Archeologia della Sardegna: La grotta sacra nuragica di Morgongiori
Articolo di Francesco Manconi Quesada
Morgongiori e il suo territorio
Il territorio di
Morgongiori si estende per ben tre quarti della sua superficie, vale a dire per
circa 3.600 ettari, sul massiccio vulcanico del Monte Arci. Il paese ed il
monte sono quindi legati a filo doppio per quanto attiene alla storia passata,
alle attività economiche, agli usi e alle tradizioni. La valorizzazione
dell'ambiente e del territorio, con le testimonianze archeologiche che vi
insistono, può essere uno stimolo per il progresso sociale, culturale ed
economico della popolazione.
Il monte Arci è un rilievo vulcanico, originato da effusioni magmatiche avvenute principalmente in due epoche: il Miocene e il Pliocene (Era Terziaria). La prima fase risale a circa 15 milioni di anni fa e ha visto lo svolgersi di un'intensa attività vulcanica sottomarina da cui ha avuto origine un gigantesco ammasso di rocce basiche, il massiccio basaltico. La seconda fase risale a un periodo compreso tra 5 e 3 milioni di anni fa ed è consistita in un vulcanismo subaereo che ha prodotto rocce basiche, acide (trachite) e intermedie (andesite, dacite), che rivestono il primitivo massiccio come un mantello. Le rocce mioceniche affiorano, in territorio di Morgongiori, a Pab'e sa Murta (a sinistra della strada proveniente dal Campidano, prima del bivio per Siris), sotto forma di 'pillows' (cuscini). I rilievi di
Trebina Lada, Trebina Longa e Perd'e Pani rappresentano invece i punti di eruzione (camini) del Pliocene. Le trachiti sono visibili a S'Arrosada e a Serra Arruidroxiu, le daciti a Conca 'e Mraxi, le andesiti a Pranu Pira.Il Monte Arci ha
avuto un'importanza straordinaria nello svolgersi millenario della preistoria
sarda, a causa della sua ricchezza in ossidiana, la pietra lavica mirabilmente
sfuttata per la produzione di armi e strumenti. Il cosiddetto 'oro nero'
dell'Arci veniva infatti esportato già dai tempi del neolitico antico fino in
Corsica e nei paesi rivieraschi del Mediterraneo occidentale, per essere
lavorato in schegge taglienti e trasformato in levigate punte di freccia e
altri utensili. Alle falde del monte si trovano filoni di ossidiana di
differenti qualità, comprese quelle più rare, la verde e l'azzurra. In tutta
l'area del massiccio sono numerosissime le 'officine' (luoghi dove si lavorava
l'ossidiana) e le 'stazioni' (luoghi di semplice rinveni-mento). Nel territorio
di Morgongiori, secondo le ricerche del Prof. Cornelio Puxeddu, si trovano
officine a: Sant'Arronti, nuraghe Concoredda, nuraghe S'Omu 'e s'Orcu,
Punta Santu Marcu, Sa Paba Frida,
Punta Masoni Perdu, nuraghe Bruncu is
Pillonis e Santa Maria, stazioni a Su Pranu, Conca Margini,
Intellas, Benas, Setti Funtanas, S'Acqua Marzàna, Sribas, Mitza Tziu Parotti,
Cuccuru Poddi, Roia Arroxi, Corongiu Aunari,
Punta Trunconi, Sa Grutta de is Colombus, Roia
Paris de Mesa, Cuccuru Mattivi, Cabud'Acquas, Serra Ovieddu, Punta
s'Arziada, nuraghe S'Arrideli, Costa Funtanas, Sa Grutta de is Janas e Su
Nieddu Mannu.
Al confine tra
Morgongiori e Pompu, in località Prabanta
(Praunanta secondo alcune fonti), si
trovano due domus de janas, “Su Forru de Luxia Arrabiosa“ e “Sa Sala (o Su
Stabi) de Luxia Arrabiosa“, e un menhir detto “Su Furconi de Luxia Arrabiosa“.
Il menhir, in marna calcarea, è alto m 3,60 ed è decorato con 12 coppelle
disposte in fila secondo uno schema a zig-zag.
Come spesso succede
in questo campo, anche nel caso di Morgongiori le fonti bibliografiche non
concordano sul numero e sulla denominazione dei nuraghi presenti nel
territorio.
Il Lilliu cita
cinque nuraghi: Concorredda, Funtana Maiori (o S'omu 'e s'Orcu), Sa Scovera,
Truncu is Pillonis, Punta Santu Marcu.
Tigellio Contu ne
elenca invece otto: Sa Domu de s'Orcu (in regione Scovera), Su Truncu de is
Pillonis, Pranu Nuraci, Santu Miali, Nuraci de Arrideli, Su Niu de sa Menga, Su
Pranu Suedda (o Sa Prassuedda), Su Lacu de su Meli.
Il Melis invece
indica i seguenti: n. de Preidis (che in realtà si trova al confine tra
Masullas e Siris), un nuraghe a quota 451 s.l.m., lat. 39°45'2, long. 3°41'21,
col solo simbolo nell'IGM (che dovrebbe corrispondere al n. S'omu 'e s'Orcu o
Funtana Maiori), Concoredda, Sa Scovera, Benas (coincide con S'Arrideli?).
