venerdì 24 febbraio 2017
Sardi, Dea Madre, Mont’e Prama, tophet. Riflessioni di Mariano Piras.
Sardi, Dea Madre, Mont’e Prama, tophet. Riflessioni di
Mariano Piras.
Questo articolo integra il precedente pubblicato su Honebu il 16 Gennaio 2017 intitolato “Culto e misteri dei bronzetti sardi”,
del quale è consigliata la lettura prima di questo nuovo per comprenderlo
appieno. (nota di Mariano Piras)
La civiltà che abitò
anticamente la Sardegna, che convenzionalmente chiamiamo Civiltà Nuragica
perché costruì gli oltre 8000 nuraghi sparsi in tutta l’Isola, aveva un
profondo senso di comunione con la Natura. Dai riti celebrativi stagionali, al
culto dei morti sino ad arrivare alle iniziazioni, tutto era legato ai cicli
naturali. La vita è un’iniziazione: si nasce piccoli e si gioca ad imitare ciò
che fanno i grandi. I cuccioli dei cani corrono dietro alle lucertole per
prepararsi ad affrontare ciò che da grandi li porterà alla ricerca del cibo: la
caccia. Come quella animale, l’esistenza umana è costellata da prove e
preparazioni per il superamento.
Come ho già scritto
nell’articolo “Culto e misteri dei bronzetti sardi”, i nuragici praticavano il
culto della Dea Madre e di una serie di divinità secondarie rappresentate nel
cielo dalle costellazioni. Queste, insieme alle
leggende a loro attribuite,
costituivano il Pantheon nuragico, come avveniva presso altri popoli. Le
Sacerdotesse ottenevano il loro incarico in seguito alle iniziazioni ai misteri
e al superamento delle prove. Con ciò i nuragici dimostravano una profonda
conoscenza dei meccanismi della Natura e dei movimenti psicologici e spirituali
dell’essere umano.
Le divinità del Pantheon
nuragico e i personaggi rappresentati nei bronzetti, che imitano con la loro
postura le costellazioni, sono generalmente armati, quindi viene da chiedersi
se questi nostri progenitori furono un popolo profondamente religioso o,
piuttosto, dei guerrieri. La risposta è ambedue.
Anche i Greci adoravano
divinità armate e a loro innalzarono maestosi templi. Le stesse divinità furono
poi prese dai Romani. Erano raffigurate nelle costellazioni, e non dobbiamo
sorprenderci che fossero guerrieri perché guerrieri furono i Greci, lo furono i
Romani e lo furono, ancor prima, i Nuragici.
Anticamente, quando i popoli
che si affacciavano sul Mediterraneo, adoravano la Dea Madre, gli uomini erano
dediti alla caccia e non alla guerra. Le società erano a carattere matriarcale,
Dio era femmina, era la Natura che dava la vita.
In seguito, con la scoperta
di agricoltura e allevamento, gli uomini sentirono la necessità di possedere
terre e di commerciare i prodotti, e iniziarono i conflitti armati. Ogni popolo
organizzò un esercito per assicurarsi la sopravvivenza. Non c’era più bisogno
di adorare una divinità femminile che dispensava le risorse per la
sopravvivenza. Si poteva ottenere combattendo. Dio diventò maschio e guidò i
guerrieri in battaglia.
In un primo tempo la
Sardegna, forse a causa del suo isolamento, si mantenne lontana da questi
avvenimenti. Tuttavia i nuragici, almeno quelli che risiedevano vicino alle
coste, navigavano per tutto il Mediterraneo commerciando rame e altri prodotti,
e importandone altri. Per prevenire un’eventuale invasione della loro terra si
organizzarono costruendo i nuraghi a corridoio, ossia costruzioni ipogeiche
nelle quali nascondere vecchi, donne e bambini in caso di invasione. I vecchi
erano utili alle comunità per la loro capacità di mantenere vivi i ricordi del
passato, quindi non credo alla pratica dell’uccisione dei padri citata da
alcuni autori. D’accordo con Carta Raspi, ritengo che l’evoluzione di questi
edifici fu il nuraghe monotorre e, in seguito, i grandi complessi polilobati.
