giovedì 23 maggio 2013
Statue giganti di Monte Prama, un mistero con spiragli di luce.
Monte e Prama: 4875 punti interrogativi
di Marco Rendeli
Nonostante il vasto successo che le statue di Monte e Prama hanno riscosso, soprattutto in Sardegna, di esse si sa ben poco. Solamente con l’avvio del restauro voluto da A. Boninu, si è intrapreso un ampio progetto che comprende la pulizia, il restauro e la ricostruzione delle stesse da parte del Centro di Conservazione Archeologica presso il Centro di Restauro Regionale di Li Punti. Tutti i pezzi sono stati portati e assemblati in un unico luogo: si tratta di oltre 4900 frammenti delle dimensioni e delle fogge più varie che restituiscono quello che a oggi è il più grandioso complesso statuario della Sardegna preromana e uno dei più importanti del Mediterraneo.
I frammenti furono recuperati in scavi effettuati in località Monte e Prama, nel Sinis settentrionale (Oristano) nel corso degli anni Settanta. La storia delle ricerche è lacunosa, frammentata e si dipana fra interventi estemporanei (scavi Atzori nel 1974, scavi Pau 1977) e indagini programmate (scavi Bedini 1975, scavi Lilliu, Atzeni, Tore gennaio 1977, scavi Ferrarese Ceruti-Tronchetti 1977-1979). Delle indagini condotte da A. Bedini in un settore limitato del sepolcreto è imminente la pubblicazione di un preliminare: di esse si sa che sono tombe a cista con pareti litiche con una forma successiva di monumentalizzazione, ovvero di copertura formata da lastroni; gli scavi Lilliu, Atzeni, Tore sono confluiti in un importante contributo di G. Lilliu; degli scavi condotti in maniera impeccabile da Tronchetti e dalla Ferrarese Ceruti fra il 1977 e il 1979 si ha un’ampia documentazione (TRONCHETTI 2005 con bibliografia precedente). Il sito si disloca quasi al centro di un distretto ricchissimo di presenze protostoriche (nuraghi, pozzi sacri, luoghi di culto) di civiltà nuragica, la cui vita si scagliona dal Bronzo recente fino alla piena età del Ferro. Dalle relazioni di scavo pubblicate da Tronchetti si rileva che i frammenti furono rinvenuti in un unico contesto coerente che obliterava una serie di tombe a pozzetto con lastre di chiusura litiche disposte a formare un unico “serpentone” recintato da altre lastre di calcare (fig. 3). Queste tombe, in numero di 33, formavano un unico contesto di personaggi maschili e femminili, appartenenti a diverse classi d’età (dai 13 ai 50 anni), rinvenuti in posizione seduta uno per singola tomba. Esse risultano apparentemente prive di corredo: pochi frustuli ceramici nelle tombe 1-2 e dalla 24 alla 34. Fanno eccezione la t. 25, dalla quale proviene uno scaraboide databile alla fine dell’VIII a.C., e alcuni vaghi di pasta vitrea pertinenti a collane dalle tombe 24, 27 e 29: questi sono al momento gli unici materiali che possono rappresentare termini utili per comprendere il momento di formazione della necropoli.
Si è discusso, soprattutto in ambito sardo, se tombe e statue potessero appartenere a un unico contesto e potessero essere parte di un unico programma di monumentalizzazione di un’area funeraria: data la contiguità stratigrafica fra lo strato di obliterazione che le conteneva e le stesse tombe, i cui lastroni di chiusura si trovavano a contatto con lo stesso strato di obliterazione, non sarebbe fantasioso poter ritenere che essere potessero essere parte di un unico complesso funerario.
Un indizio, sia pur labile, sta anche nel fatto che i lastroni delle tombe a cassa, i lastroni del recinto e le statue sono tutti della medesima pietra cavata a poche centinaia di metri dal sito. Di sicuro, dalle analisi effettuate nel corso del restauro, emerge che le statue fossero state distrutte volutamente, rotte e spezzate con la subbia in determinate parti dei corpi dei guerrieri, e che l’area fosse stata interessata da un incendio le cui tracce si riconoscono in molti dei frammenti pervenutici. La distruzione potrebbe essere avvenuta in una fase anteriore, o coincidente, con la metà del IV a.C. in base frammenti ceramici più recenti rinvenuti nello strato di obliterazione che conteneva i frammenti di statue. Ciò acuisce la difficoltà nel ricostruire la genesi del complesso, ovvero se la realizzazione delle statue fosse contestuale a quella delle tombe, oppure se fosse precedente o successiva: ma ciò crea, a mio modo di vedere, un cortocircuito dal quale è difficile uscire. Forse si può affermare che tombe e statue per una certa fase (più o meno lunga) sono state parte di un medesimo complesso; che le statue con i modelli di nuraghe rappresentavano un segno nel territorio e che questo segno forse era connesso a un sepolcreto; che la distruzione avesse comportato l’obliterazione di un complesso visibile e conosciuto in maniera veramente radicale senza peraltro intaccare la sacralità dei defunti. Mi chiedo se chi ha distrutto il complesso monumentale avesse la percezione di trovarsi di fronte alla dualità del monumento sacrario e dell’area funeraria a esso connessa.
Non possiamo essere precisi sui numeri se non nel totale dei frammenti che assommano a poco più di 4900, rispetto ai circa 2000 stimati al momento dello scavo. Un ultimo torso del quale rimane la parte inferiore del corpo non è sicuramente riferibile a un pugilatore, resta il dubbio che possa essere un arciere o un oplita.