Il Prof. Puxeddu,
nella sua preziosissima tesi di laurea, descrive e disegna la pianta di sette
nuraghi: Su Sensu, al confine Morgongiori-Pompu-Siris (ma che in realtà si
trova al confine tra Siris e Pompu, frazione di Masullas), S'Arridebi,
Concorredda, Sa Scovera, S'omu de s'Orcu, Punta Santu Marcu, Su Truncu de is
Pillonis.
Nelle carte
dell'Istituto Geografico Militare è indicato solamente il S. Miali, sia nella
vecchia edizione, che nella nuova.
Sinteticamente,
comparando i dati suesposti, possiamo concludere che nel territorio di
Morgongiori sono presenti i seguenti nuraghi:
Truncu de is Pillonis,
Concorredda,
S'omu 'e s'Orcu (o Funtana
Maiori),
S'Arrideli,
Sa Scovera,
Punta Santu Marcu.
Il nuraghe 'Truncu de is
Pillonis'
Un cenno
particolare merita il nuraghe Truncu de is Pillonis (secondo alcune fonti
'Bruncu de is Pillonis'), allo stato attuale delle ricerche l'unico nuraghe
complesso di Morgongiori; ma se si immagina un nuraghe complesso come Su Nuraxi
di Barumini, bisogna dire subito che Su Truncu de is Pillonis è qualcosa di
molto più modesto. Si tratta in realtà di uno spuntone di roccia (un 'brùnku',
appunto) che domina l'abitato moderno di Morgongiori e che per questo motivo è
stato trasformato in basamento per sostenere un’enorme croce metallica dotata
di impianto di illuminazione. La roccia, di aspetto tabulare, dà forma a un
terrazzo naturale gradonato, sotto il quale si aprono delle piccole cavità
tondeggianti: le più piccole assimilabili a nicchie, le più grandi quasi delle
stanzette.
In età nuragica il
terrazzo naturale è stato circondato e integrato da muraglie in opera
ciclopica, di cui residuano ancora sul lato Sud una decina di filari di grossi
blocchi. Nel corpo murario erano ricavati alcuni vani, oggi di difficile
lettura a causa dei crolli, della vegetazione e dei lavori effettuati per
installare la croce con i tiranti d'acciaio e l'impianto elettrico. Per
sostenere la croce è stata inoltre realizzata una piattaforma con alcuni
scalini.
Si può supporre che
all'epoca dei nuraghi il terrazzo naturale/artificiale, esteso circa 120 metri
quadrati, fosse provvisto di alcuni vani in elevato, che verosimilmente
integravano le cavità naturali e che in seguito sono stati demoliti. Nei
muretti a secco dell'area circostante si possono vedere infatti diversi
blocchetti squadrati di marna calcarea. Il nuraghe di Truncu de is Pillonis si
staglia sull'odierno paese di Morgongiori a guardia della vallata. Per questo
motivo ad esso si può ragionevolmente attribuire la funzione di controllo del
territorio e di collegamento visivo con il retrostante bastione lavico di
Funducarongiu, in cui si apre la grotta di Scaba 'e Cresia, oggetto di questo
lavoro.
La grotta di Scab’e
Cresia si apre sulle pendici sud-orientali del Monte Arci, in località Santu Marcu, su un costone dalle pareti
verticali alte una ventina di metri (denominate Is Concas de Funducarongiu), a 520 m sul livello del mare.
Il bastione
naturale è ricoperto da una folta vegetazione di macchia mediterranea e
roverelle. Si allunga da Est a Ovest dominando la vallata che digrada dal paese
di Morgongiori fino al riu Mogoro.
Sulla medesima
parete rocciosa si apre la grotta detta 'S'Omu 'e is Caombus', 'la casa dei
colombi' nella parlata locale. Si tratta di una delle numerose spaccature
verticali che interessano le balze di basalto e liparite, le quali tendono a
sgretolarsi e a franare, facendo progressivamente arretrare il fronte della
parete.
Il pianoro
antistante il costone, punteggiato da grandi esemplari di roverella e
attraversato da muri a secco ricoperti di rovi, prende il nome da un edificio
sacro, la chiesetta di S. Marco, di cui restano evidenti tracce, insieme a
resti di epoca preistorica e storica.
La nostra grotta
invece non ha attualmente un accesso confortevole, ma presenta al suo
interno una situazione quasi unica di adattamento architettonico, che la rende
una delle più interessanti fra quelle utilizzate in epoca nuragica.
La cavità ha due
ingressi naturali (A e B nelle figure) ed è costituita da una lunga diaclasi
con alcune diramazioni minori. Essa ha l'aspetto di un corridoio alto e
stretto col pavimento in discesa. L'altezza media è di circa 20 m e la
larghezza di circa 1,50.
Il ramo principale parte dall'ingresso B, uno stretto pertugio sul lato orientale del costone di Punta Santu Marcu, e si sviluppa in discesa, dapprima con alcuni ripidi salti, il cui superamento richiede un minimo di esperienza speleologica, poi con una agevole discenderia fino al livello più basso della grotta (punto C). Il dislivello fra l'ingresso B e il punto C è di 45 metri.
Poco prima del
punto C, in alto a sinistra (punto H) sbocca il corridoio proveniente
dall'ingresso A. Questo secondo ingresso si apre all'esterno nella parete
rocciosa a circa 7/8 metri dal piano di campagna, in mezzo ad un'ampia spaccatura.
