lunedì 31 ottobre 2011
Capone Editore - Premiata a Castellabate
La Capone Editore premiata a Castellabate
Il sindaco di Castellabate, Costabile Spinelli,premia l'editore Lorenzo Capone
Nel corso della cerimonia inaugurale della XXI edizione di “Libri Meridionali - Vetrina dell’editoria del Sud”, svoltasi nella stupenda cornice di Villa Matarazzo a Santa Maria di Castellabate in provincia di Salerno, è stata premiata, unica tra le case editrice del Mezzogiorno, la Capone Editore “per l’incessante attività tesa alla promozione della storia civile, economica e religiosa dell’intero mezzogiorno, attraverso la pubblicazione di accurate monografie, raffinati volumi di cartografia storica e immediate guide turistiche”.
A ritirare il premio c’era, ovviamente, Lorenzo Capone, fondatore e amministratore della casa editrice, che, ringraziando gli organizzatori del premio per l’attenzione riservata, ha sottolineato le obiettive difficoltà nelle quali ci si trova dovendo produrre libri e riviste in un mercato notoriamente “povero”. Di qui la necessità di inventarsi iniziative e spazi nei quali, dovendo quanto meno pareggiare i conti, operare con risultati positivi. “Fortunatamente, da tempo, - ha tenuto a precisare Lorenzo Capone - avendo abbondantemente superato i limiti della produzione provinciale e regionale, siamo capillarmente presenti, attraverso una intensa produzione legata alla storia civile e religiosa dell’intero Mezzogiorno, in tutti gli angoli del centro sud del nostro paese. Questo, se da una parte ci impegna molto sul piano dell’investimento, dall’altra, per i risultati di vendita ottenuti, ci dà tranquillità sul piano aziendale. Pubblichiamo mediamente un volume al mese, senza contare le ristampe che interessano soprattutto la produzione turistica, settore nel quale siamo presenti da anni e sul quale puntiamo per diventare leader a livello centro-meridionale”.
Nel corso della serata sono stati premiati i giornalisti e scrittori Geo Nocchetti e Luciano Pignataro, rispettivamente del TG3 Campania e di “Il Mattino” di Napoli, e Ruggiero Cappuccio, regista, drammaturgo e narratore, autore l’anno scorso di “Fuoco su Napoli” pubblicato da Feltrinelli.
“Libri Meridionali - Vetrina dell’editoria del Sud” è la più importante rassegna estiva di tutto il Mezzogiorno. Ideata da Gennaro Malzone, un raffinato intellettuale cilentano appassionato di libri, la XXI edizione, patrocinata e sostenuta dal comune di Castellabate e dal Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni, anche quest’anno presenta le numerose e più recenti novità editoriali delle più prestigiose case editrici del Sud. Un appuntamento annuale, ormai, al quale partecipano anche i numerosissimi turisti di ogni parte d’Italia presenti sulla bellissima costa del Cilento.
Nell'immagine: l'editore Lorenzo Capone premiato dal sindaco Spinelli.
Il 19 Novembre a Cagliari ci sarà la presentazione ufficiale in anteprima del nuovo libro edito da Capone: "Antichi Popoli del Mediterraneo" di Pierluigi Montalbano. L'appuntamento è fissato per le ore 18.00 presso il chiostro di San Francesco nel Corso Vittorio Emanuele 56.
domenica 30 ottobre 2011
Viaggio nella Storia - Santa Vittoria di Serri
L'incanto del mondo agro-pastorale, una tradizione millenaria a Serri
di Pierluigi Montalbano
In occasione del convegno di studi sul Santuario di Santa Vittoria di Serri, organizzato dall'Associazione Giovani Bronzetti e dal comune di Serri, si è svolto sabato 29 Ottobre un nuovo appuntamento con la rassegna "Viaggio nella Storia", curato da Pierluigi Montalbano e giunto alla sua 5° edizione annuale consecutiva.
La giornata è iniziata alle 10.00 con la visita guidata al sito nuragico, scoperto nei primi anni del Novecento dal Taramelli che mise in luce un'area di alcuni ettari nella quale erano presenti il tempio a pozzo, il recinto delle feste, il nuraghe a corridoio, il tempio in antis e la chiesetta di Santa Maria della Vittoria, oggi conservata in una solo navata.
Situato a 650 metri s.l.m. il Santuario domina la valle sottostante offrendo panorami mozzafiato. L'aria fresca, la ricca vegetazione e la presenza dei monumenti in pietra contribuiscono a donare ai visitatori una forte sensazione di energia. Il tempio a pozzo, in basalto e calcare, risale al XII a.C. come la maggior parte delle altre strutture presenti nel sito. Il villaggio nuragico presenta un interessante recinto in pietra di notevoli dimensioni, dotato di un porticato con residui di pilastri e altri vani circolari sistemati intorno al cortile.
Il complesso ha restituito molti reperti presenti nei musei sardi, e una eccezionale serie di bronzetti raffiguranti uomini e animali. Il più significativo è certamente la donna su sgabello che regge il bambino, una sorta di "pietà" michelangiolesca realizzata oltre 2300 anni prima che il grande artista rinascimentale scolpisse quella meravigliosa opera che oggi si trova nella Basilica di San Pietro a Roma. La presenza in Sardegna di altre 3 rappresentazioni di questa tipologia suggerisce la ricerca di un simbolismo forte presso le comunità dell'epoca, ma ancora oggi ignoriamo il "vero" significato di queste sculture.
In mattinata si è svolto un laboratorio di simulazione di scavo archeologico per bambini, del quale potrete facilmente individuare l'immagine.
I partecipanti si sono poi spostati all'interno dell'agriturismo Santa Vittoria, nelle immediate vicinanze della biglietteria, dove era in corso il convegno di studi sul Santuario federale.
I moderatori Moreno Pisano e Claudia Sarritzu hanno presentato gli studiosi A.Orgiana, E.Gola, A.Spano che hanno relazionato sulle possibilità di sviluppo turistico culturale del territorio.
Alle 11.30 il convegno ha cambiato tema e gli studiosi hanno concentrato l'attenzione sull'archeologia. Il Prof. U.Sanna ha esposto una relazione sull'importanza degli studi di archeometria, riferendo i risultati delle analisi sui lingotti in rame "ox-hide" e su altri manufatti rinvenuti nell'isola.
R.Concas ha parlato del sistema museale, analizzando la situazione attuale e proponendo un'idea di sviluppo sostenibile dei musei.
L'intervento di P.Montalbano riguardava le grandi capanne circolari (Curie) dotate di bancone presenti nei più importanti siti sardi. Barumini, Alghero, Serri, Florinas, Santa Cristina. Il resoconto dell'intervento sarà pubblicato nei prossimi giorni in questo quotidiano on line.
La giornata di studio si è conclusa con l'intervento di S.Ghiani sul ruolo degli enti locali nella gestione del patrimonio culturale.
Dopo i saluti finali dell'Associazione Giovani Bronzetti, e i ringraziamenti di rito, il gruppo ha assaporato i gusti del territorio offerti dall'agriturismo e preparati dalle abili mani di Ambrogio, conduttore della struttura ricettiva.
Alle 16.30, presso il Montegranatico, Pierluigi Montalbano ha presentato il libro "Signori del mare e del metallo", un saggio sulla civiltà nuragica che approfondisce i temi riguardanti i rapporti dei sardi del Bronzo con la navigazione, con le tecnologie metallurgiche e con l'architettura.
La serata si è conclusa nel laboratorio gastronomico della famiglia Pirisi, al centro del paese. Le signore partecipanti hanno appreso dalle massaie locali le ricette e le tradizionali tecniche per la preparazione di pane, pasta e dolci genuini: Coccoisi, civraxiu, fregula, pitzottis, amarettus e pardulas, offerti sui cestini di paglia realizzati a mano dagli artigiani.
Nel centro storico del paese i partecipanti hanno visitato le tipiche abitazioni rurali con ampi cortili e portoni ad arco, dove si possono ammirare gli antichi strumenti del mondo agro-pastorale.
di Pierluigi Montalbano
In occasione del convegno di studi sul Santuario di Santa Vittoria di Serri, organizzato dall'Associazione Giovani Bronzetti e dal comune di Serri, si è svolto sabato 29 Ottobre un nuovo appuntamento con la rassegna "Viaggio nella Storia", curato da Pierluigi Montalbano e giunto alla sua 5° edizione annuale consecutiva.
La giornata è iniziata alle 10.00 con la visita guidata al sito nuragico, scoperto nei primi anni del Novecento dal Taramelli che mise in luce un'area di alcuni ettari nella quale erano presenti il tempio a pozzo, il recinto delle feste, il nuraghe a corridoio, il tempio in antis e la chiesetta di Santa Maria della Vittoria, oggi conservata in una solo navata.
Situato a 650 metri s.l.m. il Santuario domina la valle sottostante offrendo panorami mozzafiato. L'aria fresca, la ricca vegetazione e la presenza dei monumenti in pietra contribuiscono a donare ai visitatori una forte sensazione di energia. Il tempio a pozzo, in basalto e calcare, risale al XII a.C. come la maggior parte delle altre strutture presenti nel sito. Il villaggio nuragico presenta un interessante recinto in pietra di notevoli dimensioni, dotato di un porticato con residui di pilastri e altri vani circolari sistemati intorno al cortile.
Il complesso ha restituito molti reperti presenti nei musei sardi, e una eccezionale serie di bronzetti raffiguranti uomini e animali. Il più significativo è certamente la donna su sgabello che regge il bambino, una sorta di "pietà" michelangiolesca realizzata oltre 2300 anni prima che il grande artista rinascimentale scolpisse quella meravigliosa opera che oggi si trova nella Basilica di San Pietro a Roma. La presenza in Sardegna di altre 3 rappresentazioni di questa tipologia suggerisce la ricerca di un simbolismo forte presso le comunità dell'epoca, ma ancora oggi ignoriamo il "vero" significato di queste sculture.
In mattinata si è svolto un laboratorio di simulazione di scavo archeologico per bambini, del quale potrete facilmente individuare l'immagine.
I partecipanti si sono poi spostati all'interno dell'agriturismo Santa Vittoria, nelle immediate vicinanze della biglietteria, dove era in corso il convegno di studi sul Santuario federale.
I moderatori Moreno Pisano e Claudia Sarritzu hanno presentato gli studiosi A.Orgiana, E.Gola, A.Spano che hanno relazionato sulle possibilità di sviluppo turistico culturale del territorio.
Alle 11.30 il convegno ha cambiato tema e gli studiosi hanno concentrato l'attenzione sull'archeologia. Il Prof. U.Sanna ha esposto una relazione sull'importanza degli studi di archeometria, riferendo i risultati delle analisi sui lingotti in rame "ox-hide" e su altri manufatti rinvenuti nell'isola.
R.Concas ha parlato del sistema museale, analizzando la situazione attuale e proponendo un'idea di sviluppo sostenibile dei musei.
L'intervento di P.Montalbano riguardava le grandi capanne circolari (Curie) dotate di bancone presenti nei più importanti siti sardi. Barumini, Alghero, Serri, Florinas, Santa Cristina. Il resoconto dell'intervento sarà pubblicato nei prossimi giorni in questo quotidiano on line.
La giornata di studio si è conclusa con l'intervento di S.Ghiani sul ruolo degli enti locali nella gestione del patrimonio culturale.
Dopo i saluti finali dell'Associazione Giovani Bronzetti, e i ringraziamenti di rito, il gruppo ha assaporato i gusti del territorio offerti dall'agriturismo e preparati dalle abili mani di Ambrogio, conduttore della struttura ricettiva.
Alle 16.30, presso il Montegranatico, Pierluigi Montalbano ha presentato il libro "Signori del mare e del metallo", un saggio sulla civiltà nuragica che approfondisce i temi riguardanti i rapporti dei sardi del Bronzo con la navigazione, con le tecnologie metallurgiche e con l'architettura.
La serata si è conclusa nel laboratorio gastronomico della famiglia Pirisi, al centro del paese. Le signore partecipanti hanno appreso dalle massaie locali le ricette e le tradizionali tecniche per la preparazione di pane, pasta e dolci genuini: Coccoisi, civraxiu, fregula, pitzottis, amarettus e pardulas, offerti sui cestini di paglia realizzati a mano dagli artigiani.
Nel centro storico del paese i partecipanti hanno visitato le tipiche abitazioni rurali con ampi cortili e portoni ad arco, dove si possono ammirare gli antichi strumenti del mondo agro-pastorale.
venerdì 28 ottobre 2011
Convegno di studi su Santa Vittoria di Serri: organi di informazione...assenti.
Le grandi rivoluzioni si fanno con le idee migliori, i giovani migliori e i sogni migliori
di Claudia Sarritzu
Si parla troppo spesso di antipolitica, io credo che la politica sia bella, quando la politica siamo noi che ci prendiamo cura della nostra terra.
Che l’Università italiana sia percepita come un’istituzione spesso subita dagli studenti più che partecipata secondo uno spirito di condivisione è un’ovvietà di cui non credo ci sia bisogno di discutere. Da troppi anni si desiderano riforme che fondino facoltà per studenti, e non per i professori. La Gelmini con i suoi tagli non ha fatto che acuire questo divario, e il problema del baronato non è stato minimamente affrontato.
L'Associazione Giovani Bronzetti, ideatrice del convegno studi sul Santuario di Santa Vittoria di Serri ha iniziato a lavorare a questo progetto da gennaio. Sfidando la burocrazia, le poche risorse, scontando soprattutto di essere giovani. La rivoluzione che oggi vi sto raccontando è proprio quella di un gruppo di ragazzi laureati o laureandi in archeologia, turismo, storia dell’arte, che non hanno nessuna intenzione di lamentarsi e scaricare la colpa della drammatica situazione in cui versano i beni culturali italiani sulle generazioni dei nostri genitori, ma di rimboccarsi le mani per essere protagonisti, almeno nella propria provincia, di un evento che fa bene al proprio territorio. Si parla tantissimo di cervelli in fuga, di giovani che decidono di allontanarsi dalla propria terra perché hanno il sacro santo diritto di realizzare i propri progetti. Ma ogni tanto, a mio modesto parere, si dovrebbe parlare anche di quelli che decidono di restare, di essere generosi nei confronti magari del proprio paesello di meno di mille abitanti. Loro con queste tre giornate, assieme a tutti i partner istituzionali che hanno creduto in loro, agli sponsor privati che hanno compreso la lungimiranza dell’operazione, e a un’università che sta volta davvero è stata dalla parte dei suoi studenti, hanno messo su la loro rivincita nei confronti di tutti coloro non vedono nell’arte, anche un bene fruttifero, una risorsa turistica e quindi economica che dia la possibilità di far sopravvivere queste realtà dimenticate.
