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venerdì 15 giugno 2012

La Dea di Sardara




La Dea di Sardara
di Mikkelj Tzoroddu


Entriamo subito nel vivo, col dire che il bucranio simboleggia la capacità inseminatrice dell’uomo. In effetti, il bucranio, nel suo significato apparente è la rappresentazione della testa del bue con i suoi principali attributi, ovvero del toro. Ma, il toro è animale riproduttivo per eccellenza, al quale si ricorre per la fondamentale, quotidiana necessità del latte per l’alimentazione. Anche la testa dell’ariete ricorre, in quel novero di espedienti simbolici, con la stessa frequenza, perché anch’esso è mezzo indispensabile per la quotidiana razione di latte per l’alimentazione. Pertanto, senza l’assolutamente necessario contributo di questi due preziosi animali, tutte le umanità di tutte le epoche, forse, non sarebbero sopravvissute o almeno, non interamente. La stessa umanità dei nostri giorni non ne può fare a meno.
Quindi l’ariete ed il toro rappresentano, soprattutto, forza soprannaturale di generazione e alimentazione; soltanto poi e per gli effetti indispensabili di quella alimentazione “divina”, essi risultano essere patrocinatori della vita. Ma, uno degli attributi principali della Dea e della donna (forse fin dagli inizi del Paleolitico superiore) non è proprio quello di madre nutrice, rappresentata con i seni traboccanti del prezioso nutrimento?. E, quale migliore patronato può essere ad esse accostato, se non il potentissimo toro (od ariete), per esaltare in massimo grado quella loro funzione? Pur tuttavia, il bucranio, cioè la testa del toro, è proprio il simbolo che rappresenta la funzione fecondatrice dell’uomo, certo idealmente esaltata dall’accostamento con la bestia. Tale segno, è l’accorgimento artistico che ricorda l’unione della donna (sovente idealizzata come Dea) con il suo sodale uomo, che dà la spinta alla formidabile sequenza dei fenomeni naturali che portano alla creazione di una umana comunità: deposizione del seme nell’utero, gestazione, parto, allattamento, crescita. L’artista che si esibì in corrispondenza del pozzo e della tomba, prese a prestito il profondo significato del simbolo bucranio, quello potentemente generativo, per mettere in evidenza la necessaria comunione fra l’uomo e l’utero-pozzo o l’utero-tomba. E non aveva più chiaro modo per farlo: nella gloriosa esaltazione della proprietà generatrice della Dea, ma anche della donna, l’unico simbolo, all’altezza del compito, era quello che rappresentava la macchina inseminatrice per eccellenza, il toro (o l’ariete). In alcuni casi la scelta cadeva sull’ariete, ma più comunemente sul toro, forse per un suo più antico addomesticamento. Aggiungiamo che può sembrare naturale credere ad uno strettissimo legame segnico fra bucranio e utero, mentre, ad un più attento esame, la “identificazione” simbologica (messa a punto nel passato) fra i due elementi figurativi, ci lascia certo insoddisfatti. Siamo però consapevoli (come espresso altrove) che una ardita rappresentazione del segno bucranio, come talvolta si legge sull’oggetto definito “menhir”, racchiuda in sé l’utero della dea-donna, con la vita che dal suo interno si fa strada verso la luce, oltrepassando l’apertura della vulva. Nell’arco dei millenni, la raffigurazione del bucranio, ha preso la mano degli artisti e quelli antico neolitici lo hanno fatto nascere in contesti nei quali quella tradita grafia si integrava alla perfezione.


