sabato 17 dicembre 2011
Vino greco nella Sardegna Punica
Bere vino “alla greca” nella Sardegna punica?
di Carlo Tronchetti
(tratto da Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale A / A3 / 4)
Con il finire dell’età arcaica va a perdersi il valore cerimoniale del simposio e del relativo consumo del vino, nelle forme in cui è stato ben evidenziato da Paolo Bernardini relativamente alla Sardegna fenicia. La sostanziale coincidenza con il concreto avvicendamento tra Fenici e Cartaginesi nell’isola, adeguatamente testimoniato da una serie diversificata di evidenze, impone una riflessione sui modi del consumo del vino nella Sardegna punica. Se, cioè, questo si possa configurare in una certa misura con modalità legate a costumi stranieri, e, in particolare, di stampo greco. Il vino era consumato con certezza; se da un lato Bernardini non rileva un incremento delle produzioni anforiche locali destinate alla veicolazione della bevanda, ma anzi una specializzazione verso altre derrate agricole, dall’altro si può facilmente rilevare un notevole incremento delle importazioni anforarie vinarie, da diversi luoghi del Mediterraneo. Sono attestati, in ritrovamenti terrestri, contenitori dall’area egea, dalla Grecia orientale e continentale, dalla Magna Grecia e dall’area Cartaginese- Siceliota, dall’Etruria, da Massalia. Un commercio di vino, quindi, di discreta ampiezza e rilevanza, che trova, seppur parzialmente, un buon confronto con il carico anforico del relitto di El Sec, mentre minori sono le affinità con quello della Secca del Capistello. Possiamo adesso quindi rivolgere la nostra attenzione al vasellame utilizzato per il consumo del vino, rivolgendoci in particolare verso quello di importazione, maggiormente cogente con il tema trattato. A partire dagli anni iniziali del V secolo riscontriamo un discreto numero di coppe ansate, (fig. 1) in prevalenza decorate a figure nere (gruppo Leafless e genericamente Late-cups) e in misura minima a figure rosse, anche se non mancano le coppe tipo C a vernice nera, cui seguono in quantità rilevante le coppe stemless inset-lip (le Castulo cups della terminologia iberica) (fig. 2), che costituiscono una sorta di fossile-guida dei livelli del V secolo centrale in Sardegna. Ancora nell’ambito delle figure nere troviamo alcuni cup-skyphoi della maniera del pittore di Haimon, mentre altri cup-skyphoi e cup-kantharoi sono a vernice nera. Sono poi attestate anche poche coppe monoansate e non ansate. Un buon numero di esemplari è dato da skyphoi, sia a figure rosse (in quantità molto ridotta) che a vernice nera.
Non si possono tralasciare, perché eminentemente legati al consumo del vino, i pochissimi crateri, alcune oinochoai a bocca trilobata, anch’esse sia a figure rosse che a vernice nera, e sporadici boccali. Come si vede siamo di fronte ad un repertorio molto ampio di forme, che mostra come, nell’ambito del V a.C., le importazioni attiche fossero legate prevalentemente a un tipo di vasellame da mensa destinato al consumo del vino, anche se non aderisco aprioristicamente alla posizione di M. Bats, che individua unicamente i vasi ansati come vasellame per bere vino. Gli altri materiali attici presenti rientrano agevolmente in un contesto simposiaco: dalle numerose lucerne alle onnipresenti coppette, ai frequenti contenitori di olio profumato, che si addensano nella parte finale del secolo. Il IV secolo vede ad Atene l’introduzione nel repertorio formale in misura molto rilevante di coppe non ansate: le outturned rim e le incurving rim (L. 22 e L. 21), sempre accompagnate però dalle forme ansate: prevalentemente skyphoi e bolsal, già presenti dallo scorcio del secolo precedente. In Sardegna si assiste ad un immediato e ragguardevole adeguamento a questo nuovo repertorio, con la forte introduzione di un rilevantissimo numero di coppe non ansate e di bolsal (fig. 3), mentre gli skyphoi tendono a decrescere sensibilmente. Ora gli studi di M. Bats, cui ho già fatto cenno sopra, tendono a riconoscere nelle coppe non ansate vasellame legato al consumo di alimenti semiliquidi: zuppe, minestroni, pastoni vari. Questo è senza dubbio sostenibile quando ci si riferisca all’ambito
greco della madre patria e coloniale, ma non mi sentirei di affermare con la medesima sicurezza la stessa funzionalità in un ambito culturale diverso come quello punico, che presenta marcate differenze da quello ellenico. Se andiamo a considerare il vasellame punico destinato al consumo delle bevande, possiamo agevolmente constatare come il repertorio si componga di ciotole, di diverse fogge, sempre rigorosamente prive di anse, tranne che nel caso dell’imitazione di vasi alieni (figg. 4, 5).
