sabato 21 ottobre 2017
Archeologia. DAEDALEIA LE TORRI NURAGICHE OLTRE LʼETÀ DEL BRONZO. Articolo di Raimondo Zucca.
Archeologia.
DAEDALEIA LE TORRI NURAGICHE OLTRE LʼETÀ DEL BRONZO
Atti
del Convegno di Studi (Cagliari, Cittadella dei Musei, 19-21 aprile 2012)
Sardi
Ilienses (Livio, XLI, 12, 4)
Articolo
di Raimondo Zucca
I
Sardi Ilienses secondo Ettore Pais
Nella
memoria lincea del 1881, La Sardegna prima del dominio romano, Ettore Pais
affermava:
Il
nome Sardegna (Sardò) e l’aggettivo Sardonio (Sardonios) è stato usato per
indicare nel complesso l’isola e gli abitanti di essa sin dal tempo di Erodoto,
tuttavia sorge il dubbio se questo nome fosse proprio di tutti, ovvero di una
sola parte dei Sardi e se il nome di una tribù sia stato poi esteso a tutte le
altre. Io propendo a questa seconda opinione e parmi che vi siano degli
argomenti che la rendono, per lo meno, degna di essere presa in considerazione.
E in primo luogo coloro che parlano degli abitanti del centro dell’isola
nominano espressamente dei popoli detti Iliesi e Balari, ma non li chiamano
Sardi, che anzi talvolta l’aggettivo Sardi
è opposto agli altri due ed è usato per indicare le
popolazioni sottoposte a
Cartagine.
In
nota Ettore Pais discuteva il sintagma liviano Sardi Ilienses che parrebbe
opporsi alla sua ipotesi:
Livio
loc. cit. (XLI, 6, 5) tuttavia egli stesso XLI, 12, 5 dice “exercitum in agrum
Sardorum Iliensium induxit (T. Sempronius)” il
qual passo non prova però che fossero uno stesso popolo, dacché Livio certo
usava la parola Sardus come equivalente ad abitante della Sardegna.
Indubbiamente
l’esame dell’intero capitolo 12 del libro XLI liviano conferma
l’interpretazione del Pais: i Sardi sono gli abitanti della Sardinia, per
cui gli Ilienses vengono qui specificati come Sardi, sia in rapporto alle
conquiste degli Ilienses a spese dei populi della pianura denominati Sardi, sia
forse per distinguere gli Ilienses della Sardinia dai più celebri Ilienses
della Troade, ai quali, comunque, la mitografia Annalisti ca tenderà ad
assimilarli. L’analisi che compiremo di questo populus intende enucleare gli Ilienses fra
gli ethne definiti dalla mitografia e dalla storiografia antica in Sardegna,
onde valutare, lungi da qualsiasi velleità combinatoria, se sia legittima, sul
piano culturale, la lettura di strutture sociali, cultuali, insediative, funerarie
etc. dei populi sardi, fra l’età del Ferro e il periodo romano imperiale. Resta
acquisita dalla critica storica l’identificazione di questi Ilienses (etnonimo
di marca romana, come già vide Ettore Pais, tendente ad identificare una comune
origo ai Romani e ai Sardi Ilienses) e gli Ioleis di Sardò, della tradizione
mitografica greca, magistralmente studiata da Laura Breglia. Non dobbiamo
dimenticare che questi etnici sono in
realtà
degli eteronimi, ossia i nomi che, nel caso nostro, i Greci e successivamente i
Romani, hanno attribuito ad ethne dei Sardi, forse a partire da una effettiva
radice paleosarda, che, non necessariamente, corrispondeva al nome che i
singoli ethne assegnavano a sé stessi. Indubbiamente abbiamo assai diffusa la
radice *Il variata da numerosi suffissi, nella toponomastica concentrata in
particolare nella fascia centrale della Sardegna da Sedilo/Ula Tirso fino a
Desulo, Tonara, Orgosolo, Villagrande Strisaili, fra il settore settentrionale
della provincia di Oristano e la fascia occidentale della provincia di Nuoro.
Non
manca tuttavia la radice *Iol- presente ad esempio nell’idronimo Iol-è ad
Orgosolo.
