Scoperta una "filiera" metallurgica sui monti di Domusnovas.
Riflessioni di Pierluigi Montalbano e Marcello Onnis
Recentemente, abbiamo depositato alla Soprintendenza archeologica di Cagliari una denuncia di rinvenimento di un sito di valenza Archeometallurgica.
Nel territorio del Comune di Domusnovas, immerso nell’incantevole vallata di Oridda, dietro le Grotte di San Giovanni, l’allineamento di Punta Tinnì, Punta Fundu de Forru e Perda Niedda, con il vertice opposto di punta Serra Tinnì, costituisce un triangolo, attraversato dal Rio Tiny, particolarmente interessante già per la sola toponomastica. La località di Perda Niedda tradisce la presenza di un giacimento di magnetite dal tenore di ferro intorno al 74 %. La Punta Fundu de Forru, indica la presenza di attività fusoria. Il nome del rio e delle sommità dei luoghi dedicate a Tinnì dichiarano palesemente la frequentazione dei mercanti di età
fenicia in quei luoghi.
Solleticati da questi ingredienti, ci siamo recati sul luogo per verificarne le eventuali potenzialità.
Tutte le supposizioni ipotizzate si sono di fatto materializzate, mostrandoci l’intera filiera produttiva del ferro, dall’estrazione del minerale alla probabile realizzazione di manufatti.
Inizialmente abbiamo individuato una cava di magnetite cristallizzata con sistema penta dodecaedrico, con evidenti segni di estrazione a pala e picco. Lungo il sentiero adiacente alla cava abbiamo notato una serie di piazzole sulle quali si riducevano i blocchi, verosimilmente con una prima cernita fatta a vista e a peso. Nel fitto bosco adiacente, è presente una rete di sentieri ai cui lati sono evidenti numerose piazzole di terra nera cotta dove inequivocabilmente si produceva il carbone vegetale. A poca distanza, rileviamo la presenza di un corso d’acqua con un punto di raccolta funzionale all’arricchimento del minerale prima della fusione e, infine, un cumulo di pietre in granito rosa, parzialmente fuso su un lato con inclusioni di scorie vitree di colore nero.
Grazie all’uso di una piccola calamita, in tali scorie si è confermata la presenza di una buona percentuale di ferro, al punto che la calamita restava attaccata, anche se rivolta verso il basso.
Solo allora, ci siamo resi conto di stare su un grosso cumulo di scorie fusorie in cui si possono identificare le diverse fornaci a terra, realizzate una sulle altre per un lungo periodo.
Si tratta, quindi, di un’antica fucina con fuochi a terra in cui si producevano, e si affilavano, gli arnesi necessari all’estrazione dei diversi minerali presenti in loco.
E’ rilevante segnalare che l’uso del carbone vegetale nella trasformazione della magnetite è fondamentale. Sulla Terra, il ferro puro non esiste, infatti quello rinvenuto ha origine esclusivamente meteoritica. In natura, il minerale con la più alta concentrazione di ferro è la magnetite, e la vallata di Oridda, dietro le grotte di S. Giovanni, nel Comune di Domusnovas, ne è particolarmente ricca. La magnetite è un minerale naturale che può contenere percentuali fino al 76 % di ferro, la cui formula chimica è Fe3O4.
Il primo procedimento di trasformazione termica del minerale, chiamato arrostimento, prevede il processo di riduzione degli ossidi. Già con una temperatura prossima ai 700°C, inizia a rompersi il legame tra l’ossigeno e il metallo. Grazie alla presenza del carbonio contenuto nel carbone vegetale, all’interno della fornace a terra, durante la combustione, si ha produzione di monossido di carbonio (CO) che, combinandosi con l’ossigeno della molecola dell’ossido di ferro (magnetite), produce molecole di anidride carbonica (CO2), miste a vapore acqueo.