Il 27 alla Cittadella dei Musei, più di 150 ragazzi, hanno partecipato a un evento costruito non per essere di nicchia, ma per accogliere e attirare coetanei che desideravano conoscere uno dei più bei siti nuragici mai pervenuti e troppo spesso dimenticati. Il 28 e 29 continua l’avventura a Serri, con laboratori e indagini sul sito.
L’unico rammarico che devo segnalare a nome mio e anche dei giovani organizzatori è l’assenza il pomeriggio del 27 degli organi d’informazione. Della scarsa se non inesistente notizia dell’evento avevamo già preso atto nei giorni scorsi sfogliando i giornali. Nonostante, dobbiamo aggiungere, i numerosi e dettagliati comunicati stampa inviati. È chiaro che queste iniziative non sono da tutti considerate significative e meritevoli di essere messe in evidenza da chi ha il potere di aiutare la conoscenza attraverso la divulgazione mediatica. Peccato, visto che i giovani dovrebbero essere aiutati e sostenuti, l’Italia sta andando avanti grazie a queste energie rinnovabili senza diritti e senza soldi. Ricordo per ultimo che il giornalismo tutto, di destra e di sinistra, nel Paese sopravvive grazie alla passione di tanti ragazzi sfruttati. Parlare di progetti come questo sarebbe stato un bel modo per ripagare le nuove generazioni della tanta fatica impiegata per dare una dignitosa informazione ai cittadini.
Fonte: http://notizie.tiscali.it/regioni/sardegna/
Età della Pietra - Adolescente in 3D
Giovane norvegese del mesolitico in 3D
di Benedetta Perilli
Il volto di un adolescente morto 7500 anni fa è stato riportato in vita attraverso una ricostruzione digitale che combina tecnologie forensi e tecniche artistiche dai ricercatori dell'università norvegese di Stavanger. Si tratta di Viste Boy, dal nome della caverna norvegese di Vistehola dove il giovane viveva. I suoi resti sono stati ritrovati nel 1907 e rappresentano una delle strutture craniche meglio conservate dell'età della pietra: da quei resti la ricercatrice Jenny Barber ha ricostruito grazie a una combinazione di raggi X e scannerizzazioni al laser il modello digitale in 3D del cranio e del volto del ragazzo
Fonte: repubblica.it
giovedì 27 ottobre 2011
Presentazione libro a Santa Vittoria di Serri
In occasione del convegno di studi sul Santuario di Santa Vittoria di Serri, l'Associazione Giovani Bronzetti e il comune di Serri organizzano la presentazione del libro sulla civiltà nuragica: "Signori del Mare e del Metallo" di Pierluigi Montalbano.
Sabato 29 Ottobre alle ore 11.00, presso il Santuario nuragico, l'autore esporrà una relazione intitolata: "Le Rotonde nuragiche, governo e religiosità si incontrano".
Alle ore 13.00 è previsto il pranzo con ricco menù tipico locale presso l'Agriturismo Santa Vittoria.
Alle ore 16.00, nella Sala Consiliare in Via Municipio, sarà presentato il libro con l'ausilio di immagini proiettate. Interverrà Franco Contu, Assessore alla Cultura del Comune di Serri.
Durante la serata sarà possibile sfogliare il nuovo libro di Pierluigi Montalbano "Antichi Popoli del Mediterraneo", pubblicato da Capone Editore di Lecce, disponibile in tutte le librerie a partire dal mese di Novembre.
La presentazione ufficiale di questo nuovo lavoro, a diffusione nazionale, è programmata a Cagliari per Sabato 19 Novembre alle ore 18.00 presso il chiostro della Chiesa di San Francesco, nella sala in cui trascorse nel 1500 i suoi ultimi anni di vita Violante Carroz, figlia unica ed ereditiera di Berengario.
Ricordata come "la sanguinaria" per aver fatto catturare e impiccare per tradimento il parroco di Quirra che voleva impedirle di sciogliere il suo vincolo matrimoniale con il terzo marito. Lo lascia penzolare per due settimane nella torre del castello di S.Michele di Cagliari a monito per la popolazione. La scomunica, da parte del parroco di Ales, è la conseguenza per il gesto di Violante.
mercoledì 26 ottobre 2011
Relitti della Prima Guerra Punica recuperati dagli archeologi.
Recuperati i resti della battaglia navale delle Egadi, prima guerra punica
di Caso Guillermo del Cobos
traduzione di Pierluigi Montalbano
Una spedizione italiana ha recuperato alcuni caschi dei legionari e vari rostri (prue) delle navi romane di guerra. Sono resti della battaglia navale delle isole Egadi , che ha avuto luogo sulla costa di Trapani, nel 241 a.C., nella quale i romani sconfissero i cartaginesi, ponendo fine vittoriosamente alla Prima Guerra Punica.
Nelle ultime settimane, in uno studio coordinato dalla Soprintendenza del Mare della Sicilia, due subacquei, Gian Michele Iaria e Stefano Ruia hanno recuperato i caschi dei legionari romani: "Avevamo distinto due scafi nel fondo, e poi, in un'area di soli 200 metri quadrati, a 75 metri di profondità, abbiamo rinvenuto altri 10 scafi", ha detto Ruia. "Sappiamo che i rostri sono Romani per la caratteristica forma a punta di ananas. Non lontano, aggiunge Ruia, abbiamo trovato una testa di statua romana, probabilmente persa dalla nave sulla quale erano imbarcati i soldati che indossavano caschi. La ricerca subacquea è iniziata nel 2006 con il contributo decisivo della RPM Nautical Foundation, un istituto americano che ha messo a disposizione la nave Ercole, dotata di una moderna strumentazione per la ricerca subacquea. Finora, la ricerca ha portato alla scoperta di sei rostri di navi affondate. Due sono cartaginesi, mentre quattro hanno iscrizioni romane e latine che attestano la loro origine. La battaglia delle Egadi ha segnato una svolta: Roma era cresciuta di importanza, da piccola potenza regionale diventava una potenza mondiale.Questa battaglia navale, la più memorabile della storia per il gran numero di partecipanti, 200.000, si svolse la mattina del 10 marzo dell'anno 241 a.C., e mostrò come Roma potè battere i Cartaginesi sul mare. I Romani furono in grado, in pochi anni, di rivoluzionare il modello classico di navi da guerra, scegliendo la costruzione navale quinqueremi (con 5 file di rematori), molto più veloce di quella dei Cartaginesi, e con l'allestimento di innovativi rostri di perforazione e Corvi " gateway” attraverso i quali eseguivano l’abbordaggio, una tecnica scelta dai soldati romani per la battaglia, poiché erano esperti di guerra a terra e spostarono sul ponte delle navi i duelli corpo a corpo.
"La nostra ricerca nasce diversi anni fa, quando un subacqueo, morto di recente, Vincenzo Paladino, mi disse che aveva scoperto circa 300 reperti in fila lungo la parte inferiore della costa orientale dell'isola di Levanzo", ha detto Tusa. "Abbiamo consultato gli scritti dello storico greco Polibio , il quale, ad una distanza di circa 70 anni di episodi di guerra, aveva ricostruito la battaglia della sua storia: si racconta come i Romani, guidati dal console Gaio Lutazio Catullo attaccò di sorpresa i Cartaginesi. Avevano teso un'imboscata al riparo dietro un promontorio dell'isola di Levanzo e, nella fretta di passare all'attacco, avevano tagliato la parte superiore delle ancore, precisamente quelle che Vincenzo Paladino aveva trovato. "
Le fonti storiche riferiscono che la flotta cartaginese era composta da 700 navi, e operava principalmente per rifornire le truppe di terra di stanza sul monte Erice, in Sicilia, guidate da Amilcare Barca . "La Prima Guerra Punica" continua Tusa, "come la prima guerra mondiale si stava trascinando da anni con gli scontri di terra (di posizione) tra le colline di Trapani e Palermo, distanti solo pochi chilometri. I Cartaginesi poi misero insieme una grande flotta sotto il comando del generale Hannone e altri rinforzi e cercare di porre termine a questo stato di cose " . I romani, tuttavia, dopo la sconfitta della Tunisia, e la perdita di numerose imbarcazioni come lo sfortunato Camarina (255 a.C.), grazie ad una flotta di circa 200 velocissimi quinqueremi, armati grazie ai tributi versati dai cittadini.
Il comandante cartaginese Hannone fece una sosta per qualche giorno a Marettimo (ex Hiera ), nelle isole Egadi. La mattina del 10 marzo 241, vedendo che il vento era favorevole (vento dell'ovest) navigò nei pressi di un preciso punto sotto costa nella Siciliaoccidentale. Ma i romani, ben informati, raggiunsero con 300 navi il porto di Marsala (antica Lilibeo ), Favignana.
I romani si appostarono in agguato dietro la punta di Capogrosso, all'estremità nord dell'isola di Levanzo. I Cartaginesi arrivarono quando la flotta era in inferiorità numerica, ma meglio armata e pronta all’assalto. L'attacco fu micidiale: alcune navi romane ruppero con i loro rostri i lati delle navi cartaginesi provocandone il naufragio. Altre navi avvicinarono le navi nemiche rompendo tutti i remi da un lato e rendendole ingestibili, mentre la fanteria romana prese d'assalto le passerelle. Le catapulte lanciarono urne fiammeggianti, simili a bombe molotov. "Il resto della flotta dei Cartaginesi issò le vele e si ritirò sotto il vento, che, fortunatamente, cambiò improvvisamente al momento del bisogno" , Polibio dice. Più di 2000 anni dopo, i ricercatori hanno trovato 200 anfore sul fondo marino. Sono di fattura greco-italica, ampiamente utilizzate tra i Cartaginesi, che le gettarono dalle barche in fuga per alleggerire il peso. La spedizione cartaginese del comandante Barca fallì e, privo di rifornimenti, fu costretto a cedere ai romani il dominio sulla Sicilia. Il perdente, l’ammiraglio cartaginese Hannon, tornò a Cartagine col capo chino per la sconfitta. Al contrario, il console Gaio Lutazio Catullo tornò a Roma dove ricevette gli onori. In memoria di quel trionfo fu costruito il tempio di Giuturna, i cui resti sono ancora visibili a Roma in Largo Argentina, di fronte al Teatro Valle. (vedi immagine in basso).
martedì 25 ottobre 2011
Corso sulla storia di Cagliari
lunedì 24 ottobre 2011
Nuove tecniche di datazione dei reperti: Plasma.
Il metodo è una variante della tecnica al radiocarbonio che non richiede il prelievo di alcun campione, un’alternativa assolutamente non invasiva.
Gli scienziati della Texas A&M University hanno sviluppato un nuovo metodo per determinare l’età di mummie, opere d’arte antiche e altri reperti senza la necessità di alterarli o danneggiarli. La tecnica è stata presentata al meeting nazionale della American Chemical Society e, secondo i ricercatori, consentirà di stabilire l’età di centinaia di reperti finora negati all’analisi.
Infatti il nuovo sistema, denominato “datazione al radiocarbonio non distruttiva”, si basa sull’utilizzo di un plasma (gas ionizzato) e non richiede il prelievo di campioni. Si tratta di una variante della datazione al radiocarbonio, il metodo standard utilizzato dagli archeologi per stimare l’età di un oggetto misurando il suo contenuto naturale di carbonio 14, un isotopo radioattivo del carbonio. Spesso la misurazione richiede il prelievo di una piccolissima parte del manufatto, che viene sottoposta a un trattamento acido e basico e poi bruciata in una camera di vetro. La datazione avviene confrontando i livelli di C14 così ottenuti con quelli che si suppone fossero presenti in determinati periodi storici: in questo modo è possibile datare oggetti la cui origine risale fino 50mila anni fa.
Ma nel caso di oggetti particolarmente rari, anche una perdita minima è considerata inaccettabile, come ha spiegato Marvin Rowe, docente alla Texas A&M University College Station che ha messo a punto la tecnica alternativa assolutamente non invasiva. In questo caso, l’intero reperto viene inserito in una camera speciale con all’interno un plasma (simile a quelli utilizzati per gli schermi delle tv). “Il gas ossida lentamente la superficie dell’oggetto, così da produrre diossido di carbonio per le analisi di C14, senza recare alcun danno”, ha spiegato Rowe.
Lo studio è stato finanziato dalla National Science Foundation e dal National Center for Preservation Technology and Training e finora la tecnica è stata testata su una ventina di sostanze organiche differenti, tra cui legno, pelle, carbone, pelo di coniglio, tessuti umani mummificati e una tela egizia risalente a 1.350 anni fa. “I risultati – hanno confermato i ricercatori – corrispondono a quelli ottenuti con il metodo tradizionale”. Si prospetta quindi anche l’ipotesi di usarla per la datazione della Sindone di Torino. Per ora, comunque, il team della Texas A&M University ha in mente di perfezionare la tecnica per utilizzarla su oggetti piccolissimi come la Venere Brassempouy (frammento di 3,65 centimetri di una statuetta in avorio risalente al Paleolitico superiore). A quanto pare, però, prima di convincere i direttori dei musei e i collezionisti d’arte della sicurezza della nuova tecnica saranno necessari molti altri test, come ammette lo stesso Rowe.