Gli
scrittori greci avevano codificato questo viaggio mitico dei Tespiadi
nell’isola, estremamente pluristratificato, a partire da un dato etnostorico:
l’esistenza di un ethnos, genuinamente sardo, quello degli Iolaeis- Ilieis –
Ilienses, che aveva resistito ai Cartaginesi ed ai Romani, ed ai quali era
attribuita la civiltà dei mirabili nuraghi, dei templi a pozzo e delle tombe di
giganti. Nella Biblioteca Storica di Diodoro Siculo, redatta intorno alla metà
del I secolo a.C., sulla base dello scrittore siceliota Timeo, della fine del
IV sec. a.C., è affermato:
"In
relazione a questa apoikìa [dei Tespiadi-Iolaeis in Sardegna] avvenne anche un
fatto straordinario e singolare: attraverso un oracolo il dio [Apollo] disse
loro che tutti quelli che avevano preso parte a questa colonia e i loro
discendenti, sarebbero rimasti continuamente liberi per l’eternità; e la
realizzazione di questo fatto in conformità all’oracolo, perdura fino ai nostri
giorni. Per effetto del lungo tempo ivi trascorso, poiché i barbari che avevano
preso parte alla colonia erano superiori come numero, le popolazioni avevano
finito per imbarbarirsi; trasferitesi nella zona montuosa, si stabilirono nei
terreni difficili ed erano solite nutrirsi di latte e carne e allevare
molte greggi di bestiame, e non avevano bisogno di grano. Si costruirono delle
abitazioni sotterranee e, svolgendo il loro modo di vita nei cunicoli,
evitarono il pericolo delle guerre. Perciò prima i Cartaginesi e poi i Romani
li combatterono spesso, ma fallirono il loro obiettivo".
Lo stesso Diodoro nel V
libro della Biblioteca puntualizza il destino degli Iolaeis-Tespiadi: Secondo
l’oracolo relativo all’apoikìa [dei Tespiadi-Iolaeis in Sardegna], coloro che
avessero partecipato alla sua fondazione sarebbero rimasti per sempre liberi: è
accaduto che l’oracolo, contro ogni aspettativa abbia salvaguardato,
mantenendola intatta fino ad oggi, l’autonomia degli abitanti dell’isola. I
Cartaginesi, infatti, pur essendo più forti e avendo conquistato la Sardegna,
non riuscirono ad asservire i precedenti padroni dell’isola: gli Iolaeis si
rifugiarono sulle montagne, costruirono dimore sotterranee, allevarono molte
mandrie di bestiame che fornivano loro cibo in abbondanza e si contentavano di
mangiare latte, formaggio e carne; essi poi, avendo abbandonato la pianura,
evitavano la fatica del lavoro dei campi; abitavano sulle montagne e
trascorrevano una vita senza pene poiché facevano sempre uso dei già menzionati
cibi. I Cartaginesi marciarono spesso contro di loro con forze considerevoli ma
essi rimasero liberi grazie all’asprezza dei luoghi e alla difficoltà che
incontravano i nemici nel muoversi nelle loro dimore sotterranee. In ultimo si
impadronirono dell’isola i Romani che spesso marciarono contro di loro ma, per
i motivi già esposti, gli Iolaeis non furono mai asserviti da un esercito
nemico.
La
eleutherìa degli Iolaeis-Tespiadi è un topos della narrazione mitica relativa a
popoli “estremi”, ossia di aree isolate, lontane, insulari. La montagna (e nel
caso di specie la montagna sarda) è un luogo isolato di difficile accesso,
destinato agli uomini liberi, così come la montagna liberava i montanari del
fardello della coltivazione del grano, consentendo il nutrimento attraverso il
bestiame e i prodotti caseari. Qualche decennio dopo Diodoro Siculo è Strabone
di Amasea, nella sua Geografia, ad offrirci un quadro dei Sardi delle montagne:
Alla
bontà dei luoghi [della Sardegna] fa riscontro una grande insalubrità: infatti
l’isola è malsana d’estate, soprattutto nelle regioni più fertili. Inoltre
queste stesse regioni sono continuamente saccheggiate dagli abitanti delle
montagne che si chiamano Diagesbeis, mentre una volta erano chiamati Iolaeis.
(...)