La schedatura e l’analisi dei frammenti ha permesso una suddivisione in diverse categorie: statue antropomorfe, modelli di edilizia nuragica e altri tipi di monumento.
Fra quelli pertinenti alla modellistica “miniaturizzata” nuragica sono stati riconosciuti non meno di 7 betili, di 8 modelli di nuraghi complessi (fig. 4), di una ventina di nuraghi monotorri: da questo punto di vista però il computo non appare semplice perché molti degli esemplari monotorre potrebbe essere parte di nuraghi complessi o anche di altro, come si ricava dalla relazione di scavo stilata da Tronchetti.
Al gruppo delle statue antropomorfe fanno riferimento un certo numero di esemplari, a oggi 23: si tratta comunque di un numero minimo effettuato sulla base del calcolo dei busti pervenutici. Tale numero potrebbe lievitare soprattutto se riferito al numero di arti superiori e inferiori presenti: ciò induce a ritenere che il complesso degli oltre 4900 frammenti scoperti e oggi schedati sia ben lungi dall’essere completo e che in aree circostanti potrebbero venire alla luce nuove sacche di obliterazione pertinenti alla distruzione del complesso.
I tipi riconosciuti già nel corso dello scavo sono tre. Il tipo del cosiddetto “pugilatore” (fig. 5a), del quale si annoverano almeno 15 esemplari; quello dell’arciere (fig. 5b), del quale sono pervenuti cinque esemplari, quello dell’oplita (fig. 6) o portatore di scudo rotondo con due esemplari6: per un corretto riconoscimento di questi due ultimi tipi sono in corso ulteriori verifiche dei restauratori ma la differenziazione fra oplita e arciere sta nella presenza della faretra per quest’ultimo. Tutte le statue sono più grandi del naturale con altezze ricostruite che possono arrivare fino ai 2,20 metri di altezza e con strutture corporee differenti fra loro, più snelle o più massicce. Alcune delle statue si differenziano per una diversa resa della parte posteriore, praticamente piatta e priva di schemi decorativi: ciò induce a ulteriori riflessioni sulla loro collocazione nel contesto che al momento rimane puramente congetturale. In alcune delle statue sono state riconosciute tracce di pittura rossa, il che fa ritenere che il complesso potesse essere policromo e di grande effetto visivo: in altre parole questi kolossòi, seguendo la felice definizione di Lilliu, formano un complesso monumentale che, comunque sia, doveva avere un grande effetto scenico se, oltre a tutto, deve essere contestualizzato assieme ai modelli di nuraghe semplice e complesso o ai betili.
Questo, in maniera molto sommaria, il quadro delle presenze. Fin dal primo momento è apparso che la collocazione delle statue nel complesso della produzione artistica della Sardegna dovesse avere un posto di particolare riguardo: molti studiosi hanno appuntato la loro attenzione sul possibile, anzi reale, collegamento fra questi esempi di grande statuaria e la piccola bronzistica antropomorfa rilevando la sostanziale vicinanza fra i tre tipi presenti a Monte Prama e i prodotti del Gruppo Abini (VIII a.C.), secondo la sequenza messa in evidenza da Lilliu, rispetto a quelli più recenti del Gruppo Uta (VII a.C.).
Da questo innegabile collegamento fra i due ambiti artistici hanno preso l’avvio diverse scuole di pensiero: da un lato una tendenza rialzista per quel che concerne la cronologia della produzione di bronzetti (che per molti studiosi deve essere circoscritta al Bronzo Finale con labili appendici al I Ferro): la conseguenza di questa scelta è stata, fra l’altro, di rinchiudere le prospettive di un confronto per le nostre statue con le sole manifestazioni della piccola plastica bronzea e hanno imprigionato il complesso di Monte e Prama in una sorta di torre d’avorio inespugnabile all’interno della quale la circolarità delle argomentazioni ha preso il sopravvento sulla necessità di inserire questa manifestazione all’interno di quelle correnti che percorrono il Mediterraneo fra la fine del II e la prima metà del I millennio a.C. Dall’altro alcuni studiosi hanno cercato di inserire la produzione toreutica in un quadro temporale di più ampio respiro, connettendolo in ciascuna sua fase con manifestazioni artistiche mediterranee. Ciò ha portato alla ricostruzione di contesti solo in parte più recenti, in relazione alle frequentazioni orientali della Sardegna (a partire dall’XI a.C.), alle successive strutturazioni coloniali (a partire dalla metà dell’VIII a.C.), alle forme di contatto e scambio fra indigeni e mercanti orientali: esse possono fornire a nostro avviso il background culturale (dal lato indigeno) e artistico (da parte dei mercanti) nel quale inserire l’esperienza che ha condotto alla realizzazione di questo complesso.
A creare ulteriore motivo di definizione di prodotto artistico e culturale sardo (e solo sardo, endogeno) vi è stato sia il collegamento con la scultura architettonica della seconda parte del Bronzo e del I Ferro (stele, betili e decorazioni delle centinature delle tombe di giganti), sia la difficoltà di poter reperire dei confronti adeguati in altre esperienze di area tirrenica e più in generale mediterranea per le nostre statue: si vedano al riguardo i risultati, invero non soddisfacenti, scaturiti in quella parte dedicata ai comparanda per le statue di Monte Prama edita in 1996 e presi, da allora, come “prova provata” di una difficile collocazione delle statue in una fase recente.