Fonte: Galileo, GIORNALE DI SCIENZA E PROBLEMI GLOBALI http://www.galileonet.it
Gli scienziati della Texas A&M University hanno sviluppato un nuovo metodo per determinare l’età di mummie, opere d’arte antiche e altri reperti senza la necessità di alterarli o danneggiarli. La tecnica è stata presentata al meeting nazionale della American Chemical Society e, secondo i ricercatori, consentirà di stabilire l’età di centinaia di reperti finora negati all’analisi.
Infatti il nuovo sistema, denominato “datazione al radiocarbonio non distruttiva”, si basa sull’utilizzo di un plasma (gas ionizzato) e non richiede il prelievo di campioni. Si tratta di una variante della datazione al radiocarbonio, il metodo standard utilizzato dagli archeologi per stimare l’età di un oggetto misurando il suo contenuto naturale di carbonio 14, un isotopo radioattivo del carbonio. Spesso la misurazione richiede il prelievo di una piccolissima parte del manufatto, che viene sottoposta a un trattamento acido e basico e poi bruciata in una camera di vetro. La datazione avviene confrontando i livelli di C14 così ottenuti con quelli che si suppone fossero presenti in determinati periodi storici: in questo modo è possibile datare oggetti la cui origine risale fino 50mila anni fa.
Ma nel caso di oggetti particolarmente rari, anche una perdita minima è considerata inaccettabile, come ha spiegato Marvin Rowe, docente alla Texas A&M University College Station che ha messo a punto la tecnica alternativa assolutamente non invasiva. In questo caso, l’intero reperto viene inserito in una camera speciale con all’interno un plasma (simile a quelli utilizzati per gli schermi delle tv). “Il gas ossida lentamente la superficie dell’oggetto, così da produrre diossido di carbonio per le analisi di C14, senza recare alcun danno”, ha spiegato Rowe.
Lo studio è stato finanziato dalla National Science Foundation e dal National Center for Preservation Technology and Training e finora la tecnica è stata testata su una ventina di sostanze organiche differenti, tra cui legno, pelle, carbone, pelo di coniglio, tessuti umani mummificati e una tela egizia risalente a 1.350 anni fa. “I risultati – hanno confermato i ricercatori – corrispondono a quelli ottenuti con il metodo tradizionale”. Si prospetta quindi anche l’ipotesi di usarla per la datazione della Sindone di Torino. Per ora, comunque, il team della Texas A&M University ha in mente di perfezionare la tecnica per utilizzarla su oggetti piccolissimi come la Venere Brassempouy (frammento di 3,65 centimetri di una statuetta in avorio risalente al Paleolitico superiore). A quanto pare, però, prima di convincere i direttori dei musei e i collezionisti d’arte della sicurezza della nuova tecnica saranno necessari molti altri test, come ammette lo stesso Rowe.
Fonte: Galileo, GIORNALE DI SCIENZA E PROBLEMI GLOBALI http://www.galileonet.it
sabato 22 ottobre 2011
Scavi archeologici in Gallura, tra Tavolara e Proratora
Archeologia e nuove verità: i nuragici amavano il mare
di Claudio Chisu
È il primo sito stanziale finora rinvenuto in Gallura: questo dimostra che è errata l'ipotesi di uno spopolamento del territorio nell'età del rame.
Un'altra mazzata alla teoria che vorrebbe i sardi nemici dell'acqua salata. La concezione dei nuragici e anche dei prenuragici restii a mettere un piede in mare non regge più, e Tavolara si erge quale simbolo della nuova visione di un popolo che in antichità era padrone delle proprie coste e del mare circostante.
SCAVI
La Soprintendenza ai beni archeologici tra settembre e ottobre ha effettuato due scavi nelle isole che attualmente fanno parte dell'Area marina protetta: Tavolara e Proratora. Il primo è stato diretto dall'archeologa Paola Mancini, il secondo dal suo collega Giuseppe Pisanu. La Mancini ha fatto una scoperta eccezionale:
NURAGICI A TAVOLARA
«A Tavolara abbiamo rinvenuto un insediamento stanziale di genti preistoriche, il sito risale più o meno al 2500 a.C. e fa parte della cosiddetta cultura di Monte Claro. È il primo sito stanziale di questa cultura che è stato finora rinvenuto in Gallura, e questo dimostra che è errata l'ipotesi di uno spopolamento del territorio durante l'età del rame. Peraltro siamo a conoscenza di un altro insediamento, stavolta nei dintorni di Olbia, riconducibile allo stesso periodo. Inoltre, il sito di Tavolara è l'unico che presenta una connotazione così forte, un legame così stretto con il mare: vivevano addirittura in un'isola.
UOMINI DI MARE
Per gli addetti ai lavori non è una sorpresa: "Noi siamo certi che gli isolani navigassero già nel 6000 a.C. Ma certo questo tipo di scoperte spero possano contribuire frantumare tra i cittadini la vecchia concezione dei sardi isolati e asserragliati al centro dell'isola". Il secondo scavo, fatto a Proratora, ha messo in evidenza la presenza di una serie di edifici di stoccaggio di epoca romana, intorno al 200 a.C. «Ai tempi la Sardegna era stata appena conquistata da Roma e strappata a Cartagine, ma persistevano sacche di resistenza molto forti. Riteniamo che i romani abbiano costruito dei magazzini sull'isolotto per evitare degli assalti da parte dei sardi ribelli». Entrambi gli scavi sono stati finanziati dall'Area marina protetta, che intende continuare a sostenere iniziative in grado di dare nuovi elementi all'identità del territorio. «Tra l'altro la presenza di questi insediamenti rafforza la necessità di proteggere e al contempo valorizzare e promuovere le isole dell'Amp» ha commentato il direttore, Augusto Navone.
Fonte: L'Unione Sarda
giovedì 20 ottobre 2011
Un minuscolo drone rivela un kurgan scita
Un drone aereo in miniatura ha aiutato un team di archeologi a fotografare dall’alto e a creare un modello 3-D di un antico tumulo funerario in Russia.
di Aezio
Càpita che i siti archeologici si trovino in aree remote e accidentate, e a volte sono difficili da raggiungere e mappare quando i budget sono limitati. I droni possono dunque fornire un ottimo contributo ai ricercatori.
“Questo metodo offre un sacco di opportunità”, dice il ricercatore Marijn Hendrickx, geografo presso l’Università di Gand in Belgio.
La macchina è un “quadrocoptero” a quattro eliche – il Microdrone MD4-200 alimentato a batteria – ed è stata testata in una zona remota della Russia chiamata Tuekta. L’asse dei suoi rotori è di circa 70 cm e il peso è di 1 kg. Facile da trasportare, e secondo i ricercatori anche da pilotare, si stabilizza da solo costantemente e si mantiene ad una data altezza e posizione a meno che non gli venga ordinato di fare altrimenti. Il motore, sottolinea la squadra, non genera peraltro quasi alcuna vibrazione, in modo che le fotografie scattate dalla fotocamera montata sotto vengono relativamente nitide. A seconda del vento, della temperatura e del suo carico, il tempo di volo massimo è di circa 20 minuti.
Tuekta si trova sui monti Altai, dove Russia, Cina, Kazakistan e Mongolia si uniscono. I ricercatori vi hanno scoperto tumuli funerari risalenti a 2.300-2.800 anni fa.
Questi tumuli, noti come “kurgan”, probabilmente appartenevano a capi o re Sciti, un popolo nomade noto per l’abilità a cavallo e una volta un ricco e potente impero. Gli scavi di alcuni kurgan hanno portato alla luce tesori straordinari, tra cui splendidi oggetti d’oro, ben conservati nel permafrost.
Quasi 200 tumuli sono stati scoperti a Tuekta, lungo il fiume Ursul. Il cuore del sito sembra essere una fila di cinque tumuli monumentali sciti con diametri compresi tra i 42 e i 76 metri. Purtroppo, però, “in quest’area la maggior parte dei tumuli sono distrutti”, ha detto Hendrickx.
L’area che i ricercatori hanno testato misurava circa 300 x 100 metri, compresi i cinque grandi tumuli e decine di strutture più piccole. Il drone ha volato ad un’altezza di 40 metri per studiare in particolare un tumulo.
La leggerezza del microdrone è stata d’altra parte anche un problema. “Nel campo abbiamo avuto a che fare con l’aumentare del vento”, ha ricordato Hendrickx. “Ad un certo punto abbiamo anche perso il collegamento radio con il drone”.
Tuttavia, i ricercatori hanno raccolto dati a sufficienza per creare una mappa digitale del sito e un modello 3-D del tumulo.
“Il modello 3-D che abbiamo creato ci dà la possibilità di calcolare il volume del kurgan”, ha detto Hendrickx. “Con questo volume e le sue dimensioni precise, la forma originale del kurgan può essere ricostruita”.
Negli ultimi anni, gli archeologi hanno iniziato a utilizzare sempre più droni aerei anche in Perù, Austria, Spagna, Turchia e Mongolia. Le mappe risultanti possono fornire un quadro agli archeologi quando magari le immagini aeree o satellitari aggiornate sono difficili da ottenere, ha dichiarato Hendrickx.
I ricercatori stanno ora sperimentando un microdrone più grande che può trasportare un peso maggiore. “In questo modo sarà possibile utilizzare, per esempio, telecamere a raggi infrarossi o persino un sistema radar”, spiega Hendrickx. “Potremo vedere cose che non possiamo vedere con i nostri occhi”.
Fonte: Live Science
Journal of Archaeological Science
di Aezio
Càpita che i siti archeologici si trovino in aree remote e accidentate, e a volte sono difficili da raggiungere e mappare quando i budget sono limitati. I droni possono dunque fornire un ottimo contributo ai ricercatori.
“Questo metodo offre un sacco di opportunità”, dice il ricercatore Marijn Hendrickx, geografo presso l’Università di Gand in Belgio.
La macchina è un “quadrocoptero” a quattro eliche – il Microdrone MD4-200 alimentato a batteria – ed è stata testata in una zona remota della Russia chiamata Tuekta. L’asse dei suoi rotori è di circa 70 cm e il peso è di 1 kg. Facile da trasportare, e secondo i ricercatori anche da pilotare, si stabilizza da solo costantemente e si mantiene ad una data altezza e posizione a meno che non gli venga ordinato di fare altrimenti. Il motore, sottolinea la squadra, non genera peraltro quasi alcuna vibrazione, in modo che le fotografie scattate dalla fotocamera montata sotto vengono relativamente nitide. A seconda del vento, della temperatura e del suo carico, il tempo di volo massimo è di circa 20 minuti.
Tuekta si trova sui monti Altai, dove Russia, Cina, Kazakistan e Mongolia si uniscono. I ricercatori vi hanno scoperto tumuli funerari risalenti a 2.300-2.800 anni fa.
Questi tumuli, noti come “kurgan”, probabilmente appartenevano a capi o re Sciti, un popolo nomade noto per l’abilità a cavallo e una volta un ricco e potente impero. Gli scavi di alcuni kurgan hanno portato alla luce tesori straordinari, tra cui splendidi oggetti d’oro, ben conservati nel permafrost.
Quasi 200 tumuli sono stati scoperti a Tuekta, lungo il fiume Ursul. Il cuore del sito sembra essere una fila di cinque tumuli monumentali sciti con diametri compresi tra i 42 e i 76 metri. Purtroppo, però, “in quest’area la maggior parte dei tumuli sono distrutti”, ha detto Hendrickx.
L’area che i ricercatori hanno testato misurava circa 300 x 100 metri, compresi i cinque grandi tumuli e decine di strutture più piccole. Il drone ha volato ad un’altezza di 40 metri per studiare in particolare un tumulo.
La leggerezza del microdrone è stata d’altra parte anche un problema. “Nel campo abbiamo avuto a che fare con l’aumentare del vento”, ha ricordato Hendrickx. “Ad un certo punto abbiamo anche perso il collegamento radio con il drone”.
Tuttavia, i ricercatori hanno raccolto dati a sufficienza per creare una mappa digitale del sito e un modello 3-D del tumulo.
“Il modello 3-D che abbiamo creato ci dà la possibilità di calcolare il volume del kurgan”, ha detto Hendrickx. “Con questo volume e le sue dimensioni precise, la forma originale del kurgan può essere ricostruita”.
Negli ultimi anni, gli archeologi hanno iniziato a utilizzare sempre più droni aerei anche in Perù, Austria, Spagna, Turchia e Mongolia. Le mappe risultanti possono fornire un quadro agli archeologi quando magari le immagini aeree o satellitari aggiornate sono difficili da ottenere, ha dichiarato Hendrickx.
I ricercatori stanno ora sperimentando un microdrone più grande che può trasportare un peso maggiore. “In questo modo sarà possibile utilizzare, per esempio, telecamere a raggi infrarossi o persino un sistema radar”, spiega Hendrickx. “Potremo vedere cose che non possiamo vedere con i nostri occhi”.
Fonte: Live Science
Journal of Archaeological Science
mercoledì 19 ottobre 2011
Una nuova tecnica per analizzare il DNA
Una tecnica di analisi di antico DNA è stata sperimentata da una squadra di scienziati su alcune anfore greche.
di Aezio
(Oleksii Zaborovets/iStockphoto.com)
Sono molte le anfore intatte conservatesi nei relitti e in altri siti. Quasi tutte sono però purtroppo vuote, senza alcun evidente indizio di quello che una volta era il contenuto.
Per ricavare il materiale genetico residuo, i ricercatori hanno dunque utilizzato due metodi: uno, classico, è stato eseguito rimuovendo pezzi di ceramica; l’altro, preso da CSI, è stato fatto strisciando le anfore con un tampone. L’idea è venuta dalla Polizia di Stato del Massachusetts, i cui investigatori sono stati interpellati.
Un team guidato dall’archeologo marittimo Brendan Foley, della Woods Hole Oceanographic Institution, ha testato il nuovo protocollo su nove anfore del V-III secolo a.C., rimaste abbandonate in un magazzino di Atene per oltre un decennio. Tutte erano state tirate su dalle reti dei pescatori, prima di essere consegnate al governo greco negli anni ’90.