Ci
sono quattro tribù delle montagne: i Parati, i Sossinati, i Balari, gli
Aconiti, che abitano tutti in caverne e se hanno qualche terra seminabile, non
si preoccupano di seminarla, ma depredano i prodotti di quelli che lavorano,
sia di quanti abitano lì, sia, navigando, di quanti abitano sul continente
antistante, in particolare i Pisati. Gli strateghi che vi vengono inviati
in parte si oppongono a loro, ma talvolta rinunciano, poiché non è vantaggioso
mantenere di continuo l’esercito in luoghi insalubri. Restano allora alcuni
stratagemmi: così avendo osservato un certo numero dei barbari (che celebrano
una festa tutti insieme per parecchi giorni, dopo aver fatto bottino) piombano
su di loro e ne catturano molti. Ancora la Sardegna produce dei montoni che
hanno peli di capra invece che lana chiamati musmoni, con le cui pelli fanno
corazze. Inoltre fanno uso anche di un piccolo scudo e di una piccola spada.
Strabone è un importante testimone dei caratteri propri dei popoli sardi: non
v’è infatti un unico popolo dei Sardi, bensì vari popoli delle montagne, in
numero di cinque, poiché ai quattro ethne dei Parati, Sossinati, Balari e
Aconiti va aggiunto l’ethnos dei Diagesbeis, un tempo chiamato Iolaeis.
Questi
ethne hanno una organizzazione militare, con un armamento costituito da uno
scudo piccolo e da una piccola spada, mentre la corazza è realizzata con pelli
di musmoni, ossia mufloni. Il dato straboniano ritorna in Pausania (II secolo
d.C.) che deriva da Sallustio. Se quest’ultimo in un frammento delle sue
Historiae riferendosi ai Balari afferma: I Corsi ritengono i
Balari profughi di Pallantia (Hispania Citerior), altri Numidi, altri ancora
Hispani provenienti dall’esercito cartaginese. Sono gente di animo mutevole,
malfida per timore degli alleati, scuri di vesti, acconciatura e barba.
Pausania tratteggia il quadro etnografico degli Ilienses, dei Korsoi e dei
Balaroi:
I
troiani si rifugiarono nei luoghi alti dell’isola, ed avendo appunto occupato
le montagne dal difficile accesso ben protette da opere difensive e da
precipizi, ancora ai miei tempi loro conservano il nome di Ilieis, per
quanto somigliano ai Lìbyes nell’aspetto, nell’armatura ed in ogni loro costume
di vita. Vi è non molto lontano dalla Sardegna, un’isola chiamata Kyrnos dai Greci,
e dal Liguri che abitano la Corsica. Da quest’isola una non piccola parte della
spedizione venne in Sardegna ed ora dimorano nella stessa regione riservando
per loro conto una parte delle montagne: dagli indigeni della Sardegna
pertanto, costoro vengono chiamati Corsi dal nome della loro patria. I
Cartaginesi nel periodo in cui erano potenti per la loro flotta, sottomisero
tutti coloro che si trovavano in Sardegna ad eccezione degli Ilieis e dei
Corsi, per i quali fu sufficiente la protezione delle montagne per non essere
asserviti. I Cartaginesi medesimi nell’isola edificarono Karalis e Sulkoi.
Delle milizie ausiliarie dei Cartaginesi, quelli che erano Lìbyes e Iberes,
venuti a contesa per il soldo, allorché vennero in contrasto, disertando
abitarono anch’essi nei luoghi alti dell’isola. Costoro vengono chiamati
Balaròi nella lingua dei Corsi, infatti i Corsi chiamano “balaròi” i
fuggiaschi.
I
Sardi erano, dunque, suddivisi in vari populi, tra i quali le fonti segnalano
gli Ilienses, i Corsi, e i Balari. Secondo Pomponio Mela in Sardegna
populorum antiquissimi sunt Ilienses, dunque gli
Ilienses erano fra tutti i populi sardi quello più antico.
Plinio
il Vecchio nella sua Naturalis historia indica che:
Celeberrimi
in ea (Sardinia) populorum Ilienses, Balari et Corsi. Questi Ilienses sono il
primo populus sardo che ci appare nelle fonti relative ai cruenti conflitti fra
i Romani e i Sardi dopo la conquista dell’isola da parte di Roma nel 238 / 237
a.C. È possibile che Hampsicora, il protagonista, con il figlio Hostus, del
bellum del 215 a.C. contro l’esercito romano di Tito Manlio Torquato potesse
vantare se non rapporti di sangue, almeno di clientela presso i pelliti sardi
del Marghine, giacché egli stesso era, a dir di Silio Italico, ortum Iliaca iactans
ab origine nomen (fiero del nome che faceva derivare da Troia), ossia
originario degli Ilienses. Nel 181 a.C. il praetor M. Pinarius Rusca,
sconfitti in Corsica i Corsi passò in Sardinia, dove una rivolta era scoppiata
ad opera degli Ilienses, per la prima volta citati: Quindi l’esercito venne
condotto in Sardinia e si combatté un secondo proelium contro gli
Ilienses, una gens non ancora (all’ epoca di Tito Livio, sotto Augusto) del
tutto pacata. Il proelium non fu definitivo, infatti nel 178 a.C. scoppiò di
nuovo la rivolta degli Ilienses in alleanza con i Balari. Da lettere del
praetor T. Aebutius, portate al Senato dal suo figliolo, si era venuti a
conoscenza che era sorta una insurrezione in Sardegna. Gli Ilienses, alleatisi
con i Balari, avevano invaso l’intera provincia pacata, e non era possibile
opporre loro resistenza con un esercito non
forte
e in gran parte infiacchito da una pestilentia. Anche gli ambasciatori dei
Sardi riferivano la stressa cosa, mentre pregavano che il Senato intervenisse per
soccorrere almeno le città, in quanto le campagne erano già devastate.