La funzione era sempre quella di fortezze passive nella quali nascondere chi
non poteva combattere, protetti dai grandi muri e da una serie di strutture
atte a rendere inefficace l’eventuale utilizzo degli arieti. I nuraghi a
tancato, cioè a due torri, venivano costruiti con le due entrate alle torri una
di fronte all’altra. In questo modo si risolveva il problema del punto debole
dei nuraghi: la porta d’ingresso. Il tutto veniva protetto da un muro di
recinzione, l’antemurale. Anche la conformazione del terreno su cui venivano
costruiti i nuraghi aveva lo scopo di renderli inaccessibili al nemico, essendo
costruiti sulla sommità di colline. Dove questo non avveniva, cioè nelle piane,
i nuraghi venivano protetti da grandi mura di contenimento e sicuramente anche
da trincee di legno dove venivano lasciati stretti passaggi. Sicuramente
insieme alle persone inermi rimaneva qualche arciere che, utilizzando la scala
ricavata internamente al muro, si recava sulla sommità del nuraghe, e tirava le
sue frecce e rovesciava eventuali scale di legno posizionate dal nemico.
Fino all’epoca dell’invasione
romana, i nuraghi non furono utilizzati per scopi difensivi e il loro utilizzo
fu quello di mostrare ai commercianti che sbarcavano sulle coste della
Sardegna, e che sicuramente riferivano ai loro sovrani, un’isola perfettamente
fortificata e inespugnabile. Il resto lo faceva la visione dei guerrieri
nuragici, armati sino ai denti e dotati di una forza e di un’agilità
selvatiche.
Sulla sommità dei nuraghi non
c’erano ballatoi, questo pensiero errato deriva dalla nostra visione dei castelli
medioevali e dal fatto che negli scavi a Monte Prama sono stati trovati degli
oggetti a forma di torre con ballatoio. Se i nuraghi avessero avuto i ballatoi
e in seguito fossero crollati, si sarebbero trovate tutta una serie di pietre
diverse da quelle che costituivano il muro della torre, sia intorno al nuraghe
sia sulla cima.
Non credo neanche a un
ballatoio di legno realizzato con tronchi sui quali erano inchiodate tavole di
pavimentazione perché non se ne vedono gli incastri.
In seguito vedremo che cosa
erano quelle rappresentazioni di torri ritrovate a Monte Prama.
Nei nuraghi si trovavano
conserve di tutti i tipi, utili in caso di assedio e i nuragici divennero abili
e rinomati produttori di conserve salate. Rifiutando qualsiasi concetto di sottomissione
a una sovranità o organizzazione di tipo militare, questi spiriti liberi
orientarono alla caccia il loro addestramento alla guerra. Combattevano corpo a
corpo con cinghiali e cervi, dopo averli stanati con i cani e diretti in
percorsi obbligati. Come vedremo più avanti, questa caccia era scritta nel
cielo. Nacque in questo tempo la figura del sacerdote.
Le sacerdotesse, le guide
spirituali di quel popolo, conservatrici e dotate di immensi poteri, erano
contrarie a ogni forma di progresso materiale. Non vedevano di buon occhio la
navigazione, ne l’utilizzo dei segni di scrittura che i nuragici avrebbero
voluto adottare come strumenti necessari al commercio.
Rudolf Steiner (1861-1925)
nella sua opera “Cronache dell’Akasha”, descrive le varie evoluzioni dell’uomo
dividendole in razze. In realtà si tratta di “stadi evolutivi dell’uomo”,
niente a che fare con le razze umane come le intende qualcuno.
Riferendosi agli atlantici,
ne descrive il loro modo di operare, molto diverso dal nostro, per il quale era
fondamentale la memorizzazione delle esperienze. Dai greci e dai romani, per
fare un calcolo o realizzare una costruzione abbiamo bisogno di una serie di
regole che impariamo studiando. Gli atlantici, ossia uno stadio dell’umanità di
migliaia di anni fa, visualizzavano il progetto e lo realizzavano in modo
istintivo, prendendolo dalla memoria delle esperienze passate. Il concetto è
difficile da spiegare con parole scritte e lo è ancora di più la sua
comprensione. Per quanto riguarda Atlantide, non ritengo che la Sardegna fosse
questo luogo mitico, un territorio che forse non è mai esistito. Ritengo si
tratti della storia di una popolazione che divulgò al mondo le sue conoscenze
tecnologiche e spirituali. Per i motivi che spiegherò in avanti, ritengo che i
superstiti di questa popolazione furono coloro che abitarono la Sardegna.