Attualmente l'accesso alla grotta da tale apertura è possibile soltanto con
specifica attrezzatura di tipo speleologico.
Al punto C arrivano
le rampe di scala che partono dai punti D, E ed F. Dal punto E si diparte un
cunicolo laterale (E-L) che si restringe progressivamente fino a diventare
impercorribile per l'uomo.
La scala è articolata
in tre rampe: la prima dal basso ha inizio nel punto C, con un gradino
costituito da un masso ben squadrato anche nella faccia inferiore che copre
parzialmente una pozza di raccolta delle acque di percolazione della grotta. La
pozza misura circa m 1,5 x 2 ed occupa la zona più bassa della cavità. Essa
non presenta alcun adattamento artificiale evidente, ma è stata verosimilmente
allargata dalla mano dell'uomo. Vi si raccoglie l'acqua che filtra attraverso
le numerose fessure della roccia e scorre in tutte le diramazioni della grotta.
Nei periodi di maggiore siccità la pozza si asciuga, ma dopo le grandi piogge
il livello dell'acqua sale fino a ricoprire gli ultimi nove gradini della
scala. Il primo gradino quindi ricopre per circa un terzo la pozza, poggiando
sulle sporgenze delle pareti; misura 114 cm di larghezza per 80 di profondità
ed è alto 22.
La prima rampa è
formata da 25 gradini che adattano le loro misure alle dimensioni della cavità.
La larghezza dei gradini varia tra i 100 cm del 23o e i 120 cm del 5o, l'alzata tra i 17 cm
dell'11o e i 25 cm del 15 o, la pedata va dai 14
cm del secondo ai 27 cm del 23o. La struttura appare abbastanza regolare,
realizzata con blocchi di basalto e liparite bene squadrati. I gradini sono
costituiti da uno o due blocchi, più raramente da tre. Il 25o gradino forma un pianerottolo tra la prima e
la seconda rampa; si tratta di un masso perfettamente lavorato nelle facce a
vista, di forma trapezoidale, che segue la curvatura della scalinata; misura
112 cm di larghezza, 20 di alzata e 75 di pedata.
La seconda rampa fa un angolo di circa 45 gradi con la prima e si sviluppa per 21 gradini, compreso il secondo pianerottolo. Essa presenta una struttura più irregolare della prima, con i gradini tutti più stretti, essendo più stretta questa parte della grotta. La larghezza varia tra i 68 cm del 31o ed i 94 cm del 35o, l'alzata va dai 17 cm del 34o ai 26 cm del 28o, la pedata dai 19 cm del 28o ai 36 cm del 41o. Anche la seconda rampa si conclude con un pianerottolo, costituito da un blocco squadrato di cm 92 di larghezza, 22 di alzata e 97 di pedata. A questo punto la grotta si divide in due rami: a destra il cunicolo E-L, percorribile con difficoltà per una ventina di metri, a sinistra il ramo E-G. In quest'ultimo corridoio si sviluppa la terza rampa, in parte interrata. Il corridoio infatti è stato interessato, in tempi recenti, da un crollo di materiale roccioso dal soffitto che l'ha quasi completamente ostruito, rendendone alquanto pericolosa l'esplorazione.
Il ramo E-G si
dirige verso Sud, parallelamente al ramo A-H, cioè in direzione dell'ingresso
A. Se ne deduce che la terza rampa andava a terminare verso l'esterno, a una
decina di metri ad Ovest dell'ingresso A, ma ad una quota inferiore di circa
10/12 metri, cioè in corrispondenza dell'edificio nuragico descritto più
avanti.
La parte più bassa
della scalinata presenta alcuni elementi di particolare interesse, che servono
a chiarire la destinazione d'uso della grotta.
Nel quarto gradino
della prima rampa partendo dal basso, sul lato destro, è stata realizzata una
vaschetta col bordo in rilievo sul piano della pedata. Misura cm 20 di diametro
esterno e 14 di diametro interno, il bordo è alto 3 cm. Il quinto gradino è
stato scavato per circa 3 cm nell'alzata, per lasciare spazio alla vaschetta
sottostante. Come detto sopra, durante la stagione piovosa gli ultimi gradini
vengono sommersi dall'acqua che si raccoglie nella pozza del fondo. Pertanto,
quando il livello dell'acqua scende, la vaschetta rimane piena d'acqua per un
certo periodo di tempo. Questo fenomeno aveva sicuramente una grande importanza
per l'utilizzo della grotta come luogo di culto.
Due piccole bozze
si trovano sull'alzata del quarto e dell'ottavo gradino: la più grande e meglio
conservata è quella del quarto, situata proprio sotto la vaschetta; misura cm
7 di diametro e sporge di circa 4 cm.
L'altra è più
piccola e più degradata e si trova nell'ottavo gradino, sempre sul lato
destro.
Strettamente
collegato alla grotta fin qui descritta è l'edificio nuragico presente
all'esterno della cavità. Si tratta di un vano circolare, situato a circa 20
metri a Sud/Sud-Ovest dalla spaccatura della roccia in cui si apre l'ingresso
A. L’edificio, in precedenza abbondantemente interrato e colmo di materiale di
frana, è stato riportato in luce dallo scavo diretto dalla Dott.ssa Emerenziana
Usai, per conto della Soprintendenza Archeologica per le province di Cagliari e
Oristano. Lo scavo ha interessato l’area circostante, ma non la grotta. È
venuta alla luce un’area sacra frequentata appunto dal periodo nuragico fino
all’epoca punica e all’età romana. Pare che l’edificio nuragico sia stato in
età romana sede di un sacello.