Se indubbiamente le coppe attiche incurving rim non sono idonee al consumo di una bevanda, a causa appunto dell’orlo incurvato all’interno, le outturned rim, al contrario si prestano benissimo per bere; io ritengo che la coppa attica L. 22 possa essere stata utilizzata anche, e forse sopratutto, per il consumo del vino. A questo mi spinge inoltre l’esame delle numerosissime imitazioni della forma nella Sardegna punica (fig. 6). In realtà imitazioni e derivazioni della L. 22 sono ampiamente diffuse in tutto l’occidente punico e punicizzato dallo scorcio del IV sino a gran parte del III sec. a.C., ma la Sardegna si delinea, in questo quadro più generale, con una propria peculiarità. Verificando il fenomeno delle imitazioni in altre aree puniche vediamo che a Cartagine sono imitate in gran numero anche le bolsal (fig. 7), e così avviene pure nell’area gaditana (fig. 8), interessata di recente da un’accurata analisi, mentre nell’isola imitazioni di bolsal, sino ad oggi, non si conoscono. Mi chiedo se un tale numero di imitazioni della outturned rim, talora redatte con estrema aderenza agli originali attici, possa trovare la sua giustificazione per una foggia destinata unicamente al “pane quotidiano” o, invece, non possa meglio riferirsi al consumo di una bevanda sostanzialmente sentita come esotica, da bersi con vasi di aspetto anch’esso esotico.
Sicuramente, nel quadro del consumo del vino, possiamo vedere come avvenga una selezione da parte dei Punici di Sardegna, rispetto alla relativa produzione ceramica attica. Mentre nel V, sia pure in modo abbastanza sporadico, si avevano importazioni e imitazioni di vasi destinati a versare il vino (oinochoai shape 2 Sparkes-Talcott), e si riscontrano anche alcuni crateri, durante il IV secolo questo fenomeno si arresta. Le oinochoai attiche definite chous (shape 3), che attraversano tutto il IV secolo, in Sardegna sono assenti, così come pure i crateri. A proposito di quest’ultima forma si deve tener presente la totale assenza dei crateri del Pittore del Tirso Nero, ampiamente diffusi nella penisola iberica meridionale e abbondantemente presenti nel relitto di El Sec. Una tale assenza, peraltro, concorda con il fatto che la maggior parte di questi vasi, nella penisola iberica, si trova distribuita nelle necropoli indigene, dove giungeva attraverso il commercio punico. I grandi vasi per miscelare e servire il vino sembrano assai scarsamente rappresentati in ambito punico vero e proprio. Diverso è invece il caso delle coppe afferenti alla produzione del gruppo di Vienna 116 e degli skyphoi del gruppo Fat-boy. Questi vasi, entrambi ansati e quindi istituzionalmente destinati al consumo del vino, sono attestati in ambito punico vero e proprio, come ci indicano chiaramente i recenti scavi di Cartagine eccellentemente editi dalla Bechtold, ma in Sardegna non si trovano che in maniera sporadica: unicamente coppe del gruppo di Vienna 116 a Tharros (2 esemplari), Sulci e Terralba (1 esemplare ciascuno). Come ho già avuto modo di chiarire altrove, questo rientra sicuramente nel diffuso aniconismo della cultura punica, che non mostra assolutamente interesse alle figurazioni sulla ceramica sino dall’età arcaica; ma anche può essere l’indizio di una multifunzionalità di altre forme importate, come la outturned rim.
Un esame degli scavi negli abitati, ove possibile, cioè in presenza di contesti stratificati attendibili, offre lo spunto a considerazioni interessanti. L’analisi dei materiali provenienti dallo scavo di una cisterna di Sulci, che conteneva un gran numero di vasellame da mensa compreso in un arco cronologico abbastanza ristretto, può essere confrontato con quello dei livelli di vita dell’abitato punico di Cagliari.