I risultati suggeriscono che il metodo del tampone funziona meglio. I dati mostrano peraltro che in queste anfore l’olio d’oliva, le olive, o una combinazione dei due, erano più comuni dei prodotti dell’uva come il vino. Molte anfore avevano anche tracce di DNA di origano, timo, menta – forse usati per insaporire e conservare i cibi. Più comune di tutti era però il DNA di cespuglio di ginepro, “non qualcosa di tipico quando si pensa alla dieta degli antichi Greci”, dice Foley. “Forse un bel po’ di bacche di ginepro venivano aggiunte a cibi e bevande nel mondo antico”.
Otto delle nove anfore portavano DNA di una complessa miscela di alimenti, il che ha portato Foley a sostenere l’ipotesi fatta da alcuni studiosi che le anfore venivano riutilizzate per il commercio marittimo, invece di essere buttate dopo un viaggio.
Nonostante il team di Foley abbia provveduto ad evitare contaminazioni, c’è chi è dubbioso che la tecnica abbia funzionato nel modo in cui è stata pubblicizzata. E “notevole” che l’anfora “rilasci DNA endogeno semplicemente strofinando la superficie”, ha dichiarato Craig Oliver, dell’Università di York, in Inghilterra. Craig, specialista nel recuperare DNA e altre molecole dagli oggetti antichi, avrebbe bisogno di vedere altri test di controllo per convincersi.
Ma se la tecnica venisse convalidata, costituirebbe uno strumento prezioso, dicono altri archeologi. “Se quell’analisi potesse essere fatta su un qualsiasi vaso antico conservato in un magazzino da molto tempo, sarebbe una cosa grandiosa”, afferma Mark Lawall, esperto di anfore presso l’Università di Manitoba, in Canada. Consentirebbe ai ricercatori di definire con precisione il contenuto di anfore trovate su uno specifico relitto, per esempio, e poi calcolare il valore del carico della nave – offrendo un’idea migliore sulle economie antiche.
Journal of Archaeological Science
martedì 18 ottobre 2011
Nuovo libro in pubblicazione
Sarà in libreria i primi giorni di Novembre il nuovo libro di Pierluigi Montalbano. Edito da Capone Editore, si intitola "Antichi popoli del Mediterraneo" e sarà distribuito a tiratura nazionale.
La presentazione al pubblico inizierà a metà Novembre con una serie di incontri che sono ancora in via di definizione.
Visitate il sito www.caponeditore.blogspot.com
lunedì 17 ottobre 2011
Ocra trovata in una conchiglia del Paleolitico.
Ecco bottega di pittore di 100.000 anni fa
L'ocra, uno dei primi pigmenti, ritrovata custodita in una conchiglia
Frammenti d'ocra, pestelli e macine di pietra, conchiglie usate come barattoli per la pittura, trovate ancora al loro posto, come erano state lasciate migliaia di anni fa: è il laboratorio di un pittore vissuto 100.000 anni fa. Si trova in Sud Africa, ed è stato usato per produrre e conservare l'ocra, il primo pigmento della storia. Annunciata su Science, la scoperta si deve a un gruppo di ricerca coordinato da Christopher Henshilwood dell'università di Witwatersrand a Johannesburg. Del gruppo fa parte anche l'italiano Francesco d'Errico che lavora all'università francese di Bordeaux e all'università norvegese di Bergen.
Scoperto nella grotta di Blombos, il laboratorio dell'Età della pietra, eccezionalmente, contiene tutti gli utensili per produrre l'ocra, come pestelli e macine di pietra. Le due conchiglie di abalone, noto anche come orecchio di mare, ''sono i più antichi contenitori finora scoperti nella storia dell'uomo'' ha detto all'ANSA d'Errico. Una delle conchiglie era anche chiusa da un ciottolo che ha la stessa morfologia della conchiglia e che molto probabilmente aveva la funzione di coperchio. ''Vi sono esempi più antichi di pezzi d'ocra con tracce di uso ma è la prima volta - ha proseguito l'esperto - che vengono trovati contenitori, residui di pigmenti e gli strumenti per produrli''. La cosa straordinaria, ha rilevato d'Errico, è che in questa grotta-laboratorio, tutto è rimasto come era: ''l'artigiano che ha usato il kit l'ultima volta ha lasciato le conchiglie a pochi centimetri di distanza, il tutto è stato rapidamente coperto dalla sabbia portata dal vento nella grotta''.
Sui fondi delle conchiglie sono stati trovati dei residui di pittura: una mistura di colore rosso ottenuta miscelando polvere di ocra, midollo e carbone. Secondo i ricercatori il pigmento era prodotto per sfregamento dei pezzi di ocra su lastre di quarzite o frantumando schegge di ocra. Da questo processo si otteneva una polvere di colore rosso che veniva poi miscelata agli altri ingredienti. A questa miscela veniva poi unito un liquido (probabilmente urina o acqua) e grasso animale. Fra gli strumenti è stato trovato anche un osso che era probabilmente utilizzato per mescolare e trasferire un po' di miscela fuori dal guscio. E' difficile, hanno rilevato gli esperti, immaginare l'uso che veniva fatto di questa pittura, probabilmente era usata dai primi Homo sapiens per dipingere i loro corpi o produrre rappresentazioni astratte o figurative. ''Sappiamo ormai molto su come questa pittura veniva prodotta ma nulla su come era utilizzata'' ha osservato d'Errico. ''Possiamo ipotizzare - ha aggiunto - che mescole di questo tipo erano usate nella preparazione delle pelli, per evitare il loro deterioramento, o per scopo simbolico''.
La scoperta, secondo Henshilwood, suggerisce che i primi uomini come noi avevano già una conoscenza elementare della chimica e la capacità di pianificazione a lungo termine, ossia di preparare e conservare, cruciale per l'evoluzione del pensiero.
Immagine di Science/AAAS
domenica 16 ottobre 2011
Trapani - Una nave romana emerge dagli abissi del passato
Relitto affondato 1700 anni fa: è il più completo mai ritrovato
di Laura Aniello
Recuperate anche ceramiche da cucina databile III d.C. I 700 componenti recuperati verranno «asciugati» con una tecnica speciale in un laboratorio di Salerno
I sub nuotano dentro lo scafo, misurano il fasciame, toccano la chiglia. Davanti ai loro occhi c’è il miracolo di una nave commerciale romana del terzo secolo dopo Cristo affondata e rimasta quasi intatta a dispetto della latitudine niente affatto nordica. Siamo a Marausa, a un passo da Trapani, e questo è il più grande relitto dell’epoca mai tirato fuori nei nostri mari. Operazione titanica, che vede all’opera archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori. Bagnati, emozionati, in movimento continuo. Tutti insieme, a tirare fuori pezzo a pezzo un gigante lungo più di venti metri e largo nove, affondato 1.700 anni fa nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile per parecchi chilometri e adesso è soltanto il nome dell’aeroporto della città.
Un tesoro a portata di mano, tre metri di profondità e 150 dalla riva, e nonostante questo rimasto segreto per secoli perché coperto da un metro di argilla e di radici di posidonia, la pianta del mare. Un rivestimento naturale che l’ha tenuta in uno stato eccezionale di conservazione. «È stata la costruzione di un molo abusivo qui vicino a determinare un brusco cambiamento di correnti che hanno eroso la prateria e mostrato il relitto. Senza quel cemento non avremmo la nave», scherza Sebastiano Tusa, il soprintendente ai Beni culturali di Trapani che da dodici anni - dalle prime segnalazioni fatte nell’agosto del 1999 da Antonio Di Bono e Dario D’Amico della sezione locale dell’Archeoclub - sognava di disseppellire quel tesoro e di portarlo alla luce.
«Ormai preferiamo lasciare i relitti dove stanno - spiega - favorire itinerari di turismo sottomarini, ma questo è un caso eccezionale, sia per la mole e l’integrità della nave, sia perché è così vicina alla costa da farci temere per la sua sicurezza. Un’operazione da oltre 800 mila euro, fondi del Lotto. Settecento pezzi, lunghi da 40 centimetri a qualche metro, che adesso saranno assemblati come un gigantesco puzzle, con la stessa testardaggine dei modellisti, ma su scala reale. Destinazione finale il baglio Tumbarello di Marsala, accanto alla sala espositiva che già ospita una nave punica. E allora, eccoli i tecnici della società specializzata «Atlantis» tirare fuori prima il fasciame interno, poi l’ossatura, quindi quello esterno.
E ancora le anfore con le tracce di olive, noci e fichi portati dal Nordafrica verso il mercato siciliano. Poi i segni della vita di bordo, come pezzi di vasellame e di bicchieri utilizzati dall’equipaggio, una decina di marinai che arrivavano probabilmente dall’attuale Tunisia, perché da lì veniva la ciurma di Roma. Infine, tracce del carico di contrabbando: i cosiddetti «tubuli da extradosso», condotte cave in terracotta impiegate nelle costruzioni per alleggerire le volte e gli archi, e che in Africa si compravano a un quarto del costo di rivendita a Roma. «Era un commercio illecito ma tollerato - racconta Tusa - i tubuli venivano nascosti dappertutto, e così i marinai arrotondavano guadagni davvero magri».
Stipendi di Stato, perché queste imbarcazioni commerciali erano dell’Annona, quindi pubbliche, affidate ai navicolari, gli amatori che pagavano i marinai. Ecco quante cose raccontano questi legni inzuppati, portati fuori come trofei. I primi pezzi risalgono dal mare nelle mani dell’archeosub Francesco Tiboni e dell’operatore tecnico Francesco Scardino, entrambi della Soprintendenza del mare, sotto lo sguardo trepidante del direttore di cantiere, l’ingegnere Gaetano Lino. «È un corrente di stiva», esulta lui, termine che indica l’elemento cardine dell’ossatura. Chissà quale maestro d’ascia l’aveva costruita, con una tecnica «a guscio portante», esattamente al rovescio di quella attuale: prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura, memoria forse dell’imbarcazione primordiale, il tronco scavato.
Adesso tutto è in viaggio verso Salerno, al laboratorio «Legni e segni della memoria» che si occuperà di togliere dal relitto l’acqua di cui è inzuppato e di restaurarlo con una tecnica innovativa che è stata brevettata proprio dai suoi esperti, con l’iniziale collaborazione dell’Università de La Rochelle. Difficile da credere adesso, ma questi legni ammalorati che grondano di mare torneranno a essere quella nave. Intatta e veleggiante, un attimo prima del naufragio, come in un salto sulla macchina del tempo.
Quattro domande a Giovanni Gallo
«Sarà una bella sfida, un grande puzzle. I pezzi più piccoli, le serrette del fasciame interno, sono lunghe 40 centimetri, larghe 10 e profonde 2. Moltiplichi tutto per 700 parti numerate e avrà idea di che cosa ci aspetta». Giovanni Gallo è il responsabile di «Legni e segni di memoria», il laboratorio di Salerno che ha brevettato un metodo innovativo di restauro dei materiali vecchi di secoli.
In che cosa consiste il metodo?
«Il primo problema è togliere l’acqua. Tradizionalmente questo avveniva con impregnazione, noi usiamo la disidratazione, condizionando il legno alla pressione di 650 millibar, come in una camera ipobarica, come sottovuoto. Più abbassi la pressione, più puoi lavorare efficacemente a basse temperature. Pensi che a 80 millibar l’acqua bolle a 40 gradi. Sfruttiamo poi quello che in fisica si chiama effetto flash, attraverso salti di pressione. Il risultato è un legno naturale, non modificato da alcun tipo di sostanze. Riusciamo a tipizzare con precisioni essenze vecchie di millenni. Questa, a occhio e croce, sembra una conifera, direi pino o abete».
Perché questa nave rappresenta un unicum?
«Perché è la più completa mai ritrovata. Ci sono eccezionalmente sia il lato sinistro sia quello destro dello scafo, cosa che ci consentirà di restituire al relitto, una volta restaurato, uno straordinario effetto in tre dimensioni. Sul fondale era aperto a libro».
Grazie ai rilievi?
«Grazie ai rilievi ma grazie anche a quello che gli elementi della nave ci raccontano. Attraverso le ordinate, cioè la costolatura perpendicolare allo scafo, riusciamo infatti a ricavare le cosiddette linee d’acqua, e quindi forma e proporzioni esatte. Bisognerà poi pensare a un allestimento che valorizzi, attraverso modellini, anche gli elementi interni del fasciame, in modo da mostrare la tecnica costruttiva».
Quanto tempo servirà?
«Sei mesi per trattare i pezzi più piccoli, 18 per completare il trattamento, due per l’assemblaggio. Tra due anni la nave tornerà a vivere».
Fonte: lastampa.it
sabato 15 ottobre 2011
Arabia: cane e cavallo preistorici addomesticati.
Nuove scoperte retrodatano l’epoca della domesticazione di cane e cavallo
di Martina Calogero
Cavallo e cane sono stati addomesticati dall’uomo molto prima di quanto pensato fino ad ora. A retrodatare il processo di domesticazione sono stati due ritrovamenti archeologici. Si tratta di un nuovo sito archeologico, quello di Al-Maqar, in Arabia Saudita, che ha rivelato che i cavalli furono addomesticati già nove mila anni fa, invece di 3500; e del cranio e della mandibola fossilizzati di un canide, databili a trentatré mila anni fa e scoperti sui monti Altai, in Siberia, che avrebbe intrapreso la strada dell’avvicinamento all’uomo che si concluderà molto più tardi.
La scoperta dei resti del canide è molto importante per fornire nuovi dati sul luogo dove nacque e sulle modalità in cui si sviluppò lo straordinario rapporto tra l’uomo e il cane. Probabilmente, l’animale in questione non era completamente addomesticato perché mostrava ancora alcune caratteristiche da lupo, come i denti lunghi. La caverna di Razboinichya, dove è avvenuto il ritrovamento, era abitata soltanto per brevi periodi da raccoglitori e cacciatori. Si presume che il canide si sia avvicinato a questo accampamento, attirato dai resti delle prede cacciate. È probabile che simili contatti tra uomo e lupo si svolsero allo stesso tempo in luoghi diversi dell’Europa, ma anche in altre località come in Cina e in Medio Oriente. È possibile il rapporto tra le due specie si sia consolidato circa diciannove mila anni fa, solamente dopo la fine della ultima glaciazione.
