Archeologia. Gli etruschi oltre Mantova
(Mantua)
di Sergio Murli
Stele Leponzia di Vergiate, incontro di riti e culture
Questa
volta parliamo di quell'area chiamata Parco del Ticino, parecchio a nord della
nostra Italia, nella cui zona è stato trovato, molti anni fa, il reperto che ci
permette in tutta umiltà di “aggiornare” le idee, frutto di conoscenze molto
approssimative, perché forse superficiali, sulla espansione del popolo etrusco
a nord, molto più a nord di dove indicano le cartine storiche dell’Italia
antica su pubblicazioni evidentemente non specializzate.
Dunque,
su certi testi si parlava di Mantua (Mantova) come ultimo insediamento con
prove archeologiche – edifici e reperti – della penetrazione, pacifica, delle
popolazioni d’Etruria.
Invece,
non è così, è storia già datata, si parla addirittura del febbraio del 1913. Ci
è sembrato, cari Lettori, fosse il caso di illuminare i tentativi degli
Antichi, di intavolare intese, alleanze, trattati di pace con reciproco
interesse negli scambi di esperienze, modi di vita, e spesso di costumi.
In questo caso, esistono documenti incisi nella pietra che hanno portato
addirittura alla creazione di una scrittura, in origine etrusca, ma diventata
poi “leponzia”: incredibile come gli abitanti dei secoli V – III prima di
Cristo, fossero così malleabili e pronti; probabilmente il motivo stimolante è
l’apertura di nuovi mercati che avrebbero portato benessere a tutta l’area.
Ripetiamo qui il nostri ruolo che è quello di semplice cronistorico, che nulla
vuol togliere ai meriti, lodevoli, degli Studiosi che, con le loro ricerche e
applicazioni, ci permettono di dire la (piccola) nostra.
Intanto
primo… intoppo: per chi non sapesse di Leponzi – saranno sicuramente pochi – ecco
qualche ripassatina: era un’antica popolazione (latino, Lepontii) che abitava
la zona alpina tra l’alta valle del Ticino, il Lago di Como e la val d’Ossola;
fu sottomessa in parte a Roma all’inizio del II a.C.. Probabilmente il centro
più importante era Oscela, la odierna Domodossola.
Ora parliamo del Lepontico o Leponzio, era la lingua in uso nel territorio ed è
documentata da alcune iscrizioni in una varietà dell’alfabeto nord-etrusco
(capito?); probabilmente affine al ligure con implicazioni e varianti dei
popoli confinanti a nord, leggi insediamento di “germani”… ma qui per pudore ci
fermiamo.
E
di seguito, ecco l’apporto altamente qualificato della Dott.ssa Daria
Banchieri, Conservatore del Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello,
Varese, quello della chicca, che si è gentilmente prestata ad illuminarci con
il testo di Alessandro Morandi su pannello nella sala 9 del Museo: “Il
celtico più antico.
Nel campo indo-europeo più prossimo a noi non c’è lingua che per continuità
ed estensione territoriale possa paragonarsi al gruppo celtico, le cui
testimonianze più antiche, di fine VII- prima metà del VI secolo a.C.,
provengono dall’area “golasecchiana” dal territorio compreso tra gli
insediamenti protourbani di Castelletto Ticino – Sesto Calende – Golasecca. Da
qui, con tre piccoli vasi di impasto inscritti rinvenuti a Sesto Calende (una
coppa e un bicchiere) e a Castelletto Ticino (un bicchiere) comincia la storia
dei Celti, giacché un popolo si manifesta nella sua esistenza e identità quando
ci parla, sia pure con la modestia di un messaggio di poche parole. Celti che
in seguito, designati come Leponzi e Galli, progredirono eccezionalmente in
tutti gli ambiti civili a cominciare proprio dalla scrittura che divenne
addirittura monumentale come nel caso della straordinaria stele di Vergiate.
