici sardi, come Giovanni Francesco Fara,
sostenevano che Tharros fosse di derivazione fenicia e si sarebbe chiamata
Thyrae, come Tiro in Fenicia. In più, Cornus sarebbe il corrispondente latino
del punico Koran (Corno). Inoltre, Bithia sarebbe il nome proprio fenicio
attestato di Bithas.
In ogni caso, giusto per contestualizzare il periodo
relativo alla prima metà del Novecento in Sardegna, tutti, da Wagner agli
storici sardi, sono dei veri e propri Indiana Jones pro-cacciatori di Fenici e
Punici. Per cui, secondo le loro idee, vi era stata già dall’antichità
un’immigrazione verso l’Isola di uomini provenienti dal Continente africano.
Per avvalorare questa tesi, Wagner cita autori antichi a dimostrazione che la
Sardegna era terra di conquista fin dai primordi e definisce i Sardi “un popolo
eternamente colonizzato”.
È partendo da questa concezione sui Sardi che Wagner
scrive le sue opere. Pertanto struttura la lingua sarda come uno scavo
archeologico e pone, dopo qualche accenno al fenicio e al punico, la base del
lessico sardo nel latino. Quindi va a ricercare le forme linguistiche che non
hanno a che fare con il latino per catalogarle nella lingua proto sarda. Dopo
il periodo romano-bizantino e la successiva indipendenza dell’isola, egli considera
ogni parola sarda corrispondente a quella catalano-aragonese di derivazione
esterna.
Vengono considerati catalanismi o castiglianismi parole
quali “biazu”, secondo lui presa dallo spagnolo “viaje” o dall’italiano
“viaggio”, convinto che i Sardi non avessero mai viaggiato per terra o per
mare. Wagner dice che per l’identità di molte parole catalane e castigliane non
si può stabilire se il prestito sia dovuto a una o all’altra lingua, ma taglia
fuori da questo discorso il sardo, che sarebbe il risultato di importazione da
queste due lingue.
Secondo Wagner i Sardi non utilizzano concetti astratti,
ma solo concreti, presi dal dizionario della campagna. Quindi i sostantivi
verbali quali “fura” (rubare), “tramutu” (permutare), “acabbu” (terminare),
“assimizu” (somigliare), “crebu” (crepare), “faeddu” (parlare), “fentomu”
(mentovare), “sèberu” (scegliere), “apretu” (affrettare), “penetu” (pentire)
sarebbero tutti di derivazione italiana o spagnola.
Il linguista tedesco ritiene che il sardo sia
morfologicamente vicino al latino, madre di tutte lingue romanze, tralasciando
il piccolo particolare che il latino possiede i “casi” che il sardo non ha e
che, pertanto, i morfemi nominali, se si eccettua l’accusativo plurale e parte
dell’ablativo singolare, sono del tutto differenti. Infine considera il lessico
sardo, corrispondente a quello spagnolo, lingua degli immigrati iberici giunti
in Sardegna con i Balari (popolazione preromana dell’Anglona).
In sintesi, tutta la lingua sarda, ad eccezione dei pochi
vocaboli che non si ritrovano in nessuna delle lingue presenti nel Continente
europeo e in Africa, sono il frutto di una colonizzazione antica e moderna.
Solo in un passo corregge parzialmente il tiro: quando afferma che esistono
relazioni numerose fra i toponimi paleo sardi e altri sparsi nel Mediterraneo,
ma non li cita. In altre parole, Wagner con le sue opere distrugge
completamente la nostra identità linguistica.
Né Wagner e né i letterati sardi del suo tempo danno peso
ai circa ventimila siti archeologici, testimoni di gloriose vestigia, presenti
nell’Isola e precedenti alle occupazioni cartaginese e romana. Ed è incredibile
come accrediti allo spagnolo anche la parola “llosa”, in sardo “losa” (lapide),
che ha dato il nome al famoso nuraghe. La visione di Wagner sulla lingua sarda
è il riflesso del suo specchio, che, come quello della Marchesa di Zucchero
Fornacciari, “vede nero” con i suoi occhi.
Guardando da una diversa prospettiva, si può osservare
che il caratteristico elmo sardo, pennato o cornuto, è rappresentato nel Disco
di Festo a Creta (1700 a.C.), nei geroglifici egiziani, nei bronzetti e nella
statuaria nuragici fino alla moneta del Sardus Pater del primo secolo avanti
Cristo. La lingua sarda è riscontrabile nelle divinità dei Titani, derivati dal
sardo “tita” (mammella), di cui ancora le “atitadoras” ne riportano il ricordo
cantando le lodi ai defunti meritevoli.
Facendo una ricostruzione etimologica di parole quali
l’italiano Pitia o Pitzia, la sacerdotessa di Apollo, si scopre che in latino
tale lessema è scritto Pythia, in greco antico Πυθία (Puthìa), che si legge
Putzìa, e richiama il pozzo, quello sacro, chiamato in sardo Putzu, presso il
quale le sacerdotesse professavano i riti religiosi. Poiché non possono essere
stati i Romani a dare il nome alla sacerdotessa, in quanto tale lessema era già
presente nel greco antico, il fondatore linguistico può trovarsi solo in
Sardegna.