Nella seconda metà del II
millennio a.C. una flotta di nuragici lasciò la Sardegna per non ritornarvi. Un
motivo ben preciso li sospinse a quell’azione. Per questi marinai guerrieri, la
divinità maschile era Sardan, secondario alla Dea madre, ma importante perché
li guidava nelle imprese. Con loro s’imbarcarono i sacerdoti. Le loro navi
erano dotate di sistemi di velatura che consentivano di procedere anche
parzialmente contro vento, con imbrogli particolari alla base dell’albero che
rendevano a tre lati la vela quadra.
Durante quelle missioni
incontrarono la coalizione già formata dei popoli del mare, vi si allearono e
in poco tempo, date le loro conoscenze e la loro potenza militare, ne divennero
i capi.
La civiltà minoica, già
colpita da catastrofi naturali, era già scomparsa dalle cronache, e questi
nuovi popoli del mare attaccarono a più riprese l’Egitto. Probabilmente erano
in numero minore di quanto riferisce il Faraone Ramses II, ma la loro potenza
militare era inarrestabile grazie alla tecnologia delle loro navi e alla loro
audacia, alla loro agilità e al loro orgoglio. Ramses II nel descriverli
scrisse di “guerrieri SHRDN dal cuore ribelle che nessuno riuscì a contrastare”.
Con questo voleva sicuramente
dire che i Shardana non piegavano la testa davanti a niente, non accettavano
rese o compromessi, e combattevano sino ad arrivare alla vittoria o alla morte.
Contrariamente a quanto ci riferisce il faraone, la guerra la vinsero. La
grande agilità dei Shardana era dovuta al fatto che nella loro terra
combattevano contro gli animali, in paesaggi ancora oggi scoscesi come da
nessun’altra parte. In Sicilia, per esempio, nella maggior parte del territorio
nel raggio di un chilometro vi è una sola collina, estesa.
Quanto alle loro navi,
dovevano essere quelle che Omero descrisse parlando dei Feaci: sono dotate di
vela moderna e viaggiano con il pensiero, non hanno bisogno di timoniere.
Parlava della vela triangolare, quella che non ha bisogno di manovratori alle
vele (confusi col timoniere dalla traduzione) per le andature strette al vento.
Con la vela triangolare si può risalire il vento con andature di bolina e poi
virare col vento al bordo opposto, passando con l’abbrivio della nave sulla
direzione in cui spira il vento, dando l’impressione a chi conosceva solo la
vela quadra, che quelle navi non fossero spinte dal vento ma dal pensiero. La
storia dei Sardi non ha nessun bisogno di essere colorata con storie di vele
fantastiche che fanno virare la nave senza timone, che non sono mai esistite,
ne di improbabili bussole che sfidano le leggi della praticità, del magnetismo,
della gravità e non ultimo di quelle del vento. Ancor meno di complessi calcoli
astronomici che in quei tempi nessuno faceva.
In seguito alle imprese in
Egitto i Shardana si stanziarono sulle sponde delle terre di Canaan, venendo a
contatto con i Fenici, antiche genti che secondo gli studi vivevano fra la
Siria e l’Egitto e, a mio parere, si miscelarono con gruppi di Shardana. In
quel tempo i Fenici stavano evolvendo il loro alfabeto proto cananeo. Giuseppe
Sermonti, Biologo, nel suo libro “L’alfabeto scende dalle stelle” (Mimesi
2009), scopre che la scrittura deriva dai disegni delle costellazioni fin dai
dipinti del paleolitico, e aggiunge che anche l’alfabeto fenicio ha la stessa
origine.
Quando gli Shardana compaiono
nelle terre di Canaan, l’alfabeto protocananeo si trasforma in alfabeto
fenicio. Ritengo che i sacerdoti Shardana fossero i maestri delle costellazioni.
Differentemente da ciò che avveniva in Sardegna, in quelle terre non vi erano
ostacoli da parte delle sacerdotesse e poterono dar vita a ciò che avrebbero
voluto dar vita in Sardegna: la scrittura.
Molte lettere dell’alfabeto
protocananeo sono il pittogramma esplicito di costellazioni. La prima lettera è
una testa di toro. Chi modificò questo alfabeto lo fece per occultare il fatto
che i pittogrammi erano costellazioni, per cui la prima lettera divenne una “A”
rovesciata, (la costellazione del Toro senza le corna e attraversata da una
sbarra). E così fu per tutte le altre lettere.
