Archeologia. La produzione e il commercio dell'olio nella Sardegna di epoca romana.
Articolo di Attilio Mastino
L'economia della Sardegna in età romana.
Dopo la conquista romana, la situazione relativa alla produzione, al commercio ed al consumo dell'olio non dové modificarsi di molto, almeno per l'età tardo-repubblicana, anche perché i Romani preferirono mantenere gli orientamenti adottati dalla colonizzazione cartaginese ed inizialmente limitarono l'introduzione di alberi da frutto. Sulle terre dichiarate ager publicus populi Romani e lasciate in precario possesso ai vecchi proprietari si preferì mantenere la produzione di grano, anziché impiantare colture specializzate di olivo e vite. L'agricoltura sarda era finalizzata a partire dall'età cartaginese ad assicurare l'approvvigionamento granario degli eserciti impegnati nei diversi teatri di operazioni; per l'età romana, questa caratteristica fu mantenuta e il «sottosviluppo» dell'economia della Sardegna si andò caratterizzando con la progressiva estensione sul territorio della monocoltura cerealicola, che richiedeva l'impiego di mano d'opera servile. Nascevano delicati problemi giuridici sulla proprietà della terra, che coinvolgevano le popolazioni rurali, con violenze, occupazioni illegali di terre pubbliche, contrasti tra contadini e pastori, immediate esigenze di ripristinare l'ordine con interventi repressivi. Il protezionismo italico limitava enormemente la produzione di olio e di vino nell'Isola; lo stesso Cicerone richiama l'ostilità dei Romani (iustissimi homines) nei confronti della produzione di olio e di olivo nelle province, e ciò già dalla metà del II secolo a.C. L'estensione dei campi abbandonati alla fine del I secolo a.C. raggiungeva in Sardegna secondo Varrone una dimensione notevole in alcune località (forse vicine ad Olbia), anche a causa del brigantaggio. Strabone sostiene che le razzie dei popoli montani (gli
Iolei-Diaghesbei) costituivano, assieme con la malaria, un grave inconveniente che riduceva i vantaggi dei suoli. Altri oneri che limitavano gli investimenti agricoli erano rappresentati dal pagamento di una decima sui prodotti e di vari vectigalia. La situazione dové comunque col tempo modificarsi soprattutto grazie all'attività dei colonizzatori romano-italici ed in conseguenza dell'ampliamento della conquista: fu allora promossa su vasta scala la piantagione di alberi da frutto; si diffusero l'olivicoltura, la viticoltura, la produzione di agrumi. In alcune aree come nella Romania, nel retroterra della colonia di Turris Libisonis, con l'arrivo dei colonizzatori italici, il territorio fu suddiviso in diverse centinaia di piccole parcelle, assegnate in proprietà agli immigrati, interessati all'estensione delle colture specializzate. Proprio grazie all'attività degli immigrati, durante l'età imperiale l'economia sarda appare più florida, in seguito allo sviluppo del colonato ed allo sfruttamento intensivo delle campagne; si andò affermando un'aristocrazia terriera molto ristretta e gelosa dei propri privilegi, che si organizzò attorno a ville rustiche, per quanto prevalessero nell'isola le forme di occupazione del territorio rurale già sperimentate ampiamente nel periodo pre-romano: l'aggregato abitato di piccola e piccolissima entità. Ma le caratteristiche del suolo e del clima, l'assenza di piogge abbondanti, la stagionalità legata all'infierire della malaria, che scoraggiava le immigrazioni soprattutto estive, l'ampiezza delle terre incolte (subseciva), la presenza di terreni silvestri e palustri, le enormi dimensioni assunte dal latifondo, lo sviluppo delle proprietà imperiali gestite da conclucrores, alimentarono un'economia schiavistica, che causò gravi conflitti sociali. Costantino, con l'intento di ridurre l'estensione degli agri rudes e ridare sicurezza alle campagne, decise il trasferimento delle terre di proprietà imperiale dalla conduzione diretta ad una gestione in enfiteusi; ma i vantaggi ottenuti non dovettero essere eccezionali.Le fonti letterarie.