Data
la gravità del bellum contro gli Ilienses la provincia Sardinia, di regola
assegnata ad un pretore, per quella occasione fu elevata al rango consolare ed
attribuita a Tiberio Sempronio Gracco, che nel 177 a.C. ottenne una grande
vittoria sulle armate alleate degli Ilienses e dei Balari. Egli condusse il suo
esercito nell’ager dei Sardi Ilienses; a questi erano giunti numerosi soldati
del populus dei Balari; egli combatté, levate le insegne, contro ambedue i
populi; questi nemici furono sbaragliati, messi in fuga e privati dei loro
accampamenti; dodicimila furono i soldati uccisi. Il giorno seguente il
console, raccolte tutte le loro armi, ne fece fare un cumulo e le bruciò in onore
di Vulcano; infine ricondusse l’esercito vittorioso a svernare nelle città
sarde alleate. La Sardinia nella narrazione liviana appare, nel 178-176 a.C.,
divisa tra una provincia pacata, ed una regione attraversata dalla
ribellione dei populi indigeni. Il territorio della provincia pacata può essere
definito sulla base degli eventi del 178 a.C., allorquando gli Ilienses,
adiunctis Balarorum auxiliis, invasero il territorio provinciale pacificato.
Infatti, essendo documentata epigraficamente la localizzazione dei Balari e
degli Ilienses, rispettivamente nel nord est (Gallura) e nell’area centro
occidentale (Marghine) dell’isola, possiamo pensare che l’invasione delle
zone pacate avvenisse da nord, varcato il margo naturale costituito dalla
catena montana del Marghine, verso sud, dunque nell’alto Oristanese nei
Campidani. L’azione bellica degli Ilienses si tradusse in una occupazione degli
agri, evidentemente la piana campidanese, che minacciò le stesse urbes, cui
quegli agri competevano. La controffensiva dell’esercito romano, guidato dal
pretore Tito Ebuzio, non ebbe efficacia a causa di una pestilentia che colpì
gran parte delle forze armate. Tale dato è prezioso da un lato per una
datazione meno generica dell’invasione della provincia pacata nel 178 a.C.,
dall’altro per una approssimativa localizzazione delle azioni belliche. Infatti
gli agri deplorati da parte dell 'urbes devono senz’altro intendersi come campi
al tempo del raccolto, dunque tra la fine della primavera e il principio
dell’estate 178. Il tentativo di ristabilire l’ordine da parte del pretore
Ebuzio, poi, fallì a causa del diffondersi della pestilentia, certamente la
malaria, il cui acme cade proprio al principio della stagione estiva. I focolai
principali della malaria sono, d’altro canto, localizzati nell’Oristanese, i
cui fertili agri possedevano appunto lo svantaggio della contiguità con le zone
umide dell’entroterra del golfo di Oristano, sedi privilegiate del plasmodio
della malaria. In conseguenza della nostra ricostruzione degli eventi dovremmo
identificare con le città dell’Oristanese (in particolare harros, Othoca e
Neapolis, ma forse anche Cornus) le urbes che inviarono una legatio al Senato
implorando aiuti militari. Questi vennero concessi l’anno successivo sotto il
comando del console Tiberio Sempronio Gracco. Gracco portò l’esercito,
costituito da due legioni di 5 mila fanti e 300 cavalieri, in agrum Sardorum
Iliensium, da intendere forse «nell’agro dei Sardi Iliensi», con allusione.
