Archeologia. La storia della navigazione antica
di Pierluigi Montalbano
Quando l’uomo primitivo decise
di spingersi fuori dal suo habitat, spinto dalla sete di appropriazione e dalla
curiosità, dovette fronteggiare ostacoli, difficoltà e pericoli d’ogni genere. Incontrando
un corso d’acqua profonda, lo specchio d’acqua di un lago o un braccio di mare,
era costretto a fermarsi. L’intelligenza, accompagnata dallo spirito di
osservazione e dalle capacità di adattamento, gli consentirono di affrontare
quegli ostacoli. A volte nell’acqua galleggiavano fortuiti ammassi sradicati di
vegetali e di tronchi d’albero, corpi gonfi di animali morti e altro ancora,
che suggerivano l’idea della galleggiabilità. Inoltre, l’uomo stesso, imitando
gli animali, aveva imparato a mantenersi a galla e a nuotare, prendendo
confidenza con l’acqua. Iniziò allora la grande avventura della nautica, che si
estese con una rete senza confini fino ad abbracciare tutto il pianeta.
La storia della navigazione commerciale è
legata indissolubilmente con il trasporto di ossidiana. Quella sarda è stata
trovata in Provenza, in Liguria, Toscana, qualche traccia nella valle del Po,
ma
ciò che sorprende è la presenza del pregiato materiale sardo in Bosnia,
Dalmazia centrale, Croazia, Trieste, Udine, Faenza, come se la distanza non
costituisse un problema per chi la commerciava. Naturalmente dobbiamo tener
conto del diverso livello medio degli oceani alla fine dell’ultima glaciazione,
fino a 150 metri più basso del livello attuale. Ciò comportò l’emersione di
terre adesso sommerse. Le distanze delle isole dalla terraferma erano brevi,
pertanto abbiamo uno stretto legame con il primo popolamento delle isole
mediterranee. L’acqua è sempre stata un’asse di circolazione privilegiata, e il
desiderio di spostarsi sulla sua superficie deve essere sempre stato al centro
dei pensieri degli uomini, se non altro per pescare o cacciare gli animali
acquatici. Muoversi rapidamente e a lungo nell’acqua deve aver costituito uno
stimolo irrefrenabile nel cercare mezzi alternativi al nuoto, lento e faticoso.
Indagini archeologiche effettuate nel Mar Egeo, hanno consentito di scoprire le
prove dei primi viaggi per mare della storia. I reperti risalirebbero a oltre
diecimila anni fa. I manufatti ritrovati, delle asce in pietra, testimoniano
che le prime navigazioni nel Mediterraneo sono avvenute molto prima di quanto
si credesse. C’è da rilevare che precedentemente gli uomini che si spostarono
dall’Africa nelle altre parti del mondo lo fecero certamente seguendo anche una
via marittima. La storia dell’uomo, infatti, è
segnata da avvenimenti legati all’attraversamento di tratti di mare o di fiumi,
soprattutto per il trasporto di ossidiana, un pregiato vetro di origine
vulcanica originato dal repentino raffreddamento di magmi acidi effusivi.
Era adoperato come materia prima per
la fabbricazione di armi, utensili e altri manufatti. Con l’avvento dei metalli, l’ossidiana fu
poi impiegata come pietra preziosa da egizi, greci e romani. Prima dell’Età del
Bronzo, dunque, per ottenere degli strumenti taglienti, resistenti e di agevole
lavorazione (caratteristiche non altrettanto consentite dalle pietre e dalle
selci), era possibile ritrovare questo vetro vulcanico in pochi siti. Nel
Mediterraneo occidentale abbiamo solo quattro giacimenti: Lipari, Pantelleria,
Palmarola e il Monte Arci in Sardegna. Nel Mediterraneo orientale l’ossidiana
era presente solo a Melos, nel Mar Egeo. Fin
da tempi immemorabili, erano diffuse piroghe ricavate dallo svuotamento
di grossi tronchi d’albero e barche formate da un’armatura di legno sulla quale
erano tese delle pelli cucite tra loro. Esistevano anche zattere costituite da
due piroghe unite da tronchi o formate da una piattaforma di legno tenuta a
galla da otri di pelle gonfi d’aria (antenate dei nostri gommoni), barche di
canne o di papiro, com'è attestato in Egitto dove, a partire dal Regno Antico
(I-VIII Dinastia 2920-2150 a.C.), si iniziarono a costruire anche navi di
legno, delle quali è giunto a noi un noto esemplare integro, la nave del faraone
Cheope o Khufu (2551-2528 a.C.), ritrovata nel 1952 in una fossa sigillata ai
piedi della piramide. L’esplorazione
effettuata con una macchina fotografica introdotta attraverso un foro rivelava
il contenuto: una grande imbarcazione smontata in numerose parti, remi, grandi
tavole, porte, colonne, elementi diversi, il tutto ricoperto da stoffe ormai
degradate e resti di tappeti. Erano 1224 pezzi, i più grandi dei quali in cedro
del Libano, mentre i più piccoli, quali cavicchi e perni, erano di gelso. L’imbarcazione,
oggi musealizzata, è lunga 43,4 m, larga 5,9 m e ha un dislocamento di circa 40
tonnellate. Il tavolame dello scafo, spesso 13-14 cm, è montato con legamenti
passanti attraverso lo spessore dalla parte interna e in parte con elementi
che, perfezionati, troveremo nella tecnica del tenone e della mortasa,
utilizzati più tardi per le navi micenee e fenicie.