Grazie all’uso del carbone vegetale, il fabbro riusciva a gestire il procedimento di riduzione, sfruttando i vari gradi di temperatura prodotta all’interno della fornace, valutandoli dal colore e dalla fluidità delle scorie. In tal modo, raggiunta una temperatura intorno ai 1.035° C, riusciva a fondere e vetrificare lo sterile e parte del granito che formavano i bordi della fornace. Il materiale, colava verso la parte bassa e fuoriusciva dalla fornace per mezzo di una piccola feritoia, riuscendo così a concentrare sul fondo una massa spugnosa di ferro misto a scorie, chiamata bluma. Questa, ottenuta attraverso la riduzione degli ossidi nel processo diretto, doveva essere purificata e compattata, non potendosi utilizzare immediatamente per fabbricare oggetti a causa della sua eterogeneità e della già citata presenza di scorie al suo interno. L’operazione si svolgeva al fuoco di forgia, e avveniva poco a poco per martellature successive e susseguenti, e consecutivi, riscaldamenti. In questo modo la scoria ancora presente all'interno della bluma veniva rifusa e si andava ad accumulare sul fondo della forgia stessa, e la massa di ferro veniva compattata eliminando i numerosi alveoli ancora presenti al suo interno. La bluma, poi, poteva essere lavorata, suddivisa in parti più o meno grandi, spezzata in frammenti per poi essere risaldata. Nel corso di detta operazione si viene a formare una particolare categoria di scorie che, pur avendo la classica forma a calotta, tipica di tutte le scorie di forgia, presenta anche delle evidenti tracce di scorrimento di colata, attestando così la loro formazione durante uno stato pastoso. La qualità del ferro così ottenuto, influenzata dalle ripetute martellature, sarà quindi determinata dallo svolgimento di tale operazione, e sulla base del suo tenore in carbonio e fosforo piuttosto che per la quantità di scorie e di inclusi vari ancora presenti nella bluma. Questi due elementi, infatti, in lega con il ferro ne alterano grandemente le qualità meccaniche rendendolo più adatto alla produzione di oggetti finiti. Tuttavia, nonostante che il processo di raffinazione tenda a definire le qualità finali del prodotto, la bluma, in realtà, contiene ancora carbonio, fosforo e scorie distribuite al suo interno in modo assai diseguale. La capacità del fabbro sta proprio nel sapere scegliere la miglior tecnica di raffinazione e nel riconoscere le parti migliori della bluma per le successive operazioni di forgia. Il ferro finalmente ottenuto dalla raffinazione veniva ancora lavorato in lingotti o barre che fornivano la materia prima per la messa in forma degli oggetti finiti. La qualità di questi semiprodotti veniva testata dal fabbro nel corso delle operazioni di forgiatura vere e proprie che portavano alla realizzazione del prodotto finito.
In altre parole, il ferro fonde a una temperatura di 1.538° C, difficilmente raggiungibile in una fornace a terra. Con una seconda cottura controllata (il processo di raffinazione della bluma), raggiunta una temperatura intorno a 1.200° C, si riusciva a ottenere un prodotto amorfo privo di scorie di sterile ma ancora ricco di inclusioni di carbone. Questo, era sottoposto a un’energica martellatura mentre era incandescente, fino a fargli assumere la forma voluta come quella di una verga, di un mazzuolo, di una zappa, di uno scalpello, oppure delle armi come spade, pugnali e armature varie. Il prodotto finito è costituito da una lega di ferro e carbonio al di sotto del 2% (Fe e C) meglio noto come acciaio che, opportunamente temprato, offriva un valido aiuto nella lavorazione lapidea anche di quelle pietre con durezza nettamente superiore a quella del bronzo come il granito e il diaspro verde.
Forse qualcuno rifletterà sul fatto che il granito era lavorato a tutto tondo, e con angoli retti, concavi e convessi, nelle tombe dei giganti, nelle domus de janas, in alcuni pozzi sacri e in tantissimi menhirs su cui sono stati incisi, a bassorilievo, diversi simboli con spigoli ad angolo retto e/o acuto.
Come riuscivano gli artisti preistorici a produrre tali manufatti, quasi cesellati, se non disponevano di utensili con una punta tanto acuminata e con una durezza superiore a quella della stessa pietra che gli permetteva un’incisione così dettagliata e precisa?
La spiegazione, è evidente, può essere una sola: all’epoca disponevano già di subbie dalla punta piramidale atta a scaricare la percussione del martello su un piccolo punto da taglio, unghiette a mano, scalpelli e scapezzatori in acciaio temprato. Solo chi ha praticato manualmente la lavorazione lapidea può capire, e sa cosa vuol dire, lavorare così finemente tali pietre dure. Senza l’ausilio di utensili adeguati è impossibile. L’uso di attrezzi grossolani ha come unico risultato l’ampliamento delle microfessurazioni insite nella pietra ed invisibili ad occhio nudo che portano inesorabilmente alla rottura della pietra su cui si sta lavorando.
Punte e scalpelli di bronzo non consentono la lavorazione di tali pietre in quanto tale metallo ha una durezza nettamente inferiore, e l’uso delle tecniche sia a percussione sia abrasiva tra la pietra e la lega metallica bronzea, vede quest’ultima soccombere lasciando inesorabilmente trucioli e/o schegge sulla pietra.
La valutazione empirica del sito secondo i parametri dell’archeometallurgia, cioè la tecnica estrattiva del minerale a cielo aperto e non con gallerie, il tipo di fornaci a basso fuoco, il tipo di combustibile usato (carbone vegetale), la qualità delle scorie ad alto tenore di ferro incluso confermato con la calamita, la presenza di un corso d’acqua utile all’arricchimento del minerale da fondere, ci porta a ipotizzare una datazione alla prima età del ferro, pur se tale valutazione non è da considerarsi scientificamente valida ai fini di una datazione certa.
Non è da escludere che tali emergenze metallurgiche siano il frutto di un’attività produttiva svolta anche in tempi più recenti, effettuata con le stesse modalità.
Solo un’analisi al Carbonio 14 delle eventuali scorie di carbone vegetale incluse nelle scorie darebbe un dato scientificamente attendibile, e attenderemo pazientemente che i tecnici della soprintendenza effettuino le necessarie verifiche.
Non è da trascurare l’aspetto storico del territorio, non distante da quell’itinerario indicato dagli storici latini come meta dei deportati cristiani puniti sotto il regno di Antonino Pio nel 155 d.C. con la condanna nota come damnatio ad metalla, o damnatio ad opus metallicum.
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