Quindi la prima lettera
dell’alfabeto fenicio, è una “A” rovesciata verso sinistra di 90°, la
costellazione del Toro dove in quel tempo avveniva l’equinozio di primavera, la
rinascita della Natura. L’ultima lettera è una X, la costellazione della
Bilancia, dove in quel tempo avveniva l’equinozio di autunno, la Natura andava
in letargo. Unendo la prima lettera dell’alfabeto fenicio “A” con l’ultima
dell’alfabeto protocananeo “O” si forma il simbolo di Tanit, il principio e la
fine delle cose. Infatti, i greci come ultima lettera del loro alfabeto,
successivo a quello fenicio, hanno la omega che è anche il simbolo della
costellazione della Bilancia.
Con questo propongo che
quella chiamiamo scrittura fenicia sia chiamata scrittura dei Shardana, un
alfabeto che rimase in uso esclusivo ai sacerdoti. I Shardana si dettero al
commercio e la loro cultura, insieme alla religione, si mischiò a quella dei
fenici. La Dea Madre divenne Tanit, mentre Sardan orientalizzato in Sandan
rimase tale ma i sacerdoti lo scrivevano Baal. In quelle terre oltre al
commercio i Shardana impararono anche la pesca del tonno. In seguito si
spostarono anche in Anatolia. Nelle loro leggende si parlava di una terra, un’isola,
dalla quale tutti loro provenivano e decisero di ritornarvi, forse perché nel
Mediterraneo orientale le cose si stavano mettendo male. Tra il IX e l’VIII secolo a.C. sbarcarono in
Sardegna e fondarono le città stato che tutti conosciamo. Le popolazioni
nuragiche videro nei nuovi arrivati i personaggi descritti nelle loro leggende,
partiti alcuni secoli prima. Parlavano la stessa lingua, pur se leggermente
modificata dal tempo.
Sicuramente ci saranno stati
dei contrasti, ma alla fine le città stato furono accettate dai nuragici.
La cultura portata dai
Shardana dall’oriente, compresa la scrittura, ha fatto pensare che le città
stato fossero state costruite dai fenici. I sacerdoti utilizzavano l’alfabeto
fenicio una scrittura da loro elaborata e che poi si chiamò scrittura fenicia.
Sicuramente, durante i loro riti, i sacerdoti anche in Sardegna usavano il
fenicio parlato, non compreso dal popolo, un po’ come i nostri sacerdoti usano
il latino nelle cerimonie liturgiche. Tutto ciò che si trova scritto in
Sardegna riguarda Baal, perché così lo scrivevano, ma ciò che si è tramandato
oralmente, compresi i toponimi, riguarda Sardan o Sandan. Il popolo non sapeva
che in quelle incisioni vi era scritto Baal.
Giganti di Mont’e Prama
Come già le sacerdotesse,
anche i sacerdoti Sardi si sottoponevano a riti di iniziazione. La loro cultura
in oriente subì un drastico cambiamento. Innanzitutto erano cittadini e
costruttori di città. Anche se i loro rituali celebravano ancora i cicli
naturali, il legame alla natura e ai suoi cicli si era affievolito. Nell’isola
si esaltavano la forza e l’eroismo. Chi moriva in battaglia, o mostrava sul suo
corpo le ferite di guerra, era considerato eroe. Per questi, l’approccio ai
misteri non avveniva più con le prove rituali e la rivelazione del grano ma con
un atto di estremo coraggio e forza che trovava il suo campo di battaglia in
una battuta di caccia sacra. Combattevano corpo a corpo con i grandi animali:
tori, cervi, cinghiali e mufloni. Questa pratica era anche un addestramento
alla guerra e la sua descrizione era rappresentata in cielo da alcune
costellazioni. Nell’affrontare questa battuta i candidati partecipavano con
poche protezioni, non avevano neanche gli schinieri alle gambe. Anche presso i
Celti si adottava questa pratica venatoria per raggiungere il sacerdozio.
1) Costellazione del Cane
Maggiore (foto1-1.1-1.2). Non diversa da come la vediamo oggi rappresentava i
cani impegnati nella battuta.
2) Costellazione del Cane
Minore . Nella costellazione del cane minore non si vede e non si vedeva nessun
cane ma un cinghiale con tanto di zanne (foto 2- 2.1-2.2). La stella principale
di questa costellazione è Procione = (che viene prima del cane) e in una
battuta di caccia davanti all’abbaiare dei cani vi è il cinghiale.