Infatti l’elemento fisico e reale da cui scaturisce il
nome della sacerdotessa, Putzu, è sardo, perché in greco il pozzo è detto φρέαρ
(frear), ben distante dal “putzu” sardo. La stessa divinità di Apollo veniva
chiamata anche con l’epiteto di “Putzu”, così come diversi toponimi tra i quali
Biddaputzu (Villaputzu). Oltre alle centinaia di pozzi sacri presenti
nell’Isola, in Sardegna sono diffusi i cognomi Putzu, Putzulu o Putzolu, tutti
legati al pozzo sacro. Ancora nella Roma repubblicana queste gentes
presiedevano al culto delle maggiori divinità.
Seguendo questo paradigma (latino, greco, sardo,
fondatore linguistico) si scopre che non solo Bithia, Tharros, Olbia e Cornus
sono città prettamente sarde, ma che quasi tutta la toponomastica che si
affaccia sul Mediterraneo antico è scritta e sardo e che città come Atene e
Roma sono di fondazione sarda. Guardando la storia da questo punto di vista, il
teorema di Wagner crolla come quando viene capovolta una clessidra.
Infatti, se rovesciamo la clessidra e facciamo colare la
sabbia della nostra storia antica, ci accorgiamo che per migliaia di anni
abbiamo dettato il nostro verbo sulla civiltà antica, precedendo di millenni
Greci, Fenici, Cartaginesi e Romani, ai quali abbiamo lasciato il nostro
patrimonio linguistico, e non solo. Dobbiamo però contestualizzare e prendere
dall’opera del Wagner tutto ciò che egli, di positivo, con il rigore
scientifico del suo tempo, ci ha lasciato. Sull’esempio di Jarabe de Palo,
occorre però guardare il mondo di Wagner da un diverso punto di vista, per non
rischiare di vedere “solo nero”.
Ora , fieramente , potro` svelare agli Inglesi , agli Australiani e Statunitensi che tutte quelle parole che fanno parte del lessico , inserite nei loro dizionari e che essi consideravano derivanti dal Latino , invero sono una derivazione o meglio una eredita` lasciata dalla lingua Sarda...!!??!! Che soddisfazione !!?!?!!
RispondiElimina... sarebbe interessante capire
RispondiElimina... per le scienze umanistiche,
... quanto sia rilevante
... per le verifiche successive
... il substrato culturale di chi per primo le ha descritte
... e sulle cui affermazioni,
... non confutate dal contesto scientifico,
... si sono concretizzate generazioni di teorie
... esse stesse rispondenti a criteri scientifici;
... chissà quanti toponimi, e altre etimologie
... si sono create e consolidate
... sotto l'influsso di dotti estemporanei
... ingannati da assonanze linguistico culturali,
... e sulle cui basi si siano concretizzate credenze e leggende ...
...
Tengo a precisare che la lingua greca non è imparentata con le lingue romanze ed è per questo che nell’albero delle lingue indoeuropee il greco costituisce un ramo a sé. I Greci, come scrivono gli stessi loro autori antichi, non sono autoctoni della Grecia, ma popolo invasore, presumibilmente provenienti dal Caucaso. Infatti, la lingua che più le si avvicina è l’armeno.
RispondiEliminaMolto probabilmente gli Achei e i Dori, popolazioni elleniche maggioritarie nel periodo di Omero, erano penetrate dall’Anatolia nella Grecia a seguito della lunga guerra che aveva opposto gli Ittiti ai Sardi (Shardana o Sardanus). A governare il territorio ellenico prima della conquista achea intorno al 1180 a.C. erano stati i Pelasgi, tanto decantati da tutti gli autori greci antichi, che gli Ebrei chiamavano Filistei e gli Egiziani Peleset.
Tito Livio e Plinio il Vecchio denominavano allo stesso modo i guerrieri Sardi, definendoli “Pelliti”, in sardo “Peddàrgios”, a causa del loro abbigliamento fatto di pelle conciata di muflone a protezione del corpo. Il santuario di Delfi era di fondazione pelasgica, come testimonia tra gli altri Eschilo. In una stanza del santuario bruciava il fuoco perenne e in un’altra sgorgava l’acqua del pozzo. Per questo le sacerdotesse venivano chiamate Putzie.
Per loro cultura, i Greci costruivano mitologie intorno a personaggi orrendi, come i Ciclopi e gli Ecatonchiri e trasformarono con una metonimia (scambio di nome) divinità sardo-pelasgiche, quali la “Luchìa” o la “Putzìa”, in animali feroci e temibili come il lupo, in greco “lukos”, e il pitone, in greco “puthion”, associando quest’ultimo ad Apollo per il suo epiteto di “putzio”.
Proprio per il fatto che il greco e il sardo sono due lingue completamente diverse, si riesce a comprende in modo “ragionato” se un termine proviene dal greco o dal sardo. Tenendo conto che i Greci hanno lasciato così come era la maggior parte della toponomastica pelasgica e continuato a utilizzare le divinità sardo-pelasgiche, si riesce con buona approssimazione a capire quando su questi termini è stato utilizzato un calco, ossia una traduzione greca del nome originario, o un prestito, vale a dire il mantenimento dello stesso nome. Bartolomeo Porcheddu