La costruzione nuragica
è realizzata in filari irregolari di grossi blocchi poligonali, secondo la
tecnica detta 'ciclopica'. Il primo blocco a sinistra dell’ingresso misura cm
140x100x70.
Lungo la parete
interna si aprono cinque nicchie, disposte su due livelli. Procedendo da Sud
verso Nord si trovano le prime tre. La n.1 è larga 50 cm, alta 70 cm e profonda
80 cm, l'architrave di copertura misura cm 100x50x50. La n.2 dista 120 cm dalla
prima, si apre su un filare più in alto, misura cm 60x60x80 ed è coperta da un
architrave di cm 120x35x60. La terza nicchia si apre sul lato Ovest e misura
cm 70x80x60, l'architrave misura cm 80x40x40.
Le altre due invece
si aprono ad un livello inferiore. La nicchia n.4 si trova più in basso delle
precedenti, adiacente alla terza, è più grande e di forma più regolare, cm
90x75x55. L'architrave è un masso lungo e stretto di cm 120x20x70, il fondo è
costituito da un unico blocco spianato. Anche l'ultima nicchia è più grande
delle altre, ma meno profonda, come la n.4, misurando cm 120x100x40. Anche la
quinta nicchia è coperta da un architrave a forma di parallelepipedo regolare
di cm 155x40x60, mentre il fondo è formato da due grandi massi squadrati.
Alcuni blocchi basaltici del muro interno del vano presentano piccole
vaschette naturali, forse allargate dalla mano dell'uomo, utilizzabili come
ripostiglio: una è larga 20 cm e alta 25 e si trova accanto alla nicchia n.1;
un'altra più piccola è all'interno della nicchia n.5.
Un grosso masso con
le facce ben lavorate a martellina è stato rinvenuto all’interno dell’edificio.
Ha forma di parallelepipedo con il lato superiore convesso; misura cm 90x70 e
45 di profondità. Il lato superiore presenta uno spigolo sbreccato, le due
facce laterali sono invece percorse da una scanalatura profonda 1 cm e larga
2, che corre parallela ai lati lunghi. Nel corso degli scavi è stato ipotizzato
il suo utilizzo come altare in epoca storica.
Il compianto Prof. Cornelio Puxeddu descrisse il ‘nuraghe Santu Marcu’ come una camera nuragica, o fonte, situata davanti alla grotta 'Domu de is Colombus', che presenta una grande nicchia di m 2,20x1,60x1,60 e due armadietti di cm 35x35x20. Sebbene la descrizione delle nicchie non corrisponda esattamente, il nuraghe Santu Marcu è l'edificio descritto in questo lavoro. Il Prof. Puxeddu mi ha riferito del ritrovamento (forse all’interno della grotta) di tre vasi di ceramica grossolana, di tipo nuragico, consegnati da un ragazzo all'appuntato Dattena, della locale stazione dei Carabinieri.
Diversi elementi
confermano senza alcun dubbio la funzione di luogo sacro prospettata per la
grotta di Morgongiori. Innanzitutto la presenza dell'acqua sul suo fondo,
almeno per gran parte dell'anno. La scala, elemento caratterizzante dei pozzi
sacri, costruita con blocchi portati dall'esterno, denota grande cura e assume
quindi notevole importanza, significando una utilizzazione non di vita
quotidiana ma riservata a momenti di culto. In altre parole, i nuragici non
avrebbero costruito quella scalinata solo per andare a rifornirsi d'acqua, ma
per uno scopo ben più rilevante. Infine i simboli scolpiti sui gradini, le due
bozze, sono sicuramente un elemento decorativo di un luogo sacro. Può trattarsi
di bozze mammillari e si possono fare raffronti con numerosi monumenti nuragici
funerari o religiosi; oppure possono essere rappresentazioni di astri, ipotesi
più probabile, dato che le bozze non sono accoppiate. Anche la vaschetta aveva
sicuramente una funzione cultuale, pur se non sappiamo esattamente quale. Si
aggiunga l'edificio esterno, che doveva essere non un semplice nuraghe, ma un
ambiente di servizio e di accoglienza per il tempio sotterraneo.
Tutto ciò è
confermato dai raffronti che si possono fare non solo con altre grotte dall'apprestamento
similare, ma anche con edifici decorati con bozze.
La religione delle genti nuragiche
La religione dei Sardi nell'età nuragica si
articola in due filoni: il culto dei morti, eroi-dei, e il culto delle divinità
naturalistiche: acqua, pietre, alberi, animali, astri. Entrambi avevano come
fulcro la coppia toro/dea madre (già
presente nelle culture dei millenni precedenti), rappresentata in diverse forme
e con varie simbologie. Il toro era il simbolo per eccellenza della forza
fecondatrice maschile e la dea madre raffigurava la femmina feconda, la terra
che elargisce i suoi frutti, l’animale che produce carne, latte, pelle.
Il culto dei morti si svolgeva principalmente
presso le 'tombe dei giganti', che erano non solo sepolcri, ma veri e propri
edifici sacri, monumentali, segni della comunità sul territorio.