3) Costellazione di Auriga.
Neanche una persona dotata di grande fantasia riesce a vedere Auriga in questa
costellazione. La sua stella principale si chiama Capra, ma non perché Auriga
porta una capra sulle spalle ma perché tutta la costellazione è una capra,
esattamente come il bronzetto (foto 3- 3.1 3.2)
4) Toro e Cervo già li
conosciamo.
In cielo non mancavano
neanche i cacciatori impegnati nella battuta.
5) Costellazione di Orione
(foto 4). Armato di spada e scudo, sappiamo che i greci, curiosamente, lo
chiamavano grande cacciatore o gigante cacciatore. Inoltre i greci lo vedevano
con gonnellino corto, spada e scudo in mano e alla cintura il fodero della
spada, ma la costellazione completa mostra il bronzetto arciere (foto 4- 4.1-
4.2 -4.3) con cintura con borchie e lunga gonna con borchie aperta dietro, come
si vede dalla costellazione dove la gamba destra è fuori. Le borchie erano le
stelle. Come sapevano anche i greci, altra rappresentazione di questa
costellazione era un personaggio con scudo e spada che aveva il compito di
deviare gli animali per imboccare i percorsi obbligati.
6) Costellazione del Perseo .
Anche in questa costellazione è difficile vedere il Perseo dei Greci. Si vede,
invece, il bronzetto chiamato pugilatore con scudo morbido sulla testa (foto 5-
5.1- 5.2). In realtà questo era il vero cacciatore che si lanciava sull’animale
ferito dall’arciere e reso più aggressivo. Con lo scudo morbido, il cui interno
doveva essere in feltro pressato in modo da imbrogliare le zanne del cinghiale,
si lanciava sull’animale tenendolo per il collo e fracassandogli la testa con
il guantone armato. Oggi nessun uomo riuscirebbe a vincere in un simile duello.
Tutti questi personaggi e
animali sono raffigurati nei bronzetti, e ora vediamo come erano disposti in
cielo.
Nelle (foto 6 e 6.1) è
rappresentata nelle stelle la battuta di caccia, quella che divenne per i
sacerdoti Sardi il rituale di iniziazione ai misteri nel quale potevano
mostrare il loro coraggio e la loro forza. Chi moriva in quel frangente era
considerato eroe.
L’abbigliamento sacerdotale
in battuta rivelava ancora una certa appartenenza al culto della Dea, con il
gonnellino che termina sul retro a punta e le trecce, e queste ultime erano già
in uso dalle sacerdotesse che interpretarono la costellazione della
Sacerdotessa Vergine. Quelle cascate di stelle ai due lati del volto della
sacerdotessa furono interpretate come trecce perché i capelli intrecciati
disegnano le spighe di grano, la pianta per eccellenza che simboleggia il
susseguirsi di vita, morte e rinascita.
Penso che nella penisola del
Sinis a quelli che morivano in battuta fu costruita una statua. Naturalmente,
gli arcieri e gli spadaccini erano avvantaggiati nel duello. La maggior parte
dei morti erano quelli che saltavano sull’animale, affrontandolo corpo a corpo
con lo scudo morbido e il guantone. Nei loro corpi vi erano le ferite causate
dalla lotta con l’animale, che pare fossero pitturate di rosso. Nelle statue si
notano nelle gambe i segni delle zanne dei cinghiali. Anche agli eroi morti
veniva riconosciuto il raggiungimento del sacerdozio.
Le statue che li
rappresentano sono più grandi di un uomo perché l’iniziato è considerato
superiore e viene rappresentato come un gigante. Come per tutti gli iniziati ai misteri il
raggiungimento della rivelazione non comportava una metamorfosi del corpo
fisico ma dell’anima, rappresentata nelle statue dalla differenza che vi è tra
il corpo e il viso, lo specchio dell’anima. Gli iniziati diventano
chiaroveggenti e la rappresentazione sta negli occhi a doppio cerchio perché il
chiaroveggente vede con gli occhi del corpo fisico e con quelli dell’anima.
L’iniziato ha un respiro sottile (due taglietti al posto delle narici) e non
rivela i misteri (bocca quasi inesistente).
Le statue degli eroi morti si
trovavano in prossimità delle tombe. Intorno fu creato un paesaggio monumentale
di forte impatto psicologico che rappresentava l’aldilà dei Sardi di quasi
tremila anni fa.