Alla scarsità di oliveti in Sardegna e più precisamente nel
territorio di Neapolis nell'Oristanese può forse alludere un passo dell'Opus
Agriculturae di Palladio, un celebre scrittore di agronomia vissuto tra Gallia
e Sardegna nei primi decenni del V secolo; secondo gli ultimi studi di Raimondo
Zucca, Palladio doveva possedere vasti appezzamenti di terreno nelle campagne
di Neapolis36, Nella sua opera di agronomia, partendo dall'esperienza sarda,
Palladio formulava precise istruzioni per quei proprietari, i cui terreni si
trovavano in una provincia (forse appunto la Sardegna), che aveva scarsità di
oliveti. e che dunque non possedeva olivi in numero sufficiente da cui trarre
polloni. Palladio consigliava perciò di realizzare un vivaio, un seminarium,
secondo i precetti di Columella: si provincia indiget olivetis et non est unde
planta surnatur, seminarium faciendum est. Un vivaio era un riquadro di
terreno, dove i rami incisi con la sega erano deposti con un intervallo di un
piede e mezzo (45 cm,) l'uno dall'altro. E Palladio precisava che dopo cinque
anni si sarebbe ottenuta una pianta robusta (valida planta) da trasferire nel
mese di febbraio. L'altro procedimento, quello più comune, consisteva nel
sistemare le radici recise dagli olivi, che per lo più si potevano trovare nei
boschi o in località deserte, ad un cubito di distanza l'una dall'altra in un
vivaio o, a piacere, in un oliveto, aggiungendovi del letame animale: dalle
radici di un unico albero, sarebbero nate cosi più piante. Questo passo, in
parte oscuro ma prezioso, è stato giustamente connesso con la presenza di terre
coltivate da Palladio in territorio neapolitano e con le difficoltà che si
dovevano incontrare in una provincia, come la Sardegna, nella quale il numero
degli olivi doveva essere alquanto ridotto, proprio a causa del protezionismo
dell'età punica e romana. Prima di passare in rassegna un campione, per il
momento parziale e limitato, della documentazione relativa alla produzione ed
al commercio di olio nella Sardegna antica, va osservato che le ricerche
archeologiche di base sono state spesso condotte senza una adeguata conoscenza
della complessa problematica relativa all'argomento. Occorrerà partire dalle
fonti letterarie, che ci hanno conservato i sistemi per la piantagione degli
olivi in età romana ed in particolare la posizione e la distanza delle piante,
secondo indicazioni che risalgono al punico Magone ed alla Cartagine del V
secolo a.C. e che sono riprese nel De agricultura di Catone, scritto attorno al
160 a.C., nel De re rustica di Columella (I secolo d.C.) e nella Naturalis
Historia di Plinio il Vecchio (che parla di un intervallo tra le piante fissata
da Magone per il Nord America da un massimo di 75 ad un minimo di 45 piedi in
terreni magri, secchi e ventilati, intervallo ridotto da Catone per gli oliveti
italici tra 30 e 25 piedi). Le indagini archeologiche hanno accertato che nel
Nord America si preferiva una distanza tra le piante di 9 metri, con un totale
di 144 piante per ettaro. Dobbiamo pensare che per l'epoca della messa a dimora
degli olivi, per la scelta del terreno e dell'esposizione, per la delimitazione
dell'olivetum (o oletum), ma anche per gli altri lavori, dalla concimazione
all'innesto ed alla potatura, dalla raccolta delle olive alla produzione
dell'olio e fino alla vendita del prodotto, si seguissero le dettagliatissime
istruzioni fornite già nel II secolo a.C. nel De Agricultura di Catone, che
dedica particolare attenzione alla distinzione delle diverse varietà, l'olea
Conditiva, Radius· maior, Sallentina, Regia, Orcita, Posia, Sergiana,
Colminiana, Albiceris e, per i campi più freddi e più magri, la resistente
Liciniana. Secondo Catone un buon investimento agricolo poteva fondarsi
sull'olivicoltura (elencata al quarto posto dopo il vigneto, l'orto irriguo ed
il saliceto), anche se valeva la pena impiantare gli olivi solo in. grandi
piantagioni contigue, come appunto le conosciamo nel Nord Africa: qui gli
scrittori arabi raccontano che nel momento della conquista musulmana un'unica
coltivazione di olivi si estendeva senza interruzione tra Tripoli e Tangeri.