Ciò è potuto avvenire grazie ai costanti e intensi scambi commerciali e
culturali con la vicina area etrusca dalla quale deriva l’alfabeto in uso in
questi antichissimi manufatti.
La
stele leponzia di Vergiate, con iscrizione sinistrorsa entro rotaie a ominide,
della fine del VI-inizi del V secolo a.C., oltre a testimoniare la presenza di
un’aristocrazia golasecchiana, dimostra, insieme alla notevole qualità di
realizzazione del testo, l’elevato grado di specializzazione di lapicidi
locali. Significato: Teu ha costruito/fatto costruire il monumento di
Pelkui; Isos ha fatto ed eretto la stele iscritta.
Teu
è un nome che esprime la devozione antica verso una divinità maschile
corrispondente al dio greco Zeus; Pelkui è un nome confacente a uomini dediti
all’esercizio delle armi, dunque verosimilmente appartenente a una élite
guerriera”.
La
civiltà di Golasecca,
prende il nome dal centro lombardo omonimo, sulla riva sinistra del Ticino ed è
un complesso culturale dell’età del ferro della Val Padana Centrale, fiorito
dall’VIII secolo a.C. fino alla romanizzazione. È caratterizzata ed evidenziata
dal copioso materiale rinvenuto nella grande necropoli detta, appunto, di
Golasecca, costituta da migliaia di tombe in massima parte ad incinerazione,
distribuite su un vasto territorio ai due lati del Ticino, un po’ a sud della
sua uscita dal Lago Maggiore.
Dopo
la fase più arcaica, vengono distinti vari momenti successivi che si
differenziano per tipologia dei prodotti ceramici e motivi decorativi. Nel
Golasecca I sono tipiche le urne cinerarie a globo con ornamenti incisi a denti
di lupo. Il Golasecca II si distingue per le urne e i vasi situliformi, anche
di influenza atestina, a stralucido e da quella stampigliata, determinata dai
villanoviani. Il Golasecca III, più recente appartiene alla fase storica, e
vede prevalere il rito inumatorio, nettamente, sul precedente della
cremazione.
È,
appunto, la Stele incisa in una lingua “nuova”, fatta di etrusco e celta,
probabilmente testimone di una lega culturale che avrà portato certamente a
proficui scambi commerciali e a penetrazioni verso nord, probabilmente anche in
territori cosiddetti “germanici”, per una espansione etrusca inimmaginabile,
prima dei recenti studi e conseguenti scoperte. Altro che Mantua, lo sguardo
dei Tirreni è andato oltre, fino a chissà dove…
Un altro apporto per la cortesia del Dott. Matteo Scaltritti, Presidente della
Società Gallaratese per gli Studi Patri, che ci ha inviato questo testo di
Raffaele C. de Marinis, “Alle origini di Varese e del suo territorio”: “Nel
febbraio 1913 in un fondo di proprietà Guglielmo Balzarini posto nelle
vicinanze della chiesetta di San Gallo di Ronchi, minuscolo comune di Vergiate,
fu occasionalmente rinvenuto alla profondità di 80 cm dal piano di campagna un
lastrone di micascisto di colore grigiastro …. Venne alla luce una fossa di
2x0.6m piena di cocci di anfore e di tegole e verso il fondo la stele con
l’iscrizione. Subito accanto verso ovest sarebbe stato portato alla luce un
acciottolato. La zona del ritrovamento era lambita da un ruscello, la cui
sorgente si trova a breve distanza dalla chiesetta. Quindi non vi possono
essere dubbi sul fatto che la stele sia stata rinvenuta in giacitura
secondaria, ma il luogo in cui originariamente era eretta non deve essere stato
molto distante dal prato a valle della chiesetta di S. Gallo.