Come si è detto, alle conquiste territoriali dell’anno precedente compiute
dagli Iliensi (e Balari) a danno dei Sardi delle piane campidanesi e per
distinguere comunque gli Ilienses della Sardinia dai più celebri Ilienses di
Troia.
L'etnografia antica della Sardegna
La
complessa etnografia della Sardegna secondo le fonti classiche presuppone,
aldilà degli etnonimi una pluralità di populi, sostanzialmente privi di
organizzazione urbana e strutturati in civitates attestate da Livio nella
narrazione del bellum sardum del 215 a.C. e dall’epigrafia sarda a partire
dall’età tiberiana.
Questi populi sono da ricondurre, presumibilmente, sotto la generica denominazione
di Sardi / Sardonioi, che appare già nell’aggettivo omerico Sardonios del libro
XX dell’Odissea, successivamente in Erodoto e nelle numerose fonti letterarie
greche e latine. In generale tenderei ad escludere che nei testi letterari
l’etnonimo Sardonios possa riferirsi ai Phoinikes o, successivamente, ai
Karchedonioi in Sardegna. Indubbiamente Cartagine costituì una epikrateia
nell’isola di Sardegna, al contrario della originaria eparchia punica in
Sicilia, ma come in quella, teste Diodoro, nel trattato punico-siracusano del
405/4 a.C., si distinguevano gli apoikoi (fenici) originari, gli
Elìmi e i Sikanòi, così nell’epikrateia cartaginese di Sardegna dovettero
aversi i
Karchedonioi,
gli apoikoi Phoinikes, i Libyes deportati e i Sardi indigeni, divisi in vari
ethne.
Vorrei
sottolineare con Giovanni Colonna la possibilità che i Sardi siano potuti
divenire, in determinati momenti storici, un soggetto politico benché escludo
un rapporto fra i Sardonioie i celeberrimi Serdaioi del trattato con
Sibari di Olimpia, mentre, con Mario Torelli, riconosco in essi una tribù
indigena sulla costa tirrenica della Calabria, garantita dalla subcolonia Poseidonia.
Da un lato si deve notare l’organizzazione militare di questi Sardonioi/Sardi,
con le attestazioni delle corazze, degli scudi e della piccola spada
(Strabone), dei castra, dei signa militari etc. D’altro canto il ruolo di
mercenari dai Sardi nell’esercito Cartaginese, attestato in Sicilia sin dal 480
a.C. ad Imera, non può essere ricondotto alle coscrizioni di leva di
cartaginesi di stanza nell’isola, ma considerato secondo l’ipotesi di G.
Colonna nel quadro del mercenariato in area alto tirrenica e ligure che
abbraccia Sardi, Corsi, Elysici, Sordoni. Inoltre è da sottolineare la
fecondità della proposta di Momigliano nell’attribuzione a mercenari sardi in
Sicilia della emissione monetale in argento e bronzo con testa femminile a d.
con legenda Sardo sul D/ e grappolo d’uva al R/ di cui
si
conosce un esemplare di sicura provenienza da contrada Mòscala (Carini-P A), ed
un nuovo esemplare es. riconiato su una moneta punico-siceliota con cavallo in
corsa. Infine deve rileggersi con Giovanni Brizzi ed Attilio
Mastino il quadro politico-amministrativo delineato da Livio nella descrizione
dei principes delle civitates sarde in occasione del bellum del 215 a.C. In
tale occasione è chiaramente distinta una urbs, Cornus, dalle civitates con i
rispettivi principes autori di una legatio a Cartagine per ottenere dal Senato
cartaginese l’intervento militare anti romano in alleanza con i Sardi. Ora il
testo liviano da un lato dichiara che Hampsicora, il capo della rivolta, che
auctoritate atque opibus longe primus erat, ossia il primus dei principes
per auctoritas e ricchezze, dall’altro riferisce che l’urbs Cornus fu il
rifugio del dux del primo proelium, Hostus, figlio adulescens di Hampsicora che
aveva concesso il comando dei castra.
Finalmente
Livio richiama la deditio ai Romani delle aliae civitates quae ad Hampsicoram
Poenosque defecerant.