Infatti, la domesticazione è un processo che richiede tempo, per far sì che le trasformazioni caratteriali e fisiche, causate dagli incroci selettivi per ottenere uno specifico carattere, si stabilizzino nel DNA e vengano poi trasmesse da una generazione all’altra. È probabile che l’imminente glaciazione spinse i cacciatori a rarefare la loro presenza nella grotta di Razboinichya e le avverse condizioni ambientali obbligarono i nostri antenati a cacciare i canidi semiselvatici, per procurarsi cibo e pellame.
Invece, il sito di Al-Maqar, che un tempo offriva un fertile territorio verdeggiante sul quale prosperò una raffinata e florida civiltà, come stanno rivelando gli scavi archeologici, ha restituito numerosi manufatti, fra cui scheletri mummificati, strumenti per la tessitura e la filatura, punte di freccia e altri utensili. Inoltre, sono emerse statue di animali come cani, capre, falchi e un busto che raffigura un cavallo di un metro di altezza, dimensioni mai riscontrate finora. Prima di questa scoperta la domesticazione del cavallo veniva fatta risalire a cinquemila cinquecento anni, a opera di un popolo semisedentario di civiltà Boltai, che abitava l’attuale Kazakistan.
fonte: Archeorivista.
Immagine di www.archart.it
venerdì 14 ottobre 2011
I TUMULI NELLA SARDEGNA PREISTORICA E PROTOSTORICA - 3° e ultima parte
Tumuli e Tombe Megalitiche in Gallura
di Angela Antona
Concludiamo la panoramica sulle sepolture, dopo gli articoli pubblicati i giorni scorsi 1° parte e 2° parte, con la zona gallurese.
Nell’articolato panorama dei fenomeni culturali preistorici e protostorici della Gallura si annovera una serie di monumenti funerari, nei quali il tumulo costituisce una componente determinante. Va precisato che la carenza dei dati di scavo non consente di valutare né la qualità, né l’entità del qualificante
elemento in alcuni dei monumenti presi in esame. Metodologie proprie del tempo a cui risale lo scavo, infatti, spesso non hanno consentito di tramandare fino a noi situazioni chiare o notizie sufficienti a
riconoscere la presenza funzionale o cultuale del tumulo, né le sue caratteristiche. Nel ristretto ambito geografico del quale si parla, il termine »tumulo« va inteso, perciò, nei due significati conferitigli dall’uso: da un lato finalizzato a ragioni di statica delle strutture del sepolcro vero e proprio; dall’altro,
come elemento legato a credenze e rituali, dove finalità pratiche e cultuali risultano strettamente connesse.
I circoli funerari
La comparsa del tumulo appartiene, in Gallura, ad una delle più antiche manifestazioni di architettura
funeraria megalitica presenti nell’isola. Si tratta della necropoli neolitica di Li Muri (Arzachena, SS), scavata da Puglisi e Soldati tra il 1939 e il 1940 33. Essa si compone, come è noto, di una serie di tombe a cista litica, ciascuna originariamente ricoperta da un tumulo del quale resta solo la base di pietre, contenute all’interno di una delimitazione circolare a lastre infisse verticalmente. Piccole ciste per offerte, insieme ai menhir, uno per ogni tomba, inseriti nel cerchio perimetrale del tumulo o esterni ad esso, costituiscono gli elementi del culto. In particolare, nello spazio delimitato fra i punti di tangenza di quattro tumuli, due menhir aniconici ed una cista devono aver assolto la loro specifica funzione
cultuale fino alla costruzione della tomba n. 2 che li ha resi inaccessibili. Cassette per offerte presenti anche in altri punti della necropoli, sempre in posizione esterna ai circoli, fanno pensare che esse, insieme ai menhir, dovessero essere predisposte in funzione dei rituali di sepoltura piuttosto che di successive offerte periodiche. L’ipotesi è suggerita dalla condizione di impraticabilità nella quale dovevano trovarsi i suddetti elementi se, come suggerito da E. Castaldi, la necropoli si doveva resentare, nel suo complesso originario, composta da una serie di collinette l’una all’altra tangenti.
Oltre che riuniti in necropoli, si riscontrano in Gallura anche sepolcri isolati riconducibili al tipo in questione. Un esempio di particolare monumentalità è quello di La Macciunitta, sempre in agro di Arzachena. Anche qui, alcune lastre frammentarie presenti all’esterno del tumulo parrebbero pertinenti ad una cassetta per offerte, mentre sembra da interpretare come menhir un monolito oblungo, ora rovesciato, compreso fra le pietre della base del tumulo. Come si può osservare dalla pianta dei sepolcri galluresi, la loro forma conchiusa implica la non praticabilità del vano sepolcrale una volta deposto il defunto. In considerazione della qualità e quantità dei resti scheletrici rinvenuti e delle dimensioni delle ciste, è stato osservato che dovessero essere destinati ad una, massimo a due inumazioni in deposizione primaria. Il giornale dei lavori del ‘39, redatto da Soldati, descrive con dovizia di particolari lo scavo della tomba n. 4, nella quale fu possibile distinguere due livelli di deposizione,
separati l’uno dall’altro da »sottili lastroni granitici posati orizzontalmente«.
I materiali descritti nel giornale di scavo di Soldati consistono in: teste di mazza in steatite (3 nello strato 1°, 3 nello strato 2°, coltellini in selce ed ossidiana, accettine e piccozze amuleto (rispettivamente 145 e 283), vaghi di collana di varia forma (rispettivamente 90 e 83) e dischetti di lavagna (rispettivamente 36 e 175). Dal 1° strato proviene anche »un lisciatoio in pietra verdognola« con tracce di ocra rossa, la stessa della quale recavano tracce gli »oggettini amuleto«. Dallo strato 2°, un »vasetto in terracotta nerastra lucida, non presenta tracce di decorazione«. I materiali sono conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, in parte esposti.
L’omogeneità dei materiali rinvenuti nei due livelli non consente di stabilire se le due inumazioni possano essere avvenute in un unico momento o distanziate nel tempo. Nell’una o nell’altra ipotesi, sarebbe stato interessante conoscere il tipo di copertura delle ciste funerarie, trovate sempre prive dell’eventuale lastrone superiore38. Per le ragioni esposte in premessa, non è dato neppure sapere se il tumulo potesse essere composto di sola terra o se comprendesse pietrame di una certa entità e se ricoprisse per intero o meno la cista litica. E’ meritevole di attenzione la distribuzione dei cinque circoli che compongono la necropoli: quattro di essi, infatti, risultano in un unico raggruppamento, mentre il quinto è dislocato in posizione isolata rispetto ai precedenti. Una nuova osservazione della tomba 5 ha peraltro evidenziato caratteristiche diverse nell’ambito della stessa necropoli, sia dal punto di vista strutturale che concettuale. Non si tratta, infatti, di una cista litica, bensì di una tomba che per le sue caratteristiche potrebbe essere assimilata alle allèes, ma per le sue ridotte dimensioni sembra più appropriato definire genericamente »a camera«.
) Lunghezza m 2,10; larghezza m 0,80; profondità m 0,60.
Il vano di sepoltura risulta ad una quota inferiore di una sessantina di centimetri dal piano di calpestìo; è scavato, cioè, nel terreno e foderato all’interno con una serie di blocchi appena sbozzati, posti di taglio a formare una pianta rettangolare leggermente ad U. Solo la parete di fondo è chiusa da un unico blocco, mentre una pietra appoggiata superficialmente, e pertanto mobile, segna la chiusura del lato E. Marca, poi, la differenza rispetto alle restanti ciste l’orientamento E-O della tomba.
Insieme a queste caratteristiche, si evidenzia un particolare di fondamentale importanza: la conformazione del tumulo che, sviluppato soltanto su tre lati, lascia libero quello orientale, fatto che potrebbe trovare motivazione nella più agevole possibilità di riapertura della tomba. Fra le pietre del tumulo risultano inoltre ampie porzioni di lastre analoghe a quelle che costituiscono le ciste dei restanti circoli. Questo particolare induce a pensare che il sepolcro a camera possa essere stato costruito in luogo di una cista preesistente. L’ipotesi è rafforzata dal rinvenimento di numerosi vaghi di collana in steatite, della tipica forma ad olivella, disseminati all’esterno della tomba. Non si dispone, purtroppo, di elementi che consentano di identificare il momento di costruzione della seconda tomba, mentre una piccola ciotola in ceramica d’impasto con fondo piano e pareti rientranti, rinvenuta all’esterno, accostata a sinistra dell’ingresso, documenta una frequentazione nell’età del Bronzo medio. Pur in assenza di elementi sufficienti a determinare le differenze di carattere cronologico, l’innovazione della sepoltura multipla, se non collettiva, della tomba a camera rispetto a quella singola delle ciste sottende un cambiamento culturale sostanziale ed avvicina la tomba 5 alle consuetudini funerarie proprie dei dolmen e delle successive allées couvertes. Numerosi motivi di affinità legano l’architettura funeraria gallurese a quella della Corsica, dove un rilevante numero di tombe »en coffre« e di dolmen – sia coperti da un tumulo di cui resta soltanto, come in Gallura, la base di pietre, sia contornati da peristaliti – testimoniano lo stretto legame fra le due isole. Come è noto, infatti, la Gallura occupa l’estremo nord della Sardegna, affacciata sulle Bocche di Bonifacio che la separano dalla Corsica con un tratto di mare di appena otto miglia. Tale distanza, in condizioni meteorologiche favorevoli, si copre facilmente in breve tempo, trasformando il braccio di mare in un trait d’union più che in un motivo di divisione fra le due isole. Non è dunque casuale se Gallura e Corsica meridionale hanno spesso condiviso manifestazioni culturali fra le quali, appunto, il fenomeno megalitico.
Le aree di concentrazione dei monumenti in questione fanno supporre l’esistenza di relazioni strette a tal punto da lasciare intuire una presumibile unità culturale corso-gallurese. Le necropoli di Tivolaggio e Vascolaggio, nella regione di Porto Vecchio e, nei pressi di Figari, i complessi funerari di Poghjaredda – Monte Rotondu (Sotta) (fig. 3) e di Capu di Logu ((Belvedere – Campomoru) presentano infatti caratteristiche strutturali assimilabili a quelle delle tombe di Li Muri. Con queste ultime, quelle di Porto Vecchio condividono anche il tipo di oggetto che caratterizza i corredi funebri: il pomo sferoide in steatite, che insieme alla coppetta dello stesso materiale e ai vaghi di collana ad olivella, su basi
di cronologia relativa portano all’ambito del Neolitico Medio e comunque precedente la cultura di Ozieri.
Pomi sferoidi in pietra verde provengono anche da Su Cungiau de Marcu (cfr. Ferrarese Ceruti 1974, 268; Atzeni 1975, 6).
Questa classe di oggetti fu spesso indicata come elemento comprovante la matrice egea del fenomeno culturale dei circoli (cfr. Puglisi 1942, 135; Atzeni 1975, 49; 1981, XL; 1987, 393; Lilliu 1988, 68). In realtà, la loro presenza è documentata
in contesti del Neolitico cretese, mentre sono del tutto assenti nelle Cicladi (Usai A. 1986, 369). Stringenti confronti sono invece riscontrabili nell’area occidentale (vedi nota precedente) ed in Corsica (Grosjean 1964, 26). Sono inoltre documentati in
contesti della cultura di Ripoli (Radmilli 1974, 360).
E’ nota l’annosa discussione relativa al rapporto fra quest’ultima e la cultura gallurese, particolarmente dopo che la scoperta della necropoli e degli allineamenti di menhir protoantropomorfi di Pranu Muttedu (Goni, CA), riferiti a momenti maturi della cultura di Ozieri, indussero a ricondurre a quest’ultima anche la cultura gallurese.
Un esame puntuale dei due complessi monumentali fa emergere, invece, differenze sostanziali che, pur ricorrendo le caratteristiche del circolo e del presunto tumulo, sottendono diversità marcate anche nei rituali. La semplicità dei tumuli con cista quadrangolare a lastroni ortostatici di Li Muri, compresi entro circoli conchiusi, assolutamente privi di accessi o di suddivisioni spaziali, appare lontana dalle articolate elaborazioni delle tombe di Pranu Muttedu. Queste contengono, all’interno della struttura circolare, domus de janas, celle con portello d’ingresso e fondo absidato, ampie ciste quadrangolari in muratura e camere subtrapezoidali precedute da un’anticella ellittica e da un corridoio d’accesso a lastroni ortostatici. Sostanziale appare l’estraneità, nella necropoli gallurese, del concetto della costruzione ipogeica a domus de janas, che caratterizza invece quella di Goni. Schemi e piante canoniche dell’architettura di Ozieri sono espresse, infatti, negli articolati esempi di domus monolitiche accuratamente scavate e meticolosamente rifinite a martellina. Alle differenze che si rilevano fra le due necropoli in questione fanno riscontro le divergenze nei materiali culturali; ceramiche decorate e manufatti litici restituiti dalle tombe di Pranu Muttedu hanno infatti dimostrato la loro appartenenza alla cultura di Ozieri, ma non trovano confronti con quelli di Li Muri, fatta eccezione per alcuni pomi sferoidi in steatite verde. Del tutto assenti, ad esempio, i vasi in pietra, la cui presenza nei circoli di Arzachena offre indicazioni cronologiche e culturali precedenti la cultura di Ozieri. L’autonomia del fenomeno dei tumuli galluresi rispetto a quest’ultima sembra indicata anche dalle nuove acquisizioni in merito. In particolare, materiali decorati nelle sintassi tipiche di Ozieri, sia da siti abitativi che funerari, hanno ormai dimostrato la diffusione di questa cultura anche in Gallura. L’assenza nei circoli di Li Muri di materiali appartenenti ad essa non sembra perciò trovare valide giustificazioni se non dell’appartenenza di questi ultimi ad un diverso ambito culturale.