Da quelle esperienze e dalla lucidissima analisi di Lilliu su “La grande statuaria nuragica” che, a oggi, rappresenta il più serio e convincente contributo all’interpretazione di queste statue, diversi passi in avanti sono stati compiuti in diversi settori sia delle relazioni e dei contatti fra culture, sia della ricerca storico artistica in ambiente mediterraneo per i secoli a cavallo fra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C.
Da un lato, infatti, si vanno precisando con sempre migliore accuratezza i processi di esplorazione e frequentazione del Mediterraneo centro occidentale da parte di mercanti e pionieri orientali (intendendo con questo termine tutto ciò che si disloca a Oriente della penisola italiana), che precede e segue la strutturazione coloniale greca e fenicia in Italia, per quel che maggiormente interessa in questa sede, in area tirrenica; dall’altro proprio dall’area tirrenica provengono una serie di stimoli a considerare i fenomeni di grande statuaria come il frutto di un contatto, di uno scambio o, ancor meglio, l’esito di un gift trade fra mercanti orientali e popolazioni italiche, in particolare delle nascenti compagini urbane dell’Etruria tirrenica e di area felsinea. In altre parole in area tirrenica si è tentato di ricostruire il percorso, o meglio i percorsi, che hanno portato fra la fine dell’VIII e il VII a.C. alla realizzazione di grande statuaria in pietra (da quella di Ceri e Veio a quella di Casale Marittimo, di Vetulonia, e più in generale alle esperienze della statuaria dell’Etruria centro settentrionale e delle stele felsinee). Dunque la ricostruzione di un processo all’interno del quale appaiono comunque predominanti i desiderata e le volontà della committenza rispetto all’abilità e alla techne portata dagli artigiani (fig. 7).
La ricostruzione di questi processi ha fatto anche compiere ulteriori passi in avanti nella interpretazione dei complessi monumentali, in particolare nel campo dell’elaborazione di complessi artistici (che sottintendono scelte culturali) coerenti, da leggere e interpretare come programmi in una sintonia che si stabilisce fra committente e artigiano: da questo punto di vista le scuole bolognese, perugina, romana, napoletana e salernitana (in stretto ordine geografico) hanno contribuito in maniera determinante alla lettura e alla interpretazione dei complessi monumentali che dal Ferro scandiscono la storia artistica e culturale dell’Italia preromana.
È proprio nel solco di queste linee programmatiche che vorrei proporre una serie di riflessioni: premetto subito che esse non possono offrire soluzioni ai problemi di cronologia quanto piuttosto si prefiggono di considerare l’aggregazione di statue, modelli di nuraghe, betili e altro all’interno di un unico contesto che nasce in un determinato momento della storia e per determinate ragioni che tenteremo di evincere e inter-pretare in questa sede.
Nel nostro percorso appare necessario operare alcune distinzioni fra diversi livelli di lettura, di analisi e d’interpretazione. Il primo livello è quello che potremmo definire tecnico e della lavorazione della pietra; il secondo potrebbe essere quello del riconoscimento di uno stile che riguarda le statue, della definizione della bottega ovvero dei “cervelli di artigiani” che le concepiscono; il terzo potrebbe essere quello del confronto iconografico dei singoli pezzi; il quarto potrebbe essere quello della ricostruzione di un programma unitario che porta alla realizzazione di tutto il complesso statuario. È bene ricordare fin da questo momento che l’artigiano, o la bottega di artigiani, non occupa in questo caso una posizione dominante rispetto alla committenza nella realizzazione del progetto: al contrario essa appare, ai miei occhi, in certo modo subalterna alla figura dei committenti che dettano e definiscono il racconto di una loro storia attraverso queste statue.
Riguardo al primo livello, anche a una prima sommaria osservazione non si può non notare il grande sforzo tecnico prodotto sulle sculture. Esso si può seguire lungo due direttrici: quella della composizione generale delle statue come dei modelli di nuraghe; quella della decorazione, assai spesso calligrafica che definisce particolari delle vesti e delle attrezzature di ciascuna statua. Da questo punto di vista lo strumentario deve essere stato molto ampio con forme di specifica specializzazione che assecondasse lo sforzo di rendere in maniera plastica tanto i corpi (fig. 8), quanto gli attrezzi portati dai guerrieri, tanto le parti accessorie riccamente ornate (fig. 9). Al plasticismo connaturato alla realizzazione dei corpi, al plasticismo calligrafico che connota le chiome e al geometrico rigore che permea le acconciature, gli armamenti e le vesti fa da contraltare uno schematismo esasperato che connota l’elaborazione dei volti di tutte le statue (fig. 10): uno schema netto e ripetitivo, fatto di tagli delle arcate sopraciliari e dei nasi, del taglio di piccole dimensioni e rettilineo della bocca, del bassorilievo per cerchi concentrici degli occhi, quest’ultimo avvenuto attraverso l’uso di cerchi applicati alla superficie e realizzati con una punta secca. Ciò crea un voluto distacco fra volto e resto del corpo rendendo apparentemente chiara la volontà della committenza trasmessa all’artigiano di plasmare figure diverse da quelle reali, quasi che non appartenessero a questo mondo ma a un mondo altro (fig. 11). La vicinanza di questa resa del viso con il bronzetto del demone con quattro occhi e quattro braccia mi ha suggerito di ipotizzare la loro pertinenza a un “mondo altro”.