Il culto dell'acqua era praticato nei
templi, di varia foggia architettonica, presso le fonti, ma soprattutto nei
pozzi sacri, che riproducono artificialmente un ambiente ipogeo, sede di divinità
ctonie. Anche la Dea Madre trova una sede appropriata nelle profondità della
Terra, identificandosi con essa, già dai tempi delle culture neolitiche, in
Sardegna come nelle altre civiltà mediterranee. La raffinata architettura dei
pozzi sacri testimonia l'importanza dell'acqua di vena per il culto dei popoli
nuragici.
Nella grotta di Morgongiori il sacro liquido
si trova in profondità, nel ventre della Madre Terra, sede ideale per celebrare
riti in onore delle divinità ctonie. Che la nostra grotta avesse una funzione
sacra è quindi dimostrato dalla presenza della vaschetta e dei rilievi
mammillari, oltre che dalle analogie strutturali con i pozzi sacri: ingresso
monumentale (edificio esterno), scalinata.
La vaschetta, vicina alla pozza di raccolta
dell'acqua, aveva sicuramente una funzione lustrale, come già rilevato dal
Lilliu nella prima descrizione della grotta, mentre le due bozze possono essere
assimilati ai rilievi mammillari o astrali presenti in pozzi sacri nuragici,
in templi a megaron, in tombe di
giganti e nei betili che talvolta le affiancano.
La vaschetta è legata al culto dell'acqua,
le mammelle (o la luna) al culto della divinità femminile.
Come già detto, le due bozze non sono
appaiate, come in tanti monumenti nuragici, ma separate, su due scalini
diversi. Quindi l’ipotizzata funzione di rappresentazione di astri (sole e/o
luna) appare come più probabile.
Si conferma quindi lo stretto collegamento
fra il vano esterno e la grotta sacra (un vero e proprio tempio a pozzo
naturale), considerando la prima come edificio utilizzato dai ministri del
culto. La presenza delle nicchie trova raffronti con la cosiddetta 'capanna
del capo' di Santa Vittoria di Serri. In seconda ipotesi, si poteva trattare
di un luogo di attesa per i fedeli o di un deposito per oggetti di culto e
doni votivi.
In Sardegna l'uso di adattare le cavità
naturali alle esigenze umane tramite la costruzione di muri in pietra risale
almeno al Neolitico medio, ovvero al quarto millennio avanti Cristo.
Nella grotta Rifugio di Oliena, ad esempio,
alcuni sbarramenti realizzati con pietre a secco proteggevano un pozzo
utilizzato in quell'epoca come sepoltura.
Nell'età nuragica si assiste ad un frequente
utilizzo di grotte adattate e talvolta trasformate dall'opera dell'uomo. Non si
può qui non accennare al famoso villaggio nuragico di Tiscali.
Esso domina la vallata di Lanaittu, in
territorio di Oliena, la quale ospita, oltre alle grotte di Su Bentu e Su
Benticheddu, il complesso nuragico di Sa Sedda 'e sos Carros, il villaggio
di Ruinas, una tomba di giganti accanto alla grotta Sa Oche, riserva perenne
d'acqua per pastori e greggi. Sopra la forra di Doloverre, in cui si apre la
grotta di Sisaia, vicino alla voragine di Tiscali, il villaggio omonimo (in
territorio di Dorgali) resiste alle intemperie e alle ben più dannose
incursioni dei moderni vandali, adagiato all'interno di una splendida e rara
formazione carsica: una dolina di crollo apertasi su una cresta calcarea. Tra
grandi esemplari di querce e fino ai recessi più bui dell'ampio catino
naturale, illuminato su un lato da un gigantesco finestrone, sono disposte le
abitazioni del villaggio che taluno ha supposto costruito per sfuggire
all'invasore romano. L'agglomerato è accessibile da una parte soltanto
attraverso una stretta spaccatura verticale, Sa Curtigia de Tiscali;
dall'altra è facilmente difendibile, poiché chiunque vi si avvicini può essere
avvistato con molto anticipo. Una capanna con la copertura a tholos in piccoli
blocchi conserva ancora miracolosamente l'architrave in legno di ginepro. Di
altre abitazioni si legge la pianta quadrangolare che talvolta segue la
conformazione delle pareti rocciose.
Nel Supramonte si conoscono ulteriori esempi
di utilizzazione di cavernoni, cenge e doline per abitazione e luogo di
sepoltura. Alcuni di essi conservano tracce di opere murarie, pur senza raggiungere
la spettacolarità del villaggio di Tiscali.
Altre grotte hanno però subìto ben più
spettacolari interventi di adattamento da parte delle genti nuragiche; esse
svolgevano essenzialmente due funzioni: luogo sacro o fortificazione. Di
seguito se ne dà una breve descrizione.
La grotta di San
Giovanni (o di Acquarutta) di Domusnovas è notissima per la
caratteristica che ha in comune con due sole altre grotte al mondo: quella di
essere percorsa da una strada asfaltata, un tempo aperta al traffico
automobilistico! Molto meno, anzi quasi per niente, è nota per il fatto di
essere stata trasformata in epoca nuragica in una grande fortezza chiusa da
sbarramenti murari ai due ingressi.