L’ipotesi è rafforzata soprattutto dalla recente attribuzione alla cultura di Ozieri dei dolmen e dell’allèe di Luras. Il dato potrebbe confermare l’impressione che l’assenza, in quasi tutta la Gallura, delle domus de janas possa essere motivata dalla maggiore propensione della regione all’adozione del modello megalitico,perché consono al suo substrato culturale; ma soprattutto, perché inserita, insieme alla Corsica, nel circuito europeo del megalitismo occidentale. La presenza del tipo tombale ipogeico, peculiare della cultura suddetta, è infatti limitata alla fascia di territorio gallurese confinante con l’Anglona, dove l’ipogeismo funerario di Ozieri è diffuso nella varietà di forme che lo caratterizzano. Potrebbe non essere esclusa una reciprocità degli scambi ed influssi culturali fra le due regioni confinanti, come può essere suggerito dalla presenza, nel territorio di Perfugas, di strutture a circolo ancora di funzione incerta, di dolmen e di domus de janas con corridoio dolmenico, risultato, queste ultime, della mediazione fra ipogeismo e megalitismo del Neolitico recente55. Non vi sono elementi sufficienti per chiarire la funzione dell’accumulo di pietrame di piccole dimensioni del quale si sono notati i resti attorno ai dolmen di Billella e Alzoledda (Luras, SS). Potrebbe trattarsi, probabilmente, di una sorta di drenaggio delle acque piovane, vista l’impermeabilità del terreno, ma non si può neanche escludere che si tratti dei resti di un tumulo, la cui presenza è attestata nell’isola anche in altri dolmen.
Fanno peraltro supporre la presenza di un peristalite alcuni elementi individuati attorno al dolmen di Alzoledda58. Anche quello di Ciuledda (Luras), interamente appoggiato sul piano di roccia e privo di fondazione, conserva tracce di un accumulo di pietrame. In questo caso, la funzione pratica di rinforzo statico, soprattutto alla base del lastrone di chiusura della parte posteriore, sembrerebbe prevalere su quella prettamente cultuale.
Le tombe di giganti
L’uso del tumulo nell’architettura funeraria appartiene anche alla Gallura nuragica, tanto da indurre a riconoscerne un richiamo ad essa nella diffusa consuetudine di sigillare, con un accumulo di pietrame, le sepolture in tafoni ed anfratti caratteristici del granito. Ma è soprattutto nelle tombe megalitiche, dalle allées couvértes alle tombe di giganti, che il tumulo costituisce un elemento ricorrente, spesso caratterizzato da connotazioni specifiche. Trattandosi di monumenti di grande evidenza, solo motivazioni di particolare significato possono giustificare l’obliterazione, mediante la creazione del tumulo, del corpo della tomba, costituito da solide murature a doppio paramento che compongono un edificio rettangolare con angoli smussati, o con fondo absidato. Il processo evolutivo dell’architettura funeraria che, prendendo le mosse dall’allèe couvérte, giunge allo sviluppo tipicamente sardo della tomba di giganti, è ben documentato, come è noto, nei monumenti di Coddu Vecchju e di Li Lolghi di Arzachena, scavate alla fine degli anni Cinquanta. Nella prima è stata riconosciuta un’allèe couvérte cui è stata aggiunta, in età nuragica, l’esedra. La tomba appare oggi con un paramento murario a vista, attualmente priva del tumulo che la ricopriva. Nella relazione di scavo, però, si legge che questo fu asportato nella misura di »quaranta metri cubi di terra e pietre «. Nell’esempio di Li Lolghi, oltre che dall’esedra monumentale, la maestosità del monumento è ulteriormente accresciuta dal grande tumulo che ingloba un’architettura complessa, frutto di riutilizzazioni ed ampliamenti di strutture precedenti. L’ allèe couvèrte presente nella parte terminale della tomba citata ha conservato anche nella nuova definizione del Bronzo Medio l’originale contorno peristalitico. Alla luce dei dati emersi dagli scavi di altre tombe negli anni successivi, è stato possibile osservare la correlazione fra la collina artificiale del tumulo e le caratteristiche dell’esedra. Nelle differenze strutturali di entrambe sembra di dover riconoscere diversi gradi di evoluzione, attraverso i quali si coglie il maturare dell’esigenza di maestosità che caratterizza l’architettura in questione e che diventa particolarmente evidente nella creazione dell’esedra, sia essa ad ortostati o a filari. In relazione a questa, il tumulo contribuisce ad accrescere il senso di grandiosità complessiva, ma la sua funzione cultuale sembra prevalere su quella inizialmente preminente dell’imponenza, quindi della visibilità. In alcuni casi nei quali è assente la monumentalità dell’area cerimoniale, si ha infatti l’impressione che le due braccia di delimitazione di quest’ultima assolvano la precipua funzione di contenimento del tumulo, evitando il suo dilavamento verso tale area. In questa ipotesi, può essere indicato un esempio nella tomba Moru (fig. 4), il sepolcro del nuraghe Albucciu di Arzachena, dove il senso di maestosità dell’esedra è ben lontano da quello delle tombe prima citate. Si nota, infatti, una certa cura nel taglio e nella disposizione verticale dei blocchi che delimitano l’ingresso e che costituiscono, peraltro, il lato di prospetto del corpo del sepolcro. Le braccia quasi orizzontali dell’esedra sono ottenute, invece, con blocchi appena sbozzati, solidamente affondati nel terreno e rincalzati, privi, però, di qualunque intento di imponenza o, ancor meno, estetico. Le caratteristiche di accumulo »ragionato« del tumulo, costituito da pietrame ben legato nella disposizione degli elementi litici che lo compongono e che lo hanno reso, fra l’altro, duraturo nel tempo, ottengono gli effetti della monumentalità. L’inscindibile connessione fra il tumulo e la struttura dell’esedra trova un esempio particolarmente significativo nelle tomba di giganti di Pascaredda (Calangianus, SS), nell’altipiano di Tempio Pausania, scavata di recente. Si tratta di un monumento ben conservato nelle sue diverse componenti: un corpo rettangolare con angoli smussati, molto simile a quello di Coddu Vecchiu. A quest’ultima tomba è assimilabile anche la tecnica muraria di tipo dolmenico nel paramento interno, a filari in quello esterno. Nella parte terminale del corridoio di sepoltura si ripete, invece, lo schema dello spazio scompartito in due piani da una lastra disposta orizzontalmente a formare una sorta di edicola, analogamente a quanto si riscontra nella tomba di Li Lolghi. L’esedra monumentale è priva della parte superiore della stele, originariamente costituita, probabilmente, da due lastroni sovrapposti come quella di Coddu Vecchiu, benché le linee di contorno e la fascia a bassorilievo della parte residua l’avvicinino maggiormente a quella di li Lolghi. Il corpo della tomba è completamente coperto da un tumulo di terra e pietre che attualmente lascia in vista soltanto la serie di dodici lastroni di granito della copertura. Tale tumulo, dall’aspetto di una collina dai profili obliqui, si appoggia alle lastre verticali dell’esedra, degradando verso i suoi lati. Esso è composto in un innalzamento graduale di pietre ben disposte, coperte di terra che, per dare all’accumulo una maggiore consistenza, doveva essere progressivamente bagnata durante la costruzione, consentendo una maggiore compattazione della massa. Il dilavamento e le manomissioni che la tomba ha subito nel corso dei millenni non consentono di avere certezze sull’aspetto e la consistenza della parte superiore terminale del tumulo. Alcune particolarità emerse dall’osservazione della tomba portano a pensare che l’elemento in questione dovesse giungere fino alla base della copertura, lasciando libera almeno una parte di essa, oppure, che si concludesse superiormente con l’utilizzazione di sola terra per renderne più facile la sua rimozione. L’ipotesi è suggerita dal fatto che fra i dodici lastroni che compongono la copertura, si apre, a circa metà del loro corso, uno spazio nel quale sembra di dover riconoscere una precisa funzione. I due lastroni che lo delimitano, infatti, presentano l’uno la superficie esterna obliqua, sbiecata verso tale vuoto; l’altro una scanalatura trasversale per tutta la sua lunghezza, atta ad accogliere un elemento probabilmente ligneo, che doveva facilitare lo scorrimento di una sorta di botola. Il pensiero corre subito alla poca funzionalità dei minuscoli portelli presenti alla base delle stele delle tombe di giganti, una volta accertato, come è noto da diversi scavi, l’uso della deposizione primaria. Prende dunque consistenza l’ipotesi che la deposizione dei defunti dovesse avvenire dalla parte alta della camera, eventualmente con la rimozione del tumulo limitatamente alla porzione necessaria per la manovrabilità dell’elemento mobile della copertura. A questa ipotesi sembra dare sostegno anche la situazione riscontrata nella tomba Moru, dove i materiali relativi alle ultime deposizioni, riferiti al Bronzo Finale, sono stati rinvenuti nella parte terminale del corridoio di sepoltura, ad una quota sottostante i lastroni di copertura di appena una sessantina di centimetri.
Appare poco probabile, dunque, che tali deposizioni possano essere avvenute percorrendo l’intero sepolcro con i suoi inumati; sembra più plausibile supporre che uno o forse più elementi della copertura tabulare potessero essere facilmente rimossi per consentire le inumazioni. Il sistema riscontrato a Pascaredda potrebbe infatti essere esteso, come principio, anche alle altre tombe di giganti con copertura del tipo suddetto. In questa ipotesi potrebbe trovare spiegazione la frequente mancanza di una precisa sequenza nella disposizione degli inumati notata nelle tombe di giganti di Lu Brandali e di La Testa, pur nella prevalente orientazione dei corpi secondo il maggior asse del corridoio sepolcrale, col cranio verso il fondo e le estremità inferiori verso la parte frontale della tomba. In entrambi i casi citati, inoltre, soltanto nella parte terminale dei rispettivi corridoi sepolcrali, era presente un accumulo di ossa disposte a ridosso del lastrone verticale di chiusura, in evidente deposizione secondaria dovuta, con ogni probabilità, alla necessità di fare spazio alle nuove inumazioni.
L'immagine della tomba Coddu Vecchio ad Arzachena è della redazione.
giovedì 13 ottobre 2011
Il “Mistero” della buona e cattiva divulgazione
A “Mistero” il mammut del Berezovka e la fine del mondo.
di Stefano Todisco
Il 2 ottobre 2011, la trasmissione televisiva Mistero, in onda su Italia Uno, ha trattato un argomento quanto mai scottante e interessante, sostenendo però in quell’ambito una teoria abbastanza “bizzarra”, basata per giunta su un discutibile connubio tra fanta-archeologia e pseudo-scienza.
Dato che la Tv dovrebbe dare informazione concreta e reale, questo episodio a nostro avviso rappresenta un fatto abbastanza grave; non è infatti educativo che i media diffondano messaggi assai allarmistici senza supportarli con dati scientifici certi, bensì puntellandoli con ipotesi prive di copertura fattuale; ma ancor più grave è quando queste notizie vengono “avvalorate” avvolgendole con un velo di scientificità richiamato nelle premesse, come hanno fatto il conduttore Bossari e lo scrittore Capone. Nella trasmissione essi hanno infatti voluto sostenere la credibilità di una fantomatica teoria circa la “fine del mondo” o un “evento approssimativamente apocalittico e di portata astronomica” - conseguente all’allineamento di vari pianeti del sistema solare -, che porterebbe alla manifestazione di anomalie geomagnetiche sul finire dell’anno 2012 o al massimo per l’inizio di quello successivo.
La tesi di Bossari e Capone prendeva le mosse dal fatto che agli inizi del XX secolo, lungo le rive del Berezovka (attuale penisola di Kola, Scandinavia – Russia), fu rinvenuto un mammuth (di cui non è stata segnalata la specie esatta, cosa non da poco dato che ne esistono ben 11 diverse, distinte a seconda dei climi e delle caratteristiche fisiche dell’animale) congelato e nel cui stomaco erano presenti residui di cibo; dimostrazione di una digestione interrotta apparentemente in maniera improvvisa e per un inspiegabile motivo. La spiegazione fornita nella trasmissione era quella di un’immediata e repentina glaciazione che lo aveva surgelato all’istante!
Cercando in rete notizie circa il ritrovamento (alquanto lacunose sono le circostanze e i rapporti sulla scoperta) si evidenzia però come il cibo non digerito consistesse in un arbusto della famiglia delle Ranucolacee che, come molti sanno, contengono una tossina (la protoanemonina) dannosa per uomini e per animali, anche di grandi dimensioni, se ingerita in grandi quantità. Il veleno di questa pianta provoca infatti problemi cardio-respiratori e paralisi muscolare.
L’animale potrebbe essere quindi deceduto per avvelenamento da quella pianta (ecco dunque la digestione interrotta dalla morte); anche il semplice clima temperato del luogo, dove si alternano gelate notturne o invernali, e nel quale in seguito potrebbe essere intervenuta una successiva glaciazione (non necessariamente immediata quindi, ma dopo anni o decenni), avrebbe potuto garantire la conservazione del corpo fino alla sua scoperta, avvenuta nel 1903.
E’ così, nel giro di poche ore e con qualche modesta ricerca scientifica in rete, è stata trovata una spiegazione plausibile, e quindi non spettacolare o catastrofista, che chiarisce il “mistero” esaminato in questa trasmissione. È mai possibile, si chiederà il cittadino (anche non esperto in materia archeologica, zoologica e/o paleontologica) che una emittente televisiva tra le più seguite in Italia non disponga di personale qualificato per fare almeno questo tipo di ricerche? O forse l’ansia di inseguire audience ed effetto “terrore prossimo venturo” è l’unico faro che illumina le scelte di questi programmi?