Lo
studente Giorgio Nicodemi di Gallarate – futuro direttore dei musei di Brescia
e poi soprintendente capo agli archivi e ai musei del Castello Sforzesco di
Milano – riuscì a far donare la stele alla società Gallaratese di Studi Patrii,
nella cui sede venne trasportata. Prima del trasporto, durante il quale la
parte iscritta della stele subì dei danni, il Nicodemi aveva fatto due
apografi, mentre altri due ne fece successivamente, tutti poi trasmessi assieme
a due fotografie. In seguito, nel 1914, probabilmente per disposizione del
soprintendente Giovanni Patroni, la stele fu trasferita al Museo Archeologico
del Castello Sforzesco di Milano e in questa occasione venne eseguito il calco
tuttora conservato al Museo di Gallarate…
Il
lastrone, lungo 2,23 e largo 0,70 m, ha una spessore di circa 23 cm e presenta
una lacuna nella parte inferiore del lato sinistro. Reca un’iscrizione in
alfabeto di Lugano racchiusa tra due rotaie ripiegate a U. Si tratta senza
dubbio di una stele sepolcrale, come dimostra anche il contenuto stesso
dell’iscrizione, e doveva essere infissa in posizione verticale nel terreno,
forse in cima a un tumulo. Il fatto che sul monte Ferrera e sull’adiacente
monte Bonella fossero presenti recinti funerari di un tipo frequente nel VIII –
VII secolo a.C., lascia fondatamente presumere che lungo le pendici vi fossero
nuclei di tombe di età più recente (Golasecca II, VI secolo a.C.. Dopo la prima
edizione di E. Lattes, l’iscrizione fu studiata dai più importanti linguisti
che si interessavano alle cosiddette iscrizioni leponzie, da J.Rhys a J.
Whatmough. In epoca più recente fu ripresa e commentata da V. Pisani, M.G.
Tibiletti Bruno e M. Lejeune).
La
datazione attribuita alla stele in tutti questi studi è molto bassa, verso il
II – I secolo a.C..In un memorabile studio apparso nel 1988, Giovanni Colonna
affermava decisamente che la stele di Vergiate doveva essere collocata
all’inizio della serie delle iscrizioni leponzie su stele di pietra, anziché
alla fine e metteva in evidenza da dove e per quali vie provenivano i modelli
culturali all’origine di questo monumento. La tipologia della stele funeraria
con iscrizione piegata a ferro di cavallo compresa entro rotaie è tipica
dell’Etruria settentrionale, in particolare dell’area senese-volterrana, in età
orientalizzante. Da qui il modello è arrivato da una parte a Busca nel Piemonte
meridionale, dall’altra nel cuore della civiltà di Golasecca a Vergiate.
Tuttavia, G. Colonna datava la stele al IV secolo a.C., ritenendo che soltanto
a partire da quell’epoca si fosse affermato nell’alfabeto leponzio il sigma a
tre tratti. In seguito, chi scrive, ha dimostrato che il sigma a tre tratti era
già presente nell’alfabeto leponzio arcaico di VI e V secolo. Purtroppo per
molti anni nel secondo dopoguerra è rimasta abbandonata nei sotterranei del
Castello Sforzesco in posizione orizzontale …. Chi scrive l’ha potuta osservare
in queste condizioni verso la metà degli anni’60. La superficie iscritta, già
di lettura non sempre agevole in alcuni punti, ha subito un grave ulteriore
deterioramento.
A
causa delle difficoltà di lettura di alcuni segni lungo il lato sinistro, che
era già parzialmente rovinato fin dal momento della scoperta come appare anche
dal calco, sono state proposte letture leggermente divergenti, in questa sede
accoglieremo la proposta di Filippo Motta (2000), basata su un rilievo
pubblicato da chi scrive: ‘pelkui: pruiam: teu: kharite: išos: kharite: palam’
L'iscrizione presenta due proposizioni paratattiche che hanno in comune
“kharite” il predicato, “pelkui” è un dativo singolare in –ui che indica il
dedicatario, Pelkos o meglio Belgos (cfr. l’etnico belgae). “teu” è il soggetto
di un tema in –on (teon-), e “pruiam” l’oggetto della prima proposizione.