Si evidenzia dunque una organizzazione di civitates sardae, rette da principes,
che avevano stretto un’alleanza con il princeps Hampsicora, che era dotato
della urbs sarda di Cornus, alleati le une e l’altra con i Poeni. Nel senso
dell’alleanza fra Cartaginesi e indigeni, nel 216-215 a.C., oltre al passo
liviano e ai dati di Eutropio e di Silio Italico, dobbiamo citare, con Ettore
Pais, un inciso straboniano:
λέγεται
γὰρ Ἰόλαος ἄγων τῶν παίδων τινὰς τοῦ Ἡρακλέ ους ἐλθεῖν δεῦρο καὶ συνοικῆσαι
τοῖς
τὴν νῆσον ἔχουσι βαρβάροις: Τυρρηνοὶ δ
̓ ἦσαν: ὕστερον δὲ Φοίνικες ἐπεκράτησαν οἱ ἐκ
Καρχηδόνος, καὶ μετὰ τούτων Ῥωμαίοις ἐπολέμουν: καταλυθέντων δὲ ἐκείνων πάνθ
̓ ὑπὸ Ῥωμαίοις ὑπῆρξε.
Si
dice infatti che Iolao, conducendo alcuni dei figli di Herakles, venne qui e
che essi abitarono insieme ai barbari che occupavano l’isola: costoro erano
Tirreni, ma poi il dominio passò ai Fenici provenienti da Cartagine; e questi
Fenici μετὰ τούτων (ossia insieme con gli Ίολαεĩς e i Τυρρηνοὶ) combatterono
contro i Romani. Sconfitti, tutto passò sotto il dominio romano, fatto che
l’urbs Cornus nel declinante III sec. a.C. non fosse retta da una
amministrazione sufetale di tipo punico, come Karales ancora nella II metà del
I sec. a.C., o come Bitia nel periodo di Marco Aurelio, bensì da un princeps
sardo, che delegava all’occorrenza il comando militare al filius e non al
princeps più anziano, è una spia probabile della raggiunta organizzazione
urbana da parte dei Sardi dell’area di Cornus, certo attraverso una secolare
acculturazione punica promanante da Bosa e da Tharros.
La cultura dei Sardi del I Millennio a. C.: un esempio di ENTANGLED
OBJECTS AND HYBRID PRACTICES
L’evoluzione
possibile della cultura delle comunità indigene della Sardegna dalla prima età
del Ferro fino alla possibile ed eccezionale acquisizione della forma urbana,
in periodo punico, ci porta a riflettere sui modelli da applicare ai dati
culturali di contesti distinti dagli ambiti urbani fenici e cartaginesi e dei
territori di pertinenza connessi alla diretta colonizzazione punica,
benché in essi sia possibile cogliere tratti culturali Sardi. Attualmente il
modello riferito alla cultura sarda della Prima età del Ferro e delle età
successive è quello degli Entangled Objects and Hybrid Practices, secondo la
brillante definizione di uno studio di Carlo Tronchetti e Peter Van Dommelen
applicato al complesso sacro-funerario di Monte Prama (Cabras).
Tale
modello riconosce nell’ibridismo culturale la chiave interpretativa per
cogliere le evidenze documentali dei Sardi del primo millennio a.C.
L’ibridismo culturale è indotto in primis dalla presenza dei
Phoinikes (e forse, minoritariamente, degli Eubei e dei Ciprioti)
che si attestano nell’isola sin dall’VIII secolo a.C. in forme sia “coloniali”
fenicie (è il caso di Sulci), sia di altro tipo e presumibilmente emporiche sul
modello di Sant’Imbenia in centri caratterizzati in età successiva da poleonimi
derivati da radici paleosarde: è il caso di Karales, Nora, Bithia, Othoca,
Tharros, in cui la componente sarda sembra sopravvivere probabilmente in forme
egemoniche rispetto ai fenici, strutturati all’interno del territorio dei
Sardi, almeno fino allo scorcio del VII secolo a.C. L’ibridismo indotto dai
Phoinikes (e dalle altre componenti citate), discende tuttavia dall’apertura
dei Sardi sin dal Bronzo Recente e soprattutto nel Bronzo Finale ai
protagonisti egei e levantini dello scambio mediterraneo. Ciò che ci consegna
la documentazione archeologica, a partire dalla Prima età del Ferro, è una
nuova organizzazione del territorio, che dismesso il nuraghe, quale principale
centro ordinatore e polifunzionale delle comunità stanziate in un determinato
ambito geografico (c.d. “cantone”), si basa sul santuario dotato di “ruolo
politico–istituzionale”. Giovanni Colonna nel 2002 ha notato come
l'osservazione del costume dei Barbari sardi di riunirsi in determinati luoghi
per svolgervi delle feste prolungate più giorni dopo le razzie, contenuta nel
passo di Strabone relativo ai modi di conduzione delle campagne militari romane
a danno dei Sardi, costituisce “un’informazione preziosa sull’esistenza e sul
ruolo politico-istituzionale dei santuari federali dei Sardi”. Vorrei aggiungere