La cavità si apre
ai piedi del Monte Acqua, un rilievo ai limiti del massiccio del Marganai, sul
versante settentrionale della valle del Cixerri. Si tratta di una grande
galleria naturale, aperta dalle acque correnti attraverso un’ampia frattura
orizzontale degli strati calcarei; vi si immette, dall'ingresso settentrionale,
il Rio di Monte Narba/Rio Sarmentus che esce dall'ingresso meridionale col nome
di rio San Giovanni, andando poi a confluire nel fiume Cixerri.
La grotta è stata
frequentata sin da tempi remoti, come dimostra il ritrovamento, in vicine
cavità, di vasi del Neolitico Recente e di cultura Monte Claro; essa d'altronde
era, allora come oggi, un passaggio obbligato per inoltrarsi nel massiccio del
Marganai dal fianco orientale. Attraverso la grotta di San Giovanni si arriva infatti nella valle di Oridda,
ricca di acqua, di cascate, di boschi, di selvaggina, di minerali. Possiamo
immaginare quale fosse la lussureggiante vegetazione che copriva la zona prima
dell'arrivo dei minatori, dei carbonari e dei boscaioli che ne hanno fatto scempio
in tempi storici. In presenza di foreste molto più rigogliose di quelle
attuali, anche l'acqua corrente di superficie era sicuramente più abbondante di
quella che oggi scorre solo nella stagione delle piogge. Nel ruscello a monte
della grotta si hanno infatti dei periodi di secca prolungati dalla tarda
primavera all'autunno inoltrato, mentre il rio San Giovanni è alimentato
perennemente dalla sorgente omonima, adiacente all'ingresso meridionale, una
delle più ricche della provincia di Cagliari.
La strada
carrozzabile che attraversa la grotta di San Giovanni, dopo essersi snodata con un percorso
tortuoso lungo le zone minerarie di Is Arenas, Sa Duchessa e Malacalzetta, tra
il Marganai ed il monte Linas, va a finire nella valle di Antas, frequentata
dalle genti nuragiche ben prima che i Punici ed i Romani vi edificassero il
tempio al Sardus Pater, come attestano recenti ritrovamenti.
Le strutture
nuragiche che chiudevano i due accessi alla grotta-galleria di Domusnovas sono
state descritte già nel 1840 dall'Angius. Egli dice che nel primo ingresso,
sulla sinistra, si trovano gli avanzi di un muro ciclopico che lo chiudeva. Una
piccola porta presso la parete della spelonca è alta quanto la statura
ordinaria d'un uomo, a sinistra della porta una scala larga m 1,30 portava
sopra il muraglione dove c'erano merli e feritoie. Il muro è spesso m 4 e
costruito con grandi pietre irregolari all'esterno e grandi e piccole
all'interno con argilla rossastra, il tutto cementato dal concrezionamento
dello stillicidio. La metà destra del muro è crollata per l'impeto del torrente
Oridda e si ricordano i ruderi presenti fino a pochi anni prima; all'uscita si
trova un altro muro dallo spessore di m 3,20.
Questa era la
descrizione degli sbarramenti murari nel 1840. Possiamo dedurne che la
distruzione degli stessi sia avvenuta nel giro di più di un secolo ad opera
dell'acqua che scorre impetuosa nella galleria naturale dopo le piogge intense,
ma ancor più ad opera dell'uomo; infatti l'autore parla di 'metà dello
sbarramento' meridionale ancora in piedi a quei tempi. Si riconosce la cura
dell'Angius nella descrizione dei manufatti, ma egli cade in errore quando
scrive che 'ai tempi della costruzione dei muri il torrente non entrava nella
grotta, ma girava intorno al monte'. è
chiaro infatti che ciò non è possibile perché il ruscello avrebbe dovuto
superare un dislivello di almeno 120 metri ed è ancora più sicuro che la grotta
sia stata scavata dallo stesso fiume nel corso di lunghi periodi geologici.
Evidentemente l'autore voleva risolvere in quel modo il dubbio sul fatto che le
opere murarie occludessero totalmente gli accessi o lasciassero aperto un varco
per le acque correnti.
L'argomento fu
ripreso dal Della Marmora nel Voyage
(Parte III, volume I) e poi ancora nell'Itineraire.
In un disegno dell'autore si vede l'ingresso meridionale con i resti nuragici,
ben più cospicui di quelli attuali. Lo studioso scrive che la scala praticata
nello spessore del muro conduceva ad una finestra e che all'estremità opposta,
vicino alla cappella di San Giovanni (oggi distrutta), c'era un altro 'muro
barbaro' molto antico.
Anch'egli affronta
il problema dello scorrimento delle acque all'interno della grotta, ipotizzando
perfino che i costruttori dei nuraghi abbiano deviato il corso del fiume.
Lo Spano, nella
traduzione dell'Itineraire, aggiunge
che quello del primo ingresso era un vero Nuraghe, al cui terrazzo si poteva
salire e la cui abitazione si trovava all'interno. Egli vi raccolse pezzi di
stoviglie simili a quelli trovati in altri nuraghi. L'autore ricorda che la
strada carrozzabile fu costruita nel 1865 per facilitare il taglio del legname
nella vallata di Oridda e che da quando si è proceduto al disboscamento sono
venute a mancare le acque del ruscello in entrata. In occasione della costruzione
della strada fu demolita la cappella di San Giovanni e parte del muro
ciclopico.