Quel che si vuole sottolineare in questa sede è la necessità di riconoscere nell’esecutore di tali statue, che sembrano essere il prodotto tecnico di un’unica mente e forse di un’unica mano, un capo artigiano assolutamente specializzato nella grande scultura in pietra, padrone della tecnica scultorea in pietra: da questo punto di vista esiste un divario importante fra la sua techne e quella dei fabbri (o demiurghi) che lavoravano il metallo.
Il precedente excursus sul mondo tirrenico e sul rapporto fra committenza e artigiano rappresenta a mio avviso il punto di partenza anche per cercare di ricostruire il processo che ha portato alla composizione di questo complesso monumentale. Innanzi tutto possiamo ricordare con Morris che nel Mediterraneo tutte le forme di prima grande scultura siano connesse alla sfera funeraria, tanto nel mondo greco, che in quello italico e iberico. Questa peculiarità potrebbe accomunare anche la Sardegna a quelle esperienze. Esiste un’altra caratteristica che potrebbe essere utile per lo svolgimento delle nostre riflessioni: ovvero che la stragrande maggioranza delle esperienze sopra citate fanno riferimento a un rapporto fra committenza locale e artigiani provenienti da mondi “altri”.
Il prodotto che essi elaborano risente in qualche misura delle loro origini ma il messaggio che veicolano è certamente quello della committenza con il portato di tutti i valori sociali e culturali che vogliono esprimere. Da questo punto di vista ciascuna delle esperienze ricordate va annoverata come “momento unico” frutto di un rapporto personale che s’instaura fra la committenza (in quel caso i principes etruschi) e il dono ricevuto di una techne che può essere quella di un vasaio, di uno scultore, di un artigiano dei metalli o dell’avorio. Questo particolare rapporto serve anche a spiegare l’unicità delle realizzazioni, fra loro molto differenti e difficilmente confrontabili, e a gettare luce sulla capacità culturale e sociale della committenza di imporre il proprio messaggio e il proprio programma.
D’altra parte esistono per il complesso in esame delle peculiarità da non sottovalutare:
a) il fatto di concepire e realizzare delle statue litiche di dimensioni maggiori del vero (dei kolossòi) e con immagini antropomorfe mi sembra sia un fattore di assoluta novità nel panorama sardo non diversamente da quanto avviene in altre parti del Mediterraneo;
b) conseguentemente la stessa iconografia mi pare qualcosa di profondamente nuovo nel senso che non mi pare si conoscano figure di arcieri, pugilatori, personaggi armati di scudo rotondo, in una statuaria antropomorfa che per il periodo preso in esame assomma esemplari in numero assai circoscritto. Può Monte Prama avere una collocazione ed essere messo in relazione e confronto con le altre esperienze del Mediterraneo?
Vista in questa luce possiamo comprendere bene come gli sforzi nel corso degli anni Novanta del secolo scorso siano risultati deficitari e come la possibilità di cercare confronti fra queste statue e altri complessi scultorei di area italica o più in generale del Mediterraneo siano stati poveri di risultati. Dall’altra parte diviene anche comprensibile come il repertorio di riferimento non possa che essere quello della piccola plastica in bronzo le cui rappresentazioni, rinvenute in contesti funerari o cultuali, sono portatrici di messaggi e programmi non dissimili da quelli presenti a Monte Prama. Da questo punto di vista va discusso l’annoso problema del rapporto fra grande statuaria e piccola toreutica in bronzo: in altre parole, e con bonaria ironia, esso potrebbe essere racchiuso nella domanda “prima la gallina o prima l’uovo?” Infatti una parte degli studiosi di più stretta matrice protostorica dà per assodato che le esperienze della piccola toreutica bronzea siano alla base e forniscano i modelli per la grande statuaria litica. Alcune voci escono fuori dal coro e se non sbaglio proprio Lilliu, nel suo già ricordato contributo sulla grande statuaria nuragica, ricorda a proposito dei pugilatori che è la grande statuaria in pietra che offre solitamente il prototipo per altre espressioni artistiche di minori dimensioni. Parallelamente il modo di procedere nella lavorazione di una piccola statua di bronzo e quello di una grande statua appare profondamente differente e mi pare difficile poter affermare che un demiurgo della toreutica in bronzo possa essere stato l’artefice anche di una statua litica di dimensioni ben maggiori rispetto al vero.
A prescindere da questa domanda, di risposta peraltro difficile visti i dati a nostra disposizione, si possono riconoscere certamente dei confronti calzanti fra le statue e la piccola bronzistica: l’arciere ritratto nell’atto di scagliare il dardo, a riposo o con l’arco in spalla ha diversi confronti; il guerriero con scudo tondo frontale è anche ben presente nel repertorio della piccola toreutica; il pugilatore è anch’esso attestato fra i bronzetti ma non rientra in categorie pertinenti alla guerra, visto che Lilliu lo classifica come cuoiaio (fig. 12).
Fonte: XVII International Congress of Classical Archaeology, Roma 22-26 Sept. 2008 Session: Testo, immagine, comunicazione: immagine come linguaggio Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale D / D2 / 7 Reg. Tribunale Roma 05.08.2010 n. 330 ISSN 2039 - 0076
di Marco Rendeli
Nonostante il vasto successo che le statue di Monte e Prama hanno riscosso, soprattutto in Sardegna, di esse si sa ben poco. Solamente con l’avvio del restauro voluto da A. Boninu, si è intrapreso un ampio progetto che comprende la pulizia, il restauro e la ricostruzione delle stesse da parte del Centro di Conservazione Archeologica presso il Centro di Restauro Regionale di Li Punti. Tutti i pezzi sono stati portati e assemblati in un unico luogo: si tratta di oltre 4900 frammenti delle dimensioni e delle fogge più varie che restituiscono quello che a oggi è il più grandioso complesso statuario della Sardegna preromana e uno dei più importanti del Mediterraneo.