Le più antiche fonti epigrafiche che riguardano
la navigazione commerciale risalgono al 2650 a.C. e appaiono in testi egiziani
della IV dinastia. Si parla di 40 navi inviate in Libano per approvvigionarsi
del legno di cedro, ricercato per la costruzione di tetti e per la
realizzazione delle parti nobili degli scafi. Ovviamente, più di quanto accade
oggi, la navigazione antica dipendeva dall’andamento delle stagioni e dal
regime dei venti e delle correnti. Inoltre, la durata del viaggio non era
prevedibile, poiché le antiche navi, capaci di risalire il vento solo con
difficili manovre e un’andatura a zig-zag, navigavano preferibilmente con il
vento in poppa ed erano spesso costrette a cambiamenti di direzione o a lunghe
soste. A complicare la situazione si aggiungevano i problemi di orientamento,
basati sui movimenti del sole e sulle costellazioni.
I primi studi sulle navi più
grandi, hanno evidenziato una costruzione con legature con fibre vegetali (navi
cucite). Lo scafo era a fasciame autoportante, cioè le tavole potevano essere
montate anche senza il supporto dello scheletro interno (tecnica detta shell
first, ossia prima il fasciame), grazie alla presenza di incastri (le mortase)
realizzati nei giunti tra l’una e l’altra tavola (i comenti), nei quali
venivano inserite delle linguette di legno (i tenoni).
Alla
fine del XVI a.C., in Egitto regnava la regina Hatshepsut,
ricordata per le sue spedizioni commerciali con grandi navi da carico. Decise
di mandare una spedizione lungo le coste della Somalia, all'altezza del
Golfo di Aden, e costruì e mise in mare 5 navi,
le più grandi e meglio equipaggiate che si fossero mai viste sulle rive del
Nilo. Il luogo di approdo si trovava in una regione ricca di alberi di
incenso, di gomme e resine, di mirra e ambra, di oro, lapislazzuli, avorio, e
di legno pregiato. Attraverso le raffigurazioni nei bassorilievi riusciamo oggi
a conoscere tutti i dettagli del viaggio. Ogni parte della nave rappresentata nelle illustrazioni è disegnata con
precisione, fin nei minimi particolari. Queste navi furono costruite con
una chiglia stretta, la poppa e la prua molto alte sopra l'acqua. La lunghezza
era di circa 70 piedi, e sono prive di cabina. Una piattaforma rialzata con una
balaustra, eretta sia poppa sia a prua, serviva per poter guardare avanti e
dietro e al di sotto c'era un riparo per gli ufficiali. Le navi non avevano
ponti, in quanto lo scafo era studiato per l'utilizzo dei rematori in coperta.
Le estremità dei tavolati che formavano i sedili erano fissati alle costolature
della nave. C’era una stiva sotto i piedi dei rematori per lo stoccaggio delle
provviste, ma questo, naturalmente, rimaneva sotto il livello del mare e quindi
non risulta nei disegni. L’albero era infisso nel mezzo della nave, e legato
saldamente alla chiglia. Costruito con il massiccio tronco di una palma, doveva
misurare in altezza circa 8 metri. Ogni nave montava una singola vela, e aveva
due pennoni a cui legarla, di cui quello in cima dritto e quello in basso
curvo. Il timone era formato da due lunghi remi, fissati fermamente a un
supporto sulla piattaforma posteriore, e messo in funzione da un lungo bastone
curvo. L'equipaggio consisteva in trenta rematori, quindici su ognuno dei due
lati, quattro addetti a mantenere il ritmo della vogata, due timonieri, un
pilota, un sorvegliante dei rematori, e un capitano. Un piccolo distaccamento
di 10 soldati e un ufficiale, accompagnarono la spedizione in qualità di
guardia d'onore per il convoglio mandato dalla Regina Hatshepsut al Principe di
Punt. Contando sia i marinai che i soldati, la spedizione consisteva in circa
210 persone. Ogni membro dell'equipaggio ha il suo posto sulla nave. I rematori
si siedono ai remi. Gli addetti a tenere il ritmo della vogata stavano in piedi
alle loro spalle sulla piattaforma di prua, dirigevano la salita e la discesa
dei loro remi, intonando un canto al quale si univano anche gli altri. Il
timoniere si posizionava a poppa, e impugnava il lungo bastone curvo che
governava il timone. Il capitano, con il bastone del comando in mano, è in
piedi sulla piattaforma a prua, mostrato mentre guarda nella direzione verso
cui è diretta la nave.