è chiaro, possiamo dire oggi, che quando si
costruirono i muri il ruscello immissario della grotta era perenne e aveva una
portata molto più regolare grazie all'opera idroregolatrice della foresta,
mentre ora (come nel secolo scorso) il regime del corso d'acqua è strettamente
dipendente dalla precipitazioni e quindi stagionale. Ne consegue che i nuragici
abitatori della zona realizzarono le loro opere di chiusura della grotta
lasciando lo spazio necessario per lo scorrimento dell'acqua.
Le strutture
murarie ancora visibili sono oggigiorno ridotte a ben poca cosa. All'ingresso
meridionale la parte più evidente consiste nei resti di una muratura che si
appoggia alla parete naturale della grotta, lasciando il varco dell'ingresso
architravato alla maniera classica dei nuraghi. L'ingresso è alto m 2;
l'architrave è lungo cm 110, alto cm 40 e profondo cm 70; il muro è alto ancora
m 5,50 circa, è spesso m 1,50 e lungo m 1,20 dopo gli ultimi crolli. è costruito con grossi blocchi
poligonali (misure del primo a sinistra dell'ingresso: cm 100x50x40) che lo
stillicidio ormai plurimillenario ha ricoperto di una crosta calcarea e
talvolta cementato insieme. Nell'ingresso lo stipite destro è crollato, ma
l'architrave è rimasto nella sua posizione originaria grazie al
concrezionamento effettuato dall'acqua di percolazione.
All'uscita della
galleria (ingresso Nord) si vedono i resti di un altro muro in opera ciclopica,
che la sbarrava trasversalmente. Il muro era largo m 3 e si conserva per quasi
la metà della larghezza della grotta (m 10); nel punto più alto misura ancora
circa 3 m.
L'attribuzione
delle strutture ad epoca nuragica è confortata dall'esame della tecnica
costruttiva oltre che dai ritrovamenti dello Spano su citati. La funzione era
sicuramente difensiva e di controllo dell'accesso al massiccio del Marganai,
come sostiene anche Luciano Alba che paragona gli sbarramenti della grotta di
San Giovanni a quelli della gola di Gutturu Xeu tra il
Marganai e la Punta Tintillonis. Non si può tuttavia escludere che all'ingresso
meridionale avessero luogo anche attività sacre connesse al culto dell'acqua,
come nelle altre grotte oggetto di questo lavoro.
Si può anche
ipotizzare un'attività metallurgica nei pressi dell'ingresso meridionale. La
presenza di miniere nelle zone vicine infatti si accompagna ad abbondanza di
acqua e di legname utilizzabile come combustibile. Il Lamarmora parla di
'parecchi mucchi di scorie che derivano da lavori metallurgici'. La zona
circostante era sicuramente interessata da insediamenti abitativi, come
dimostra la presenza del grande nuraghe "Sa Dom'e s'Orcu".
Giovanni Lilliu è
stato il primo a far conoscere la cavità del Monte Albo, visitata tra il 22 ed
il 25 Ottobre del 1938. Essa si apre con uno stretto pertugio, ai margini d'un
canalone sotto la punta Su Cuccurarvu, nei pressi del rio Siccu. Il Lilliu la
definiva "curiosissima costruzione semi-artificiale" e la descriveva
minutamente: la grotta presenta, subito dopo l'angusto ingresso, una scala a
gomito; uno sbarramento con ‘garetta’ alla fine della scala sovrasta un salto
che immette in due grandi sale ed una ‘cellula’; la scala è composta di 16
gradini, che misurano mediamente 20 cm d'alzata e 18 cm di pedata; le pareti
sono costruite a filari; la copertura è formata da architravi in risega;
l'altezza della scala è di 1,26 m, la larghezza di 0,65; si notano gli incastri
per paletti di sprangamento di porticine, di 25x22x32 cm; alla testata
inferiore della spalletta sinistra si attacca un muro che piega a sinistra,
lungo 4 m e alto 4; in alto sul muro c'è una fessura che dà alla scala. Un
vestibolo ellittico largo 15 m introduce fra due colonne alla sala
quadrangolare di 15 m e ad una suggestiva saletta.
In un articolo
successivo il Lilliu faceva un raffronto tra la scalinata della grotta e quelle
dei pozzi sacri di tipo arcaico, come il pozzo di S.Anastasia di Sardara.
Il Taramelli parla
di un nuraghe eretto contro una grotta da cui scaturisce una fonte; 'si vede
ancora l'ingresso e la scala per accedere alla cavità della grotta. Da ciò il
nome di Nuraghe Orcu o Sa Grutta'. A nostro parere lo studioso si riferiva
forse alla grotta 'Sa Conca 'e s'Orcu', che si trova a quota 830 s.l.m., di cui il
Furreddu dice: 'grotta cui si accede da un nuraghe...'. Lo stesso Furreddu
descrive la grotta Sa Prejone 'e s'Orcu come rifugio dei Sardi braccati dai
Cartaginesi e dai Romani al tempo della conquista dell'Isola. Egli parla di una
scala elicoidale che porta ad un pianerottolo su un saltino di 4 o 5 metri e di
un muro di costruzione nuragica. La grotta si estende poi in discesa per una
sessantina di metri a sezione lenticolare inclinata, riempita in parte da una
frana; l'autore dice che sono stati trovati dei cocci sicuramente nuragici e
dei favi di miele completamente fossilizzati. Il Contu parla invece di
"apprestamento architettonico che interessa una sorgente temporanea che
sgorga dentro una grotta" aggiungendo che serviva per rifornimento idrico
e forse per riti particolari.