I frammenti furono recuperati in scavi effettuati in località Monte e Prama, nel Sinis settentrionale (Oristano) nel corso degli anni Settanta. La storia delle ricerche è lacunosa, frammentata e si dipana fra interventi estemporanei (scavi Atzori nel 1974, scavi Pau 1977) e indagini programmate (scavi Bedini 1975, scavi Lilliu, Atzeni, Tore gennaio 1977, scavi Ferrarese Ceruti-Tronchetti 1977-1979). Delle indagini condotte da A. Bedini in un settore limitato del sepolcreto è imminente la pubblicazione di un preliminare: di esse si sa che sono tombe a cista con pareti litiche con una forma successiva di monumentalizzazione, ovvero di copertura formata da lastroni; gli scavi Lilliu, Atzeni, Tore sono confluiti in un importante contributo di G. Lilliu; degli scavi condotti in maniera impeccabile da Tronchetti e dalla Ferrarese Ceruti fra il 1977 e il 1979 si ha un’ampia documentazione (TRONCHETTI 2005 con bibliografia precedente). Il sito si disloca quasi al centro di un distretto ricchissimo di presenze protostoriche (nuraghi, pozzi sacri, luoghi di culto) di civiltà nuragica, la cui vita si scagliona dal Bronzo recente fino alla piena età del Ferro. Dalle relazioni di scavo pubblicate da Tronchetti si rileva che i frammenti furono rinvenuti in un unico contesto coerente che obliterava una serie di tombe a pozzetto con lastre di chiusura litiche disposte a formare un unico “serpentone” recintato da altre lastre di calcare (fig. 3). Queste tombe, in numero di 33, formavano un unico contesto di personaggi maschili e femminili, appartenenti a diverse classi d’età (dai 13 ai 50 anni), rinvenuti in posizione seduta uno per singola tomba. Esse risultano apparentemente prive di corredo: pochi frustuli ceramici nelle tombe 1-2 e dalla 24 alla 34. Fanno eccezione la t. 25, dalla quale proviene uno scaraboide databile alla fine dell’VIII a.C., e alcuni vaghi di pasta vitrea pertinenti a collane dalle tombe 24, 27 e 29: questi sono al momento gli unici materiali che possono rappresentare termini utili per comprendere il momento di formazione della necropoli.
Si è discusso, soprattutto in ambito sardo, se tombe e statue potessero appartenere a un unico contesto e potessero essere parte di un unico programma di monumentalizzazione di un’area funeraria: data la contiguità stratigrafica fra lo strato di obliterazione che le conteneva e le stesse tombe, i cui lastroni di chiusura si trovavano a contatto con lo stesso strato di obliterazione, non sarebbe fantasioso poter ritenere che essere potessero essere parte di un unico complesso funerario.
Un indizio, sia pur labile, sta anche nel fatto che i lastroni delle tombe a cassa, i lastroni del recinto e le statue sono tutti della medesima pietra cavata a poche centinaia di metri dal sito. Di sicuro, dalle analisi effettuate nel corso del restauro, emerge che le statue fossero state distrutte volutamente, rotte e spezzate con la subbia in determinate parti dei corpi dei guerrieri, e che l’area fosse stata interessata da un incendio le cui tracce si riconoscono in molti dei frammenti pervenutici. La distruzione potrebbe essere avvenuta in una fase anteriore, o coincidente, con la metà del IV a.C. in base frammenti ceramici più recenti rinvenuti nello strato di obliterazione che conteneva i frammenti di statue. Ciò acuisce la difficoltà nel ricostruire la genesi del complesso, ovvero se la realizzazione delle statue fosse contestuale a quella delle tombe, oppure se fosse precedente o successiva: ma ciò crea, a mio modo di vedere, un cortocircuito dal quale è difficile uscire. Forse si può affermare che tombe e statue per una certa fase (più o meno lunga) sono state parte di un medesimo complesso; che le statue con i modelli di nuraghe rappresentavano un segno nel territorio e che questo segno forse era connesso a un sepolcreto; che la distruzione avesse comportato l’obliterazione di un complesso visibile e conosciuto in maniera veramente radicale senza peraltro intaccare la sacralità dei defunti. Mi chiedo se chi ha distrutto il complesso monumentale avesse la percezione di trovarsi di fronte alla dualità del monumento sacrario e dell’area funeraria a esso connessa.
Non possiamo essere precisi sui numeri se non nel totale dei frammenti che assommano a poco più di 4900, rispetto ai circa 2000 stimati al momento dello scavo. Un ultimo torso del quale rimane la parte inferiore del corpo non è sicuramente riferibile a un pugilatore, resta il dubbio che possa essere un arciere o un oplita.
La schedatura e l’analisi dei frammenti ha permesso una suddivisione in diverse categorie: statue antropomorfe, modelli di edilizia nuragica e altri tipi di monumento.