Le scoperte dell’archeologia subacquea hanno
evidenziato che la tecnica a fasciame portante era in uso già nel XIV a.C. La
nave di Ulu Burun, affondata nel sud della Turchia nel 1350 a.C., dimostra che
era possibile realizzare questo schema di costruzione anche senza le legature,
semplicemente vincolando i tenoni, inseriti all’interno delle mortase del
fasciame, con spinotti di legno. Lo stesso tipo di nave, con lievi modifiche,
era usato indifferentemente per il commercio o la guerra. Le navi da trasporto avevano una forma
tondeggiante e utilizzavano la vela quadra per la navigazione; quelle da guerra
mantengono una forma allungata, con la prua munita di rostro e si muovono sia a
remi sia a vela. Il vasellame da cucina e da mensa costituiva il carico
supplementare delle spedizioni, insieme a suppellettili pregiate e opere
d’arte, trasportate in imballaggi di paglia avvolti da tessuti pesanti, per
attutire i colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione. Si trasportavano anche generi
alimentari, vino, olio e conserve di pesce e di frutta, contenuti in anfore
impilate nelle stive. Dei
contenitori utilizzati nell’antichità per il trasporto marittimo, solo le
anfore e i recipienti in terracotta sono giunti fino ai giorni nostri. Sacchi, botti
e tutti i contenitori costituiti da materiale deperibile sono andati perduti.
Alcune eccezioni sono rappresentate dal ritrovamento di resti di cesti in
vimini. Il commercio marittimo conobbe anche navi specializzate per particolari
merci quali i marmi lavorati e semilavorati, navi cisterna per il trasporto del
vino dentro grandi vasi di terracotta, detti dolia, capaci di contenere fino a
3000 litri di vino.
Dal II Millennio
a.C., la navigazione d’altura, non a vista di costa, era praticata su larga scala
in tutto il bacino del Mediterraneo. Già i minoici di Creta, e poi i micenei,
avevano sviluppato tecniche navali e di orientamento, diurno e notturno, con le
quali riuscirono a soggiogare gli altri popoli costieri imponendo una
talassocrazia, ossia la gestione dei traffici commerciali attraverso il potere
marittimo esercitato con potenti flotte. Si arricchirono e contribuirono a
diffondere idee, tecnologie e merci, fino a quando i due grandi imperi del
passato, egizi e ittiti, decisero di scendere in guerra per procurarsi con la
forza ciò di cui avevano bisogno, soprattutto metalli. La navigazione sotto
costa, pur se più comoda per la possibilità di approvvigionamento idrico, era
praticata malvolentieri perché era soggetta a dazi doganali.
Ogni città costiera
imponeva tasse a chi transitava a vista. Inoltre c’erano flotte di pirati che
imperversavano nel Mediterraneo, e ciò costituiva un perenne pericolo per i
naviganti. Naturalmente la Sardegna, con i suoi giacimenti di rame e argento,
era una delle mete preferite dei commercianti e certamente, con i suoi 8000
nuraghi posti a controllo capillare del territorio, non poteva essere estranea
ai traffici marittimi. Circa 1000 nuraghi costieri costituivano un potente
deterrente per eventuali nemici, pertanto è verosimile che nei villaggi
costieri fosse sempre presente un approdo in grado di soddisfare la domanda dei
naviganti, con conseguente acquisizione delle tecniche marinaresche. I sardi
poterono sempre contare sul confronto con chi possedeva tecnologie all’avanguardia
poiché i porti sono l’interfaccia privilegiata di popoli distanti che si
incontrano.
Ritornando alle
rotte navali, le imbarcazioni non lasciano tracce sul mare, e per capire quali
rotte praticavano i marinai preistorici è utile lo studio del percorso che i
tonni, i pregiati pesci del Mediterraneo, seguono dallo Stretto di
Gibilterra fino alle coste del Vicino Oriente e ritorno. E’ un ciclo antiorario
che percorre le coste nord africane fino all’Egitto per poi risalire lungo i
territori cananei, girare sopra Cipro, l’altra isola del rame oltre la
Sardegna, e giungere nelle isole dell’Egeo. Da lì possono risalire verso il Mar
Nero attraverso lo stretto dei Dardanelli, con correnti favorevoli solo per
pochi giorni ogni mese, oppure procedere verso lo Stretto di Messina, famoso
proprio per le sue tonnare. A quel punto procedono verso nord, lungo le coste
campane, laziali e toscane, per giungere in Liguria e poi nel Golfo del Leone.
Due correnti favorevoli li portano giù in Sardegna e infine, se passano indenni
le nostre tonnare, fuoriescono dal Mediterraneo procedendo lungo la costa
andalusa.
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