In quel luogo sicuramente vi
era un santuario dove si praticavano riti di ricorrenza e l’incubazione.
Quelli conosciuti come
modelli di nuraghi, sono in realtà le stelle viste sul posto, nell’aldilà,
rappresentate come fari accesi alla sommità.
Tertulliano, secoli dopo,
diceva che i Sardi praticavano l’incubazione presso il tempio di una divinità
maschile. Aristotele affermava che veniva praticata presso gli eroi. Entrambi
parlavano della stessa cosa. Con gli scavi probabilmente si troveranno anche
gli animali. Per ora non sono stati trovati luoghi simili in Sardegna ma credo
che ne esistano altri.
Questo tipo di iniziazione,
basato sulla forza, il coraggio e l’eroismo non trovò il consenso delle
sacerdotesse. Esse ribadirono la regola eterna dell’esoterismo: più ci si
ingrandisce materialmente e fisicamente e più ci si rimpicciolisce
spiritualmente.
I sacerdoti costruirono una
statua nella penisola del Sinis diversa dalle altre. Vi è rappresentato un
iniziato con il telo avvolto al braccio sinistro, come nel rito iniziatico
delle sacerdotesse, dove nascondevano le spighe di grano, mentre la mano destra
è stretta sul petto nell’atto di impugnare i chicchi di grano. Questa statua fu
costruita per attenuare i rancori delle sacerdotesse, ma chi la costruì non
riuscì nel suo intento. Le sacerdotesse non potevano accettare un simile stravolgimento
dei rituali e alcune di esse distrussero le statue. L’unica che salvarono fu
proprio quella che rappresentava il loro antico rituale. Probabilmente furono
perseguitate, e la tomba nuragica in Etruria, a Cavalupo, dove erano sepolte
due donne una di circa 35 anni e l’altra di circa 10, contenente il bronzetto
della sacerdotessa vergine, potrebbe proprio essere la sepoltura di una
sacerdotessa e della sua pupilla, fuggite alla persecuzione e rifugiatesi dai
parenti etruschi. Il fatto che furono sepolte insieme, e quindi morte nello
stesso tempo, significa che la loro fuga non servì a salvarle.
Vorrei sottolineare che nelle
costellazioni che oggi portano i nomi delle divinità greche, non si intravedono
le suddette divinità ma quelle rappresentate nei bronzetti. E’ risaputo che
greci e i romani assorbirono le conoscenze dai popoli con i quali vennero in
contatto, e le fecero passare per loro.
Tophet
Altro rituale importato dai
sacerdoti Sardi al loro ritorno in Sardegna fu quello che si svolgeva nel Tophet,
un luogo di sepoltura periferico alla città, solitamente su un’altura, nel
quale veniva eseguito un rituale funerario che inizialmente riguardava i
bambini morti prima del compimento di un anno di età. Il cerimoniale prevedeva
la richiesta alla Dea Tanit, la Dea Madre, il cui aspetto sinistro era
manifestato dalla Luna, di rinunciare al sangue della creatura morta, e di
accontentarsi di quello di un piccolo animale che nel rituale veniva scambiato
con quello del bambino morto. Il bambino morto si sarebbe reincarnato nel
grembo della stessa madre che lo aveva generato. Le famiglie del defunto, per
un simile rito, offrivano tributi notevoli ai sacerdoti, ma questi non si
accontentavano mai, facendo notare che il rito era pericoloso per loro stessi
perché la Dea poteva prenderlo come un inganno e farli morire. In seguito nei
Tophet si svolse il rito anche per bambini morti più grandi. Bambino e animale
venivano bruciati, e le ceneri conservate in un’urna a forma di pentola con
coperchio, posizionata insieme alle altre secondo un disegno ben preciso. Le
disposizioni delle urne seguivano le conformazioni degli anfratti del terreno,
con serie di urne in riga, che poi si raggruppavano, imitando così i giochi dei
bambini che si rincorrono e si radunano. Questa rappresentazione era intesa a
suscitare nel cuore della Dea Tanit un senso di compassione per fare in modo
che si astenesse dal prelevare vittime innocenti. Per questo motivo il Tophet
era a cielo aperto, sulla sommità di una collina e le urne non venivano sotterrate:
la Luna doveva vederle e commuoversi.
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