Fra quelli pertinenti alla modellistica “miniaturizzata” nuragica sono stati riconosciuti non meno di 7 betili, di 8 modelli di nuraghi complessi (fig. 4), di una ventina di nuraghi monotorri: da questo punto di vista però il computo non appare semplice perché molti degli esemplari monotorre potrebbe essere parte di nuraghi complessi o anche di altro, come si ricava dalla relazione di scavo stilata da Tronchetti.
Al gruppo delle statue antropomorfe fanno riferimento un certo numero di esemplari, a oggi 23: si tratta comunque di un numero minimo effettuato sulla base del calcolo dei busti pervenutici. Tale numero potrebbe lievitare soprattutto se riferito al numero di arti superiori e inferiori presenti: ciò induce a ritenere che il complesso degli oltre 4900 frammenti scoperti e oggi schedati sia ben lungi dall’essere completo e che in aree circostanti potrebbero venire alla luce nuove sacche di obliterazione pertinenti alla distruzione del complesso.
I tipi riconosciuti già nel corso dello scavo sono tre. Il tipo del cosiddetto “pugilatore” (fig. 5a), del quale si annoverano almeno 15 esemplari; quello dell’arciere (fig. 5b), del quale sono pervenuti cinque esemplari, quello dell’oplita (fig. 6) o portatore di scudo rotondo con due esemplari6: per un corretto riconoscimento di questi due ultimi tipi sono in corso ulteriori verifiche dei restauratori ma la differenziazione fra oplita e arciere sta nella presenza della faretra per quest’ultimo. Tutte le statue sono più grandi del naturale con altezze ricostruite che possono arrivare fino ai 2,20 metri di altezza e con strutture corporee differenti fra loro, più snelle o più massicce. Alcune delle statue si differenziano per una diversa resa della parte posteriore, praticamente piatta e priva di schemi decorativi: ciò induce a ulteriori riflessioni sulla loro collocazione nel contesto che al momento rimane puramente congetturale. In alcune delle statue sono state riconosciute tracce di pittura rossa, il che fa ritenere che il complesso potesse essere policromo e di grande effetto visivo: in altre parole questi kolossòi, seguendo la felice definizione di Lilliu, formano un complesso monumentale che, comunque sia, doveva avere un grande effetto scenico se, oltre a tutto, deve essere contestualizzato assieme ai modelli di nuraghe semplice e complesso o ai betili.
Questo, in maniera molto sommaria, il quadro delle presenze. Fin dal primo momento è apparso che la collocazione delle statue nel complesso della produzione artistica della Sardegna dovesse avere un posto di particolare riguardo: molti studiosi hanno appuntato la loro attenzione sul possibile, anzi reale, collegamento fra questi esempi di grande statuaria e la piccola bronzistica antropomorfa rilevando la sostanziale vicinanza fra i tre tipi presenti a Monte Prama e i prodotti del Gruppo Abini (VIII a.C.), secondo la sequenza messa in evidenza da Lilliu, rispetto a quelli più recenti del Gruppo Uta (VII a.C.).
Da questo innegabile collegamento fra i due ambiti artistici hanno preso l’avvio diverse scuole di pensiero: da un lato una tendenza rialzista per quel che concerne la cronologia della produzione di bronzetti (che per molti studiosi deve essere circoscritta al Bronzo Finale con labili appendici al I Ferro): la conseguenza di questa scelta è stata, fra l’altro, di rinchiudere le prospettive di un confronto per le nostre statue con le sole manifestazioni della piccola plastica bronzea e hanno imprigionato il complesso di Monte e Prama in una sorta di torre d’avorio inespugnabile all’interno della quale la circolarità delle argomentazioni ha preso il sopravvento sulla necessità di inserire questa manifestazione all’interno di quelle correnti che percorrono il Mediterraneo fra la fine del II e la prima metà del I millennio a.C. Dall’altro alcuni studiosi hanno cercato di inserire la produzione toreutica in un quadro temporale di più ampio respiro, connettendolo in ciascuna sua fase con manifestazioni artistiche mediterranee. Ciò ha portato alla ricostruzione di contesti solo in parte più recenti, in relazione alle frequentazioni orientali della Sardegna (a partire dall’XI a.C.), alle successive strutturazioni coloniali (a partire dalla metà dell’VIII a.C.), alle forme di contatto e scambio fra indigeni e mercanti orientali: esse possono fornire a nostro avviso il background culturale (dal lato indigeno) e artistico (da parte dei mercanti) nel quale inserire l’esperienza che ha condotto alla realizzazione di questo complesso.
A creare ulteriore motivo di definizione di prodotto artistico e culturale sardo (e solo sardo, endogeno) vi è stato sia il collegamento con la scultura architettonica della seconda parte del Bronzo e del I Ferro (stele, betili e decorazioni delle centinature delle tombe di giganti), sia la difficoltà di poter reperire dei confronti adeguati in altre esperienze di area tirrenica e più in generale mediterranea per le nostre statue: si vedano al riguardo i risultati, invero non soddisfacenti, scaturiti in quella parte dedicata ai comparanda per le statue di Monte Prama edita in 1996 e presi, da allora, come “prova provata” di una difficile collocazione delle statue in una fase recente.
Da quelle esperienze e dalla lucidissima analisi di Lilliu su “La grande statuaria nuragica” che, a oggi, rappresenta il più serio e convincente contributo all’interpretazione di queste statue, diversi passi in avanti sono stati compiuti in diversi settori sia delle relazioni e dei contatti fra culture, sia della ricerca storico artistica in ambiente mediterraneo per i secoli a cavallo fra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C.