che il dato, come avevano già visto Antonio Taramelli e Giovanni Lilliu,
documenta la persistenza dei luoghi ove i Sardi ̟ανηγυρίζουσι γ ὰρ ἐὶ ̟λείους
ἡμέρας fino ad età romana repubblicana. Lasciando da parte la vexata quaestio
della cronologia dei primi santuari incentrati su templi a pozzo, non c’è
dubbio che la frequenza di tali santuari, con la deposizione di doni preziosi
(in particolare i bronzi) si attardi non solo per tutta la prima età del Ferro,
ma anche nelle età orientalizzante e arcaica, per proseguire in diversi casi,
certo in forme differenziate, in età
classica
ed ellenistica. L’esempio classico di Santa Vittoria di Serri ne è una
dimostrazione, ma anche Santa Cristina di Paulilatino, così come Santu Antine
di Genoni, Serra Niedda di Sorso, San Salvatore di Gonnosnò etc. Si vuole
osservare comunque che i tempietti a megaron dell’area centro orientale della
Sardegna e le rotonde, ben più diffuse nell’isola, e rigidamente caratterizzate
dall’isodomia sembrano essere riportabili alla prima età del Ferro, imponendo
così la ricerca di modelli cronologicamente coerenti. In questa sede si vuole
limitare l’analisi dell’ibridismo culturale essenzialmente alla tematica
dell’apporto di marchi nelle produzioni sarde della prima età del Ferro da parte
di Ciprioti e di Fenici. La continuità di relazioni fra Cipro e la Sardegna dal
TC III al CG I-III al Cipro Arcaico costituisce un elemento su cui soffermare
la nostra attenzione. La costituzione di una colonia tiria, forse
denominata QRTHDSHT a Kition, sulla costa centro meridionale di Cipro, almeno
dalla seconda metà del IX secolo a.C., offre un quadro storico in cui Tiri e
Ciprioti (non solo di Kition) possano avere compartecipato all’attività di
scambio con le comunità indigene dell’Occidente. La Sardegna dell’VIII secolo
a.C. partecipa a questo quadro insieme all’Andalusia mediterranea ed atlantica
ed al Marocco atlantico. I materiali ceramici ciprioti individuati a Mogador,
dirimpetto a Essaouira, nel Marocco atlantico, i bronzi Ciprioti di Lixus e della
limitrofa necropoli indigena di Raqqada, le ceramiche cipriote di Huelva
(insieme ai materiali tirii, sardi, ateniesi del MG II, euboici), così come
quelle di Malaga (La Rebanadilla, un contesto caratterizzato dai medesimi
materiali di Huelva) giustificano i documenti ciprioti individuati in contesti
misti di varie località della Sardegna. La recentissima edizione da parte di
Anna Depalmas, nell’ambito del terzo ripostiglio di bronzi di Sant’Imbenia, di
un’ascia a margini rialzati in bronzo, caratterizzata da un appiattimento della
parte superiore della lama, elemento che suggerisce l’inquadramento nella fase
2 del Ferro I, ci rivela, per la prima volta con certezza, l’utilizzo di un
sillabogramma del cipriota sillabico come contrassegno, inciso a bulino sulla
parte iniziale del tallone dell’ascia sarda. In questo contrassegno può
agevolmente riconoscersi il sillabogramma wo del sillabario cipriota comune,
attestato ad esempio a Idalion e a Amatunte, ovvero il sillabogramma ti se il
tratto ricurvo a sinistra della base dell’asta verticale del segno non fosse
volontario. Avremmo così un Entangled Object esemplare di questa cultura sarda
della I età del Ferro (ma anche delle epoche successive): la più tipica e
diffusa ascia delle fasi 1-2 del I Ferro con un contrassegno tratto dal
sillabario cipriota. D’altro canto un torciere fenicio cipriota eneo, del Cipro
Geometrico III o del Cipro Arcaico I (circa 700 a.C.), da San Vero Milis, ora
considerato di produzione sarda, reca inciso su una voluta il sillabogramma u
del sillabario cipriota pafio (sud occidentale). Alla Prima età del Ferro
si assegnano tre asce nuragiche a tagli ortogonali miniaturistiche in bronzo
dell’Antiquarium Arborense di Oristano, una delle quali reca inciso un segno a
croce, la seconda un segno a X, la terza un segno a stella a sei raggi su un
lato ed un segno costituito da un’asta verticale dalla quale si dipartono, ad
angolo acuto, due sbarrette oblique a sinistra. Per il segno a stella non
sembrerebbe possibile, anche per la cronologia, invocarsi il confronto con
l’analogo grafema rappresentante il nesso ps in alcuni alfabeti greci del
gruppo occidentale, ad esempio nella colonia achea di Posidonia, in Arcadia e
nella Locride
Ozolia.