Già il Pais aveva osservato che l'assenza di informazioni letterarie specifiche
sulla coltura degli olivi in Sardegna non può portare di per sé ad escludere la
presenza di oliveti, dal momento che viceversa «in molte parti dell'Isola
abbondano robusti olivastri, che potrebbero essere pianta indigena». A parte
i toponimi Ogliastra ed Oliena ed altri toponimi analoghi, che risalgono con tutta
probabilità ad età romana«, Raimondo Zucca ha giustamente richiamato le
indagini, effettuate all'inizio del secolo dall'agronomo E. Benetti nel
territorio dell'antica città di Neapolis, che segnalando la disposizione
regolare di un nutrito gruppo di oleastri inframmezzati ad olivastri in una
collina terrazzata nel territorio di S. Antonio di Santadi, a breve distanza
dalla laguna di Marceddì, ha pensato ad una «degenerazione degli olivi romani,
con drupe forse del tipo Pasca : più precisamente si può ipotizzare che senza
le cure colturali e soprattutto in mancanza del periodico spollonamento, il
gentile, innestato su un piede selvatico, si sia potuto poco a poco
devitalizzare e uno o più polloni del ceppo selvatico della pianta abbia potuto
prendere il sopravvento; in tal modo gli olivi sono tornati ad essere degli
olivastri. Quest'attestazione, che ci potrebbe portare nuovamente all'antico
territorio di Neapolis, dove come si è detto l'agronomo Palladio possedeva
delle terre (ma più a Nord, verso Santa Giusta, credo in regione Paddari), è
stata utilizzata da R. Zucca per confermare la «limitata incidenza di tale
coltura specializzata, il cui areale parrebbe ristretto nel tempo e nello
spazio,., come dimostrerebbe l'importazione su larga scala dell'olio africano
ed iberico destinato per l'illuminazione o per l'igiene personale, ma
soprattutto per l'alimentazione. C'è stato viceversa chi, come Giampiero Pianu,
constatando una ipotetica «scarsità di importazioni olearie in età imperiale»,
ha sostenuto un'ampia diffusione in Sardegna della pratica dell'olivicultura,
anche sulla base del ritrovamento di fondi di torchi. Una tale interpretazione
contrasta con la posizione tradizionale, già sostenuta dal Rostotvzeff (per il
quale non esistevano oliveti e vigneti in Sardegna fino al tardo periodo
imperiale) e con gli studi più recenti, ad iniziare da quelli di Françoise
Villedieu, per la quale si può forse parlare nella Sardegna settentrionale ed
in particolare a Turris Libisonis di un'esclusione totale di produzione locale
di olio, dato che per alcune derrate alimentari di base (compreso l'olio e le
olive) si dové fare ricorso ad altre regioni dell'impero. Del resto, per quanto
siano improponibili paragoni diretti, «non si può fare a meno di notare che
alcune coltivazioni come quelle dell'olivo erano praticamente assenti nel Nord
Sardegna fino a due secoli fa». Appare preferibile oggi assumere su questo
problema una posizione intermedia: come si avrà modo di osservare più oltre,
solo di recente l'indagine archeologica ha consentito di definire le
dimensioni, veramente consistenti, delle importazioni di anfore olearie in
Sardegna; del resto appare al momento impossibile escludere l'esistenza di ampie
aree destinate all'olivicoltura nell'isola, anche perché le indagini
paleo-botaniche fin qui effettuate sono rarissime; si è comunque osservato che
conosciamo olivi (non oleastri) ancora vitali come quello di Alghero che
risalgono ad oltre duemila anni fa. Può comunque affermarsi fin d'ora che non
esistono prove, né letterarie né archeologiche, per sostenere l'esportazione
dell'olio prodotto in Sardegna. L'olio e le olive non compaiono tra le merci
che pagano la tassa doganale del 6% all'ingresso del territorio di Karales,
come risulta dalla nota tariffa di Donori (frammentaria) datata alla fine del
VI secolo, durante il regno dell'imperatore Maurizio: le merci citate
(introdotte prevalentemente dalla campagna sarda) sono il grano, le palme, il
bestiame, la carne, i buoi, i legumi, il vino, gli uccelli, ecc. Per quanto
poco possa valere, si osservi che è noto l'uso di utilizzare foglie di olivo
come motivo decorativo su alcuni mosaici di età imperiale di Tharros e di
Turris Libisonis. L'immagine dell'olivo ricorre ripetutamente sulle monete
romane di età repubblicana e di età imperiale rinvenute in Sardegna.
Fonte: In: Atzori, Mario; Vodret, Antonio Olio sacro e profano: tradizioni olearie in Sardegna e Corsica, Sassari, EDES Editrice Democratica Sarda. p. 60-76
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