Da un lato, infatti, si vanno precisando con sempre migliore accuratezza i processi di esplorazione e frequentazione del Mediterraneo centro occidentale da parte di mercanti e pionieri orientali (intendendo con questo termine tutto ciò che si disloca a Oriente della penisola italiana), che precede e segue la strutturazione coloniale greca e fenicia in Italia, per quel che maggiormente interessa in questa sede, in area tirrenica; dall’altro proprio dall’area tirrenica provengono una serie di stimoli a considerare i fenomeni di grande statuaria come il frutto di un contatto, di uno scambio o, ancor meglio, l’esito di un gift trade fra mercanti orientali e popolazioni italiche, in particolare delle nascenti compagini urbane dell’Etruria tirrenica e di area felsinea. In altre parole in area tirrenica si è tentato di ricostruire il percorso, o meglio i percorsi, che hanno portato fra la fine dell’VIII e il VII a.C. alla realizzazione di grande statuaria in pietra (da quella di Ceri e Veio a quella di Casale Marittimo, di Vetulonia, e più in generale alle esperienze della statuaria dell’Etruria centro settentrionale e delle stele felsinee). Dunque la ricostruzione di un processo all’interno del quale appaiono comunque predominanti i desiderata e le volontà della committenza rispetto all’abilità e alla techne portata dagli artigiani (fig. 7).
La ricostruzione di questi processi ha fatto anche compiere ulteriori passi in avanti nella interpretazione dei complessi monumentali, in particolare nel campo dell’elaborazione di complessi artistici (che sottintendono scelte culturali) coerenti, da leggere e interpretare come programmi in una sintonia che si stabilisce fra committente e artigiano: da questo punto di vista le scuole bolognese, perugina, romana, napoletana e salernitana (in stretto ordine geografico) hanno contribuito in maniera determinante alla lettura e alla interpretazione dei complessi monumentali che dal Ferro scandiscono la storia artistica e culturale dell’Italia preromana.
È proprio nel solco di queste linee programmatiche che vorrei proporre una serie di riflessioni: premetto subito che esse non possono offrire soluzioni ai problemi di cronologia quanto piuttosto si prefiggono di considerare l’aggregazione di statue, modelli di nuraghe, betili e altro all’interno di un unico contesto che nasce in un determinato momento della storia e per determinate ragioni che tenteremo di evincere e inter-pretare in questa sede.
Nel nostro percorso appare necessario operare alcune distinzioni fra diversi livelli di lettura, di analisi e d’interpretazione. Il primo livello è quello che potremmo definire tecnico e della lavorazione della pietra; il secondo potrebbe essere quello del riconoscimento di uno stile che riguarda le statue, della definizione della bottega ovvero dei “cervelli di artigiani” che le concepiscono; il terzo potrebbe essere quello del confronto iconografico dei singoli pezzi; il quarto potrebbe essere quello della ricostruzione di un programma unitario che porta alla realizzazione di tutto il complesso statuario. È bene ricordare fin da questo momento che l’artigiano, o la bottega di artigiani, non occupa in questo caso una posizione dominante rispetto alla committenza nella realizzazione del progetto: al contrario essa appare, ai miei occhi, in certo modo subalterna alla figura dei committenti che dettano e definiscono il racconto di una loro storia attraverso queste statue.
Riguardo al primo livello, anche a una prima sommaria osservazione non si può non notare il grande sforzo tecnico prodotto sulle sculture. Esso si può seguire lungo due direttrici: quella della composizione generale delle statue come dei modelli di nuraghe; quella della decorazione, assai spesso calligrafica che definisce particolari delle vesti e delle attrezzature di ciascuna statua. Da questo punto di vista lo strumentario deve essere stato molto ampio con forme di specifica specializzazione che assecondasse lo sforzo di rendere in maniera plastica tanto i corpi (fig. 8), quanto gli attrezzi portati dai guerrieri, tanto le parti accessorie riccamente ornate (fig. 9). Al plasticismo connaturato alla realizzazione dei corpi, al plasticismo calligrafico che connota le chiome e al geometrico rigore che permea le acconciature, gli armamenti e le vesti fa da contraltare uno schematismo esasperato che connota l’elaborazione dei volti di tutte le statue (fig. 10): uno schema netto e ripetitivo, fatto di tagli delle arcate sopraciliari e dei nasi, del taglio di piccole dimensioni e rettilineo della bocca, del bassorilievo per cerchi concentrici degli occhi, quest’ultimo avvenuto attraverso l’uso di cerchi applicati alla superficie e realizzati con una punta secca. Ciò crea un voluto distacco fra volto e resto del corpo rendendo apparentemente chiara la volontà della committenza trasmessa all’artigiano di plasmare figure diverse da quelle reali, quasi che non appartenessero a questo mondo ma a un mondo altro (fig. 11). La vicinanza di questa resa del viso con il bronzetto del demone con quattro occhi e quattro braccia mi ha suggerito di ipotizzare la loro pertinenza a un “mondo altro”.
Quel che si vuole sottolineare in questa sede è la necessità di riconoscere nell’esecutore di tali statue, che sembrano essere il prodotto tecnico di un’unica mente e forse di un’unica mano, un capo artigiano assolutamente specializzato nella grande scultura in pietra, padrone della tecnica scultorea in pietra: da questo punto di vista esiste un divario importante fra la sua techne e quella dei fabbri (o demiurghi) che lavoravano il metallo.