Esempio caratteristico, di tale impegno trascendente è, come detto, l’interno di tombe e pozzi, in cui quei simboli avevano il compito sovrannaturale di favorire la rigenerazione nell’umidità del limo e nella intimità dell’acqua. Ma, i segni generativi, entrarono a far parte delle compiute espressioni degli artisti del sacro, nel momento in cui essi sentirono l’esigenza di esprimere la loro rappresentando la stessa Dea che sovrintendeva alla generazione dell’essere e alla rinascita della natura. Riguardo al primo dei raffronti che ci sentiamo di intessere, proponiamo le due figure che appaiono, secondo l’ottica messa a punto testé, straordinariamente identiche. La prima, è un menhir del III millennio a.C. (Mas Caplier, al sud della Francia) che rappresenta una deità femminile mentre abbraccia un bucranio. La seconda, è un frammento di vaso piriforme con rappresentazione schematica di figura umana, la quale per alcuni regge un bastone forcuto, secondo altri stringe fra le braccia un oggetto terminante a forcella (Sardara, Sardegna centro meridionale), che rappresenta ancora una dea che abbraccia un bucranio. La percezione del bucranio è infatti evidente, una volta entrati nel preciso contesto simbolico, anche nella seconda figura (nota finora come il frammento di Sardara), nella quale si ammira la dea che abbraccia null’altro se non un bucranio. Si badi anzi, come lo stesso elemento figurativo, il bucranio, sia inserito per ben due volte in questa partitura grafica, la seconda (se pur capovolto) anche alla base (così come ci viene restituita dal frammento) della rappresentazione della dea. Vediamo pertanto, come in quella che definiremo d’ora in avanti la “dea di Sardara”, vi è anche una stupefacente applicazione di quell’effetto del doppio (due linee, due triangoli, due losanghe, ecc.) tendente, nelle manifestazioni artistico-religiose del Neolitico antico, ad amplificare il significato racchiuso in tutto il portato del segno singolo. La dea di Sardara deve intendersi come la narrazione più estensiva del divino che genera la vita, non solo per le manifestazioni simboliche amplificate (ve ne sono altre ancora da interpretare) con cui l’artista e le rigide regole cultuali attinenti alla antichissima tradizione, hanno imposto alla materia, ma soprattutto perché la dea di Sardara, al contrario della dea di Mas Caplier, soggiorna in un pozzo, che solo in virtù della sua presenza ascende al sacro. Il pozzo, con il suo elemento liquido è (forse più che la tomba sotterranea) l’esaltante simbolo della nuova vita che si genera nell’umido del ventre divino e materno. La stupefacente tessitura simbolica su cui insiste la dea di Sardara, si arguisce essere sì complessa che, noi, superficiali viventi il III millennio d.C., riusciamo solo lontanissimamente a penetrarne significato e nobiltà liturgica. Si guardino ad esempio, i quattro cerchi concentrici con punto centrale, posti esattamente al di sopra del bucranio rovesciato, appoggiato al divino ventre. Ebbene, pur nel molteplice significato che assumono, nelle circostanze più varie, i cerchi concentrici di matrice antico-neolitica, ci pare coercitivo avocarne due per il simbolo sul bucranio capovolto della dea di Sardara: energia vitale divina, che si manifesta, luna dopo luna, con l’ingrossamento del ventre della madre-dea. La stessa, identica impressione, materiale e spirituale a un tempo, troviamo a Çatalhöyük, il sito anatolico del Neolitico antico, che in un santuario datato a circa la metà del IX millennio da oggi, presenta un rilievo che venne definito dal Mellaart “la dea incinta”, il quale, pur esso, ci fornisce il racconto eterno e prepotente dell’appropinquarsi alla vita, del nascituro, attraverso il testo scritto nei quattro cerchi concentrici con punto centrale, che ci ammoniscono dal corpo della donna-dea. Ma, la potenza espressiva della dea di Sardara, nella sua funzione di custode del germoglio di vita nel suo divino ventre, viene declinata manifestamente nella esternazione dei cicli lunari necessari alla gestazione e nascita della nuova vita. Infatti, sulla parte inferiore del primo bucranio abbracciato dalla dea, è ben visibile il racconto sui cicli lunari, in numero di dieci. Non soltanto questo, ci dona l’antica arte neolitica, ma relativamente alla stessa enunciazione dei cicli lunari, ci esalta con l’effetto del doppio: infatti, lungh’esso il lato adiacente a quello in cui sono sistemate le prime dieci tacche, ve ne sono altre dieci che fanno bella mostra di sé. La scoperta di questa seconda lista di cicli, dobbiamo alla osservazione dal vivo del reperto, infatti solo ora, chi guarda la solita riproduzione fotografica della dea di Sardara, riesce ad intuire la presenza della seconda lista di cicli, appena al di là della prima. V’è alfine da aggiungere, come la pertinenza del frammento di Sardara all’Età del Ferro, a causa della presenza di “motivi geometrici” (sic!), ci lasci quanto mai dubbiosi circa il raggiungimento dell’obiettivo di una assegnazione temporale all’esercizio artistico e segnico. Per conto nostro, diciamo che la dea di Sardara, dopo aver varcato i confini di una esperienza umana lunga moltissimi millenni, ci proviene da ultimo, dal pozzo sacro di sant’Anastasia.

Fonte: Blog di Gianfranco Pintore

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