Per il segno ad asta verticale con due barrette divergenti potremmo richiamarci
al kaf fenicio attestato ad es. alla l. VI della stele di Nora, ma già
nell’ultimo terzo del IX sec. a.C. a Kilamuwa (Zincirli) e successivamente a
Panamuwa e a Bar Rakab (Zincirli) nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. È da
questo tipo di kaf fenicio che si passa al kappa degli alfabeti greci arcaici,
ad esempio nell’iscrizione dell’Apollo di Mantiklos, forse da Tebe, della fine
dell’VIII sec. a.C. A raccomandare un’altra possibile soluzione sta il valore
dei due segni nel sillabario cipriota: infatti il segno a stella a sei raggi
vale a, mentre l’altro segno corrisponde al sillabogramnma nu.
Infine
deve citarsi uno spillone a capocchia modanata, di un tipo ben noto nella
tradizione bronzistica sarda tra IX e VIII sec. a.C. proveniente da Antas
(Fluminimaggiore), la sede del culto di Babai-Sid-Sardus Pater, caratterizzato
dalla presenza di quattro segni incisi sul fusto che, con una lettura
sinistrorsa, sono stati identificati come fenici ma che in questa fase delle
indagini non può escludersi che siano interpretabili, invece, come
sillabogrammi ciprioti: avremmo, infatti, con andamento destrorso, ti (segno
separativo verticale) sa-ti. La sequenza dei segni richiama lo schema
dell’iscrizione sull’obelòs 17 della tomba 49 della necropoli di
Palaepaphos-Skales del Cipro Geometrico I, interpretata come formula votiva
abbreviata: ti (segno separativo verticale) ti benché non possa invocarsi
esattamente lo schema 1+1.
Naturalmente,
a partire dall’VIII secolo a.C., sono ben più numerosi i possibili segni
alfabetici fenici in produzioni sarde. I Fenici di Tiro avevano proceduto, con
certezza, alla precoce diffusione dell’alfabeto fenicio in Sardegna, nel quadro
delle relazioni di carattere di scambio con le popolazioni indigene della Sardegna.
Un riflesso di questi rapporti potrebbe cogliersi nei marchi, derivati
probabilmente dall’alfabeto fenicio, ma forse anche da quello euboico, su
ceramica e su lingotti in piombo e rame, che riflettono l’utilizzo di singoli
segni alfabetici fenici ovvero di sequenze di segni su ceramica e su metallo.
Notevole interesse acquisisce in questo quadro sia
un sigillo-scaraboide fittile locale da
Sant’Imbenia-Alghero, con una sequenza di segni interpretati da Rubens D’Oriano
come lettere alfabetiche fraintese, sia tre frammenti di anfore Sant’Imbenia,
con graffiti fenici, derivati i primi due da Cartagine, l’ultimo da Huelva. I
frammenti di Cartagine appartengono a due diverse anfore della Subklasse
Nuraghisch I, riportata fra la II metà dell’VIII sec. a.C. e la metà del VII
sec. a.C. Lo studio dei graffiti di Wolfgang Roellig non arriva alla
definizione dei segni che appaiono comunque alfabetici. Il frammento di anfora
Sant’Imbenia rinvenuto ad Huelva, in Andalusia, in un contesto del primo
quarantennio di VIII sec. a.C., reca il graffito frammentario inciso prima
della cottura:
lb[---].
Se il lamed, al di là di una incertezza grafica, non pone problemi di
paleografia, il beth è considerato di tipo unico e confrontato con un ostrakon
di Izbet Sarta (Israele) dell’XI secolo, ma appare più verosimile attribuire la
peculiarità del beth e l’incertezza nel tracciamento del lamed alla mano di uno
scriba non aduso a tracciare i caratteri alfabetici.
Fonte: http://ojs.unica.it/index.php/layers/article/view/2587/2206
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