Il precedente excursus sul mondo tirrenico e sul rapporto fra committenza e artigiano rappresenta a mio avviso il punto di partenza anche per cercare di ricostruire il processo che ha portato alla composizione di questo complesso monumentale. Innanzi tutto possiamo ricordare con Morris che nel Mediterraneo tutte le forme di prima grande scultura siano connesse alla sfera funeraria, tanto nel mondo greco, che in quello italico e iberico. Questa peculiarità potrebbe accomunare anche la Sardegna a quelle esperienze. Esiste un’altra caratteristica che potrebbe essere utile per lo svolgimento delle nostre riflessioni: ovvero che la stragrande maggioranza delle esperienze sopra citate fanno riferimento a un rapporto fra committenza locale e artigiani provenienti da mondi “altri”.
Il prodotto che essi elaborano risente in qualche misura delle loro origini ma il messaggio che veicolano è certamente quello della committenza con il portato di tutti i valori sociali e culturali che vogliono esprimere. Da questo punto di vista ciascuna delle esperienze ricordate va annoverata come “momento unico” frutto di un rapporto personale che s’instaura fra la committenza (in quel caso i principes etruschi) e il dono ricevuto di una techne che può essere quella di un vasaio, di uno scultore, di un artigiano dei metalli o dell’avorio. Questo particolare rapporto serve anche a spiegare l’unicità delle realizzazioni, fra loro molto differenti e difficilmente confrontabili, e a gettare luce sulla capacità culturale e sociale della committenza di imporre il proprio messaggio e il proprio programma.
D’altra parte esistono per il complesso in esame delle peculiarità da non sottovalutare:
a) il fatto di concepire e realizzare delle statue litiche di dimensioni maggiori del vero (dei kolossòi) e con immagini antropomorfe mi sembra sia un fattore di assoluta novità nel panorama sardo non diversamente da quanto avviene in altre parti del Mediterraneo;
b) conseguentemente la stessa iconografia mi pare qualcosa di profondamente nuovo nel senso che non mi pare si conoscano figure di arcieri, pugilatori, personaggi armati di scudo rotondo, in una statuaria antropomorfa che per il periodo preso in esame assomma esemplari in numero assai circoscritto. Può Monte Prama avere una collocazione ed essere messo in relazione e confronto con le altre esperienze del Mediterraneo?
Vista in questa luce possiamo comprendere bene come gli sforzi nel corso degli anni Novanta del secolo scorso siano risultati deficitari e come la possibilità di cercare confronti fra queste statue e altri complessi scultorei di area italica o più in generale del Mediterraneo siano stati poveri di risultati. Dall’altra parte diviene anche comprensibile come il repertorio di riferimento non possa che essere quello della piccola plastica in bronzo le cui rappresentazioni, rinvenute in contesti funerari o cultuali, sono portatrici di messaggi e programmi non dissimili da quelli presenti a Monte Prama. Da questo punto di vista va discusso l’annoso problema del rapporto fra grande statuaria e piccola toreutica in bronzo: in altre parole, e con bonaria ironia, esso potrebbe essere racchiuso nella domanda “prima la gallina o prima l’uovo?” Infatti una parte degli studiosi di più stretta matrice protostorica dà per assodato che le esperienze della piccola toreutica bronzea siano alla base e forniscano i modelli per la grande statuaria litica. Alcune voci escono fuori dal coro e se non sbaglio proprio Lilliu, nel suo già ricordato contributo sulla grande statuaria nuragica, ricorda a proposito dei pugilatori che è la grande statuaria in pietra che offre solitamente il prototipo per altre espressioni artistiche di minori dimensioni. Parallelamente il modo di procedere nella lavorazione di una piccola statua di bronzo e quello di una grande statua appare profondamente differente e mi pare difficile poter affermare che un demiurgo della toreutica in bronzo possa essere stato l’artefice anche di una statua litica di dimensioni ben maggiori rispetto al vero.
A prescindere da questa domanda, di risposta peraltro difficile visti i dati a nostra disposizione, si possono riconoscere certamente dei confronti calzanti fra le statue e la piccola bronzistica: l’arciere ritratto nell’atto di scagliare il dardo, a riposo o con l’arco in spalla ha diversi confronti; il guerriero con scudo tondo frontale è anche ben presente nel repertorio della piccola toreutica; il pugilatore è anch’esso attestato fra i bronzetti ma non rientra in categorie pertinenti alla guerra, visto che Lilliu lo classifica come cuoiaio (fig. 12).
Fonte: XVII International Congress of Classical Archaeology, Roma 22-26 Sept. 2008 Session: Testo, immagine, comunicazione: immagine come linguaggio Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale D / D2 / 7 Reg. Tribunale Roma 05.08.2010 n. 330 ISSN 2039 - 0076
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Restauro voluto da A. Boninu? falso. Fu fortemente voluto dall'indimenticato Francesco Nicosia, discusso, odiato/amato soprintendente sassarese con un passato di soprintendenza a Firenze e di ispettore ministeriale. Sono amico di Antonietta Boninu, grande donna, ottima archeologa, a cui si deve la sistemazione del Museo di Porto Torres dove si prodigò molto; ma il restauro delle statue no, fu voluto da Nicosia e poi seguito da Boninu. Questo per amore della verità.
RispondiEliminaIn attesa di conferma o di smentita da parte dell'autore dell'articolo, segnalo che l'arciere ritratto nell'atto di scagliare il dardo è un'evidente forzatura simbolica. Nessun arciere che si rispetti assumerebbe quella posa.
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