Concludo dicendo che in questo programma (e nella spiacevole circostanza specifica) l’unico “baluardo” di scientificità era il bravo Cecchi Paone, che aborriva – come il giusto rigore divulgativo vuole – un atteggiamento “terroristico”e mistificatorio della verità; quel catastrofismo da bar che alcuni amano propinare al pubblico desideroso di stupirsi con emozionanti infondatezze fatte passare per “divulgazione scientifico-culturale”. Il rischio è che la società si abitui a un simile flusso di “non-informazione”, peraltro teletrasmessa in assenza di moderatore e contraltare, e finisca per assorbirla passivamente senza opporre rifiuto o critica alcuna, divenendone influenzata a tal punto da non distinguere più vero da falso. E la fantasiosa ipotesi diventa “verità” condivisa.
L’entourage di Mistero non è andato troppo lontano da questa nefasta deriva, tenendo conto che la trasmissione in questione non annoverava nemmeno una figura accademica seria e dalle provate qualità scientifiche quale contradittore.
La facezia del povero elefantino surgelato all’istante, spacciata per informazione scientifica seria, ha sicuramente l’effetto (forse anche lo scopo?) di distogliere gli spettatori da tematiche e problematiche reali, di carattere sia ambientale sia culturale sia scientifico, creando però condizioni per la nascita di paure immotivate e panico collettivo.
Questa redazione, e crediamo anche il mondo accademico, crede nella scienza e nel suo carattere probatorio. Non siamo contrari alle ipotesi, neppure alle più fantasiose e spettacolari, ma desideriamo che vengano si enunciate, ma contemporaneamente discusse da addetti ai lavori e con dati scientifici alla mano.
Fonte: Archeorivista
di Stefano Todisco
Il 2 ottobre 2011, la trasmissione televisiva Mistero, in onda su Italia Uno, ha trattato un argomento quanto mai scottante e interessante, sostenendo però in quell’ambito una teoria abbastanza “bizzarra”, basata per giunta su un discutibile connubio tra fanta-archeologia e pseudo-scienza.
Dato che la Tv dovrebbe dare informazione concreta e reale, questo episodio a nostro avviso rappresenta un fatto abbastanza grave; non è infatti educativo che i media diffondano messaggi assai allarmistici senza supportarli con dati scientifici certi, bensì puntellandoli con ipotesi prive di copertura fattuale; ma ancor più grave è quando queste notizie vengono “avvalorate” avvolgendole con un velo di scientificità richiamato nelle premesse, come hanno fatto il conduttore Bossari e lo scrittore Capone. Nella trasmissione essi hanno infatti voluto sostenere la credibilità di una fantomatica teoria circa la “fine del mondo” o un “evento approssimativamente apocalittico e di portata astronomica” - conseguente all’allineamento di vari pianeti del sistema solare -, che porterebbe alla manifestazione di anomalie geomagnetiche sul finire dell’anno 2012 o al massimo per l’inizio di quello successivo.
La tesi di Bossari e Capone prendeva le mosse dal fatto che agli inizi del XX secolo, lungo le rive del Berezovka (attuale penisola di Kola, Scandinavia – Russia), fu rinvenuto un mammuth (di cui non è stata segnalata la specie esatta, cosa non da poco dato che ne esistono ben 11 diverse, distinte a seconda dei climi e delle caratteristiche fisiche dell’animale) congelato e nel cui stomaco erano presenti residui di cibo; dimostrazione di una digestione interrotta apparentemente in maniera improvvisa e per un inspiegabile motivo. La spiegazione fornita nella trasmissione era quella di un’immediata e repentina glaciazione che lo aveva surgelato all’istante!
Cercando in rete notizie circa il ritrovamento (alquanto lacunose sono le circostanze e i rapporti sulla scoperta) si evidenzia però come il cibo non digerito consistesse in un arbusto della famiglia delle Ranucolacee che, come molti sanno, contengono una tossina (la protoanemonina) dannosa per uomini e per animali, anche di grandi dimensioni, se ingerita in grandi quantità. Il veleno di questa pianta provoca infatti problemi cardio-respiratori e paralisi muscolare.
L’animale potrebbe essere quindi deceduto per avvelenamento da quella pianta (ecco dunque la digestione interrotta dalla morte); anche il semplice clima temperato del luogo, dove si alternano gelate notturne o invernali, e nel quale in seguito potrebbe essere intervenuta una successiva glaciazione (non necessariamente immediata quindi, ma dopo anni o decenni), avrebbe potuto garantire la conservazione del corpo fino alla sua scoperta, avvenuta nel 1903.
E’ così, nel giro di poche ore e con qualche modesta ricerca scientifica in rete, è stata trovata una spiegazione plausibile, e quindi non spettacolare o catastrofista, che chiarisce il “mistero” esaminato in questa trasmissione. È mai possibile, si chiederà il cittadino (anche non esperto in materia archeologica, zoologica e/o paleontologica) che una emittente televisiva tra le più seguite in Italia non disponga di personale qualificato per fare almeno questo tipo di ricerche? O forse l’ansia di inseguire audience ed effetto “terrore prossimo venturo” è l’unico faro che illumina le scelte di questi programmi?
Concludo dicendo che in questo programma (e nella spiacevole circostanza specifica) l’unico “baluardo” di scientificità era il bravo Cecchi Paone, che aborriva – come il giusto rigore divulgativo vuole – un atteggiamento “terroristico”e mistificatorio della verità; quel catastrofismo da bar che alcuni amano propinare al pubblico desideroso di stupirsi con emozionanti infondatezze fatte passare per “divulgazione scientifico-culturale”. Il rischio è che la società si abitui a un simile flusso di “non-informazione”, peraltro teletrasmessa in assenza di moderatore e contraltare, e finisca per assorbirla passivamente senza opporre rifiuto o critica alcuna, divenendone influenzata a tal punto da non distinguere più vero da falso. E la fantasiosa ipotesi diventa “verità” condivisa.
L’entourage di Mistero non è andato troppo lontano da questa nefasta deriva, tenendo conto che la trasmissione in questione non annoverava nemmeno una figura accademica seria e dalle provate qualità scientifiche quale contradittore.
La facezia del povero elefantino surgelato all’istante, spacciata per informazione scientifica seria, ha sicuramente l’effetto (forse anche lo scopo?) di distogliere gli spettatori da tematiche e problematiche reali, di carattere sia ambientale sia culturale sia scientifico, creando però condizioni per la nascita di paure immotivate e panico collettivo.
Questa redazione, e crediamo anche il mondo accademico, crede nella scienza e nel suo carattere probatorio. Non siamo contrari alle ipotesi, neppure alle più fantasiose e spettacolari, ma desideriamo che vengano si enunciate, ma contemporaneamente discusse da addetti ai lavori e con dati scientifici alla mano.
Fonte: Archeorivista
mercoledì 12 ottobre 2011
I TUMULI NELLA SARDEGNA PREISTORICA E PROTOSTORICA - 2° parte di 3
La protostoria
di Fulvia Lo Schiavo
...segue dall'articolo di ieri...Se si ritiene importante insistere qui sugli indizi di affinità di rituale megalitico ed ipogeico in tutta la Sardegna preistorica, è anche per tentare di spiegare come accada che nel periodo successivo della piena Età del Bronzo, con la civiltà nuragica, si assista al forte e deliberato recupero di questa base di affinità, con l’elaborazione e l’adozione di un modello generalmente uniforme e, pur nelle varianti tipologiche zonali e cronologiche, universalmente diffuso: la »tomba di giganti«. Con le tombe di giganti, ritroviamo tombe collettive, spesso raccolte da due a sei, non necessariamente nelle immediate vicinanze dell’insediamento, ma sempre di grandiosa visibilità e monumentalità. Soprattutto
nelle forme più antiche, la grande stele centinata svettava al di sopra della camera, delimitata da crepidine e, qualora coperta da tumulo, esso doveva avere dimensioni confrontabili a quello che si può ipotizzare intorno ai dolmen, dunque non »di copertura«, ma di accentuazione di monumentalità e visibilità. In realtà, questa impressione di avere a che fare con giganti deriva già dalle colossali lastre dell’esedra, disposte a semicerchio e di dimensioni scalari, disposte a creare una fronte colossale ed imponente ed una »immagine« tale da incutere riverenza e rispetto. Sull’argomento specifico della ricostruzione dell’elevato delle tombe di giganti, vi sono state accese discussioni ed E. Contu, in particolare, nega recisamente che si possa anche solo usare il termine di »tumulo« da lui definito »improprio«, in quanto ciò che completa l’inclinazione naturale del profilo nella parte superiore esterna del monumento va piuttosto denominato »colmo«. La prova di questa affermazione sarebbe costituita, in primo luogo, dalla tomba monolitica di Su Campu Lontanu di Florinas, che riproduce sulla fronte la stele centinata, mentre la parte superiore è arrotondata a botte; la sua singolarità è dovuta al fatto che la tomba è costituita da un unico masso erratico, isolato spettacolarmente in un campo; ma di tombe singole con camera scavata nella roccia e stele centinata scolpita sulla facciata ve ne sono altre: ad esempio Sas Puntas, Tissi; Molafà, Sassari; Ittiari, Osilo, ed altre che si vanno scoprendo di continuo, talora piuttosto mal conservate, sulle bancate di calcare del Sassarese.
Quale dovesse essere l’effetto dell’insieme, possiamo giudicare, sempre nel Sassarese, dalle necropoli di tombe con prospetto architettonico, in alcuni casi affiancate e coperte con volta a botte, come nello spettacolare caso della serie delle tombe di Ittiari, Osilo, ciascuna sormontata da una sorta di tumulo allungato scolpito nella roccia e con stele centinata sulla fronte. Dunque, tanto nelle tombe di giganti quanto nella loro trasposizione scolpita nella roccia, non si ha un vero e proprio tumulo, ma una tomba monumentale, strutturata in una camera sepolcrale, funzionale all’accumulo delle deposizioni, ed in un’area esterna cerimoniale, funzionale allo svolgimento dei riti collettivi. Si è usato questo termine di »accumulo« per indicare il risultato delle ultime ricerche archeologiche ed antropologiche sulle deposizioni nelle tombe di giganti, che hanno mostrato che i corpi venivano calati dall’alto e deposti ordinatamente, in connessione anatomica, a file ed a strati spesso di qualche centinaio di individui. Il fatto è stato accertato, anche se per ora i casi in studio sono pochi, in tutta l’Isola, da Serrenti nel Cagliaritano (Ugas 1993, 103-115) e dall’Oristanese (Ugas 1990a) fino in Gallura (Tedde 1994).
Dunque in ogni parte, la »collettività«, il gruppo sociale, è quello che appare, soverchiando e cancellando la nozione del singolo e della sua individualità, che non si concretizza neanche in un corredo personale a lui destinato.
Una questione sempre sconvolgente, nello studio della protostoria della Sardegna, è l’assenza di un vero e proprio corredo, come quelli che sono ampiamente ed universalmente documentati nel mondo coevo. Infatti, oltre che mancare le sepolture
individuali salvo che, in pochissimi casi, alla fine dell’età nuragica, all’interno delle tombe collettive il corredo personale era praticamente assente, soprattutto gli oggetti di pregio: un buon esempio è offerto dal »Sepolcro dei Trecento«, dove, pur essendo presente un sigillo cilindrico di olivina (Ugas 1993, 107), esso è talmente usurato da non essere quasi più leggibile, quindi forse deposto nella tomba come grano di collana o elemento decorativo, più che come simbolo di rango sociale
e di prestigio.
Anche nelle tombe di giganti sono presenti soluzioni intermedie fra l’ipogeico ed il megalitico: fra le prime la tomba di Aiodda, Nurallao, con camera infossata e struttura a filari costituiti da statue-menhir reimpiegate come materiale da costruzione; all’esterno essa appare delimitata da un tumulo, funzionale alla copertura del lungo vano sepolcrale fino alla sommità. Parallele nella resa ad effetto delle domus con facciata a stele centinata del Sassarese sono diverse tombe di giganti del meridione dell’Isola, costruite in opera poligonale, ad esempio la celebre Sa Domu ‘e S’Orku di Quartucciu. Gli studi attualmente in corso, per la fase delicatissima per la formazione della struttura socioeconomica propriamente nuragica, relativi specificatamente all’età del Bronzo Recente, hanno constatato che: »Le grandi tombe di giganti del BM sono ancora in uso anche come marcatori del territorio, insieme o in alternanza o addirittura in sostituzione del nuraghe, e ad esse se ne affiancano altre (da 2 a 6) a costituire delle vere e proprie necropoli, segno indiscutibile che questi monumenti funebri, destinati a rituali collettivi, svolgevano, da un capo all’altro dell’Isola, la precisa funzione di indicare insieme il possesso di suoli e la continuità dell’insediamento«.
Domina dunque l’»immagine« della tomba, in questo identica alla nozione di tumulo, anche se non costituito, come si diceva all’inizio »... da un notevole apporto artificiale di materiali sedimentari, come pietre, ghiaia, terra, accumulati a formare un grande cono, una collinetta, di forma circolare o subcircolare.«Per concludere questo excursus generale, corre l’obbligo di menzionare l’unico manufatto in Sardegna che – sulla base della descrizione stessa dell’autore di una parte dello scavo – potrebbe corrispondere alla definizione accettata all’inizio di tumulo, se si eccettua lo sviluppo in altezza, che certamente non si è conservato: Monti Prama di Cabras, nel Sinis di Oristano. Lo scavo è purtroppo ancora inedito; la sommaria presentazione parla comunque di »un’ampia discarica« (in inglese »dump«). Le dimensioni complessive non sono indicate, ma dalla planimetria sembrerebbe di poter calcolare una lunghezza complessiva di una trentina di metri N-S per una larghezza dichiarata di 2 metri verso O. Questo »mucchio« è costituito di pietre medio-piccole di arenaria gessosa, frammiste alle quali sono stati riconosciuti circa 2000 frammenti di statue nuragiche, di betili, di modellini di nuraghi, di lastre e conci di arenaria, oltre a frammenti di bronzo e di ceramiche databili dall’età nuragica all’età romana; lo strato di pietre è a sua volta coperto di terra e tutta questa massa di terra e pietre copre per intero un sepolcreto, costituito di una fila isolata di 33 tombe a pozzetto intatte e coperte di lastre di pietra, contenenti inumazioni individuali di uomini, donne e bambini praticamente privi di corredo, mentre non si estende ad un sepolcreto simile, situato a pochi metri di distanza a N, del quale non si conosce l’entità. I dati forniti non sono per ora sufficienti a chiarire se la »discarica« sia da attribuire a un’esigenza pratica di livellamento del terreno – che nell’insieme si presenta invece alquanto mosso –, oppure ad un deliberato intento di dissacrare l’area cimeteriale – che invece ne è risultata efficacemente coperta –, oppure proprio a quest’ultimo scopo, cioè di proteggere e forse in origine anche di segnalare il luogo delle sepolture, che risulta delimitato
ai lati da alcune lastre disposte verticalmente. La cronologia del »mucchio« è data dal materiale ceramico mescolato ai frammenti delle statue nuragiche, ovvero orli di anfore puniche del IV-III. a.C. e coppette dello stesso periodo. Viene anche precisato che i dati di scavo hanno accertato che quando il »mucchio« di terra e pietre è stato accumulato, il sepolcreto – datato al tardo VII.a.C. per la presenza, fra l’altro, di un sigillo scaraboide nella tomba 25 – da molto tempo non era in uso.