Una pubblicazione
più recente parla della grotta come di un rifugio con una probabile uscita di
sicurezza (oggi sconosciuta). La stessa fonte parla di cocci di ceramica
nuragica e resti di pasto e di focolare vicini ad un nicchione con pozza
d'acqua. Quest'ultima notazione fa pensare ad una grotta sacra come le altre
esaminate in questo lavoro. Non sembra plausibile l'ipotesi che i nuragici
costruissero una struttura così perfezionata, quale quella descritta dal
Lilliu, per scampare alle ricerche dei Romani o per rifornirsi d'acqua. La
scala che porta ad un ambiente sotterraneo con presenza d'acqua riporta alla
mente i pozzi sacri e la grotta di Morgongiori, nonché quella di Santadi, di
cui si parla più avanti. La notizia di Zonara sui Sardi che si rintanavano in
grotte e caverne inseguiti con i cani da M. Pomponio Matone non autorizza ad
ipotizzare che le popolazioni dell'interno della Sardegna costruissero scale e
muri all'interno dei rifugi naturali. Essi dovevano salvare la propria vita e
le greggi, non avevano il tempo e la possibilità materiale di realizzare tali
opere. La ricercatezza della costruzione ipogeica di Siniscola come di quella
di Morgongiori ci induce ad attribuire loro un carattere sacro.
Il Monte Albo e le
sue pendici conservano numerose testimonianze dell'età nuragica, alcune delle
quali proprio in cavità naturali. Nella zona di Bona Fraule, per esempio, nel
1892 si rinvennero in una 'grotta calcarea naturale' una navicella in bronzo
con testa di cervo o daino e altri oggetti in bronzo e ferro. Alla base dello
sperone calcareo di Bona Fraule, già sormontato dall'omonimo nuraghe non più
esistente, il Lilliu ha rilevato una capanna 'di aspetto preistorico',
seminterrata, dal diametro di m 2,50 e di profondità residua di m 1. Qui, forse
per la prima volta, lo studioso trovò un frammento di intonaco rosso scuro con
l'impronta di rametti, testimonianza della copertura straminea. La zona era poi
circondata da nuraghi, sia sulle pendici che sulle cime del Monte Albo.
Un'altra
interessante cavità con mura nuragiche si trova nella stessa zona del Monte
Albo: la grotta di Duar Vuccas (Due Bocche). Anch'essa è stata descritta da
Giovanni Lilliu nel 1940. Antistante la forra di Sa Conca 'e su Sale (o Gurgu
di Ischiriddé), sul sentiero che da Bona Fraule porta alla Punta de s'Orcu,
prende il nome dai due ingressi opposti che si aprono sull'asse NE-SO. Il primo
è rivolto alla montagna, l'altro si apre sul vuoto. La cavità ha l'aspetto di
una galleria, lunga 20 m, larga 6 m, e alta 7 m; a Nord-Est è sbarrata da un
muro megalitico. Il Lilliu ha scavato nell'aprile del 1939 lo strato di cenere
alla base del muro rinvenendovi frammenti ceramici di piatti, ciotole e olle,
taluni restaurati con grappe di piombo. Lo studioso effettuò uno scavo anche
nella capanna antistante la grotta di Duar Vuccas in cui ritrovò un macinello e un piatto
simile a quelli della grotta.
Il Lilliu ci dà notizia anche della probabile presenza di resti murari
manufatti nella vicina grotta di Gantinerios, sull'orrido della punta omonima, frugata da
tale Matteo Carzedda alla fine del secolo scorso.
Anche la notissima
grotta-santuario di Pirosu in località Su Benatzu, nel territorio di Santadi,
presenta strutture murarie di origine nuragica. Si tratta di resti di muratura
fra l'ingresso n.2 e quello n.3, rilevati dallo Speleo Club di Cagliari. Il
primo è un muro addossato alla parete naturale ed in parte franato, il secondo
sembra un'opera di contenimento o di terrazzamento.
Una rozza gradinata
scende dal terrazzo verso gli ambienti sottostanti che comprendevano la zona
sacra dell'ipogeo. Anche in questo caso la funzione delle strutture murarie
ipogeiche deve essere messa in relazione con la natura sacra della grotta.
Un sentito ringraziamento devo rivolgere,
oltre che naturalmente a Emina Usai,
per le notizie sugli scavi, agli amici dello Speleo Club di Cagliari e a
Gianfranco Muzzetto dello Speleo Club di Oristano per
l'esplorazione e i rilievi, nonché al Gruppo Speleo-Archeologico 'Giovanni
Spano' di Cagliari, senza il cui aiuto non avrei potuto realizzare questo
lavoro. In particolare la mia riconoscenza va a Luigi Scema e a Franco
Varsi che mi hanno accompagnato in alcune faticose ricognizioni sul campo.
Fonte: https://www.academia.edu/23490387/LA_GROTTA_SACRA_NURAGICA_DI_MORGONGIORI?auto=download&email_work_card=download-paper
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