Karite è un verbo di III persona singolare, la cui radice indo-europea ker- si
ritrova nel sanscrito, nel lituano, nell’antico scandinavo e nel latino (cfr.
It. Cr-eo), il suo significato è “fare”, “costruire”. Pruiam è stato avvicinato
al germanico bruuio- > bruggio- e al gallico briva, col significato
originario di costruzione in tavole di legno, poi anche di ponte (cfr. ted.
Brücke). Quindi potrebbe indicare una camera funeraria formata da tavole di
legno. Nella seconda proposizione il soggetto è un pronome, di nuovo išos <
itsos < istos, ‘egli stesso’, l’oggetto è palam, termine ricorrente nelle
iscrizioni leponzie su stele di pietra nella zona di Lugano e indicante la
stele sepolcrale. Pala appartiene al lessico pre-indoeuropeo ed è stato
incorporato nella lingua celtica delle iscrizioni leponzie.
Quindi
la traduzione dell’iscrizione potrebbe essere: ‘ Belgo Sepulcrum Teos fecit,
ipse fecit stelam’, Teo ha fatto la tomba per Belgos, lo stesso ha fatto la
stele.”
Se
per caso, vi trovaste in difficoltà, nessuna paura: la paratassi è la disposizione di proposizioni in
rapporto di coordinazione. Si dice perciò paratattico di proposizioni unite da
un rapporto, appunto, di paratassi…
Come
vedete, cari Lettori, c’è da scegliere fra varie proposte di lettura; ma ciò
che conta, secondo il nostro modesto parere, è la grandissima importanza di
questo monumento, che, come dicevamo, getta luce nuova sui movimenti delle
genti di 2500 anni fa per l’Europa, fino a conoscere i costumi e i riti delle
popolazioni che una manciata di secoli dopo, a loro volta, sono scesi verso la
nostra penisola, portando, anche con la forza delle loro armi, i loro costumi e
le loro abitudini.
Come
dice qualcuno, il fuoco che brucia il bosco, poi porta nuova vita e nuovi
germogli.
Visto
che li abbiamo nominati, sarà il caso di dire qualche parola suiCelti,
che certo non demeritano nel contesto. Anche se, come sempre dichiariamo, in
modo estremamente divulgativo e senza pretese…
È
il nome di un gruppo di popoli che i Romani chiamavano Galli e che parlavano
una lingua indoeuropea avente qualche affinità con quelle italiche.
Sembra
che abbiano cominciato a distinguersi verso il II millennio in uno spazio
geografico tra Reno e Danubio. In seguito, intorno all’800, o poco dopo, gruppi
che possiamo chiamare Protocelti, erano in contatto commerciale attraverso i
Balcani e le Alpi: nuove tecniche, mode, forme vascolari e metallurgia del
ferro importate dall’Italia e dal Vicino Oriente. Interessante che tale zona
era già indicata da Erodoto come terra dei Keltói.
Successivamente
il 500 a.C. li vide nella massima espansione di vitalità; da allora fu un
continuo spostarsi e insediarsi verso il Sud europeo, a macchia d’olio verso le
Gallie, la penisola iberica, l’Italia settentrionale – Gallia Cisalpina –, fino
alla Emilia Romagna, poi in epoche successive, verso il centro della penisola,
con epiche battaglie, contrastati dalla nascente potenza romana.
Altrove invasero le zone del Danubio, verso l’attuale Belgrado; si spinsero in
Tracia e si riversarono in Asia Minore. Ma la loro debolezza, che poi li portò
alla rapida decadenza, fu la mancanza assoluta di coesione, la mancanza
dell’idea di Stato, che divenne addirittura indifferenza tra le stirpi che
inizialmente avevano portato almeno ad un ideale di popolo, di razza.
Sconfitti
ovunque, anche gravemente, nelle terre conquistate, e allontanati progressivamente
dalle loro terre di origine dai Germani, stretti da più fuochi, dovettero
sottomettersi, quasi tutti, alla Pax Romana.