Anche ammettendo la possibilità dell’ultima ipotesi, che si trattasse in origine di una deliberata protezione di sepolture mediante l’accumulo di pietre informi in una certa quantità, e dunque qualcosa di simile ad un tumulo – ipotesi che si propone qui per la prima volta ed in forma puramente tentativa – il caso di Monti Prama varrebbe solo a confermare la tesi che si è tentato di svolgere, cioè che la monumentalità del vero e proprio tumulo è estranea alla Sardegna preistorica e protostorica. Infatti questo unico caso possibile - anche se costituito di materiali assai più antichi, provenienti da un vicino santuario nuragico, da lungo tempo distrutto e dimenticato – è ormai di piena età storica, quando le ideologie religiose e la struttura sociale, con l’avvento, dall’esterno, di una civiltà urbana, erano profondamente mutati.
Tombe megalitiche e tumuli nel Bronzo in Sardegna centrale
di Mauro Perra
L’occasione delle riflessioni che seguiranno mi è stata offerta dallo scavo di due tombe di giganti nuragiche nel territorio di Lanusei in località Selèni, in Ogliastra, nella Sardegna centro-orientale.
Il complesso nuragico di Selèni comprende un nuraghe complesso circondato da un esteso agglomerato di capanne, due tombe di giganti e i resti di due fonti nuragiche, dislocati in un raggio di circa 500 metri. La cronologia si articola fra Bronzo Medio e Bronzo Finale (XIV-X a.C.). Le due strutture funerarie megalitiche, distanti circa 500 m a NNO del nuraghe, sono costruite in tecnica
isodoma, cioè utilizzando blocchi di granito locale preventivamente lavorati e posti in opera in modo che le connessure fra gli elementi lapidei siano perfettamente combacianti. Entrambe le strutture erano contenute da un tumulo che solo in parte, come vedremo, ne occultava il paramento. Esse non sono contemporanee e la loro costruzione ed utilizzo sono cronologicamente consecutivi. La tomba I risale al BM 3, avendo restituito un tegame decorato a pettine di tipo arcaico, una pisside con orlo a tesa inornato e varie scodelle e scodelloni. La tomba II di Selèni è invece riferibile al pieno BR. Tra i reperti fittili si contano numerose scodelle e scodelloni, un bicchiere, frammenti di diverse brocchette inornate e frammenti di un tegame decorato a pettine. Sebbene minoritari in percentuale sono stati recuperati reperti attestanti attardamenti nel BF. La tomba I, che supera gli 11 metri in lunghezza ed i 7,80 metri di larghezza, calcolando anche la sostruzione, è stata edificata adoperando blocchi ortostatici ben scolpiti nell’esedra e nella camera funeraria. Nella tomba II (m 12,30 di lungh. × 4,95 di largh.), distante appena 80 metri a Sud di Selèni I e disposta su di un leggero rilievo roccioso, la sostruzione riprende le tecniche sperimentate nella tomba I. Sul fianco destro del corpo tombale, sono evidenti i resti di un peristalite, ovvero di un filare di pietre allineate in funzione di contenimento del tumulo. Sul fianco sinistro si conservano ancora integri i resti del peristalite e del tumulo costituito da terra e piccoli ciottoli. La struttura a filari del corridoio funerario è composta da blocchi squadrati di granito, con faccia a vista a taglio obliquo e in aggetto dal terzo filare in su; analogamente la fronte della tomba è stata innalzata utilizzando la tecnica dei filari di pietre lavorate in tecnica isodoma. Nella fase dello scavo dell’area antistante l’esedra sono stati rinvenuti quattro conci lavorati il più grande dei quali, di forma troncopiramidale, è munito di tre fori nella base superiore. Si tratta di un concio terminale posizionato originariamente sul fastigio dell’esedra, sopra l’ingresso.
La base inferiore misura m 1.17, quella superiore m 0.92. L’altezza mediana è di m 0.65. Lo spessore di base misura m 0.41.
I tre fori misurano rispettivamente m 0.14 di diametro x 0.105 di profondità, m 0.14 × 0.11, m 0.15×0.125.
Altri 2 conci sono simili, anche se di dimensioni inferiori; il restante è una lastra/concio a riscontro fornita di tre incavi.
La lastra a riscontro è frammentaria e misura m 0.57-0.42 sui lati lunghi e m 0.42 sul lato breve residuo. Gli incavi sono
molto consunti ed irregolari. Misurano m 0.16-0.20 × 0.10 e m 0.11-0.20 × 0.115.
Una particolarità della tomba II è quella di conservare, nella parte terminale del corridoio, almeno tre elementi di copertura a piattabanda. Le due tombe si differenziano parzialmente sia nelle dimensioni sia nella tecnica costruttiva adottata. Nonostante talune palesi differenze, esse sono accomunate dal fatto di essere entrambe edificate su una larga sostruzione di base, occultata all’esterno da un parziale tumulo. In base all’analisi delle due strutture funerarie megalitiche del bosco di Selèni possiamo proporre quanto segue: le strutture visibili in tecnica isodoma si limitano al corridoio, al prospetto frontale e all’estradosso navetiforme, mentre i paramenti esterni con blocchi al naturale della sostruzione dovevano essere occultati dal »tumulo«; alcune osservazioni effettuate sullo specifico architettonico delle tombe di Lanusei possono essere estese ad altre tombe di giganti isolane, specialmente al tipo isodomo fornito di concio a dentelli; la presenza di un tumulo che solo parzialmente ricopriva le strutture è strettamente connessa al rituale della deposizione, così come proposto da A. Antona per la tomba di Pascaredda. Mi occuperò in questa sede principalmente degli ultimi due punti. In base ai dati offerti dalle indagini effettuate sulle tombe di giganti, possiamo ormai con buona attendibilità sostenere che esse sono tombe »collettive«, con rituale inumatorio a deposizione primaria. E. Contu ha calcolato che l’altezza media dei portelli d’ingresso delle oltre 500 tombe di giganti conosciute è di m 0.625, mentre la larghezza media è di m 0.488. Queste dimensioni, è palese, non sono tali da consentire un agevole svolgimento delle normali operazioni di deposizione degli inumati. Diversi autori ipotizzano una bipartizione delle strutture interne delle tombe di giganti, con un vano inferiore con specifica funzione di spazio sepolcrale ed un corridoio superiore con funzione di vano di scarico. Accolgo questa ipotesi per estenderne la funzionalità; un vano superiore sussidiario utilizzato per consentire l’accesso dall’alto alle nuove deposizioni. I conci a dentelli infatti mostrano un prospetto trapezoidale, con ampia base inferiore d’appoggio e una base superiore più ridotta e variata dalla presenza di quattro dentelli alternati a tre incavi ottenuti a taglio obliquo con inclinazione verso l’interno della camera. Generalmente, ai conci suddetti si accompagnano delle lastre fornite di incavi o fori a riscontro. Facendo combaciare conci dentellati e conci a riscontro se ne può ricostruire l’originaria postura in posizione terminale sopra il portello dell’esedra. Nella funzione pratica essi sostituiscono la parte superiore lunata delle stele centinate. La loro diffusione è particolarmente concentrata nell’Oristanese e nel Nuorese. La funzione dei conci a dentelli è stata indagata da quasi tutti gli studiosi coinvolti nella ricerca delle antichità nuragiche, sempre partendo dal presupposto che manufatti così perfettamente scolpiti dovessero avere un pregnante valore simbolico e, di conseguenza, essere in qualche modo esposti nella facciata della tomba. Per un corretto approccio alla soluzione del problema si rendeva necessario invece ridare loro quel valore di funzionalità pratica precedentemente negato. Secondo la mia interpretazione il sistema dei conci dentellati e del concio a riscontro, agevolerebbe, tramite l’utilizzo di pali in funzione di leve, il sollevamento e la temporanea asportazione di elementi di copertura e, di conseguenza, l’accesso al vano sussidiario superiore.
La funzionalità di tale espediente non è certamente sempre verificabile tramite osservazione diretta, poiché oggi quasi nessuna tomba di giganti del tipo isodomo conserva intatto l’estradosso.
Però ben tre conci con fori sono stati rinvenuti nella tomba II di Selèni. E’ possibile pertanto ipotizzare che essi fossero dislocati in diversi punti della copertura. E’ inoltre possibile ricostruire l’evoluzione del sistema a partire dalle tombe con stele centinata, la tipologia tombale più antica, risalenti alle fasi iniziali del BM. La necessità di escogitare una soluzione al problema della deposizione degli inumati all’interno del vano funerario era ovviamente sentita anche nelle fasi precedenti l’elaborazione del sistema di copertura applicato nelle tombe isodome. Tant’è che sulla sommità posteriore arcuata di alcune stele centinate di tipo evoluto, come Sa Pedra Longa di Uri, Puttu Oes di Macomer, S. Antine ‘e Campu di Sedilo e Iscrallozze C di Aidomaggiore, appaiono già i tre fori (Uri) o le tre scanalature (Macomer, Aidomaggiore e Sedilo).
La stele centinata della tomba di Iscrallozze ad Aidomaggiore, inedita, mi è stata segnalata con la consueta liberalità dall’amico e collega dr. A. Usai della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari ed Oristano. Si tratta di una tomba più volte manomessa dai clandestini. Il corridoio funerario, ad ortostati di base e filari irregolari sovrapposti a leggero aggetto, in basalto, è di sezione sub-trapezoidale. Misura m 8 circa di lunghezza, m 2 di altezza massima sull’attuale riempimento, m 1.53 di larghezza massima all’ingresso, che si restringono a m 0.96 alla testata. Sul fondo si conservano due lastroni sovrapposti di copertura a piattabanda. Sulla destra per chi entra, appena oltre il breve corridoio d’accesso, si trova uno stipetto scavato nel lastrone che rinfianca il corridoio, a m 0,64 di altezza sul colmaticcio. Ha forma di semicerchio con base di m 0.5, altezza m 0.36 e profondità massima di m 0.19. La stele centinata è stata spezzata in più punti dalle recenti manomissioni. Il frammento sommitale (m 0.9 di larghezza × m 0.58 di altezza residue) ad arco di cerchio è piuttosto rovinato, ma conserva in parte la cornice in rilievo sul prospetto e, nella faccia posteriore, i resti di due incavi e due dentelli, mentre il terzo incavo è fratturato. L’incavo centrale è l’unico perfettamente conservato; misura m 0.13 di corda ×m 0.6 di freccia. La scanalatura, a taglio obliquo rispetto al prospetto centinato, misura m 0.9 di profondità.
Possiamo considerare questi esemplari come i veri e propri prototipi dei conci trapezoidali e dentellati. Stessa funzione potrebbero avere avuto le stele centinate bilitiche quali ad es. Nuscadore, Pardu Làssia e Sa Perda ‘e S’Altare di Bìrori, di Castigadu s’Altare di Macomer, di Murartu, Zanchia e Pedras Doladas I di Silanus, di Uana di Dualchi, Coddu Vecchiu di Arzachena ecc. In tale frangente l’ingresso al vano superiore sarebbe stato condizionato dall’asportazione preventiva della lunetta superiore della stele.
Le carte di diffusione dei tipi tombali in questione evidenziano alcune singolarità. Nel solo centronord dell’isola si può parlare, senza soluzione di continuità fra BM e BR, di un rituale funerario che prevede la deposizione dall’alto e una serie di soluzioni tecniche nell’ambito dell’architettura isodoma, quali il tumulo parziale, il vano sussidiario, le stele centinate con scanalature o fori, i conci troncopiramidali con lastra a riscontro e i conci dentellati. Nel Sud è documentata un’architettura a filari monumentale e, in ogni caso non vi sono strutture funerarie isodome, né tumuli. E’ la spia di differenziazioni locali relative ad un rituale funerario peculiare della Sardegna centro-settentrionale, forse collegato ad una più »forte« ideologia del culto degli antenati e ad una più sentita esigenza di radicamento territoriale. Le attente prospezioni nei paesaggi della Sardegna dell’interno effettuate in questi ultimi anni nei territori del Marghine-Planargia, della Barbagia Mandrolisai ecc., confermano il valore di marcatore territoriale affidato alle tombe megalitiche nuragiche. Laddove i monumenti turriti sono più rarefatti e più semplici sono le strutture, in genere, le tombe di giganti sono molto più evidenti, monumentali e fornite di elementi architettonici di spicco. Sembra che la parabola delle tombe di giganti si concluda nel Bronzo Finale, epoca nella quale scompare la monumentalità delle tombe e con essa il »tumulo«. Non è forse un caso che ciò avvenga nel momento in cui si assiste ad un generale riassetto, politico e territoriale, della civiltà nuragica, contemporaneo all’esplosione di una nuova forma di religiosità, quella esplicata nei santuari collegati al rito delle acque.
L'immagine della Tomba di Giganti di Aiodda è di web.tiscali.it
Iscriviti a:
Post (Atom)