Si percepisce immediatamente la disparità dell’incidenza delle singole forme. La bolsal è assai più attestata a Sulci che a Cagliari, dove invece è dominante la coppa L. 21, assente nel centro sulcitano. Le coppe L. 22 outturned rim hanno una buona ed abbastanza simile consistenza in entrambe le situazioni, così come le coppette. Altre forme ansate sono testimoniate in numero minimo unicamente a Sulci. Se allargassimo l’indagine anche al vasellame da mensa, stavolta sicuramente destinato al consumo degli alimenti solidi, potremmo vedere attestati a Cagliari il piatto da pesce ed il piattino rolled-rim, che sono invece stranamente del tutto assenti a Sant’Antioco. Dico stranamente perché il piatto da pesce è forma diffusissima nei centri punici di Sardegna, sia pure con una attestazione preferenziale in ambito funerario. Se passiamo adesso a considerare le necropoli, dobbiamo rivolgerci ad altre situazioni, perché Sulci, in tutte le sue decine e decine di tombe a camera ricche di corredo databili nel IV a.C., ha restituito come unica attestazione di oggetti ceramici di importazione solo un limitatissimo numero di lucerne. Possiamo rivolgere la nostra attenzione alle necropoli di Cagliari e Nora, che offrono una serie di dati omogenea e ben confrontabile. Anche nei corredi tombali si possono riportare le medesime osservazioni operate per gli abitati. Le bolsal e le outturned rim sono prevalenti a Nora, mentre a Cagliari appaiono in misura molto ridotta, inversamente alla coppa incurving rim.
Già in altra sede ho avuto modo di notare che i corredi funerari punici non offrono un posto di particolare rilevanza al servito per l’assunzione del vino. Non si riesce ad individuare, non solo in località diverse, ma anche nell’ambito di un medesimo centro, prendendo in esame i singoli corredi all’interno della stessa necropoli, una costante di presenze ed associazioni che si ripeta e ci indirizzi verso un eventuale valore ideologico del “bere vino”, significato dal vasellame utilizzato per il suo consumo. Con ogni evidenza questo dipende dall’ambiente culturale in cui ci troviamo. La bella e approfondita analisi dedicata al simposio da Domenico Musti è illuminante al riguardo. Il Musti propone tre forme nello
sviluppo del simposio, di cui il bere vino rappresenta il secondo tempo, indispensabile preliminare al terzo tempo, quello della gioia (euphrosýne, hedoné), che può andare dal piacere puramente fisico a quello puramente intellettuale. Mentre la prima forma del simposio interessa in massima prevalenza (lo studioso ricorda opportunamente che la distinzione da lui proposta non ha valore rigido ed assoluto) il periodo orientalizzante ed arcaico, derivando da influssi medio-orientali, ed è legata ad una pratica sociale ed esistenziale propria delle aristocrazie e di un ceto elevato, con la fine dell’età arcaica il terzo tempo del simposio si indirizza verso una pratica intellettuale di conversazioni morali e filosofiche, con la forte impronta del socratismo e del platonismo; è quindi strettamente legata ad un tempo ed una fase ben determinata della cultura greca. Il fenomeno, ovviamente, non è ristretto alla città di Atene, ma è diffuso nel mondo coloniale e immediatamente adiacente, permeato di cultura ellenica. Così invece, con ogni evidenza, non è per il mondo punico, culturalmente diverso. Mi sentirei di proporre, quindi, che la mancata valenza ideologica del servito da simposio in ambito punico di Sardegna sia dovuta proprio alla differente concezione del banchetto nei due dissimili ambienti culturali. Tale considerazione, d’altronde, rientra in un filone di studi rivolti all’analisi di culture “periferiche” con propri e peculiari caratteri distintivi, in cui vengono adottati selettivamente oggetti esotici per il consumo di cibi e sopratutto bevande, incorporandoli in un repertorio già ben stabilito, senza che questo voglia significare una stretta aderenza ed imitazione dell’ambito culturale di provenienza di tali oggetti. Come conclusione ritengo di poter affermare che nella Sardegna punica, tra il V ed il IV a.C., si ha un utilizzo di vasi greci per bere il vino, ma non si consuma il vino “alla greca” nel senso in cui questo avviene nell’ambito del simposio greco, esistendo profonde diversità culturali e strutturali fra la società punica e quella ellenica.
Fonte: www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html
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