Abili
nei secoli ad assimilare alcune arti di Etruschi, Greci e Romani, e, secondo
questi ultimi, inventori della botte, eccelsero come fabbri e ceramisti: molti
centri celtici esportavano pentolame di bronzo e vasellame sullo stile ed in
concorrenza con la tipologia vascolare aretina, famosa in tutto il mondo
antico. Potete vedere qua e là nell’articolo immagini di alcuni lavori,
compresa quella di una moneta.
Notevole
fu anche il loro sentimento religioso, ne è prova la grande assemblea che si
teneva in Gallia organizzata dai Druidi ed osteggiata dai conquistatori Romani
per quell’aria di fronda rivoluzionaria che sempre prende nelle cerimonie di
unità religiosa e nazionalistica.
Ed
ora, come spesso diciamo, basta: chi ne volesse sapere di più consulti i
numerosi testi in proposito, senza tralasciare, sarebbe un peccato, quelli che
vi indicheremo qui sotto.
Bibliografia indispensabile:
Daria
Giuseppina Banchieri 2003, Antiche
testimonianze del territorio varesino, pp 280, 339 e seguenti; figg 145,
160 Macchione Editore, Azzate (Varese).
Alessandro
Morandi 2004, Epigrafia e
lingua, in Popoli e Civiltà dell’Italia
Antica, vol.12, Tomo II, pp. 595, 596, Roma
R.C.
De Marinis, S. Massa, M. Pizzo, 2009, Alle
origini di Varese e del suo territorio, L'Erma
di Bretschneider, Roma.
Alessandro
Morandi 2012, La più antica
epigrafia vascolare celtica, testo del pannello esposto in sala 9, Museo.
La
stele di Vergiate si trova a Varese nel Museo Civico Archeologico di Villa
Mirabello. A Gallarate, nel Museo della Società Gallaratese per gli Studi
Patri, si trova invece il calco.
Ringraziamenti. Desideriamo innanzi tutto
ricordare il Dott. Matteo Scaltritti, Presidente della Società Gallaratese per
gli Studi Patri, che, con le sue indicazioni e la sua documentazione, ci ha
messo nella giusta direzione, verso Villa Mirabello a Varese, dove la Dott.ssa
Daria Giuseppina Banchieri, Conservatore del Museo, pur con la mole di lavoro
da svolgere, non ha trascurato le nostre richieste mettendoci in condizioni di
portare a termine la trentunesima chicca. Due Studiosi che con il loro sapere
ci hanno permesso di aprire una finestra su un mondo antico, forse poco
indagato a livello nazionale. Grazie ancora e a futuri proficui contatti, con
Loro e con le Istituzioni che rappresentano.
Le immagini della Sede varesina e della stele sono
una concessione del Museo, foto Lucina Caramella; le altre una scelta
redazionale. Il disegno della Stele e il calco fanno parte della pubblicazione
Alle origini di Varese e del suo territorio di De Marinis, Mazza e Pizzo, Roma,
2009, L'Erma di Bretschneider; quello del titolo è di Sergio Murli.
Conclusioni. Ancora una volta, pur con
affanno, mettiamo in rete nei tempi previsti: il merito è anche di chi ci
coadiuva e, in modo particolare, della prof.ssa Patrizia Vallone, con passione
e rispetto assoluti verso i nostri Avi. Ricordiamo che la nostra piccola opera,
è volta ad incuriosire ed interessare il lettore distratto con uno scritto di
mera divulgazione che lo avvicini alle bellezze spesso poco conosciute del
nostro Territorio; chiedendo venia delle inesattezze.
Diamo appuntamento alla prossima chicca, senza dimenticare il volere di Chi sta
lassù.
Fonte: http://www.cittamese.it/cultura/978-archeochicca-xxxi-etruschi-oltre-mantua
Preziose informazioni! Grazie!
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